Extremum hunc, Arethusa1, mihi concede laborem:
pauca meo Gallo, sed quae legat ipsa Lycoris2,
carmina sunt dicenda; neget quis carmina Gallo?
sic tibi, eum fluctus supterlabere Sicanos,
5. Doris amara suam non intermisceat undam.
Incipe; sollicitos Galli dicamus amores,
dum tenera attondent simae virgulta capellae.
Non canimus surdis respondent omnia silvae.
Quae nemora aut qui vos saltus habuere, puellae
10. naides, indigno cum Gallus amore peribat?
Nam neque Parnasi vobis iuga, nam neque Pindi
ulla moram fecere neque Aonie Aganippe3.
Illum etiam lauri, etiam flevere myricae,
pinifer illum etiam sola sub rupe iacentem
15. Maenalus et gelidi fleverunt saxa Lycaei4.
Stant et oves circum; nostri nec paenitet illas,
nec te paeniteat pecoris, divine poeta;
et formosus ovis ad flumina pavit Adonis5.
Venit et upilio, tardi venere subulci,
20. uvidus hiberna venit de glande Menalcas.
Omnes «Unde amor iste» rogant «tibi?» Venit Apollo:
«Galle, quid insanis?» inquit; «tua cura Lycoris
perque nives alium perque horrida castra secutast».
Venit et agresti capitis Silvanus6 honore
25. florentis ferulas et grandia lilia quassans.
Pan deus Arcadiae venit, quem vidimus ipsi
sanguineis ebulis bacis minioque rubentem:
«Ecquis erit modus?» inquit, «Amor non talia curat;
nec lacrimis crudelis Amor, nec gramina rivis,
30. nec cytiso saturantur apes, nec fronde capellae».
Tristis at ille «Tamen cantabitis, Arcades», inquit,
«montibus haec vostris, soli cantare periti
Arcades7. O mihi tum quam molliter ossa quiescant,
vestra meos olim si fistula dicat amores!
35. Atque utinam ex vobis unus, vestrique fuissem
aut custos gregis aut maturae vinitor uvae!
certe sive mihi Phyllis sive esset Amyntas
seu quicumque furor (quid tum, si fuscus Amyntas?
et nigrae violae sunt et vaccinia nigra),
40. mecum inter salices, lenta sub vite iaceres;
serta mihi Phyllis legeret, cantaret Amyntas.
Hic gelidi fontes, hic mollia prata, Lycori,
hic nemus; hic ipso tecum consumerer aevo.
Nunc insanus amor duri me Martis in armis
45. tela inter media atque adversos detinet hostis:
tu procul a patria, nec sit mihi credere tantum!
Alpinas, a, dura nives et frigora Rheni
me sine sola vides. A, te ne frigora laedant!
a, tibi ne teneras glacies secet aspera plantas!
50. Ibo et, Chalcidico quae sunt mihi condita versu
carmina, pastoris Siculi8 modulabor avena.
Certum est in silvis inter spelaea ferarum
malle pati tenerisque meos incidere amores
arboribus; crescent illae, crescetis, amores.
55. Interea mixtis lustrabo Maenala Nymphis,
aut acris venabor apros; non me ulla vetabunt
frigora Parthenios9 canibus circumdare saltus.
Iam mihi per rupes videor lucosque sonantis
ire; libet Partho torquere Cydonia cornu
60. spicula10, tamquam haec sit nostri medicina furoris,
aut deus ille11 malis hominum mitescere discat.
Iam neque Hamadryades12 rursus nec carmina nobis
ipsa placent; ipsae rursus concedite silvae.
Non illum nostri possunt mutare labores,
65. nec si frigoribus mediis Hebrumque bibamus
Sithoniasque nives13 hiemis subeamus aquosae;
nec si, cum moriens alta liber aret in ulmo,
Aethiopum versemus ovis sub sidere Cancri14:
omnia vincit Amor, et nos cedamus Amori».
70. Haec sat erit, divae, vestrum cecinisse poetam,
dum sedet et gracili fiscellam texit hibisco,
Pierides; vos haec facietis maxima Gallo,
Gallo, cuius amor tantum mihi crescit in horas,
quantum vere novo viridis se subicit alnus.
75. Surgamus; solet esse gravis cantantibus umbra,
iuniperi gravis umbra; nocent et frugibus umbrae.
Ite domum saturae, venit Hesperus, ite capellae.
