I. Di Virgilio possediamo un certo numero di biografie antiche1, premesse ai commenti delle sue opere e risalenti per i dati a epoche assai anteriori. Fonte principale di tutte è, più o meno direttamente, quella che Svetonio inserì nella sua opera De poetis, sezione del De viris illustribus per noi perduta. A conservarci «il testo integrale o quasi integrale»2 di Svetonio fu il grammatico Elio Donato, maestro di Servio (sec. IV), che sappiamo premise al suo commento virgiliano una Vita del poeta, da riconoscersi senz’altro, sia pure in una forma non più integra e genuina, in quella contenuta in tre codici degli Scoli Bernesi dei secoli IX e X.
Dello stesso Servio si ha una Vita di Virgilio in taluni codici del suo commento. Di età assai tarda dobbiamo ritenere anche una Vita attribuita a Probo – che si vorrebbe credere il grammatico neroniano Marco Valerio Probo3 – nei codici rinascimentali che la tramandano con un breve commentario virgiliano, pure esso attribuito a Probo; e probabilmente al secolo V appartiene una Vita in 107 esametri, giuntaci col nome di un grammatico Foca in un codice del IX secolo4.
Si aggiunga a tutto ciò una serie di altre testimonianze e di dati dispersi5, questi sì a volte contemporanei del poeta, quali i versi di Orazio e di Properzio, o addirittura ricavabili dall’interno dell’opera stessa di Virgilio; e nella Cronaca di san Gerolamo6, dipendente anch’essa, com’è noto, da Svetonio.
P. Vergilius Maro nacque ad Andes7, presso Mantova, il 15 ottobre dell’anno del primo consolato di Gneo Pompeo e di Marco Crasso (70 a. C.)8 da Magia Polla9 e da un ancor più modesto vasaio o, come addirittura sostenevano i più, da un salariato del banditore Magio, che però con la sua laboriosità avrebbe meritato di sposarne la figlia e con accorte compere di boschi e allevando api avrebbe incrementato il proprio patrimonio10. Perse i due genitori già grande, il padre divenuto cieco; due suoi fratelli germani, Silone e Flacco, morirono il primo bambino, il secondo già adulto11; la madre dovette risposarsi, se a Virgilio sopravviverà un altro fratello minore, di padre diverso e di nome Proculo12. Sarebbe venuto alla luce di prima mattina, mentre la madre si recava ai campi col marito, nel fossato lungo la massicciata della strada13.
Fu di statura alta, corporatura grossa, colorito bruno, volto contadinesco, salute malferma: soffriva sovente di mal di stomaco e di gola e di emicranie; ebbe anche dei frequenti sputi di sangue14. Se la cavò mangiando e bevendo pochissimo. Aveva una certa inclinazione per i fanciulli; Plozia Tucca, moglie del suo amico Vario Rufo, da vecchia raccontava che il marito lo aveva invitato a condividerla con lui, ma lui si era ostinatamente rifiutato15. La sua vita, in complesso, fu così onesta, che a Napoli lo chiamavano il Verginello16; e la sua timidezza tale, che nelle sue rare visite a Roma si sottraeva alla folla degli ammiratori rifugiandosi nella casa più vicina17; e nel parlare in pubblico o anche solo nel conversare, incespicava in modo esasperante, sembrando quasi rozzo e indotto18, sebbene poi nel declamare le sue opere fosse di una sublime soavità19.
Visse da ragazzo a Cremona e vi studiò20. Lì indossò la toga virile21, quindi passò a completare la sua istruzione umanistica a Milano22 e a Roma23. Ciò fa pensare a molti che, asceso via via negli studi di grammatica, di letteratura e di retorica24, lo stato sociale e le condizioni economiche della famiglia di Virgilio non fossero, o non fossero più, quelle indicate dalle notizie sui suoi natali. Ma c’è da ricordare almeno il caso parallelo e ben noto del padre di Orazio, modesto esattore di provincia, che affrontò sacrifici estremi per assicurare un’istruzione elevata al figlio25.
Ben presto, dopo i naturali insuccessi oratori26, lasciò anche Roma per Napoli: diede un addio alle inanes rhetorum ampullae, alla scholasticorum natio madens pingui, a quell’inanis cymbalon iuventutis, per entrare nella scuola epicurea fiorente nella città campana: nos ad beatos vela mittimus portus, / magni petentes docta dicta Sironis, / vitamque ab omni vindicabimus cura: non sarebbe rimasto che uno spiraglio per la poesia27. In relazione, evidentemente, con lo sviluppo proprio della sua attività poetica, si dedicò anche alle scienze naturali e all’astronomia28.
In quel circolo ristretto, animato da una notevole personalità quale Sirone, che persino Cicerone nomina con grande considerazione29, lontano fisicamente dalla vita pubblica, dai grandi travagli politici e militari di quegli anni che videro lo scontro di Cesare e di Pompeo, poi la morte violenta di entrambi e l’avvento di nuovi triunviri, in un clima, anche, così adatto alla sua salute, Virgilio trascorse certamente molti anni, e anzi mai abbandonò davvero un soggiorno così gradevole30. Lì lo raggiunsero le prime notizie delle assegnazioni di terre nella Transpadana ai veterani: e più che mai quel ritiro, la villetta già di Sirone e ora divenuta sua con un piccolo campicello, gli apparve veramente coi colori dell’altro grande sogno della sua vita, tra Mantova e Cremona31.
Quegli avvenimenti si ripercossero duramente su di lui. Con ogni probabilità lo costrinsero anche a lasciare per qualche tempo Napoli e a tornare alle sue poche terre del nord, minacciate da una così torbida successione di fatti. Antonio e Ottaviano dovevano soddisfare le richieste dei soldati che li avevano portati alla vittoria di Filippi (ottobre-novembre del 42). Perciò designarono, perché fossero assegnati ad essi, i territori di diciotto città, tra cui Cremona, vicina a Mantova. Asinio Pollione reggeva la Transpadana e, ammiratore del giovane per il suo ingegno, riuscì a conservargli i suoi campi. Allontanato Pollione nella primavera del 40, Virgilio corse nuovamente il pericolo di vedersene spogliato; ma il nuovo generale inviato da Ottaviano, Alfeno Varo, stimolato da Cornelio Gallo, egli pure in missione d’esattore, lo difese una seconda volta, anche contro le violenze della soldatesca32.
In quegli stessi anni matura la vocazione poetica di Virgilio. Le Vite ricordano nella fanciullezza un suo componimento satirico per un maestro di scuola33. Poi, secondo la linea biografica suetoniana34, sarebbe venuta una serie di poesiole e di poemetti che vanno sotto il nome di Appendix Vergiliana e che in realtà non risalgono se non in minima parte a Virgilio: Catalepton, Priapea, Epigrammata, Dirae, Ciris, Culex, Aetna, Copa35. E infine i Bucolica o Eclogae, su invito di Pollione, dopo un tentativo epico tosto abbandonato di res Romanae; aveva allora ventotto anni, e questa fatica lo tenne occupato per tre, dal 42 al 3936.
Poco dopo, e certamente ripartito dalla Cisalpina, iniziò la composizione dei Georgica, dedicati a Mecenate, con cui era ormai entrato in stabili rapporti e a cui aveva presentato un non più giovane poeta suo amico, Orazio37. All’opera attese per sette anni, secondo Donato e Servio38; il poema era certamente finito prima dell’estate del 29, quando Ottaviano tornò vittorioso da Azio e dall’Oriente, ove ancora si trovava mentre Virgilio ne scriveva gli ultimi versi (Georg. IV, 559-62): la chiusa39 ci richiama ancora piuttosto a Napoli che a Roma, dove la grande fama e rispetto di cui era circondato certo lo disturbavano40. Quando Augusto sbarcò in Italia e fu trattenuto ad Atella da un mal di gola, il poeta gli lesse per quattro giorni consecutivi, alternandosi con Mecenate, e con quella sua voce suadente, l’intero poema41.
Da ultimo iniziò l’Eneide42. Se la composizione delle Georgiche fu lentissima: al mattino meditava parecchi versi, che poi dettava e continuava a ridurre a pochissimi nel corso dell’intera giornata43; quella dell’Eneide fu preparata e accompagnata da più ampi studi44, preceduta da una completa e minuziosa stesura in prosa e condotta senza un ordine, ma via via là dove volgeva l’ispirazione45. Lavorava appartato46; ne leggeva raramente qualche poco agli amici, e per averne consiglio47. Solo molto più tardi48, «ormai pronta tutta la materia», recitò ad Augusto e a sua sorella Ottavia tre libri, e tutt’e tre della prima metà del poema: il II, IV e VI.
Attese all’Eneide per undici anni49. Cinquantenne, intraprese un viaggio, in Grecia e in Asia, proponendosi di dare per un triennio l’ultima mano al poema, e poi attendere in tutto il resto della sua vita solo alla filosofia50. Ad Atene incontrò Augusto che rientrava a Roma e che lo convinse a tornare in Italia con lui. Durante una visita a Megara si prese un’insolazione; sopraggiunse la febbre, crebbe durante la traversata. Allo sbarco a Brindisi le sue condizioni erano già gravissime e pochi giorni dopo là si spense, il 21 settembre del 19 a. C.51.
Le sue ossa furono trasportate a Napoli e sepolte lungo la via di Pozzuoli, a meno di due miglia dalla città, con l’iscrizione che avrebbe dettato il poeta stesso: Mantua me genuit, Calabri rapuere, tenet nunc / Parthenope, cecini pascua rura duces52. Nel testamento nominò eredi per una metà dei suoi averi il fratello Valerio Proculo, per un quarto Augusto, per un dodicesimo Mecenate e per il resto Vario e Tucca53. Il patrimonio era certamente ragguardevole: dieci milioni di sesterzi e a Roma una casa nel quartiere dell’Esquilino presso i giardini di Mecenate, a Nola un podere54. Prima di lasciare l’Italia aveva discusso con Vario perché bruciasse l’Eneide qualora gli fosse successo qualcosa, essendo il poema ancora da rifinire; e i suoi scritti legò a Vario e a Tucca, a patto che non pubblicassero nulla del non pubblicato. Ma per comando di Augusto i due amici «emendarono sommariamente» il poema e Vario lo diffuse55.
