I. Standomi innel palazzo del sopraditto cardinal di Ferrara 1, molto ben veduto universalmente da ogniuno, e molto maggiormente visitato che prima non ero fatto2, maravigliandosi ogni uomo più dello essere uscito e vivuto infra tanti ismisurati affanni; inmentre che io ripigliavo il fiato, ingegniandomi di ricordarmi dell’arte mia, presi grandissimo piacere di riscrivere questo soprascritto capitolo. Di poi, per meglio ripigliar le forze, presi per partito di andarmi a spasso all’aria3 qualche giorno, e con licenzia e cavagli4 del mio buon Cardinale, insieme con dua giovani romani, che uno era lavorante dell’arte mia; l’altro suo compagnio non era de l’arte, ma venne per tenermi compagnia. Uscito di Roma, me ne andai alla volta di Tagliacozze, pensando trovarvi Ascanio, allevato 5 mio sopraditto; e giunto in Tagliacozze, trovai Ascanio ditto insieme con suo padre e frategli e sorelle e matrigna. Da loro per dua giorni fu’ carezzato, che inpossibile saria il dirlo: partimmi per 6 alla volta di Roma, e meco ne menai Ascanio. Per la strada cominciammo a ragionare dell’arte, di modo che io mi struggevo di ritornare a Roma, per ricominciare le opere mie. Giunti che noi fummo a Roma, subito mi accomodai da 7 lavorare, e ritrovato un bacino d’argento, il quale avevo cominciato per il Cardinale innanzi che io fussi carcerato: insieme col ditto bacino si era cominciato un bellissimo boccaletto: questo mi fu rubato con molta quantità di altre cose di molto valore. Innel detto bacino facevo lavorare Pagolo sopraditto. Ancora ricominciai il boccale, il quale era composto di figurine tonde e di basso rilievo; e similmente era composto di figure tonde e di pesci di basso rilievo il detto bacino, tanto ricco e tanto bene accomodato, che ogniuno che lo vedeva restava maravigliato, sì per la forza del disegnio e per la invenzione e per la pulizia 8 che usavono quei giovani in su dette opere. Veniva il Cardinale ogni giorno almanco dua volte a starsi meco, insieme con messer Luigi Alamanni e con messer Gabbriel Cesano 9, e quivi per qualche ora si passava lietamente tempo. Non istante 10 che io avessi assai da fare, ancora mi abbundava di 11 nuove opere; e mi dette a fare il suo suggello pontificale, il quale fu di grandezza quanto una mana d’un fanciullo di dodici anni; e in esso suggello intagliai dua istoriette in cavo 12: ché l’una fu quando san Giovanni predicava nel diserto, l’altra quando sant’Ambruogio scacciava quelli Ariani 13; figurato in su ’n un cavallo con una sferza in mano, con tanto ardire e buon disegnio, e tanto pulitamente lavorato, che ogniuno diceva che io avevo passato quel gran Lautizio14 il quale faceva solo questa professione; e il Cardinale lo paragonava per propria boria con gli altri suggelli dei cardinali di Roma, quali erano quasi tutti di mano del sopraditto Lautizio.