Quest’ultimo canto, Aretusa1, concedimi. Pochi versi al mio Gallo, ma che legga pure Licoride2, dovrei dire. Chi negherebbe dei versi a Gallo? E possa così, quando scorrerai sotto i flutti sicani, Doride amara non mescolarsi alla tua corrente. Intona. Cantiamo l’amore infelice di Gallo, mentre teneri brucano i virgulti le capre camuse. Non cantiamo a sordi, riecheggiano tutto le selve.
In quali boschi, o in quali balze, eravate, fanciulle naiadi, quando Gallo di un amore indegno periva? Né i gioghi del Parnaso né quelli del Pindo vi trattennero allora, né l’aonia Aganippe3. Di lui anche gli allori, anche piansero i tamerischi e i pini anche, mentre giaceva sotto una rupe solitaria, del Menalo, e gelide lo piansero le rocce del Liceo4. Immote anche le pecore intorno, e nessuna vergogna ci prende di esse, né a te prenda vergogna del gregge, o divino poeta; anche il bell’Adone fu di pecore lungo i fiumi pastore5. Venne anche il mandriano, più tardi vennero i porcari, venne, bagnato dalle ghiande invernali, Menalca. Tutti: «Di dove ti viene – domandano – questo amore?». Venne Apollo: «O Gallo, perché questa follia? – dice. – Il tuo amore, Licoride, fra le nevi un altro e fra gli orridi accampamenti ha seguito». Venne anche, coronato di splendidi fiori di campo, Silvano6, fiorite ferule e grandi gigli agitando. Pan, dio d’Arcadia, venne, e con i nostri occhi lo vedemmo, rosso delle bacche sanguigne dell’ebbio e di minio. «Ma quale sarà il termine? – disse. – Amore di queste cose non si cura. Non di lacrime la crudeltà d’Amore, non l’erba d’acqua, non di citiso si saziano le api né di fronde le capre».
Triste però quegli rispose: «Pure, canterete, o Arcadi, di questo alle vostre montagne, o soli esperti nel canto, Arcadi7. Oh, allora, che dolce riposo alle mie ossa, se un giorno la vostra zampogna dirà il mio amore! Ma, oh se tra voi io fossi uno, tra voi custode di greggi o vignaiolo per uve mature! Certo, se per me Fillide fosse, o Aminta, o un altro qualunque la mia furiosa passione (ebbene, e se è bruno Aminta? Non sono scure le viole, e i giacinti scuri?), con me fra i salici, sotto una curva vite giaceresti; ghirlande per me Fillide sceglierebbe, canterebbe Aminta.
Qui gelide fonti, qui molli prati, o Licoride, qui un bosco; qui con te mi lascerei consumare dal solo fluire del tempo. Ora una follia d’amore mi tiene nelle guerre del duro Marte fra dardi e assalti di nemici. Tu lontano dalla patria – come vorrei non credere a tanto! – sulle Alpi, ahimè, le nevi e il rigido gelo del Reno senza di me, sola, contempli. Ah, che il gelo non ti nuoccia! Ah, che a te le lame del ghiaccio le tenere non fendano le piante dei piedi!
Me ne andrò e le mie canzoni, composte con il verso di Calcide, adatterò al flauto del pastore siculo8. Ho stabilito: meglio nelle selve, tra grotte di fiere soffrire e incidere i miei amori su cortecce di alberi: crescerete con la loro crescita, miei amori. Intanto percorrerò fra i cori delle ninfe il Menalo, o a caccia degli aspri cinghiali; mai m’impedirà il gelo del Partenio9 di accerchiare le sue balze coi cani. Già mi vedo vagabondo fra rupi e boschi sonori; piace vibrare con l’arco dei Parti la freccia cidonia10, quasi questo fosse un rimedio al mio furore o quel dio11 sappia ammansirsi alle pene degli uomini.
Ora né le amadriadi12 né le canzoni più non mi piacciono; addio di nuovo anche a voi, o selve. Non lo possono mutare i nostri tormenti, neppure se al colmo dei geli all’Ebro bevessimo o sotto le nevi sitonie13 ci addentrassimo nell’inverno piovoso; o se, nei giorni in cui muore la corteccia inaridendo sugli alti olmi, muovessimo le pecore degli Etiopi, sotto la stella del Cancro14. Tutto vince Amore, anche noi arrendiamoci ad Amore».