2. Il poeta ci si fa incontro ormai maturo, rifinito, nelle Bucoliche. Lo studio dell’Appendix Vergiliana, a parte l’incertezza dei risultati cui finora, alla fine, adduce, non potrebbe riuscire di grande utilità, se non forse per dati biografici: come, nel citato catalepton 5, il giovanilissimo addio alla retorica per abbracciare la filosofia – labile richiamo della filosofia, riudito ancora più tardi e di nuovo vanificato, questa volta dalla morte. I prestiti di Virgilio nelle egloghe sono evidenti e segnano già un insieme di preferenze letterarie forse inevitabili (si pensi insieme a Orazio e agli elegiaci) ma non meno marcate e significative.
La poesia ellenistica anzitutto: presente non solo in modo diretto col modello della musa pastorale, culminante in Teocrito, ma più ampiamente con le sue filosofie, con un modo di far biografia nascosta, di far musica e di far letteratura con un calcolo sapiente degli effetti. E ancora alla moda, e assai poco romano, il disimpegno stesso del poeta, che in un mondo capovolto dal caso e turbato dalla realtà primaria delle armi56 non può che sentire la felicità di chi si conserva in un suo ambito primitivo di poche cose, come l’Ecale di Callimaco incontrata un giorno dalla gloria fragorosa di Teseo. L’innesto su queste squisitezze letterarie era ancora più semplice per chi aveva alle spalle i neoteroi e ne condivideva la dislocazione territoriale; per chi poi a Napoli aveva incontrato il magico regno di Epicuro, ove tutto parlava di armoniosa fusione d’affetti, di sereno e tacito abbandono del mondo.
Virgilio vive in questi suoi primi componimenti il momento, non raro nelle vite umane, del rifiuto della realtà: che non era, nel suo caso, la concretezza abitudinaria della custodia di un gregge tra canti e amori indefinibili, duri e amabili; ma il volo delle aquile sulle colombe caonie: della guerra sulla pace, della prepotenza sulla giustizia, dell’azione sulla contemplazione. In tale realtà non v’era posto se non per il flebile lamento di chi avesse una vocazione teoretica57 o assumesse un atteggiamento puramente lirico di fronte alle cose. Ogni singolo componimento e tutta la raccolta vivono di questo contrasto irrisolto58, che costituisce il loro fascino poetico, con un chiaro riflesso anche formale. La tentazione definitivamente epicurea e arcadica deve essere stata allora fortissima, tanto più che rispondeva a più generiche ma vive aspirazioni del tempo. L’Italia usciva da un cinquantennio di guerre civili e l’intero Mediterraneo pareva ritrovare solo allora, dopo molto, un suo assetto stabile. L’egloga quarta s’inserisce a questo modo nella raccolta59 e il suo puer non discorda dal iuvenis della prima: la convergenza di emozioni e di componenti culturali d’Oriente e d’Occidente, di filosofia e di mistica, neppure ben riuscito60 e più suggestivo che bello, mostra in essa il palpito indefinibile di quelle generazioni e la partecipazione cordiale di un Virgilio biblicamente pastore. La ricchezza dei motivi culturali presenti nelle Bucoliche non riesce a nasconderci l’ingenuità non del sentimento, ma del rimpianto del poeta, così come non riusciremo mai a dimenticare, pur dinnanzi a ben più alti esiti poetici, la nativa schiettezza di questi primi. Si discute quale fosse l’autentica inclinazione del genio virgiliano, si suole trovarla piuttosto nella didascalica-descrittiva o nell’epica e perciò sottolineare anche nelle Bucoliche l’intrusione, già, dei fatti storici e del «realismo romano», che presto condurranno ai poemi61.
In realtà nessun’altra opera virgiliana dà quanto la prima il senso di un abbandono primitivo dell’anima unicamente al suo genio, e riesce così facile proprio sulla loro scorta, prima ancora che sui dati esterni, pensare che Virgilio sentisse nativamente quel mondo, e certo coi suoi necessari salti di quantità da Mantova, diciamo, a Napoli. Ce lo dicono la freschezza, la spensierata semplicità degli alterchi, gli umori sbarazzini, le originalità del linguaggio in questi mimi, che poi si rarificano o si assentano del tutto; il modo di notazione del paesaggio, di una liricità istintiva nella precisione degli elementi o di una vaghezza inafferrabile nelle situazioni più concrete: e sono cose scritte, si badi, non in un isolato momento poetico giovanile, nella tappa obbligatoria di queste simpatie o velleità etiche ed estetiche, anche se a quella tutto sembra ricondurci: sono poesie di un trentenne già provato e caparbio, che non abbandona ancora le suggestioni di una vita nascosta ed evasiva né di una poetica esile ma suggestiva: hic, Moeri, canamus (9, 61).
Che poi vi s’intruda l’autobiografia o la storia non è che un segno e della genuinità della sua ispirazione e del valore che vi era annesso. È indubbio che i pastori bucolici non sono dei veri pastori «socialmente parlando»62; ma il loro mondo ha tutta la necessaria pienezza e autenticità di un ideale cui il poeta aderisce e che almeno ai suoi occhi pareva realizzarsi sui prati e tra i boschi lambiti dalle larghe anse del Mincio-colore-d’erba e bianco di cicogne, o in Arcadia: gli unici luoghi ove si potesse sostare per scoprire e organizzare poesia e umanità63.
Certo l’equilibrio è precario e il sogno è sognato. E certo se Virgilio si fosse fermato qui, sarebbe divenuto il massimo degli elegiaci e forse dei lirici latini, un sommo Tibullo e forse un più grande Catullo, ma sarebbe soggiaciuto alla limitazione del genere e della sua etica e avrebbe esaurito in se stesso la carica della propria anima. Pure, l’abbandono di quel mondo e modo poetico dovette sembrargli un tradimento64. Quello di Gallo è il canto di una fuga posto lì, alla fine di una storia d’amore: ancora le dure armi di Marte rapiscono Licoride, e il poeta se ne va egli pure, insensibile al fascino delle amadriadi e delle loro selve: non illum nostri possunt mutare labores (10, 64)65. Bisogna pur lasciare tutto questo: ma è un tradirlo, e tradirsi.
Perciò il libro delle Bucoliche è, in un genere già così fortemente sofisticato, il più schietto frutto dell’anima virgiliana. Il suo poderoso sviluppo sta a dirci le sterminate possibilità latenti di quel genio. Ma ogni volta che vorremo e vorrà ritrovarsi nella sua forma più pura, è lì che dovremo tornare, nei loro motivi, nei loro scenari, nell’aria dolce degli sweetest poems in the world, come li chiamava Pope. È lì che è incominciato a orchestrarsi nel modo più semplice e più spontaneo il sublime tentativo del poeta di entrare in contatto coi misteri della natura; né più mai egli si sarebbe astratto in essi senz’altra preoccupazione che di coglierne misticamente la voce e il senso. Poi, «le paysan devint ‘agriculteur’»66.
Fu la violenza del momento storico a strapparlo. Non più nessuno poteva, neppure sui campi gallici o veneti della Transpadana o nei giardini partenopei di Epicuro, rimanere estraneo per la sua parte all’appello di forze, alla chiamata dell’instaurazione di un regno di letizia universale67. La società era scossa dalle fondamenta, si rimescolavano i ceti, gli averi e le dignità cambiavano titolari, cadevano confini e costituzioni; bisognava rafforzare la pace, portare avanti una rivoluzione-restaurazione impostata e avviata da Cesare, ora nelle mani del suo figlio adottivo ed erede. Fu anche quella una spinta armonica? Certo sì.
La crisi fu nello scoprire l’anacronismo di un paese e di una vita limitata dall’orizzonte della siepe fiorita e del sepolcro di Bianore. La crisi umana di Virgilio si espresse in una crisi poetica, e viceversa. Se tutto finora non era stato, finalmente lo si avverte, che un punto di partenza dallo schietto fondo dell’anima, lo svolgimento successivo esce da un travaglio nascosto: l’adeguamento fatale alle necessità di un impegno politico – in senso lato, – ove l’uomo si dà agli altri ma si perde per sé, o la parte più gelosa e sempre più cara di sé. Omnia fert aetas, animum quoque (9, 51). Un’autobiografia eneica di Virgilio si può tentare dopo quella titirea o melibea: la prima delle sue prove il pio Enea l’ha fatta nel suo creatore. È anche un Leit-motiv di tutte le annotazioni biografiche della tradizione antica questo contrasto, questo mai dimesso tentativo di disimpegno; e nella poesia un ritorno costante, ancora, alla georgica, che non è inutile spia: non si pensi solo alla malinconica serenità di Butroto o alla perfezione del quadro di Pallanteo o alle fin troppo ovvie ricorrenze delle similitudini; ma a tutta l’Italia della rassegna del VII libro ancora dell’Eneide, con i suoi successivi sviluppi: la bucolica ripensata e ingigantita.
