di Marcello Carastro
La magia può essere considerata un’invenzione greca del V secolo a.C., formatasi a partire dalla figura dei magi e dai loro rituali. L’interpretazione di tali pratiche in termini di efficacia, ma anche di un rapporto troppo diretto con le divinità, ha generato una doppia lettura della magia, che ha avuto una lunga fortuna nella storia occidentale, sia come forma di sapere riservata a pochi eletti, sia come pratica rituale.
Una storia culturale della magia
Nel corso della storia la magia è stata oggetto di speculazioni ma anche di attacchi polemici che ne hanno segnato il destino nella cultura occidentale. Le teorie antropologiche elaborate nei primi del Novecento l’hanno inclusa nel vocabolario delle scienze umane, perciò, malgrado le sue continue fluttuazioni semantiche, essa ha assunto lo statuto di categoria universale, utilizzabile in qualsiasi epoca e contesto culturale. Considerata per lungo tempo come una forma di pensiero primitivo e irrazionale, la magia è stata assimilata alla superstizione e contrapposta alla religione, oltre che alla scienza: concepita in questi termini, la categoria di “magia” appare tuttavia un concetto eccessivamente connotato dalla storia europea – profondamente segnata dalle polemiche cristiane e dall’esperienza della colonizzazione – per poter essere ancora uno strumento utile all’analisi dei fatti religiosi di una cultura.
Se è facile constatare che lo studio della magia in Grecia è stato a lungo ipotecato da questo approccio tradizionale, è pur vero che gli studi più recenti, richiamandosi alle riflessioni dell’antropologia della seconda metà del Novecento (Jeanne Favret-Saada, Les mots, la mort, les sorts, 1977; Stanley Jeyaraja Tambiah, 1929, Magic, science, religion, and the scope of rationality, Cambridge, 1990), invitano piuttosto a utilizzare le categorie native: in altre parole, a interpretare i fenomeni che vengono normalmente ascritti alla categoria della “magia” utilizzando termini e concetti propri non dell’esperienza occidentale moderna, ma delle culture studiate.
Nel caso della cultura greca e di quella romana, tuttavia, è proprio sul piano linguistico che si annida il rischio maggiore: data l’origine greco-romana del termine moderno “magia” (mageia in greco, magia in latino), si potrebbe infatti essere portati ad attribuire, fosse anche inconsapevolmente, alle parole antiche un significato moderno, estraneo al loro orizzonte culturale. Lo studio della magia in Grecia in una prospettiva di storia culturale non solo permette di evitare questo genere di confusione, ma apre nuove e feconde prospettive.
Piuttosto che considerare dunque la magia come categoria universale, applicabile a fenomeni reperibili in qualsiasi epoca e in qualsiasi società umana, è preferibile analizzarla proprio come un’invenzione greca. È infatti in Grecia che viene coniata questa parola a partire da una radice iranica mag-, che dà luogo ai termini magos “mago”, mageuein “agire come un mago”, mageuma “azione da mago”. I Greci non hanno quindi scoperto la magia, come se il concetto esistesse già e aspettasse giusto che gli si attribuisse una etichetta. Abbandonando la nozione moderna di “magia”, con tutte le sue ambiguità e la carica polemica che essa implica, si dispone di un campo libero per poter apprezzare infine la peculiarità e la complessità delle nozioni greche.
Un primo scarto tra la “magia” dei moderni e quella degli antichi che merita di essere sottolineato è legato alla natura politeistica, civica e ritualista della religione. In Grecia come a Roma la religione non si fonda su rivelazioni, su un sapere dottrinale e su dogmi trasmessi da libri sacri e da una istituzione religiosa centrale. I Greci non credono negli dèi, li onorano: vale a dire che la religiosità dei Greci si esprime in termini non di fede interiore, ma di pratica cultuale. L’accento è posto sui gesti che, codificati e articolati in un contesto rituale ben preciso, permettono di stabilire e coltivare una relazione con il mondo invisibile delle potenze divine.
In questa ottica, la magia nell’antichità non viene concepita come un corpus dottrinale, ma piuttosto come un insieme di pratiche rituali che possono essere ritenute efficaci e allo stesso tempo condannabili. L’attenzione rivolta alle pratiche implica un interesse per gli attori della mageia: i magoi.