Vi bastino, o dive, questi versi del vostro poeta, cantati mentre siede tessendo un canestrello col gracile ibisco, o Pieridi. Versi che voi renderete preziosissimi a Gallo, Gallo, per cui nasce d’ora in ora il mio affetto quanto a primavera s’innalza verde l’ontano. Sorgiamo, suole nuocere l’ombra a chi canta, l’ombra soprattutto del ginepro. Nuociono anche alle messi le ombre. Tornate a casa, siete sazie, viene Espero, tornate, o capre.
1. Aretusa, ninfa dell’Elide, perché potesse sfuggire all’amore del fiume Alfeo, fu mutata in fonte, passò intatta sotto lo Ionio (Doride, dea marina, sposa di Nereo), e risgorgò a Siracusa ancora bella dolce (cfr. Aen. III, 694-696). Alle acque d’Aretusa si abbeverava, secondo Mosco (3, 77), il bucolico Bione; e la saluta Dafni morente in Teocrito (1, 117). Alle ninfe chiedono anche ispirazione poetica i pastori (cfr. 7, 21 sg.).
2. Gaio Cornelio Gallo, amico di Pollione, poeta elegiaco e uomo politico (per cui cfr. anche Georg. IV, nota 32), secondo Servio (a 6, 13) era stato condiscepolo di V. alla scuola di Sirone epicureo. Poi lo avrebbe aiutato, quale esattore nella Cisalpina per conto dei triunviri, a riavere le sue terre (SERVIO D., ad Buc. 6, 64; DONATO, Vita 19; PROBO, Vita). «S’innamorò di una meretrice, Citeride, liberta di Volumnio, che lo disdegnò per seguire Antonio in partenza alla volta delle Gallie; è il dispiacere di cui qui lo consola Virgilio. [… ] Apertamente vi si critica Antonio, avversario di Augusto, perché si fece accompagnare, contro i costumi romani, da Citeride nel campo militare» (SERVIO). Marco Antonio tra il 44 e il 43 si trattenne nella Gallia Cisalpina e, dopo la sconfitta di Modena, anche nella Transalpina; se è lui, come intende Servio, il rivale di Gallo, l’alium del v. 23, l’episodio è molto anteriore e la cronologia interna del carme, arbitraria. O piuttosto tutte le circostanze dei vv. 23 e 46 sg. sono immaginarie, forse ispirate dalle vittoriose campagne di Agrippa oltre il Reno e contro gli Aquitani nell’inverno 38-37 (cfr. v. 20).
Licoride è il nome poetico con cui Gallo trasfigurò Citeride, secondo l’uso neoterico, nei suoi quattro perduti libri di elegie.
3. Come il Parnaso, anche il Pindo era sacro alle Muse e ad Apollo; la fonte Aganippe, ai piedi dell’Elicona, in Beozia (anticamente Aonia), era la fontana delle Muse.
4. Monte dell’Arcadia, regno di Pan e dei pastori.
5. Il fortunato e sfortunato amante di Venere, nato ed allevato dalle ninfe nei boschi, vissuto a lungo tra gli agricoltori.
6. Divinità romana (cfr. 5, nota 4) dei terreni incolti, abbastanza simile ai satiri e ai Sileni greci. Cfr. Georg I, 20.
7. Cfr. 4, nota 11; 7, nota 1.
8. Gallo tradusse i poemi mitologici di Euforione di Calcide, poeta alessandrino, o li adattò nelle sue elegie per Licoride; ora si propone di dar loro una veste bucolica, secondo il modello di Teocrito siracusano. V. stesso qui si rifà all’ultima parte del primo idillio teocriteo.
9. Monte dell’Arcadia, teatro di cacce anche in Properzio (I, 1, 11).
10. Grandi arcieri i Parti e i Cretesi (Cidonia, una città di Creta); cfr. Aen. XII, 858. I soliti epiteti generici di eccellenza.
11. Il solito dio, Amore.
12. Lo stesso che le driadi di 5, 59.
13. La Tracia (Sitonia dal nome di una sua regione), ove scorre l’Ebro (oggi Maritza), aveva fama di un paese freddissimo. Cfr. Georg. III, 352-383; ORAZIO, Carm. III, 25, 10 sg.; 26, 10; Epist. I, 3, 3.
14. Anche l’Etiopia sta a indicare una terra, all’opposto, straordinariamente calda, addirittura all’estremità del mondo abitato (cfr. Aen. IV, 480 sg.; VI, 795-797).
Il Cancro, unum de duodecim signis, quod in australi parte semper moratur (Scholia Bernensia); il sole vi si trova nel solstizio estivo.