Quanto del primitivo mondo poetico virgiliano sia confluito nelle Georgiche, è difficile dire. O meglio: bisognerà guardarsi dall’inganno di una parentela tematica, per stare fermi alla diversità di tono, di tecnica e d’ispirazione. Se ancora alla radice di questa predica ai villani è l’amore per la villa connaturato in quell’uomo goffo, trasandato nel vestire e arruffato, a disagio nelle vesti e nei calzari, ancora sempre brunito in viso e debole di nervi in una città estranea che l’additava con curiosità; ci vollero i fatti, attraverso le sollecitazioni di un ministro e le ispirazioni di una politica ancora più alta, per far prendere alla sua vocazione campestre quella forma assai più complessa e occulta. E una strada anche più produttiva, alla fine, per realizzare spiritualmente l’autentico valore dei campi. La drammaticità della scoperta della via georgica alla pace, se non alla felicità, è che, come tutto, come poi la meta di Enea, ha un prezzo; che Titiro e Melibeo e Menalca erano stati travolti via dal loro podere immeritato per una legge umana e giusta di conquista: labor omnia vicit / improbus (I, 145 sg.). L’incanto delle Bucoliche a questo punto diviene insostenibile, come la dignità greca dell’ozio, se ci fa sentire l’altezza della vita contemplativa, della libertà, e dell’agio intellettuale, ci si dimostra anche, ad un certo momento, monca e insufficiente di fronte alla chiamata della vita68.
Come si tradusse poeticamente questo nuovo corso virgiliano, che valore d’intervento egli attribuisse alle Georgiche, non è neppure cosa semplice da definire. È chiaro che il poeta non pensava di ammaestrare davvero i contadini nel loro lavoro attraverso una poesia didascalica tra le più colte e le più difficili, né di sostenere nuda e cruda, in quel modo, la politica agraria di Ottaviano. Tutto questo c’entrava; l’esempio di Lucrezio, che infatti domina anche stilisticamente e strutturalmente l’opera69, era incoraggiante. Ma la perorazione virgiliana è piuttosto quella del lavoro quale stimolo creativo universale, attuato nella forma più sana e più giusta nella campagna, ora sentita più profondamente in una dialettica o in una partecipazione di vita. Questa è la conquista e il proclama delle Georgiche, conquista e proclama di una way of life. La didattica fa da tessuto armonico ai momenti poetici e alle riflessioni di un’anima che subiva le nostalgie acute delle semplici esistenze, venute a coincidere fortunosamente con un ritorno calcolato ai campi da parte del potere ufficiale. Non si usciva molto dal tema, ma tutto vi appariva nuovo. L’accumulo di cultura che si riscontra nelle Georgiche, assai maggiore di quello delle Bucoliche, ov’è più appariscente perché più superficiale, mentre dà ragione dell’impegno morale dell’uomo e mostra l’inserimento dell’opera in una tradizione letteraria per altro fino ad allora, e poi dopo, delle più aride e languide, ci fa vedere ed accettare tutta la complessità dell’impegno virgiliano. Così il modo sapiente come viene strutturata l’opera: la durezza della tematica, la gravità dei proemi e la cupezza delle chiuse nel primo e nel terzo libro, alternate all’aerea gaiezza, alla leggerezza dei tocchi iniziali e finali del secondo e del quarto, per non citare che una delle simmetrie più vistose; e il dilatarsi del ventaglio espressivo del verso, con le sue vaghezze non più soltanto epidermiche e con la sua musicalità non più soltanto di cembali squillanti e rare pause di basso70.
Se il tema fondamentale del poema è un più vasto rapporto tra l’uomo e la natura, e le leggi di creazione e distruzione, di gentilezza e crudeltà, il pessimismo e l’ottimismo che regolano la vita, con quella fusione incredibile di stili – il più concreto, persino lemmatico, col più sfumatamente sentimentale, il più alto, epico a tratti, col più modesto e intimo, – il culmine e la chiave può ben trovarsi71 nella favola spaesata che da ultimo, secondo i dati biografici, venne a tappare il buco lasciato vuoto dalla caduta di Cornelio Gallo, il transfuga dei pastori: dov’è la malinconia del poeta, del contemplativo, davanti all’uomo di mondo, al dominatore delle cose; e tanto più significativa se, come pare, l’innesto di Aristeo su Orfeo è invenzione tutta virgiliana. Ancora un’autobiografia, orfica, di Virgilio si può tentare.
Da qui innanzi il passo è segnato. Il passaggio dalle Georgiche all’Eneide è se non dei più letterariamente naturali, eticamente prevedibile. In fondo, le Georgiche hanno segnato la scoperta dell’Italia, della complessità della sua vita e della sua storia72. L’ascendenza di Esiodo, di Arato, qui non dice nulla, certo molto meno di quella di Teocrito, di Mosco, di Bione per le Bucoliche. Anche la concezione filosofica del poeta si fa più complessa, le sue adesioni ai verbi filosofici più sfumata, non preoccupata da incoerenze, gelosa di salvare comunque dei valori che vengono più dalle tradizioni che dalle speculazioni73. All’epicureismo, al platonismo, al pitagorismo si affianca la grande cosmogonia degli stoici, l’universalità del loro senso umano e fisico, la consonanza della loro etica con quella della stirpe di Saturno. Come tutto questo si fonda nell’unità mirabile delle Georgiche, è uno dei miracoli e dei misteri di Virgilio. Così forte e saldo era il suo sentimento di quel mondo, da poter assorbire la molteplicità delle spiegazioni teoriche, l’afflusso di tutte le riflessioni. Lì in ultima analisi la realtà veniva spiegata e spiegava la complessità dell’esistenza, la risolveva finalmente mediante l’accettazione di certe leggi e la postulazione di certe fedi. La ricchezza della tradizione letteraria si semplificava in una fantasia divenuta assai più salda, in un’articolazione più ampia dello stile, senza per questo richiedere alcuna complicazione espressiva. La familiarità della locuzione delle Bucoliche ci pare ovvia, connaturata al genere pastorale romano (eppure è un po’ forzata, e non poi tanto bassa). Ma quella delle Georgiche, apparentemente ancora più dimessa nel vocabolario, da farci inavvertiti delle lievissime e sostanziali variazioni dal linguaggio comune74, è senza precedenti, ben sorprendente eppure matura. Non credo si sia mai giunti a condurre un lettore per duemila versi su una linea così diritta, su una superficie così piana, ove non senta alcun sussulto, non trovi mai un perché fermarsi, tra le meraviglie continue o l’abituale presenza della bellezza, in cui non si avverta nemmeno, e certo ci sono state, le stratificazioni degli episodi75.
Dunque, the best poem of the best poet, come voleva Dryden?
La ricchezza del mondo poetico e umano dell’Eneide è ancora superiore a questo piano. Al limite, si potrebbe leggere le Georgiche come un finissimo esercizio letterario, solo come «una sfida all’impossibile» e nell’impassibilità dell’acrobata di fronte agli esercizi più ardui76, relegando tutto il resto a una situazione e a una necessità sociale ben precisa.
Ma nell’Eneide il poeta viene innanzi di prepotenza e si pone a interprete del tutto autonomo del suo popolo, del suo destino e del destino umano in generale. Il fortunati nimium celava ancora una segreta volontà riduttiva o comunque un’esperienza umana che tendeva a rinchiudersi. O era la inevitabile natura del soggetto e del genere letterario? e il best poem indica una perfezione che si può solo realizzare nella cornice di un quadro, non nelle dimensioni dell’affresco, e sempre per forza lascia di fuori la complessità e la varietà del fenomeno umano e delle sue chiamate? Anche a questo punto Virgilio sarebbe stato forse il più grande dei poeti latini, ma non il genio di Roma e il «padre dell’Occidente».
Nell’Eneide si realizza con l’unico modo possibile la profezia della quarta egloga e si chiarisce definitivamente alla coscienza del poeta il senso ultimo dell’uomo, di Roma e della storia alla luce della maturazione stessa della coscienza romana, che avveniva in quegli anni e di cui vediamo i segni in Orazio, in Properzio, in Livio77.
Quando Virgilio vi pone mano, nel 29, l’orizzonte di Roma, dopo Azio, si era già sufficientemente rischiarato e sembrava che tutti gli auspici della storia si fossero ormai realizzati, e in essa il senso di Roma. Era uno svolgimento nuovo, una direzione e una meta che neppure la Grecia aveva conosciuto; l’acquisto di una dimensione universale, in cui ogni destino si realizza, coinvolto nella dichiarazione di quei fini con l’esaurimento dei propri. La frustrazione di due o tre generazioni stanno alle spalle della meditazione di Virgilio, e insieme le speranze della nuova e la certezza delle future. Il passato si proponeva con la somma delle sue leggende e dei suoi fatti78. L’ottimismo dilagante proiettava verso una nuova età futura uno spirito non alieno per certe sue frequentazioni filosofiche (pitagoree e platoniche e stoiche), per la natura mistica e per certi nessi con l’Oriente79, dalla divinazione o almeno dalla speranza. In questo senso, nulla di greco nel poema, nulla di omerico, tutto romano lo spessore che assumeva la saga80, in cui era immessa una filosofia della storia già appannaggio di pensatori quali Posidonio o Cicerone81, col primato d’una città nel dominio e nel servizio del mondo. L’azione, non più l’arte, ingaggiava l’uomo e si presentava come il campo delle sue affermazioni più alte e complete82.
L’Eneide dà sovranamente l’impressione di tutto questo. La offre nella sua grande atmosfera sacra, nella pietas del suo eroe, nella sua religiosità fusa strettamente col passato e col destino del suo popolo, per cui la sua immagine in noi resta soprattutto quella del curvo uomo che esce dalle rovine di Troia portando su di sé, col padre, i penati di Roma83; la offre nell’innesto del presente, programmato, mediante tutti gli artifici che la tradizione poetica suggeriva, dalle profezie alle liti divine alle raffigurazioni plastiche; la offre nei destini dei suoi protagonisti, non splendidamente isolati nelle gesta e visti nell’attuazione di un piano personale, ma inseriti fatalmente in un corso di eventi a cui non si sentono estranei, qualcosa di più grande di loro.