I magoi e il malinteso produttivo
Prima di attraversare il Medio Oriente per onorare la culla della tradizione cristiana, i magi si sono introdotti nella cultura greca, nel corso dell’epoca classica (V-IV sec. a.C.). Allo stato attuale delle conoscenze, sembra comunque difficile dare credito alle teorie “orientaliste” formulate da Walter Burkert (Da Omero ai magi: la tradizione orientale nella cultura greca, 1999) che, basandosi sull’origine persiana dei magi, ha ipotizzato l’importazione della magia in Grecia dal Vicino Oriente tra l’VIII e il VI secolo a.C. Paradossalmente, si parla molto poco dei magi nelle fonti persiane. Sono i Greci che ne hanno garantito la fama nel mondo antico, segnandone anche il destino.
Erodoto è il primo autore che introduce i magoi presso l’uditorio greco. Presentati come una tribù dei Medi, essi appaiono innanzitutto strettamente legati al potere politico. Erodoto è stato probabilmente influenzato dalla propaganda achemenide di Dario I (re dei Persiani dal 521 al 486 a.C.) contro la ribellione di un certo mago Gaumata, poiché presenta la relazione dei magoi con il potere sotto il segno dell’inganno e della fallacia.
Consiglieri alla corte del re e indovini, i magoi sono ugualmente i fautori di un tentativo di usurpazione del potere persiano che si concluderà con l’avvento del re Dario I e l’eccidio dei membri della loro tribù.
Ma la storia dei magoi comincia più precisamente con le guerre persiane, all’epoca della spedizione di Serse (re dei Persiani dal 485 al 465 a.C.) contro la Grecia. Un episodio illustra il modo in cui Erodoto introduce i magoi nella cultura greca, traducendo i loro gesti rituali secondo i codici greci. Per rendere favorevole il passaggio dell’esercito persiano attraverso il fiume Strimone, nel 480 a.C., i magoi immolano dei cavalli bianchi in onore del fiume. Lo storico precisa che si tratta di “bei sacrifici”, segno che il rituale avrà esiti positivi, anche se subito dopo, per commentare l’atto rituale, sceglie il verbo pharmakeuein (Storie, VII, 113-114).
Si tratta di una parola che non appartiene al linguaggio cultuale greco e che rinvia piuttosto a un’azione rituale efficace facente uso di pharmaka: pharmakon è un termine polisemico che, a partire dal senso di pianta medicinale (dunque di principio efficace), sviluppa una coppia di significati opposti: “rimedio” e “veleno”. Con pharmaka i Greci designano poi le droghe, le tinture, i pigmenti e una serie di preparazioni o di procedimenti rituali che richiedono una forma specifica di sapere e richiamano alla mente l’operato di figure sinistre, prime fra tutte quella di Circe, la polupharmakos, la dea dai molteplici farmaci-artifici. La lettura erodotea dei gesti rituali dei magoi li connette con la sfera di una “farmacia” potente, e talvolta chiaramente malefica, al cui interno si muovono figure ben note al pubblico greco. L’efficacia riconosciuta all’azione rituale dei magoi va dunque di pari passo con una connotazione negativa del loro operato, ugualmente presente nella condanna delle loro pratiche funerarie (Storie, I, 140), aberranti agli occhi di un greco.
Sarebbe comunque ingiusto attribuire a Erodoto un pensiero sistematicamente polarizzato, che opponga in modo irriducibile i Greci ai Barbari. In realtà lo storico, seppur con le sue lenti greche, osserva con interesse gli usi e i costumi delle varie culture di cui tratta, operando spesso in qualità di traduttore culturale. Nella descrizione del modo in cui i Persiani sacrificano, i magoi sono presentati come figure indispensabili per lo svolgimento del rito: loro compito è intonare quella che essi considerano una teogonia, una narrazione delle genealogie divine, ma che, alle orecchie di Erodoto, risuona tuttavia come un canto di altra natura, una epode, termine solitamente tradotto con “incantesimo”. L’epode è un “canto metrico”, ode, probabilmente ripetitivo, che agisce “sul” (epi), e quindi sul corpo come sull’anima degli individui. Un canto facente parte dell’arsenale dei guaritori tradizionali, ma che non è concepibile possa essere rivolto agli dèi! Il malinteso non è da sottovalutare: nella cultura politeista greca, l’atto rituale è ben codificato, sicché uno scarto alla norma religiosa può inficiare l’atto cultuale sovvertendo l’ordine delle relazioni tra gli dèi e la comunità che li onora. Tale malinteso graverà a lungo sulla figura dei magoi.
Se la magia in Grecia si profila come il frutto di un malinteso, è bene sottolinearne il carattere “produttivo”, secondo l’espressione dell’antropologo Marshall Sahlins. Erodoto infatti traduce l’azione rituale dei magoi suggerendone il carattere efficace, attraverso la connessione che egli stabilisce con la sfera dei pharmaka e delle epodai.