II. Ancora m’aggiunse il Cardinale, insieme con quei dua sopra ditti, che io gli dovessi fare un modello d’una saliera; ma che arebbe voluto uscir dell’ordinario di quei che avean fatte saliere. Messer Luigi1,sopra questo, a proposito di questo sale2, disse molte mirabil cose; messer Gabbriello Cesano ancora lui in questo proposito disse cose bellissime. Il Cardinale, molto benignio ascoltatore e saddisfatto oltramodo delli disegni, che con parole aveano fatto questi dua gran virtuosi, voltosi a me disse: "Benvenuto mio, il disegnio di messer Luigi e quello di messer Gabbriello mi piacciono tanto, che io non saprei qual mi tòrre l’un de’ dua: però a te rimetto 3, che l’hai a mettere in opera". Allora io dissi: "Vedete, Signiori, di quanta inportanza sono i figliuoli de’ re e degli inperatori, e quel maraviglioso splendore e divinità che in loro apparisce. Niente di manco se voi dimandate un povero umile pastorello, a chi gli ha più amore e più affezione, o a quei detti figliuoli o ai sua, per cosa certa dirà d’avere più amore ai sua figliuoli. Però ancora io ho grande amore ai miei figliuoli, che di questa mia professione partorisco: sì che ’l primo che io vi mostrerrò, Monsignior reverendissimo mio patrone, sarà mia opera e mia invenzione: perché molte cose son belle da dire, che faccendole poi non s’accompagniano bene in opera 4". E voltomi a que’dua gran virtuosi5, dissi: "Voi avete detto e io farò". Messer Luigi Alamanni allora ridendo, con grandissima piacevolezza in mio favore aggiunse molte virtuose parole; e a lui s’avvenivano6 perché gli era bello d’aspetto e di proporzion di corpo, e con suave voce. Messer Gabbriello Cesano era tutto il rovescio, tanto brutto e tanto dispiacevole; e così sicondo la sua forma7 parlò. Aveva messer Luigi con le parole disegniato che io facessi una Venere con un Cupido, insieme con molte galanterie8, tutte a proposito; messer Gabbriello aveva disegniato che io facessi una Amfitrite moglie di Nettunno 9, insieme con di quei Tritoni 10 di Nettunno e molte altre cose assai belle da dire, ma non da fare. Io feci una forma ovata 11 di grandezza di più d’un mezzo braccio assai bene 12, quasi dua terzi, e sopra detta forma, sicondo che mostra il Mare abbracciarsi con la Terra, feci dua figure grande più d’un palmo assai bene, le quale stavano a sedere entrando colle gambe l’una nell’altra, sì come si vede certi rami di mare lunghi che entran nella terra; e in mano al mastio 13 Mare messi una nave ricchissimamente lavorata: in essa nave accomodatamente e bene stava di molto sale; sotto al detto avevo accomodato quei quattro cavalli marittimi; in nella destra del ditto Mare avevo messo il suo tridente. La Terra avevo fatta una femmina tanto di bella forma quanto io avevo potuto e saputo, bella e graziata 14; e in mano alla ditta avevo posto un tempio ricco e adorno, posato in terra; e lei in sun esso s’appoggiava con la ditta mano: questo avevo fatto per tenere il pepe. Nell’altra mano posto 15 un corno di dovizia 16, addorno con tutte le bellezze che io sapevo al mondo. Sotto questa iddea 17, e in quella parte che si mostrava esser terra 18, avevo accomodato tutti quei più bei animali che produce la terra. Sotto la parte del Mare avevo figurato tutta la bella sorte di pesci e chiocciolette, che comportar 19 poteva quel poco ispazio: quel resto20 de l’ovato, nella grossezza sua, feci molti ricchissimi ornamenti. Poi aspettato il Cardinale, qual venne con quelli dua virtuosi, trassi fuora questa mia opera di cera: alla21 quale con molto romore fu il primo 22 messer Gabbriel Cesano, e disse: "Questa è un’opera da non si finire innella vita di dieci uomini; e voi, Monsigniore reverendissimo, che la vorresti, a vita vostra 23 non l’aresti mai: però Benvenuto v’ha voluto mostrare de’ sua figliuoli, ma non dare24, come facevàno noi, i quali dicevamo di quelle cose che si potevano fare; e lui v’ha mostro 25 di quelle che non si posson fare". A questo messer Luigi Alamanni prese la parte mia. Il Cardinale disse che non voleva entrare in sì grande inpresa. Allora io mi volsi a loro, e dissi: "Monsigniore reverendissimo, e a voi pien di virtù, dico che questa opera io spero di farla a chi l’arà avere 26, e ciascun di voi la vedrete finita più ricca l’un cento 27 che ’l modello; e spero che ci avanzi ancora assai tempo da farne di quelle molto maggiori di questa". Il Cardinale disse isdegniato: "Non la faccendo al28 Re, dove io ti meno, non credo che ad altri la possa fare"; e mostratomi le lettere, dove il Re in un capitolo iscriveva che presto tornassi menando seco Benvenuto, io alzai le mane al cielo dicendo: "Oh quando verrà questo presto?" Il Cardinale disse che io dessi ordine e spedissi 29 le faccende mie, che io avevo in Roma, in fra dieci giorni.
