Il “Destino”

di Maurizio Bettini

Per i Greci ciò che noi chiamiamo “destino” assume la forma di una “parte” o “porzione” di vita assegnata ai mortali dagli dèi. Questa immagine fondamentale si articola in diversi campi metaforici e dà vita ad alcuni racconti mitologici di grande suggestione.

L’idea che la vita dell’uomo sia soggetta a un “destino” - ossia a una decisione già presa prima della sua nascita – viene espressa in modo diverso nelle singole culture. Questo fa sì, per esempio, che il “destino” dei Greci non sia quello dei Romani e neppure il nostro. Se per i Romani il destino è qualcosa di “detto” (fatum) – la parola potente pronunziata una volta per tutte dalla divinità - il nostro “destino” si connette invece, sia pure alla lontana, alla nozione del “legare” o “fissare” (questo è il senso del verbo latino destinare). Per i Greci, invece, il destino si esprime soprattutto nella forma del “ripartire”: all’atto della nascita, infatti, l’uomo riceve una certa “porzione” di vita, che, in quanto tale, determina non solo gli accadimenti da cui la sua esistenza sarà caratterizzata, ma anche il momento e le circostanze della sua morte.

Che per i Greci il destino individuale si connetta strettamente all’idea del dividere, del fare porzioni, è confermato dal fatto che sono numerosi i termini che, per vie differenti, riconducono al medesimo nucleo fondamentale: così come vari sono i campi metaforici messi in gioco dall’idea del destino/porzione.

Cominciamo con moira, al femminile, o moros al maschile. Si tratta di sostantivi derivati entrambi dalla radice mer- “parte”, che designano tanto la porzione di un terreno, quanto la sorte o il destino di una persona. Eccoci dunque di fronte al destino come “parte assegnata”. Il sostantivo moira può comparire anche come nome di divinità, la Moira o le Moirai, ossia le dee che assegnano a ciascuno la sua parte di vita. Esiodo le dice ora figlie della Notte, ora figlie di Zeus e di Themis, la potenza divina della norma (Teogonia, 211 sgg., 901 sgg.).

Il poeta ci dà anche il nome di queste tre divinità: Klotho “la filatrice”, Lachesis “colei che assegna in sorte” e Atropos, “l’inflessibile”. La genealogia registrata da Esiodo non lascia dubbi sulla legittimità dell’ordine imposto alla vita degli uomini: lo stabiliscono infatti le figlie di Zeus, il dio supremo, e della Norma. Naturalmente, della moira individuale fa necessariamente parte anche la morte – se la vita è una “porzione”, essa non potrà che essere limitata. Ma poiché il morire spiace comunque agli uomini, al termine moira si assoceranno spesso aggettivi come funesta, luttuosa e così via. Sono, per così dire, le contraddizioni del sistema: morire è giusto, perché così hanno voluto gli dèi, ma è comunque doloroso, e “funesta” sarà allora la moira che lo decreta.

Se i nomi di Lachesis e Atropos rimandano a due aspetti fondamentali della funzione svolta dalle Moirai – rispettivamente il “dare in sorte” le singole porzioni di vita e la natura “immutabile” di queste assegnazioni – quello di Klotho, “la filatrice”, rimanda invece al principale campo metaforico utilizzato dai Greci per esprimere l’attribuzione del destino individuale: la filatura. La moira di vita assegnata è immaginata come il processo secondo cui, dalla quantità di lana grezza (“pennecchio”) assegnata ad una donna per la filatura, si passa alla creazione del relativo “filo”. Anche nella pratica greca, come in quella tradizionale in Europa fino a non molto tempo fa, il “pennecchio” (tolype), depositato in un paniere (kalathos), viene avvolto dalla donna attorno alla conocchia (elakate), per poi essere filato con l’ausilio del fuso (atraktos). Quando la conocchia è completamente libera dal pennecchio, la lana è finita e con lei, secondo questo modello della vita/filatura, anche la vita della persona.

Nel mondo della mitologia, la “porzione” di vita assegnata a un mortale poteva poi assumere anche altre forme. Alla nascita dell’eroe Meleagro, le tre Moirai si presentano per assegnare alla madre Altea un “tizzone”, che corrisponde alla vita del nuovo nato. Secondo la versione più nota di questo mito (Apollodoro, Biblioteca, 1, 8, 2-3), Altea, irata col figlio che aveva ucciso i suoi fratelli, getterà nel fuoco questo “tizzone” e provocherà così la morte di Meleagro. Anche questo racconto ribadisce la visione della vita umana come parte, porzione. È interessante che nella versione del mito dataci da Bacchilide (516 - 451 a.C. ca.) si dice esplicitamente che questo “tizzone” era stato “filato dalle Moirai” (Epinici, 5, 136 sgg.). Come si vede, nell’immaginario greco le diverse metafore per il destino individuale possono incrociarsi.