Nata dall’incontro di due culture politeiste vicine ma diverse, la religione persiana e la religione greca, la magia risulta da un processo di elaborazione complesso in cui il senso delle azioni rituali dei magoi viene interpretato a partire da concetti, rappresentazioni e gesti rituali familiari alla cultura greca.
Prendiamo adesso brevemente in esame i principali elementi culturali la cui combinazione ha permesso ai Greci di “pensare” l’azione dei magoi in modo tale da favorire la creazione di uno spazio propizio all’invenzione della magia in Grecia.
Il crogiolo culturale greco della magia
A partire dalla traduzione culturale erodotea dell’azione sacrificale dei magoi è possibile delineare i primi tratti di un orizzonte di rappresentazioni greche sull’“azione efficace”. La figura omerica di Circe merita a tal proposito qualche osservazione. Nell’Odissea Circe non è una maga (e, in termini greci, non potrà esserlo prima del V secolo a.C.) ma una dea, terribile, che trasforma arbitrariamente gli uomini in animali. Questa è appunto la sorte dei compagni di Odisseo, che dopo aver sorbito la bevanda offerta dalla dea subiscono gli effetti tremendi del pharmakon in essa contenuto: la metamorfosi animale indotta dall’incorporazione di tale pozione non altera nelle vittime il loro noos, l’intendimento. L’azione della dea implica una sorta di sospensione delle normali condizioni dell’esistenza, fa vacillare l’umanità, assimilandola alla bestialità. L’uso dei pharmaka da parte di Circe è riconducibile a un sapere divino, che potrà essere contrastato soltanto da un dio, Ermes, che somministra a Odisseo il molu, pianta nota solo agli dèi che proteggerà l’eroe dagli effetti delle misture della terribile dea. Circe sarà a lungo la patrona di questa forma di pericoloso sapere che assumerà tratti spiccatamente femminili. Ad Atene gli autori tragici del V secolo a.C. mettono in scena l’azione farmaceutica ancora tramite personaggi femminili: Medea, Fedra o Deianira. Ma è soprattutto a partire dal IV secolo a.C. in poi, nella letteratura di epoca ellenistica e romana, che la figura della pharmakis, la manipolatrice di pharmaka, conoscerà un gran successo nelle società antiche. Con l’assistenza della serva Testili, la giovane Simeta, messa in scena dal poeta Teocrito, impiega tutte le misture, le invocazioni e le operazioni rituali necessarie per attirare, e legare a sé, Delfi, l’amante infedele.
Le conoscenze di intrugli preparati con materie vegetali e animali è allora associato al potere di una parola efficace e alle operazioni di “legatura” rituale.
Ma torniamo a Omero. In greco il termine che indica l’azione del pharmakon di Circe è il verbo thelgein, che si traduce generalmente con “incantare”, “ammaliare” e che sarà poi usato dal retore Gorgia in rapporto a quella che potrebbe essere chiamata la costellazione della mageia, cioè la rete di termini che hanno contribuito a dare senso alla nozione nascente di magia. Il thelgein è una modalità dell’azione divina che viene esercitata, soprattutto nel mondo umano, per impedire, bloccare, abbagliare, immobilizzare una vittima. Nei poemi omerici divinità quali Zeus, Atena, Poseidone, Ermes o Apollo intervengono con questo genere di azione, che si esplica spesso su un piano visivo, tramite un bagliore o un annebbiamento tali da provocare uno stato di confusione. L’azione del thelgein è comunque sempre concepita come provvisoria e quindi reversibile: un elemento fondamentale che sarà poi associato all’azione dei magoi.
Il thelgein possiede inoltre una dimensione sonora, riconoscibile negli effetti prodotti dal canto, quello degli aedi omerici ma anche quello delle Sirene. La performance dell’aedo, cantore ispirato dalle Muse e depositario dunque di un sapere di origine divina, è infatti capace di sortire gli stessi effetti del thelgein operato dagli dèi: silenzioso, l’uditorio resta immobile, quasi inchiodato, durante l’esecuzione del canto epico. L’effetto di immobilizzazione assume poi toni funesti, quando a intonare il canto sono le Sirene, come nel XII libro dell’Odissea (vv. 154-200). Il canto delle Sirene è certo piacevole da ascoltare, ma è al tempo stesso un canto di morte, e un canto per i morti, proprio come quello che eseguono gli aedi nel contesto rituale dei funerali.