E qui il discorso viene a spostarsi sull’altro polo, sull’uomo, in questo grande processo delle cose. Gli studi virgiliani vengono sempre più accentuando lo stato di tensione che presenta l’Eneide tra la storia e la persona che vi è coinvolta84. In questo senso, Enea campeggia in modo esemplare nel poema, ma in lui non è che riassunta la vicenda di Turno, di Pallante e di Lauso, anche di Didone. La chiamata dell’uomo, e del romano prima di tutto, è chiamata alla storia e chiamata al futuro. Una tale responsabilità tutto travolge, non in una cieca macchina, alla Lucrezio, ma in una costruzione provvidenziale, anche se non per questo riesce meno dolorosa. Per il destino suo e della società Enea deve accettare non solo una serie di prove impensate il giorno in cui pose piede in Tracia, ma persino la rinuncia della propria persona e l’abiezione85 virile davanti a una donna che in quel momento, al suo confronto, figura immensamente più alta; e per qualcosa che è fuori di lei e che, donna, ella nemmeno potrebbe comprendere, Didone deve rinunciare non solo all’amore, ma alla vita. È qualcosa di più del fato o del destino individuale, come viene comunemente inteso. È una necessità superiore, una ragione che trapassa le fortune, le inclinazioni, i desideri, i progetti dei singoli – che già timidamente, del resto, travolgeva le placide giornate di Titiro e di Melibeo all’ombra di un faggio: anche Melibeo deve mutare i patrios finis per gli assetati Afri, e il crudele Alessi non si cura dei canti di Coridone. Solo al pensiero dell’avvenire, questo pensiero così romano dei discendenti86, delle generazioni in cui ognuno ha il suo posto relativo, o della società da lui per la sua parte costituita, le sofferenze, la vita acquistano, se non un conforto, un significato.
Così l’Eneide appare non come un poema cavalleresco, e neppure epico nel senso tradizionale del termine87, Ogni ripetizione omerica viene animata da questo nuovo spirito; l’episodica e la temperie alessandrina perdono ogni frivolezza nella scoperta di questa responsabilità88 e in queste emozioni del poeta davanti ai casi e ai misteri che avvolgono l’uomo nel tempo: il sesto libro ci presenta forse anche una prospettiva ancora più alta, una visione mistica, quando la patria stessa e la storia vengono proiettate nell’eternità89: siamo al livello supremo cui si spinse la meditazione dei Greci sulla vita umana, ma con un elemento patetico, coi riflessi critici di questo orientamento religioso nello spirito dell’uomo; in ogni caso è evidente a chiunque che quel libro è il culmine della poesia virgiliana e una delle vette della poesia occidentale.
Il tentativo di afferrare globalmente i destini dell’umanità comunica alla poesia virgiliana una straordinaria carica emotiva. Il pericolo che così il poema si dissolva in un inno o in un’elegia è fortissimo, e non sempre evitato. Il La Penna ha messo ben in luce nel suo saggio90 i guai della modernizzazione di Omero, dell’inclinazione ellenistica e virgiliana alla «motivazione affettiva» a scapito dell’azione in se stessa. Ma ci esorta anche a cadere piuttosto nel rischio di una considerazione umana universale del poema, che in quello di un’epopea augustea, di un’epica storico-politica. Così è altissimo, e ancora più immediatamente percepibile e grave, ed evidentemente inevitato, il rischio, in un’ispirazione, si voglia o no, assai più lirica dell’epica di Omero, delle zone neutre, che cadono nel disinteresse del narratore e del lettore. Il libro VII ne è l’esempio più vistoso: solo l’acuta sensibilità del poeta riscatta allora d’improvviso, in modo tanto più sorprendente, l’inerzia del racconto fin lì sostenuto ostentatamente con tutte le ricette del genere, quale l’ennesima orazione di Ilioneo91, la personificazione della furia o l’idillio bambolesco di Silvia e della sua cerva, di fronte a versi come 88-91, 249-258, 458-466, 511-522, 699-702: e poi, subito si apre il grande squarcio dell’VIII92.
E vi gioca il linguaggio, ancor più familiare93, appena elevato al giusto tono di un’epopea d’affetti quanto si può comuni, di vinti e vincitori intristiti dalla sorte buia, con sapienti giochi combinatori, con un suono temperato più dolce che solenne anche nel tendere del latino per natura sua verso l’oracolare o il lapidario: un altro dei sortilegi di Virgilio, delle sorprese di un genio davvero sconvolgente che espande verso il lievissimo e l’infinito, coi mezzi più semplici, le possibilità espressive della sua lingua quando essa sembrava già sviluppata e baroccante.
Si compie così nell’Eneide la maturazione della coscienza virgiliana, con quella serie di rinunce che essa comporta anche sul piano estetico per una forma di arte terribilmente difficile, non foss’altro per la sua novità. Si possono comprendere le esitazioni o addirittura la condanna del poeta in punto di morte.
3. È con questo messaggio che Virgilio ha attraversato i secoli. Nessun altro poeta come lui ha saputo parlare all’uomo con linguaggi diversi, immiserito o ingigantito secondo il livello dei loro gusti e dei loro bisogni. Kerényi, scrivendone nei rapporti con lui di Hölderlin94, lo definisce di quelli posti tra i due estremi, tra la semplicità degli antichi e la fantasiosità dei nuovi, primitivo e moderno insieme: un vero poeta senza tempo.
Il successo delle sue opere, soprattutto dell’Eneide, fu immediato e vistoso95: si avverte subito il loro valore nazionale ed estetico. È nota l’affettuosa accondiscendenza di Orazio96, come è noto il saluto di Properzio alla nascente, più grande Iliade97. La dizione poetica e il trattamento di alcuni episodi liviani risentono della seconda parte del poema, e la storia di Enea è rinarrata da Ovidio98, mentre le egloghe sono riprese da Calpurnio Siculo e poi da Nemesiano, le Georgiche completate da Columella99.
Nell’età di Nerone, Lucano vuol creare un’epica nuova, ma soggiace al modello tecnico del mantovano: con lui ha soprattutto in comune quell’«interesse morale»100 che invece mancava a Ovidio e mancherà ai suoi più stretti imitatori e veneratori di età flaviana: Stazio, Silio Italico, Valerio Fiacco. La parola e la frase poetica di Virgilio si traducono persino nella prosa di Tacito, e le sue opere si affermano definitivamente nelle scuole, e per secoli, con l’autorità di Quintiliano: le si usava per lo studio della grammatica e della metrica, si riprendevano i loro temi, si componevano centoni di tutt’altro argomento coi loro versi. Agostino piangerà tra i banchi sulla sorte di Didone101; e nella scuola nasceranno i commenti. Anche a mensa Virgilio può essere un tema di discussione alla moda102.
Ma l’interpretazione allegorica, sorta con Elio Donato, andava anche preparando il terreno per la venerazione e la fama di cui Virgilio sarà circondato nel Medio Evo103. Profeta, oracolo, scienziato, negromante, egli dominò allora le letterature occidentali e spinse anche più addentro la sua influenza su quei secoli. Se l’egloga quarta colpiva immediatamente la fantasia dei primi cristiani e degli stessi imperatori104, la discussione patristica cercò di definire più a fondo i limiti del «cristianesimo» virgiliano105. I carmi latini del tempo sono pieni di arie virgiliane, nei paladini di Francia rivivono i suoi eroi, la storia di Didone circola nei novellieri popolari106; ma i suoi personaggi entrano anche nella valletta amena e il vate di Roma, presente nei cortei dei profeti e delle Sibille dei misteri medioevali, sale col suo discepolo fiorentino sino ai limiti del Paradiso. Un dominio incontrastato, solo tallonato da Ovidio.
Un diverso magistero di Virgilio attrae i moderni. Raggiunta nel Rinascimento una prospettiva storica e critica più esatta anche nei suoi confronti, il poeta latino entra nelle diverse letterature europee e vi trova il suo spazio: nel protagonista dei Lusiadas di Camões, nelle liriche e nei poemi dei grandi italianisti castigliani: il marchese di Santillana, Juan de Mena, Boscan e Garcilaso; negli episodi pastorali o guerreschi di Ariosto e Tasso, come già nell’Admeto del Boccaccio e nell’Arcadia. Ma ancor più in Francia e in Inghilterra durante un secolo, il Seicento, che pareva fatto apposta per rivivere la morbidità elegante della sua immaginazione: le eroine raciniane paiono inconcepibili senza Virgilio107. Ma fuori della loro tragica bellezza, la poesia virgiliana cadde in preda delle quérelles letterarie e subì i contraccolpi della fortuna di Omero108: come l’Eneide aveva rappresentato al vivo, per l’unitarietà del soggetto e del protagonista e la varietà dei casi, per la fusione di verosimile e di fantastico, l’ideale cinquecentesco teorizzato dallo Scaligero e dal Castelvetro, così più tardi non resistette al gusto dell’incondito e dello spontaneo, anche se permane, certo, equivocamente efficace in essa la romanticità dei personaggi e la fumosa atmosfera di numerosi momenti. Tutto ciò prova l’estrema difficoltà dell’interpretazione di Virgilio, risalente fino agli antichi equivoci della sua poesia. Non si tratta di ricchezza o varietà o polimorfismo, ma della natura stessa della sua anima e della singolarità delle sue esperienze: un danno che non subisce più Omero, una volta ben definito storicamente, o Dante.