L’altro termine usato in Grecia per indicare il destino è aisa. Siamo sempre nel campo metaforico del dividere. Aisa infatti (in Omero aise) può indicare sia la parte del bottino assegnata a un guerriero, sia la porzione di vita (il destino) assegnata ad una persona. Se dunque, nel territorio delle Moirai, la vita individuale ci era apparsa nella forma di una certa quantità di “lana” che viene “filata” fino al suo esaurimento, quando si passa all’aisa la “porzione” appare piuttosto assimilata alla “preda” ricevuta da un guerriero dopo la vittoria. In Omero il termine aisa appare peraltro intercambiabile con moira. Quando Ermes si reca da Calipso per ordinarle di lasciar partire Odisseo, le rivolge queste parole (Odissea, V, 113 sg.): “non è aisa che egli muoia in quest’isola lontano dai suoi, ma è moira che lui ritorni da loro, all’alta dimora”. Come moira, anche aisa può designare poi una divinità del destino, Aisa, spesso associata alle Moirai. La cosa forse più interessante, però, è che questo termine venga utilizzato anche nella sfera del banchetto, per indicare la “porzione” di cibo assegnata a un convitato (Egesandro, 31 Müller; Inscriptiones Graecae, 5 (2) 40). Questo nuovo campo metaforico utilizzato per designare la porzione di vita assegnata a un mortale – in aggiunta alla filatura e alla preda bellica – ci introduce al terzo fra i principali modi usati dai Greci per parlare del “destino”.

Si tratta di daimon, un termine importante nella religione greca, in quanto designa una “potenza divina”, e connesso a daiomai, “dividere, fare le parti”. Questo verbo si riferisce, principalmente, alla sfera del banchetto: se dainumi significa infatti “offrire un banchetto”, il sostantivo dais indica appunto il ”banchetto” in cui ciascuno riceve la sua parte. Sembra insomma che il daimon sia una sorta di scalco, colui che “divide” in porzioni le vivande per i convitati, simile al daitros (il termine è tratto dalla stessa radice), una figura tipica nel banchetto eroico.

Così a Itaca, nella reggia di Odisseo, il daitros offre ai pretendenti “piatti di carne scelta, di vari tipi, e calici d’oro (Odissea, I, 141). Il “destino” ci appare adesso immaginato nella forma di una divinità che fa le “parti” tra coloro che partecipano al banchetto della vita. Un verso dell’Odissea sembra alludere sottilmente a questo sottofondo metaforico. Quando l’ombra di Elpenore narra a Odisseo le circostanze della sua morte – ubriaco, era caduto dal tetto della casa di Circe – lo fa con queste parole (Odissea, XI, 61): “mi ha perduto la aisa del daimon e il troppo vino”. Nel “banchetto” della vita, imbanditogli dal daimon, Elpenore aveva esagerato nel bere.

Questa idea del destino e della vita umana come “porzione” fa sì che la mitologia greca conosca diversi racconti fondati sul tema dello scambio della vita: nel senso che, al momento della morte, la vita non vissuta da qualcuno può essere utilizzata da un altro, alla maniera di un’eredità o di un dono. Un procedimento possibile, almeno nella invenzione mitica, se si pensa che la vita delle persone corrisponda a una “porzione” che è stata loro assegnata.

Così accade, per esempio, nel mito di Alcesti e Admeto, in cui la giovane moglie dona al marito (la cui moira prevede morte imminente) la propria vita, permettendogli così di continuare a vivere (Euripide, Alcesti). Oppure in quello di Castore e Polluce, i due figli di Leda, dei quali però il primo ha come padre Tindaro, un mortale, il secondo invece Zeus. Quando Castore viene ucciso da Idas, Polluce, che è immortale, non accetta che il fratello debba scendere all’Ade. Decide perciò di offrire al fratello una “parte” della sua esistenza, di modo che i due gemelli, alternandosi e scambiandosi le rispettive moirai, trascorreranno un giorno alla luce del sole, il successivo nel mondo sotterraneo: e questo per tutta l’eternità (Igino, Favole, 80; Apollodoro, Biblioteca, 3, 11, 2).

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