Nell’ultimo libro dell’Iliade è narrata la preparazione degli onori funebri destinati all’eroe Ettore (vv. 696-718). Alla vista del suo cadavere, i Troiani esprimono il loro dolore seguendo un rituale ben codificato. È compito degli aedi intonare il canto funebre, threnos, che suscita la commozione tra i presenti ed è a questo che risponde poi il lamento rituale, goos, eseguito dalle donne appartenenti alla cerchia familiare. Il canto funebre, elogio del defunto, non è destinato soltanto alla comunità dei vivi, ma anche a quella dei morti: è la prima tappa di quel processo di eroizzazione a seguito del quale un individuo accede a un nuovo statuto, entrando nella memoria sociale per non perdersi nella folla anonima dei trapassati. Si tratta di un processo che necessita dell’intervento delle istanze divine, quali sono le Muse che ispirano gli aedi. Nell’ultimo libro dell’Odissea (vv. 44-94), sono direttamente le Muse che intoneranno infatti il canto funebre in onore di Achille, suscitando una profonda emozione nel mondo degli uomini e degli dèi.
Le concezioni omeriche riguardo i poteri della parola modulata, dell’azione “farmaceutica” e del thelgein sono elementi costitutivi del crogiolo culturale all’interno del quale si è formato, nel V secolo a.C., il concetto di magia in Grecia. Resta da capire a che scopo sia stata inventata e lo faremo cercando di indagare quali funzioni essa abbia assunto nel contesto della vita e del fermento culturale delle città greche.
Usi e abusi della magia
Se ci si limitasse alla narrazione erodotea, si potrebbe pensare che i magoi siano degli operatori rituali confinati ai margini del mondo greco. Invece, li si ritrova ben presto, sul finire del V secolo, nel cuore delle città greche. L’agorà e il teatro, ad Atene, sono infatti percorsi da acute polemiche che gli esponenti di nuove forme di sapere muovono contro pratiche più tradizionali.
Ed è proprio in questo contesto che la figura dei magoi viene evocata per stigmatizzare antiche pratiche cultuali, divinatorie e terapeutiche greche, quelle stesse che sembrano divenute incompatibili con i nuovi parametri e le nuove esigenze portate dalla sofistica e dalla medicina ippocratica. Viene infatti messa a punto, all’interno di questo dibattito, una serie di argomenti retorici finalizzati a conquistare una certa legittimità rispetto a pratiche terapeutiche tradizionali, quelle cioè della medicina catartica e della medicina praticata nei santuari. Una legittimità che si costituisce non soltanto con la pratica clinica, ma anche con la retorica. Ed è proprio la strategia retorica di un medico ippocratico che chiama i magoi sul banco degli accusati. Proponendo una visione nuova, dal punto di vista fisiopatologico e terapeutico, del cosiddetto “male sacro” (dai moderni spesso associato all’epilessia), l’autore dell’omonimo trattato attacca violentemente quei terapeuti che si considerano investiti di un sapere divino e propongono un approccio tradizionale, in chiave religiosa, della malattia. In questo attacco polemico i magoi figurano in testa alla lista degli avversari del medico ippocratico e appare chiaramente che al loro nome si collega una funzione stigmatizzante, ciò in virtù della connotazione negativa che della figura dei magoi già si era delineata nelle Storie di Erodoto. Tale connotazione negativa risulta ancora più evidente nell’uso che fa Sofocle della figura del mago, chiamata in causa da Edipo nella sua invettiva contro Tiresia (Edipo re, vv. 380-403). Eroe di un sapere fondato sul ragionamento e sulla congettura, Edipo non accetta il messaggio della parola profetica di Tiresia e lo insulta violentemente con espressioni quali “mago”, “tessitore di inganni”, “prete itinerante”.
In questo contesto polemico, la parola “mago” non denota un sacerdote persiano, nè un mago quale lo si intende oggi. Tiresia è un indovino di valore ed Edipo lo sa bene. Allo stesso modo i purificatori, come i guaritori tradizionali attaccati dal male sacro, sono figure ben note e facenti parte integrante della cultura greca. Il procedimento retorico che consiste nell’associarli alla figura dei magoi tende allora a svalutarne le capacità, le competenze e l’autorità.
Nel quadro dell’evoluzione delle sensibilità religiose cui si assiste nel V secolo a.C. è possibile che l’invenzione della nozione di mageia abbia funzionato quale catalizzatore di tale processo. In virtù delle sue connotazioni negative, la figura del magos, il “mago”, appare certamente uno strumento efficace ai fini della polemica contro alcune istituzioni religiose tradizionali. Ma ciò non basta per spiegare l’invenzione della nozione di mageia. Inoltre, gli aspetti negativi dei magoi, legati probabilmente anche alla loro origine barbara, ma soprattutto al malinteso generato dall’interpretazione greca delle loro pratiche, non devono offuscare possibili usi positivi della mageia, quali emergono ad esempio in Gorgia e in Platone. Con il suo brillante Encomio di Elena il retore siciliano Gorgia di Leontini ha composto, piuttosto che un elogio di Elena, un elogio della parola, del logos, di cui l’autore esalta il temibile potere di influenzare l’opinione degli uomini agendo sulla loro anima.