In Inghilterra i rapporti sono più articolati e precisi, e più intimi, soprattutto poetici. La versione di Dryden (1697) trascende la squisitezza di un’interpretazione geniale o l’interesse dell’incontro tra due artisti per molti riguardi diversi109: è, con certi aspetti più riposti dell’anima britannica, la maggior responsabile del culto anglosassone per il poeta latino, così chiaro anche solo dalla bibliografia virgiliana110: e dunque incomparabile per questo con la traduzione italiana del Caro (1581), che pure è un fantasioso capolavoro111. Solo tra Sette e Ottocento anche nelle isole britanniche Virgilio subì un’eclissi, al rifluire dell’epica primitiva d’ogni paese ed età: il disprezzo anche umano di Coleridge e di Byron («harmonious plagiary and miserable flatterer») sembra però troppo rude per essere sincero. L’età vittoriana riabilita subito il soave cantore dell’impero, che Tennyson vede «maestoso nella tua mestizia davanti all’incerta sentenza del genere umano»112.
L’Italia ottocentesca giunge dopo la rinnovata Arcadia del Sei e del Settecento e la traduzione dell’Eneide (1804), ma anche dopo le predilezioni, alla fin fine, del «cavalier d’Omero» Vittorio Alfieri, il successo del Monti e le esercitazioni sull’Iliade del Foscolo. Così il Leopardi, se non manca di tradurre il secondo libro dell’Eneide (1817), ammira pur sempre e assai più la geniale vigoria dell’epico greco113. E così, oltre certe simpatie soprattutto agresti del Carducci, il solo monumento italico eretto al poeta romano nell’Ottocento è il Virgilio nel Medio Evo di Domenico Comparetti (1872): il commento pascoliano all’Eneide (1897) oggi riesce poco meno che urtante. Nell’orgia celebrativa degli anni ’30, in cui toccò al poeta anche la sorte di corroborare il regime con l’infausta coincidenza del bimillenario della nascita, hanno riconosciuto valore internazionale l’edizione del Sabbadini, gli studi del Funaioli e del Rostagni.
4. Poche altre parole sulla traduzione. Un primo impegno fu posto nell’individuare l’esatto senso della parola del poeta, umile scalino oltre il quale una versione in prosa difficilmente riesce a salire, ma su cui si collocano proprio la sua caratteristica e la sua funzione; e proposito doveroso in ogni caso per orientare la lettura di un originale a fronte.
Ma già l’incontro con uno splendido squarcio di Dryden nella sua Dedication to the Aeneis mi aveva fatto riflettere su un altro dato ovvio e generale, lì particolarmente sottolineato per Virgilio: «Virgilio, che mai tentò il verso lirico, è ovunque elegante, dolce e fluente nei suoi esametri. Non solo le sue parole sono scelte, ma anche i punti dove le colloca per i suoni: chi le rimuove dalla sede ove il loro signore le ha collocate, rompe l’armonia. Quanto egli dice delle profezie della Sibilla, può essere con altrettanta proprietà applicato a ognuna delle sue parole: esse devono venir lette nell’ordine in cui giacciono, il più lieve sospiro le scompone e qualcosa della loro divinità va perduta». Poi venne la lettura della recente traduzione francese dell’Eneide di Pierre Klossowski114, ove questo impegno è spinto alle più inopinate conseguenze115, ma che poteva costituire un precedente interessante in questa direzione, e in cui ho infatti raccolto delle soluzioni notevoli116. Si capisce che il senso immediato della frase virgiliana viene ad essere più occultato o frenato; ma in fin dei conti siamo davanti a poesia, di grande lirico, in cui il racconto in sé ovviamente interessa poco più che poco; e il rallentamento della lettura di questa prosa non sarà maggiore di quello, ricercato e utile, di qualsiasi esperto lettore di poesia. Al di qua dello sforzo e degli adattamenti versificatori, il metodo mira insomma a salvare come elementi essenziali di ogni scrittura, ma soprattutto poetica, i significati dell’espressione, con le sue disposizioni e suoni delle parole, strutture sintattiche, strato linguistico, costruzione del verso, enjambements, eccetera. Tutto va perso nella versione di un testo poetico e per Virgilio basterebbe la perdita dei suoi suoni a rendere inadeguata qualsiasi traduzione117 – e i nostri risultati alla fine possono riuscire, per il diverso e disperato atteggiamento delle due lingue, soprattutto più duri della meravigliosa fluidità dell’originale. Ma qualcos’altro forse qui si è salvato, con una scelta delle più gravose per il lettore, però probabilmente delle più remunerative.
Commentare Virgilio, infine, è oggi gradevole e scoraggiante. Si cammina su strade battute, occorre solo la conoscenza della loro irraggiungibile ampiezza e la cautela ai passi falsi o viziosi. D’altro canto, dopo molti problemi esegetici già risolti, altri di nuovi ne sorgono, mentre si scopre di rado una soluzione più felice delle precedenti che lascino insoddisfatti. Avrei voluto poter dire di più, e insieme che le mie note non si fossero gonfiate, come diceva già Cerda118, grazie alla fatica altrui; ma sarebbe stato irragionevole oltreché impossibile non servirsi dell’interpretazione maturata in venti secoli, per mettere in grado il lettore di comprendere bastantemente il testo che ha dinnanzi e qualche volta di rendersi conto della sua complessità o di conoscere l’amore e l’acume della catena dei suoi esegeti. Mi pare sufficiente aver riconosciuto nei punti salienti i vari meriti e le fonti119.
Un impegno di forze modeste davanti ai fortunati che per un’intera vita non seppero staccarsi da Virgilio; ma un còmpito invidiabile, se è vero che in Virgilio si trova, come disse Sainte-Beuve120, presagito in un’ora decisiva del mondo, tutto ciò che noi amiamo.
1. Ediz. critica recente di C. HARDIE, Oxford, 1957.
2. A. ROSTAGNI, in SVETONIO, De poetis, Torino, 1944, p. 68. Ben diversa però l’opinione di altri studiosi sull’estensione delle riprese di Donato da Servio: cfr. soprattutto E. PARATORE, Una nuova ricostruzione del «De poetis» di Svetonio, Bari, 1946 (Roma, 19502), per il quale le testimonianze biografiche virgiliane si stratificarono nelle Vite con un «processo degenerativo» durante i primi secoli dopo Cristo. Quanto al valore storico della «tradizione suetoniana», il Büchner (Virgilio, trad. it. Brescia, 1963, p. 30) afferma che «deve essere considerata a tale effetto senza sfiducia».
3. Assai poco scettico anche qui il ROSTAGNI, op. cit., pp. 159-161.
4. Altre Vite di minor conto sia per l’età sia per l’entità delle notizie che tramandano, si trovano nelle edizioni delle Vitae Vergilianae di E. DIEHL, Bonn, 1911, e di H. J. BRUMMER, Leipzig, 1912.
5. Sono raccolti nell’edizione virgiliana del Sabbadini, Roma, 1930, vol. I, pp. 1-18.
6. Pp. 32 sg. del Hardie.
7. DONATO, r. 7 Hardie; PROBO, r. 3 Hardie. È riconosciuto normalmente in Pietole, 5 km a sud-est di Mantova, che soprattutto risponde al paesaggio delle egloghe autobiografiche prima e nona: cfr. B. NARDI, Mantuanitas Vergiliana, Roma, 1963, pp. 69-148, ov’è anche un’ampia storia della questione. I codici della Vita probiana indicano la distanza da Mantova in 30 miglia, l’ediz. di Venezia del 1507 in 3; Donato ha «non lontano»; anche su questo cfr. B. NARDI, op. cit., pp. 45-65.
8. DONATO, rr. 6 sg.; PROBO, rr. 1 sg.
9. PROBO, r. 2; SERVIO, r. 4 Hardie: Polla; FOCA, v. II: Polla Magii non infima proles. Utile ma fragile, sulla famiglia di V., M. L. GORDON, The Family of Vergil, «Journ. of Rom. Stud.», 1934, pp. 1-12.
10. DONATO, rr. 2-5.
11. DONATO, rr. 45-48. La madre sarebbe sopravvissuta qualche poco anche al secondo figlio (Scholia Bernensia, ad Buc. 5, 22; FILARGIRIO, ivi); e la morte di Flacco deve coincidere con la composizione della quinta egloga (che è tra le prime, del 42 a. C.), se si poteva pensare (cfr. SERVIO DANIELINO, ad Buc. 5, prooem.; FILARGIRIO, loc. cit.) che in Dafnide V. avesse pianto il fratello.
12. Cfr. nota 53.
13. DONATO, rr. 11-13.
14. DONATO, rr. 25-28; cfr. r. 95.
15. DONATO, rr. 29-36. Ciò non toglie che fosse un incontinente in materia (cfr. SERVIO, r. 9).
16. DONATO, rr. 37 sg.; SERVIO, rr. 7 sg. Ma cfr. F. HORNSTEIN, Vergilius Παρϑευίας «Wien. Stud.», 1957, pp. 148-152: Παρϑευίας è la traduzione greca dei Napoletani per Vergilius.
17. DONATO, rr. 38-41; cfr. nota 40.
18. DONATO, rr. 51-53; cfr. SENECA RETORE, Controv. III, prooem. 8.
19. DONATO, rr. 97-102.
20. Intorno ai 12 anni, secondo GEROLAMO, Chron. a. 59 a. C.
21. Donato (r. 22) pone il fatto nel diciassettesimo anno (53 a. C.); ma dà poi per esso i nomi degli stessi consoli dell’anno della nascita (secondo consolato di Pompeo e di Crasso, del 55). Probabilmente la seconda indicazione, più circostanziata, è preferibile (ma la tradizione manoscritta sul primo punto è del tutto concorde, e cfr. GEROLAMO, Chron. a. 53: mi riesce incomprensibile perciò C. HARDIE, op. cit., praef., p. XIII, che pure giustamente conserva l’errore di Donato [XVII] nella Vita). L’errore è viceversa per altri nell’indicazione dell’anno consolare, introdotto per il solo gusto, alessandrino, di stabilire delle coincidenze curiose; e qui subito dopo se ne stabilisce una seconda con la morte di Lucrezio (la cui data è per altro incerta, vista la ben nota incertezza dell’anno della sua nascita in Gerolamo). Perciò il Rostagni espunge come interpolato il riferimento ai consoli del 55; per E. PARATORE, op. cit., pp. 232-247, il falso sincronismo è dovuto a Donato indipendentemente da Svetonio.