III. Venuto il tempo della partita, mi donò un cavallo bello e buono; e lo domandava Tornon, perché il cardinal Tornon 1 l’aveva donato a lui. Ancora Pagolo e Ascanio, mia allevati, furno provisti di cavalcature. Il Cardinale divise la sua Corte, la quale era grandissima: una parte più nobile ne menò seco; con essa fece la via della Romagna, per andare a visitare la Madonna del Loreto, e di quivi poi a Ferrara, casa sua; l’altra parte dirizzò per la volta di Firenze. Questa era la maggior parte; ed era una gran quantità, con la bellezza della sua cavalleria. A me disse che se io volevo andar sicuro, che io andassi seco: quando che no 2, che io portavo pericolo della vita. Io detti intenzione 3 a sua Signoria reverendissima di andarmene seco; e così come4 quel ch’è ordinato dai cieli convien che sia, piacque a Dio che mi tornò in memoria la mia povera sorella carnale, la quale aveva auto tanti gran dispiaceri de’ miei gran mali. Ancora mi tornò in memoria le mie sorelle cugine, le quali erano a Viterbo monache, una badessa e l’altra camarlinga 5, tanto che l’eran governatrice di quel ricco monisterio; e avendo aùto per me tanti grevi affanni e per me fatto tante orazione, che io mi tenevo certissimo per le orazioni di quelle povere verginelle d’avere impetrato6 la grazia da Dio della mia salute. Però 7 venutemi tutte queste cose in memoria, mi volsi per la volta di Firenze; e dove8 io sarei andato franco di spese o col Cardinale o coll’altro suo traino 9, io me ne volsi andare da per me; e m’accompagniai con un maestro di oriuoli eccellentissimo, che si domandava maestro Cherubino 10, molto mio amico. Trovandoci a caso, facevamo quel viaggio molto piacevole insieme. Essendomi partito el lunedì santo 11 di Roma, ce ne venimmo soli noi tre, e a Monteruosi 12 trovai la ditta compagnia; e perché io avevo dato intenzione di andarmene col Cardinale, non pensavo che nissuno di quei miei nimici m’avessino aùto a vigilare 13 altrimenti. Certo che io capitavo male a Monteruosi, perché innanzi a noi era istato mandato una frotta di uomini bene armati, per farmi dispiacere; e volse Idio che inmentre che noi desinavamo, loro, che avevano aùto indizio che io me ne venivo sanza il traino del Cardinale, erano messisi in ordine per farmi male. In questo appunto sopraggiunse il detto traino del Cardinale, e con esso lietamente salvo me ne andai insino a Viterbo: ché da quivi in là io non vi conoscevo poi pericolo, e maggiormente 14 andavo innanzi sempre parecchi miglia; e quegli uomini migliori che erano in quel traino, tenevano molto, conto di me. Arrivai lo Iddio grazia 15 sano e salvo a Viterbo, e quivi mi fu fatto grandissime carezze da quelle mie sorelle e da tutto il monisterio.
IV. Partitomi di Viterbo con i sopraddetti, venimmo via cavalcando, quando innanzi e quando indietro al ditto traino del Cardinale, di modo che il giovedì santo a ventidua ore ci trovammo presso Siena a una posta 1; e veduto io che v’era alcune cavalle di ritorno, e che quei delle poste aspettavano di darle a qualche passeggiere, per qualche poco guadagnio, che alla posta di Siena le rimenassi; veduto questo, io dismontai del mio cavallo Tornon, e messi in su quella cavalla 2 il mio cucino 3 e le staffe, e detti un giulio a un di quei garzoni delle poste. Lasciato il mio cavallo a’ mie’ giovani che me lo conducessino, subito innanzi m’avviai per giugnere in Siena una mezz’ora prima, sì per vicitare 4 alcuno mio amico, e per fare qualche altra mia faccenda: però, se bene io venni presto, io non corsi 5 la detta cavalla. Giunto che io fui in Siena, presi le camere all’osteria, buone che ci faceva di bisogno per cinque persone, e per il 6 garzon de l’oste rimandai la detta cavalla alla posta, che stava fuori della porta a Camollìa; e in su detta cavalla m’avevo isdementicato 7 le mie staffe e il mio cucino. Passammo la sera del giovedì santo molto lietamente; la mattina poi, che fu il venerdì santo, io mi ricordai delle mie staffe e del mio cucino. Mandato per esso, quel maestro delle poste disse che non me lo voleva rendere, perché io avevo corso la sua cavalla. Più volte si mandò innanzi e indietro e il detto sempre diceva di non me le voler rendere, con molte ingiuriose e insopportabil parole; e l’oste, dove io ero