Nell’ambito del discorso sulla disabilità un capitolo a parte è quello dei soggetti affetti da patologie psichiatriche, sia per l’impegno che la follia determina nella società, sia per le problematiche della presa in carico.
Tali malattie, infatti, compromettono fin dall’inizio il livello relazionale dell’individuo e necessitano di interventi in cui momento terapeutico e riabilitativo siano intimamente connessi e tengano conto del sistema di relazioni, oltre che delle comunicazioni disfunzionali.
La fine dei manicomi, volta a restituire dignità al malato psichico e a ridare valore al particolare “essere nel mondo” di ogni individuo, condivisa dalla maggioranza degli operatori sociali, ha deluso le aspettative di chi pensava a un radicale cambiamento dell’assistenza psichiatrica, in quanto i problemi posti sono stati di una rilevanza tale da togliere il fiato.
Non essendosi create strutture intermedie e interventi alternativi adeguati alle situazioni, il “matto” è uscito allo scoperto e vive in disarmonia con le regole codificate della società, generando conflittualità: la famiglia si trova, inoltre, spesso sola ad affrontare situazioni superiori alle sue possibilità.
Le forme di assistenza al malato si sono modificate e sono sorti servizi psichiatrici, day hospital, DSM, assistenza domiciliare, comunità, case famiglia, in un numero non sufficiente alle reali necessità e non adeguate ai bisogni.
Rispetto alla malattia mentale ancora oggi ci sonno molti pregiudizi: si ha paura di un qualcosa che non si conosce. Ci poniamo il problema di capire chi è il malato psichiatrico, la cui esistenza scuote le nostre coscienze e fa pensare alla fragilità dell’uomo e alla sua anima.
La follia è qualcosa che affascina e impaurisce: l’etiologia di tali disturbi non è ancora chiara e rispetto alle terapie e agli interventi molto è stato fatto, ma non è stato risolutivo rispetto alla eclatante o silente sintomatologia.
Tale realtà fa presa sull’immaginario collettivo, sulla psicologia profonda della gente che continua a incrementare fantasie di emarginazione-espulsione più che di tolleranza. Il rapporto con la follia è il rapporto con l’abisso che c’è dentro di noi ed è un’esperienza di impatto emotivo molto forte da cui si esce mentalmente cambiati. La relazione con lo psicotico è un qualcosa di peculiare e chiama direttamente in causa l’operatore, mettendo in crisi la sua professionalità e in gioco aspetti della sua personalità.
Ci si trova di fronte a una rivendicazione costante della propria individualità e, dunque, non c’è bisogno di un rapporto di dipendenza, ma di uno stare assieme rispettando l’autonomia della persona, cercando di attuare ciò che è a essa funzionale, senza indulgere a un controllo sociale delle stranezze dell’individuo.
Ciò implica porre attenzione alla qualità del rapporto e alla modalità di creazione dello stesso. Non ci si può rapportare sulla base dell’affettività, almeno in fase iniziale, perché certe emozioni e sentimenti non vengono ri-conosciuti dallo psicotico, per il fatto talora di non averli mai sperimentati.
La continuità è la chiave di volta per stabilire il rapporto e il condividere esperienze continuative, e il mezzo per mantenerlo, creando una presenza significativa in un mondo di assenze.
È difficile entrare nel mondo dello psicotico, un mondo in cui l’altro assume caratteristiche particolari: tale incontro mette in atto dinamiche affettive profonde, di coinvolgimento, e attiva paure quale quella di essere in un certo qual modo risucchiati nelle loro fantasie, contaminati, nonché quella di non saper contenere l’angoscia derivante dall’incertezza, dal non conosciuto.
Il problema della relazione con lo psicotico è essenzialmente quello dell’angoscia: sensazioni di attesa, di impotenza e di vuoto sono sperimentate in tutta la loro drammaticità e talora dissolvono i primi mattoni costruiti assieme, la nostra non fiducia.
L’esposizione al rapporto con lo psicotico senza appigli a schemi preesistenti, o alle nozioni ricevute, ma talora piene di silenzi e di aggressività, è un’esperienza di angoscia cui si cerca di reagire o con il fare a tutti i costi, o con la fuga, l’immobilizzazione e la fissazione a un metodo, senza mai mettere in gioco se stessi, in cui lo psicotico si specchia.
La relazione con lo psicotico è spesso vissuta dall’operatore come disillusione di un’attesa e un angoscioso attendere quelle risposte nuove che per il fatto di essere difficilmente codificabili minacciano di destabilizzare la tranquillità interna dell’operatore e le sue certezze.
È una relazione difficile da contenere e cogliere, non gestibile.
Questo avviene perché mette in luce quanto di indicibile e di incoglibile c’è in ogni relazione umana. Differisce da ogni altra relazione proprio nella impossibilità, da parte dell’operatore, di non confrontarsi, di non coinvolgersi.
L’impatto è di confusione in quanto, sostengono alcuni, si slatentizza il terribile senso di confusione che è comunque presente in tutti noi.1
Il saper gestire il proprio coinvolgimento e le proprie emozioni è un aspetto fondamentale per lavorare con lo psicotico, per offrire un contenimento alle sue angosce senza essere sopraffatti dalle stesse.
1 A. Paolini, Relazione con lo psicotico e relazioni umane, in «Attualità in psicologia», vol. 5, n. 2, Edizioni Universitarie Romane, 1990.