La data normale per l’assunzione della toga virile da parte di un cittadino romano (ma V. allora forse non lo era ancora: cfr. nota 25) era al compimento dei quindici anni.
22. DONATO, rr. 24 sg.; SERVIO, r. 6.
23. DONATO, r. 25; GEROLAMO, Chron. a. 53.
24. Avrebbe frequentato a Roma la scuola del retore Epidio, ove avrebbe avuto come condiscepoli Antonio e Ottaviano (per cui cfr. SUETONIO, De rhetor. 4). La notizia della Vita Bernensis è da ritenere una supposizione insostenibile (Ottaviano aveva sette anni meno di V. Cfr. E. PARATORE, op. cit., pp. 129-133; nessun dubbio in A. ROSTAGNI, op. cit., p. 75). In Probo (rr. 4 sg.) i suoi sono detti summi eloquentiae doctores.
25. Cfr. K. BÜCHNER, op. cit., pp. 33 sg. Sia V. che suo padre erano cittadini romani o per lo meno lo divennero nel 49, anno in cui, nel gennaio, i Transpadani ottennero il diritto di cittadinanza. Sull’origine romana e non celtica né etrusca di V. cfr. T. FRANK, Virgilio. L’uomo e il poeta, trad. it. Lanciano, 1930, p. 6; sulle condizioni agiate della famiglia, pp. 8-10.
26. Non trattò che una sola causa in tribunale, e dopo quella volta smise (cfr. DONATO, rr. 50 sg.).
27. Catalept. 5, I, 4 sg., 8-10, 14; il componimento, della cui autenticità non si suole dubitare, è necessariamente anteriore di parecchio tempo al 42 (cfr. K. BÜCHNER. op, cit., pp. 37. 76 sg.). Cfr. SERVIO, ad Aen. VI, 264.
28. DONATO, rr. 49 sg.
29. Cfr. Ad fam. VI, 11, 2; Academ. II, 106; De fin. II, 35, 119. Compagno di V. sarebbe allora stato (cfr. SERVIO, ad Buc. 6, 13) Varo, probabilmente il Publio Alfeno Varo delle egloghe sesta e nona.
30. Cfr. DONATO, rr. 39, 44 sg., ove pure si parla di un secessus, frequentemente utilizzato, in Sicilia. Nel viaggio a Brindisi narrato nella satira quinta del primo libro di Orazio, V. si unisce alla comitiva a Sinuessa (cfr. vv. 40 sg.).
31. Cfr. Catalept. 8.
32. Questa la ricostruzione dei fatti, pur non del tutto soddisfacente né chiara, ma meno insicura, sulla base dei dati storici e delle notizie confuse delle fonti: DONATO, rr. 69-72; SERVIO, rr. 16-23; PROBO, rr. 6-8; FOCA, vv. 68-93 (per quel che valgono), dei dati interni delle egloghe prima e nona e dei relativi commenti, soprattutto di Servio D. Di un intervento anche di Mecenate, per ingarbugliare ancor più la matassa, parla più avanti Donato (rr. 73-76). Discussione e ricostruzione in K. BÜCHNER, op. cit., pp. 40-47; cfr. anche più avanti le note iniziali alle due egloghe.
33. DONATO, rr. 53-57; SERVIO, rr. 10-13; FOCA, vv. 41-59. Il maestro sarebbe stato lapidato, secondo Donato e Foca, per i suoi infami ladrocini, e V. ne avrebbe scritto l’epitaffio. Ma mi sembra senz’altro da accettare l’interpretazione satirica del Rostagni (op. cit., pp. 81 sg.; cfr. anche E. PARATORE, op. cit., pp. 222 sg.), del resto già avvertibile in Servio: di uno scherzo costruito sul nome dell’esoso Ballista (= Lanciasassi).
34. DONATO, rr. 58-67; SERVIO, rr. 14 sg. Per Ciris e Culex, Donato (r. 59) fissa l’età del poeta a ventisei anni (correzione dello Scaligero al falso XVI o XVII dei codici; Rostagni patrocina XXI).
35. Un’intera letteratura critica è fiorita intorno a queste composizioni, nel tentativo di distinguerne le parti genuine e le spurie. Non esistette per un’ottantina d’anni dopo la morte del poeta alcun corpus riconosciuto, e le attribuzioni crescono col passare del tempo, fino all’estensione massima in cataloghi e codici medioevali. L’ultima edizione critica completa è quella di W. V. CLAUSEN, F. R. D. GOODYEAR, E. J. KENNEY, J. A. RICHMOND, Oxford, 1966; da vedere anche l’edizione di R. GIOMINI, Firenze, 1953, e di A. SALVATORE, Torino, 1957-60; e l’esame, fin troppo lungo nell’economia del suo lavoro, che all’Appendix dedica il Büchner (op. cit., pp. 61-208), per giungere a salvare i due soli brevi carmi dei Catalepton già citati alle note 27 e 31. Sulla loro base invece si fonda la ricostruzione della gioventù e della formazione poetica di V. ad opera di T. FRANK, Virgilio. L’uomo e il poeta cit. (l’ediz. originale è del ’22). Ne è pubblicata la traduzione in questa stessa collezione dei «Classici latini» UTET, a cura di V. CIAFFI, Torino, 1951.
36. DONATO, rr. 67-72, 91; SERVIO, rr. 24 sg.; PROBO, rr. 12 sg.; FOCA, vv. 94-96; VIRGILIO, Buc. 6, 3-8, col commento di Servio (un preludio dell’Eneide). Anche queste date non sono del tutto sicure.
37. ORAZIO, Serm. I, 6, 54 sg.; cfr. poi Carm. I, 3; 24. L’episodio, dei primi mesi del 38 (cfr. Serm. II, 6, 40-42), costituisce il sicuro terminus ante quem dell’incontro di V. con Mecenate.
38. R. 25; 26 sg.
39. IV, 563 sg.
40. Cfr. TACITO, Dial. de orat. 13, 1 sg.; cfr. nota 17.
41. DONATO, rr. 93-98.
42. Qui il termine esterno più sicuro è la corrispondenza tenuta con Augusto durante la spedizione cantabrica (27-25), in cui l’imperatore richiedeva in visione i versi composti del poema (cfr. MACROBIO, Saturn. I, 24, 11; DONATO, rr. 107-110); cfr. poi PROPERZIO II, 34 B, 66, dell’anno 26, con l’annuncio che «sta nascendo» un poema forse più grande dell’Iliade.
43. DONATO, rr. 81-84.
44. Cfr. MACROBIO, Saturn., ivi.
45. DONATO, rr. 85-87.
46. Cfr. TACITO, Dial. de orat. 13, 1 cit.
47. DONATO, rr. 115-117.
48. L’episodio deve porsi nella prima metà del 22: Marcello morì sul finire del 23, e Augusto lasciò nuovamente Roma per l’Oriente (cfr. Aen. VI, 798-800) nel settembre del 22. Servio nel suo commento parla piuttosto dei libri III e IV (ad Aen. IV, 323) o III, IV, VI (VI, 861); ma il VI doveva essere certamente tra i letti (cfr. più oltre, lib. VI, nota 85), e il III è quello tuttora più incerto dell’intera opera, per cui la testimonianza di Donato pare la più sicura: II, IV e VI sono probabilmente i migliori fra tutti.
49. DONATO, rr. 91 sg.; SERVIO, r. 28.
50. DONATO, rr. 126-129; per l’età, cfr. poi l’anno della morte. Di un primo viaggio ad Atene, o di un progetto almeno, si ha testimonianza in ORAZIO, Carm. I, 3, libro pubblicato nel 23; ma non se ne trova cenno nelle fonti biografiche.
51. DONATO, rr. 130-135; PROBO, rr. 16 sg.
52. DONATO, rr. 136-140; PROBO, rr. 18-21.
53. DONATO, rr. 141-143; PROBO, rr. 17 sg.
54. DONATO, rr. 42-44; AULO GELLIO VI, 20, 1; cfr. SERVIO, ad Aen. VI, 861; PROBO, r. 16; ORAZIO, Epist. II, 1, 246 sg. Furono in gran parte donativi dell’imperatore e di amici.
55. DONATO, rr. 144 sg., 153-173; SERVIO, rr. 28-31; PROBO, rr. 22 sg. Si parla addirittura del desiderio espresso da V. ancora in punto di morte, che il poema fosse bruciato, e si precisano le condizioni poste da Augusto ai due editori: ut superflua demerent, nihil adderent tamen (SERVIO); ut qui versus etiam inperfectos sicut erant reliquerit (DONATO). Gli editori, ricordava di aver udito dagli anziani un grammatico Niso, di età evidentemente tiberiana, avrebbero mutato l’ordine dei primi tre libri, facendo passare il III in testa al poema (così almeno interpretò il passo di Donato, rr. 165-167, emendandolo, il Reifferscheid [C. Suetoni Tranquilli reliquiae, Leipzig, 1860, pp. 64 sg.], e tolto i versi iniziali, Ille ego… horrentia Martis).