Un simile potere si fonda su due “arti” (technai): la mageia e la goeteia. Quest’ultima, generalmente tradotta con “stregoneria”, “fascino”, “sortilegio”, è innanzitutto l’arte del goes, altro personaggio che, come il magos, appare in Grecia nel V secolo a.C., riscontrando lo stesso genere di diffidenza, ed è presentato come un impostore. Ma perché Gorgia avrebbe utilizzato due termini connotati negativamente per tessere l’elogio della parola? Della sua parola? A ben vedere, l’universo di senso costruito intorno alla figura del goes si rivela di grande ricchezza ed è costituito da elementi già presenti nel crogiolo culturale che ha accolto la nozione di “magia”. Il goes è infatti un individuo capace di agire non solo sull’anima dei vivi, tramite le illusioni e le metamorfosi che sa produrre, ma anche sui morti, avendo il potere di evocarne le anime con incantesimi. Inoltre, la sfera delle sue competenze include la capacità di legare e di slegare. Il goes è associato alle figure mitologiche della metallurgia, quali i Dattili, i Cabiri e i Telchini, potenze connesse alla figura di Efesto, divinità capace di legare saldamente dèi e titani. Con il goes e la goeteia si ritrova pertanto la capacità di immobilizzazione e il carattere reversibile degli effetti che avevamo riscontrato a proposito del thelgein omerico.
Ci si imbatte insomma ancora una volta in una forma di sapere connessa con il mondo invisibile degli dèi. La strategia retorica di Gorgia, che assimila la parola dell’oratore alla parola ispirata del poeta, si appropria di questa forma di sapere-potere, evocata attraverso i termini mageia e goeteia, i cui effetti illusori e coercitivi sono indiscutibili. Gorgia riesce pertanto a scagionare Elena e a rivalutare la mageia. Anche se questa rivalutazione rimane intrisa di una profonda ambiguità.
La risposta di Platone alla provocazione di Gorgia è chiara: il sofista è un goes nel peggiore senso del termine: un ingannatore, un impostore. Proprio come poeti e indovini, che con la parola influenzano il loro pubblico-clientela ai soli fini del guadagno. Un celebre passo della Repubblica sull’impunità degli ingiusti afferma che gli indovini, associati ai sacerdoti itineranti, propongono i loro servizi a chi necessita di guarire da mali ereditati o vuol nuocere ad altri. Fra le loro pratiche spicca l’uso di particolari oggetti rituali, i katadesmoi, “legami”: si tratta di fini lamelle di piombo, spesso arrotolate o piegate e infilzate da un chiodo, che portavano iscritte delle maledizioni e venivano generalmente sotterrate nelle tombe. Le tre migliaia circa di lamelle ritrovate dagli archeologi in tutto il bacino mediterraneo attestano la vitalità di questi rituali durante l’antichità classica, dalla fine del VI secolo a.C. in poi, e sino all’epoca bizantina.
Gli specialisti della magia antica presentano spesso i katadesmoi come oggetti “magici”, il che tuttavia è sostenibile solo sulla base di una definizione moderna della “magia”. Ma è chiaro che per i Greci le lamelle di piombo non sono certo arrivate con i magoi dalla Persia. Abbiamo già sottolineato l’esistenza di concezioni religiose del “legare” e dell’“immobilizzare” che sono preesistenti alla formazione della nozione di “magia”. E Platone ne fornisce una prova supplementare attribuendo tali pratiche non ai magoi, ma a indovini e a sacerdoti itineranti che appartengono in tutto e per tutto alla cultura greca.
Lo stesso Platone, poi, in un passo dell’Alcibiade (121e-122a), getta al contrario le basi per una valorizzazione della mageia e, riferendola direttamente all’ambito della corte persiana, ne sottolinea le virtù morali e pedagogiche. I magoi allora non appaiono più come impostori o ciarlatani, piuttosto come i depositari di una saggezza barbara e di una competenza quanto alla gestione del culto, therapeia, degli dèi e a quella del potere politico. Sembra inaugurarsi così quella che potrebbe essere qualificata come la tradizione sapienziale della magia, che avrà sviluppi durevoli in epoca ellenistico-romana e, attraverso il neoplatonismo, fino al Rinascimento, nell’ambito del circolo fiorentino di Marsilio Ficino.
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