Aspetti relazionali e psicologici del rapporto tra operatore socio sanitario e soggetti in situazione di handicap

La relazione fra soggetto in situazione di handicap e operatore socio sanitario è parte integrante dell’intervento riabilitativo e terapeutico. Ogni intervento, infatti, implica da un lato applicare metodologie e tecniche, dall’altro interagire con il soggetto e saper gestire le dinamiche del rapporto che si instaura. Tale rapporto chiama direttamente in causa l’operatore mettendo in gioco anche alcuni aspetti della sua personalità e le sue modalità relazionali.

La relazione tra operatori e disabili è del tutto particolare e si connota come “relazione di aiuto”. Essa è carica di aspettative e di motivazioni consapevoli e inconsce nei confronti del disabile, cosa che spesso può portare alla messa in atto di comportamenti non adeguati.

L’aspetto fondamentale di una relazione di aiuto nelle situazioni di riabilitazione e di assistenza è quello di configurarsi come non paritaria e talora unidirezionale, con l’incapacità di vedere il soggetto della riabilitazione come persona. Spesso, infatti, in tali situazioni, l’handicap diviene il tutto, e l’individuo nella sua totalità sembra non esistere.

Ogni rapporto di assistenza e riabilitazione è invaso dal mito del cambiamento, cioè dall’idea che l’utente debba necessariamente fornire dei risultati:4 cosa che spesso avviene a discapito dei bisogni vitali da sempre considerati dal punto di vista degli obiettivi da raggiungere.

Ciò si concretizza nel fare a tutti i costi, un fare che spesso è fine a se stesso, senza alcun rapporto reale con la persona disabile che è indotta a riceverlo passivamente, teso a colmare il vuoto di una relazione autentica che non viene mai instaurata.5 Pertanto il processo riabilitativo diviene un processo totalizzante, investendo ogni aspetto della vita e della personalità dell’utente: qualsiasi cosa egli faccia è passibile di intervento.

Si verifica a volte una confusione relativamente agli obiettivi che ci si propone di raggiungere, non consoni ai bisogni della persona in situazione di handicap ma anche, in alcuni casi, non adeguati alle sue capacità. Si mira a realizzare, infatti, un processo di normalizzazione frustrante sia per l’utente che per l’operatore.

L’utente si trova a sperimentare sia richieste eccessive con inevitabili insuccessi, sia richieste troppo basse che determinano nel disabile demotivazione e noia, in una continua oscillazione tra una irrealistica normalizzazione e una anacronistica infantilizzazione.

L’operatore, dal canto suo, ponendosi mete non raggiungibili si trova a vivere una continua disillusione e vede messo in scacco il proprio livello di autostima.

La mancanza dei risultati attesi può portare a una perdita di speranza relativamente al processo riabilitativo e può determinare una condizione di tipo depressivo, con perdita del senso delle proprie capacità, calo dell’autostima, scarsa immagine di sé che comporta talora un abbandono alla routine e una passività rinunciataria, soprattutto quando si ha a che fare con situazioni di cronicità.

Per evitare la sperimentazione di sentimenti di angoscia e impotenza vissuti come negativi, la complessa realtà dell’handicap viene semplificata attraverso il riconoscimento dei limiti dell’intervento e il minore coinvolgimento emotivo.

Il saper gestire nel giusto modo il proprio coinvolgimento è un aspetto di grande rilevanza nella relazione fra il soggetto disabile e l’operatore. Può verificarsi infatti, in casi estremi, l’identificazione simbiotica con i bisogni dell’utente che spinge a superare i limiti degli strumenti di lavoro giocandosi ampiamente sulla disponibilità personale.

In opposizione a ciò, il timore di essere troppo coinvolti in un lavoro difficile e frustrante e il desiderio di salvare il proprio valore portano talora l’operatore a cercare comportamenti distaccati freddi e rassicuranti. Quando l’operatore accetta, nell’ambito del rapporto professionale, di coinvolgersi e dunque di rapportarsi alla persona nella sua totalità, è costretto a mettere in discussione molte parti proprie, e poiché è faticoso, a volte tende a evitare questo coinvolgimento.

Il particolare ruolo dell’operatore socio sanitario presuppone, infatti, l’affrontare sentimenti personali altamente conflittuali e presuppone la capacità di immedesimarsi nella situazione dell’utente senza essere travolti, né allo stesso tempo troppo distanti.

Configurandosi nei termini già scritti, tale relazione può essere causa, se non gestita con strumenti adeguati, della sindrome di burn out.

Maslach6 indica, parlando di burn out, il percorso che porta molti operatori a esaurire l’entusiasmo per il proprio lavoro e a ridurre l’impegno fino al ritiro emotivo. Con tale termine si intende una sindrome da stress che può interessare gli operatori che si trovano a contatto con persone che hanno bisogno di aiuto.

Le manifestazioni del burn out investono sia aspetti cognitivi che comportamentali, determinando in primo luogo uno stato di esaurimento emotivo provocato da un eccessivo carico psicologico ed emozionale e in secondo luogo una tendenza a trattare l’utente come se fosse un oggetto.

La terza componente della sindrome è caratterizzata da sentimenti di scarsa realizzazione personale dovuta alla percezione da parte dell’operatore della propria inefficacia. Infatti, se le persone che si impegnano non ottengono risultati positivi in conseguenza del loro sforzo, sviluppano sintomi da stress e depressione e, pensando di non poter in nessun modo modificare lo stato delle cose, desistono dai tentativi.

Alla luce di quanto detto, appare chiara l’importanza di una adeguata formazione e di un adeguato supporto del personale che si relaziona con soggetti in situazione di handicap, talora impreparato a gestire il rapporto dal punto di vista emotivo.

C’è la necessità di acquisire non solo un sapere e un saper fare, ma soprattutto un saper essere, ovvero sapere interagire con strumenti adeguati, traducendo in comportamenti e atteggiamenti corretti il saper fare.

È importante trovare degli spazi adeguati per maturare una conoscenza di sé da cui partire per conoscere l’altro, evidenziando le possibilità e i limiti del proprio intervento.

Anche l’insegnamento si confronta con questo tipo di dinamiche, rientrando nelle helping professions, le quali richiedono coinvolgimenti emotivi che se mal gestiti possono mettere a rischio il benessere del personale e inficiare il lavoro con gli alunni.

La centralità della dimensione relazionale, in questo mestiere, così come la complessità delle dinamiche relazionali nelle classi, sempre più eterogenee e portatrici di bisogni speciali, necessitano di un lavoro di consapevolezza e formazione. Essere competenti emotivamente non solo previene il burn out, ma permette di riconoscere, comprendere e rispondere coerentemente alle emozioni egli altri.

Il burn out rappresenta una condizione di distacco emotivo e relazionale che è sempre più presente nelle classi nei confronti dell’handicap in una scuola che è rimasta sola ad affrontare sfide complesse, in cui gli operatori non hanno spazi di riflessione sui loro vissuti emotivi.

4 P. Collodi e D. Tolomei, Handicap, sindrome del burnout e alienazione sociale, in «Attualità in psicologia», vol. 4, n. 3, 1989.

5 Ibidem.

6 C. Maslach, La sindrome del burnout. Il prezzo dell’aiuto degli altri, Cittadella editrice, Assisi 1997.