56. Cfr. 9, 5, 1-13.
57. Cfr. L. ALFONSI, in Epicurea in memoriam Hectoris Bignone, Genova, 1959, p. 169.
58. Cfr. G. K. GALINSKY, Vergil’s second Eclogue, «Class, et Med.», 1965, pp. 161-191, per cui nell’arrangiamento definitivo, già sulla soglia il primo e il secondo componimento ci dicono la forza e la debolezza del poeta di fronte alle cose. La resistenza del mondo poetico di Titiro (J. LIEGLE, Die Tityrusekloge, «Hermes», 1943, pp. 209-231) si rivela di estrema fragilità non direi nemmeno che si raggiunga un’armonia definitiva per intervento del dio (Ottaviano), e di Titiro per Melibeo, secondo che vuole il Fredericksmeyer («Hermes», 1966, pp. 208-218); del resto, come è stato ben detto (CH. P. SEGAL, «Amer, Journ. of Philol.», 1967, p. 300), caratteristico di V. bucolico è la mancata soluzione di questi conflitti, il senso e la presentazione della tensione della pesante verità. Per l’unitarietà della raccolta cfr. C. BECKER, Virgils Eklogenbuch, «Hermes», 1955, pp. 314-349.
59. Cfr. H. G. GOTOFF, On the fourth Eclogue of Virgil, «Philologus», 1967, pp. 66-79.
60. Cfr. G. JACHMANN, Die vierte Ekloge Vergils, «Ann. della Sc. Norm. Sup. di Pisa», 1952, pp. 60-62.
61. D. E. W. WORMELL in Virgil, ed. D. R. DUDLEY, London, 1969. pp. 23 sg.; L. P. WILKINSON, Virgil and the Evictions, «Hermes», 1966, p. 323.
62. J.-P. BRISSON, Virgile. Son temps et le nôtre, Paris, 1966, p. 216.
63. Cfr. E. W. LEACH, Nature and Art in Vergil’s second Eglogue, «Amer. Journ. of Philol.», 1966, pp. 443-445. Per la scoperta» dell’Arcadia, B. SNELL, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, trad. it. Torino, 1951, pp. 319-325 (soprattutto per noi, pp. 330-333), precisato da H. DAHLMANN, Vates, «Philologus», 1948, pp. 349-351; e G. JACHMANN, L’Arcadia come paesaggio bucolico, «Maia», 1952, pp. 161-174.
64. Chi ha spinto l’interpretazione dell’intera poesia virgiliana come un autentico tradimento della vocazione poetica di V. fino all’assurdo di condannarla e di rimpiangere invece il lirico mancato, è B. G. NIEBUHR (cfr. K. BÜCHNER, op. cit., p. 563). Introspezione dell’infedeltà a una missione mistica è Der Tod des Vergil di Hermann Broch.
65. Cfr., per l’interpretazione, C. G. HARDIE, The tenth Eclogue, «Proceed. of the Virg. Soc.», 1966-67, pp. 1-11.
66. P. VALÉRY, nelle Variations premesse alla sua versione delle Bucoliche, Paris, 1956, p. 36.
67. Come mutino le prospettive critiche, anche nel giro di pochi decenni, si vede dall’impostazione data a questo soggetto dal vecchio FRANK, op. cit., pp. 181-184, e, diciamo, il BRISSON, op. cit., pp. 11 sg.
68. Cfr. T. S. ELIOT, Sulla poesia e sui poeti, trad. it. Milano, 1960, p. 139.
69. Cfr. L. P. WILKINSON, The Georgics of Virgil, Cambridge, 1969, pp. 14-63: è stato calcolato che un verso delle Georgiche su dodici contiene un’eco conscia o inconscia di Lucrezio; e già The Intention of Virgil’s Georgics, «Gr. and Rome», 1950, pp. 19-28.
70. Non vorrei perdermi sulle metafore musicali come B. Otis, col pericolo di giungere alle sue facili goffaggini (cfr. Virgil, Oxford, 1964, p. 151); ma l’elemento musicale in tutta la sua complessità è così presente e operante nella poesia di V., soprattutto a partire dalle Georgiche, che non si può non specificarlo.
71. Così con molta finezza CH. SEGAL, Orpheus and the fourth Georgic, «Amer. Journ. of Philol.», 1966, pp. 307-325.
72. Cfr. A. LA PENNA, Virgilio e la crisi del mondo antico, in PUBLIO VIRGILIO MARONE, Tutte le opere, Firenze, 1966, pp. XXX sg.
73. V. accetta l’epicureismo fin dove non urta la sua fede, ed esso trapasserà insensibilmente nella religiosità pitagorica: cfr. E. PARATORE, Spunti lucreziani nelle Georgiche, «At. e Roma», 1939, pp. 177-202; Virgilio, Firenze, 19613, pp. 105, 206, 337-351; P. BOYANCÉ, La religion de Virgile, Paris, 1963, p. 6; J. P. BRISSON, op. cit., pp. 217 sg. Una forte limitazione, comunque, dell’epicureismo virgiliano, nelle Bucoliche, si ha in A. LA PENNA, La seconda ecloga e la poesia bucolica di Virgilio, «Maia», 1963, pp. 484-492, e nella discussione della Hirtendichtung di PÖSCHL, ivi, 1965, pp. 350 sg.; per il periodo successivo, in B. FARRINGTON, Polemical Allusion to the De rerum natura of Lucretius in the Works of Vergil, in Γέρας. Studies presented to G. Thomson, Praha, 1963, pp. 87-94. Ma cfr. anche A. TRAINA, Si numquam fallit imago etc., «At. e Roma», 1965, p. 75. Fin troppo schematico L. ALFONSI, L’epicureismo nella storia spirituale di Vergilio cit., p. 178.
74. Cfr. G. WILLIAMS, Tradition and Originality in Roman Poetry, Oxford, 1968, pp. 737 sg. Cfr. nota 92.
75. Cfr. L. P. WILKINSON, The Georgics of Virgil cit., pp. 69 sg.
76. Cfr. F. KLINGNER, in L’influence grecque sur la poésie latine de Catulle à Ovide, Vandœuvres – Genève, 1956, pp. 141-144, con accento sugli antecedenti alessandrini.
77. Cfr. G. WILLIAMS, op. cit., p. 75.
78. Come procedesse il lavoro di V. sul materiale poetico e tradizionale, ha mostrato il Heinze in chiarissime pagine (Virgils epische Technik, Darmstadt, 19655, pp. 243-253): «möglichst viel Tradition, bis an das künsterlisch erlaubte Mass, und um das zu erreichen, auch Kombination aus verschiedenen Quellen; freie Ausgestaltung der Tradition, wo sie Lücken zeigt oder zu dürftig ist; beim neuen Stoff Bevorzugung des Mythischen, das überhaupt an die Tradition nur in seinen allgemeinen Formen, nicht in den eizelnen Szenen gebunden ist; Freiheit in der Anordnung und Kombination des Überlieferten, im übrigen Wiederspruch gegen die gesamte Tradition nur in äussersten Notfall» (p. 246). Il libro del Heinze ha fondato con sorprendente anticipazione (la prima edizione è del 1903) gli studi attuali, che vertonsoprattutto sulla composizione delle varie parti del poema e sulla sua struto tura: per tenersi ancora lontano dagli eccessi, dopo H. W. PRESCOTT, The Development of Virgil’s Art, Chicago, 1926, altro libro ancora nuovo, ma sulle orme di Heinze, V. PÖSCHL, Die Dichtkunst Vergils, Innsbruck, 1950; M. C. J. PUTNAM, The Poetry of the Aeneid, Cambridge Mass., 1965.
79. Cfr. anche qui, in un regno, spesso, di grandiose fantasie, le indicazioni di K. KERÉNYI, Das persische Millenium in Mahābhārata, bei der Sibylle und Virgil, «Klio», 1936, pp. 1-35.
80. Cfr. B. OTIS in Virgil, ed. D. R. DUDLEY cit., p. 65; G. KNAUER, Die Aeneis und Homer, Göttingen, 1964, pp. 357 sg.
81. K. NAWRATIL, Die Geschichtsphilosophie der Aeneis, «Wien. Stud.», 1939, pp. 113-128.
82. Nel tu regere imperio… (VI, 847-853) c’è l’affermazione di un primato della ragion pratica; d’un balzo è staccata indietro la pura coscienza estetica della Graecia capta di Orazio.
83. P. BOYANCÉ, op. cit., p. 70; analisi della pietas pp. 58-82. Giustamente il Boyancé avverte (pp. 14 sg.) che per V., come per ogni antico romano, dèi e patria, divinità e Stato sono entità inscindibili e i due sentimenti non sono indipendenti l’uno dall’altro. Per Orazio (Carm. I, 24, 11) è Virgilio frustra pius.
84. Cfr. ad esempio W. CLAUSEN, An Interpretation of the Aeneid, «Harvard Stud. in class. Philol.», 1964, pp. 139-147; R. D. WILLIAMS, The Purpose of the Aeneid, «Antichthon», 1967, pp. 29-41; J. PERRET, Optimisme et tragédie dans l’Énéide, «Rev. des ét. lat.», 1967, pp. 342-362; W. A. CAMPS, The Role of the sixth Book in the Aeneid, «Proceed. of the Virg. Soc.», 1967-68, pp. 22-30. Il Funaioli parlava («At. e Roma», 1941. pp. 7, 10, 16) di epopea tragica del dolore e del sacrificio (ora in Studi di letteratura antica, Bologna, 1947, pp. 260, 264, 273: «un eroe da epopea, che ha respiro di tragedia»).
85. Il termine è di Eliot, op. cit., p. 142. Durissimo anche il giudizio del Croce (Poesia antica e moderna, Bari, 19503, pp. 57 sg., 63), che si estende all’errore estetico di questo intrigo d’amore per un personaggio eroico.
86. G. KNAUER, op. cit., p. 357.
87. Il successo eccezionale di V. è la restaurazione dell’antica epica a una nuova esistenza «romana» (B. OTIS in Virgil, ed. D. R. DUDLEY cit., p. 65).
88. A questo punto l’etica epicurea è veramente dissolta: cfr. A. K. MICHELS, Lucretius and the sixth Book of the Aeneid, «Amer. Journ. of Philol.», 1944» pp. 135-148.
89. Cfr. F. SOLMSEN, Greek Ideas of the hereafter in Vergil’s Roman Epic, «Proceed. of the Amer. philol. Soc.», 1968, pp. 8-14: R. D. WILLIAMS, The sixth Book of the Aeneid, «Gr. and Rome», 1964, pp. 48-63.
90. Pp. XLIX, LXXXIII sg.
91. Il Higet ha calcolato (The Speeches of Vergil’s «Aeneis», Princeton, 1973), che il 46.75% dei versi dell’Eneide sono orazioni o discorsi diretti; alcuni degli squarci più importanti del poema (si pensi agli interi libri II-III, al IV e al VI) sono parlate.
92. Il Camps indica addirittura (An Introduction to Vergil’s Aeneid, Oxford, 1969, p. 136) un esaurimento generale dell’interesse dopo l’VIII libro, un anti-climax nei successivi, in cui il protagonista ha ormai raggiunto la terra promessa e ottenuto la garanzia della vittoria.
Certo, malgrado tutte le spiegazioni e le difese che se ne sono tentate, la parte non solo più bella, ma più significativa del poema lì è finita. Ogni discussione sull’unità tecnica dell’opera ci porta a notare dissonanze, incongruenze, fratture, piani diversi di composizione (a episodi, a libri, a blocchi di libri), a rilevare una maturazione progressiva dello stesso disegno generale; non si è mai messo in dubbio però, ch’io sappia, la ferma concezione filosofica che la regge dal principio alla fine e l’unità dell’ispirazione (cfr. R. ALLAIN, Quelques aspects de l’unité de l’Énéide, «Les étud. class.», 1946, pp. 151-173) Lo sforzo più acuto per mostrare l’unità anche compositiva dell’Eneide è stato compiuto, si sa, dal Heinze nel suo classico libro (parte II, cap. IV); ma proprio il paragone, negativo, da lui impostato con le Argonautiche (pp. 436 sg.), non so se non giovi alla tesi del Camps, quando si avverta che alla fine dell’VIII la «Beseitigung des letzten Hinderniss, das der definitiven Ansiedelung [der Troer in Latium] im Wege stand: der Tod des Turnus» è solo più una curiosità romanzesca per il comportamento di quelli che il Camps chiama «the misguided but sincere resisters».
93. Cfr. L. P. WILKINSON, The Language of Virgil and Horace, «Class. Quart.», 1959, pp. 181-192, per cui tutto questo rispondeva anche a un piano democratico di Augusto.
94. K. KERÉNYI, Vergil und Hölderlin, Zürich, 1957, p. 27.
95. Non mancò tuttavia il coro discordante del detractores, con cui si conclude la Vita Donati: un Numitorio scrisse una parodia delle Bucoliche, Carvilio Pittore una Frusta dell’Eneide; un Erennio raccolse I difetti di Virgilio, un Perellio Fausto i suoi Furti, come Quinto Ottavio Avito otto volumi di sue Copiature. Dell’ostilità dei due poeti Bavio e Mevio abbiamo testimonianza diretta nelle Bucoliche (3, 90). Più tardi Asconio Pediano scriverà un Contra obtrectatores Vergilii. Esposizione completa dei dati della fortuna di V. fino ad Adriano in K. BÜCHNER, op. cit., pp. 537-545; molto ricche anche le pagine successive, per la fine dell’impero e il Medio Evo.
96. Serm. I, 5, 40-44; 6, 54 sg.; 10, 44 sg., 81-83; Carm. I, 3; 24; vi sono inoltre in Orazio sensibili echi virgiliani (cfr. ad es. III, 3; si discute sui rapporti cronologici tra la quarta egloga e il sedicesimo epodo). Ma si può anche cogliere in Orazio la sorpresa o lo sconcerto romano per la stravaganza di quello spirito.
97. II, 34 B, 66 cit.
98. Metam. XIII, 623-968; XIV, 1-608. Metamorfosi e Fasti sono in linea, a loro modo, con l’Eneide e le Georgiche. Cfr. anche Ars am. III, 337.
99. Cfr. in De agricultura X, praef. 3 il richiamo a Georg. IV, 119. Analogamente Plinio, altro grande ammiratore e seguace di V.
100. W. F. J. KNIGHT, Virgilio, trad. it. Milano, 1949, p. 440; tutto il capitolo Virgilio e dopo, è acuto e godibile.
101. Conf. I, 13, 20 sg.
102. I Saturnalia di Macrobio dibattono V., che diventa una vera enciclopedia, durante i banchetti di carnevale; ma cfr. già GIOVENALE 6, 434-437.
103. Ce n’è traccia persino in un’intera lettera di Francesco Petrarca (a Federico Aretino, Sen. IV, 5).
104. Per Costantino cfr. A. KURFESS, Ad versionem Graecam Eclogae IV Virgilii, «Philol. Wochenschr.», 1934, p. 1247; per Giuliano, F. PRÉCHAC, Un dossier de la IVe églogue, «Rev. des ét. lat.», 1936, pp. 48-50. Per i cristiani. P. COURCELLE, Les exégèses chrétiennes de la IVe Églogue, «Rev. des étud anc.», 1957, pp. 294-319. La prima interpretazione cristologica della quarta egloga è in LATTANZIO, Div. inst. VII, 24, 11; la prima lettura allegorica cristiana dell’Eneide nella Virgiliana continentia di Fulgenzio Planciade, mitologo africano del V secolo.
105. Cfr. P. COURCELLE, Interprétations néoplatonisantes du livre VIe de l’Énéide, in Recherches sur la tradition platonicienne, Vandœuvres – Genève, 1957, pp. 93-136.
106. Tra le «chiare donne» del Boccaccio entrano anche Camilla e Lavinia (XXXIX, XLI sg.).
107. Ciò non impediva al loro creatore di divertirsi alle spalle del maestro latino leggendo il rude scherzo del Virgile travesti, parodia dei primi otto canti dell’Eneide composta da Scarron tra il 1648 e il 1659. Analogo esperimento aveva fatto in Italia, con assai meno spirito, Giambattista Lalli nel 1633, e non ne mancano anche in altre lingue.
108. Cfr. l’ultimo capitolo, assai brillante, dell’Étude di Sainte-Beuve, fino a Chateaubriand.
109. Per l’influsso del contatto virgiliano sulla poesia stessa di Dryden cfr. R. A. BROWER, Dryden’s poetic Diction and Virgil, «Philol. Quart.», 1939, pp. 210-217.
110. I Tedeschi accusano apertamente la loro scarsa simpatia per V., che si rifletterebbe nei loro stessi studi (cfr. R. BORCHARDT, saggio e orazione bimillenaria su V., ora in Scritti italiani e italici, Milano-Napoli, 1971, pp. 79, 93-95; K. BÜCHNER, op. cit., pp. 560-564). Se Schiller traduce il secondo e il quarto libro dell’Eneide, nello stesso Laokoon di Lessing i giudizi sono negativi nel paragone con Omero (cfr. trad. it. Firenze, 1954, pp. 116-119), né Goethe sentì il poeta latino in alcun modo.
111. Tra gli altri, più spesso parziali, volgarizzamenti italiani dell’Eneide nel Rinascimento, sono da ricordare quelli di Giampaolo di Meo (é il primo completo dell’Eneide, sec. XV, pubblicato nel 1858), di Ludovico Dolce (1567-68) e di Ercole Udine (1597). Per le Bucoliche, fortunatissima, dopo quella di Bernardo Pulci (1482), la versione di A. Lori (1553) e più tardi celebre quella dell’Arici (1822); le Georgiche, che nel Cinquecento ispirarono la Coltivazione dell’Alamanni e le Api del Rucellai, furono allora tradotte da Antonio Mario Nigresoli (1543) con successo ben presto oscurato da quello di Bernardo Daniello (1549). assai più duraturo, almeno fino all’Arici (1818).
112. Per questi appunti cfr. R. D. WILLIAMS in Virgil, ed. D. R. DUDLEY cit., pp. 119-138.
113. Per l’atteggiamento critico del Leopardi verso Virgilio, soprattutto a paragone con Omero, cfr. le pagine dello Zibaldone in Lo studio dell’antichità classica nell’Ottocento, a cura di P. TREVES, Milano-Napoli, 1952, pp. 512-533, con la nota iniziale dello stesso Treves.
114. Ed. Gallimard, Paris, 1964. Due accademici si erano appena cimentati, senza molta convinzione, con le Bucoliche: P. VALÉRY, cit., e M. PAGNOL, ivi 1958.
115. Fu oggetto di dure critiche: cfr. J. P. BRISSON, op. cit., p. 391: ma nell’analisi, per esempio, di Aen. IV, 6 sg. (p. 336) lo stesso autore sostiene la necessità di mantenere la struttura sostanziale di certi periodi poetici. Indico i semplicissimi esempi, meno ovvi e vistosi che le solite prolessi enfatiche, dell’alterare la posizione dei verbi inrigat e surgit a Aen. III, 511, 513. Non si può per altro negare che il testo di Klossowski riesca spesso goffo e trasformi V. in un rude primitivo: a non dire dei granchi talora divertenti che vi sono disseminati.
116. Cito per tutte la differenziazione semantica e ponderale di atque rispetto a et.
117. Mi pare fine quanto scrive rapidamente, esemplificando, R. BORCHARDT, op. cit., pp. 103 sg.
118. A Aen. X, 361 (cfr. G. KNAUER, op. cit., p. 85).
119. Cosa che molti e dei più stimati commentatori moderni, e viventi, non sempre fanno: parlo soprattutto degli italiani, potrei dare delle indicazioni scandalose. Al di fuori di qui, anche, cfr. G. KNAUER, op. cit., p. 36, nota 1; disinvolte riprese di SCHANZ-HOSIUS nello stesso P. Vergilius Maro di Büchner.
120. Op. cit., trad. it. Bari, 1939, p. 3.