alloggiato, mi disse: "Voi n’andate bene8 se egli non vi fa altro che non vi rendere il cucino e le staffe"; e aggiunse dicendo: "Sappiate che quello è il più bestial uomo che avessi mai questa città; e ha quivi duoi figliuoli, uomini soldati bravissimi, più bestiali di lui: sì che ricomperate quel che vi bisognia, e passate via sanza dirgli niente". Riconperai un paio di staffe, pur pensando con amorevol parole di riavere il mio buon cucino; e perché io ero molto bene a cavallo, e bene armato di giaco e maniche9, e con mirabile archibuso all’arcione, non mi faceva spavento quelle gran bestialità che colui diceva che aveva quella pazza bestia 10. Ancora avevo avezzo 11 quei mia giovani a portare giaco e maniche, e molto mi fidavo di quel giovane romano 12 che mi pareva che non se lo cavassi mai, mentre che noi stavamo in Roma. Ancora Ascanio, ch’era pur giovanetto, ancora lui lo 13 portava; e per essere il venerdì santo, mi pensavo che la pazzia de’ pazzi dovesse pure avere qualche poco di feria 14. Giugniemmo alla ditta porta a Camollìa: per la qual cosa io viddi e cogniobbi, per i contrasegni che m’eran dati, per esser cieco de l’occhio manco 15, questo maestro delle poste. Fattomigli incontro, e lasciato da banda quei mia giovani e quei compagni, piacevolmente dissi: "Maestro delle poste, se io vi fo sicuro che io non ho corso la vostra cavalla, perché non sarete voi contento di rendermi il mio cucino e le mie staffe?" A questo lui rispose veramente in quel modo pazzo, bestiale che m’era stato detto. Per la qual cosa io gli dissi: "Come non siate 16 voi cristiano? O volete voi ’n un venerdì santo scandalizzare e voi e me?" Disse che non gli dava noia 17 o venerdì santo o venerdì diavolo, e che, se io non mi gli levavo d’inanzi, con uno spuntone 18 che gli aveva preso, mi traboccherebbe 19 in terra insieme con quell’archibuso che io avevo in mano. A queste rigorose 20 parole s’accostò un gentiluomo vecchio, sanese, vestito alla civile, il qual tornava da far di quelle divozione che si usano in un cotal giorno; e avendo sentito di lontano benissimo tutte le mie ragione, arditamente s’accostò a riprendere il detto maestro delle poste, pigliando la parte mia, e garriva 21 li sua dua figliuoli perché e’ non facevano il dovere 22 ai forestieri che passavano, e che a quel modo e’ facevano contro a Dio, e davano biasimo alla città di Siena. Quei dua giovani suoi figliuoli, scrollato il capo sanza dir nulla, se ne andorno in là nel drento 23 della lor casa. Lo arrabbiato padre invelenito dalle parole di quello onorato gentiluomo, subito con vituperose bestemmie abbassò lo spuntone, giurando che con esso mi voleva ammazzare a ogni modo. Veduto questa bestial resoluzione, per tenerlo alquanto indietro, feci segno di mostrargli la bocca del mio archibuso. Costui più furioso gittandomisi addosso, l’archibuso che io avevo in mano, se bene in ordine per la mia difesa, non l’avevo abbassato ancora tanto, che fussi a rincontro di lui, anzi era colla bocca alta; e da per sé dette fuoco. La palla percosse nell’arco della porta, e sbattuta indietro 24, colse nella canna della gola del detto, il quale cadde in terra morto. Corsono i dua figliuoli velocemente, e preso l’arme da un rastrello 25 uno, l’altro prese lo spuntone del padre; e gittatisi addosso a quei mia giovani, quel figliuolo che aveva lo spuntone investì il primo Pagolo romano sopra la poppa manca; l’altro corse addosso a un milanese, che era in nostra compagnia, il quale aveva viso di pazzo; e non valse 26 raccomandarsi dicendo che non aveva che far meco, e difendendosi dalla punta d’una partigiana con un bastoncello che gli aveva in mano: con il quale non possette tanto ischermire 27, che fu investito 28 un poco nella bocca. Quel messer Cherubino era vestito da prete, e se bene egli era maestro di oriuoli eccellentissimo, come io dissi, aveva auto benefizii dal Papa con buone entrate. Ascanio, se bene egli era armato benissimo, non fece segnio di fuggire, come aveva fatto quel milanese: di modo che questi dua non furno tocchi 29. Io, che avevo dato di piè 30 al cavallo e inmentre che lui galoppava, prestamente avevo rimesso in ordine e carico 31 il mio archibuso e tornavo arrovellato 32 indietro, parendomi aver fatto da motteggio 33, per voler fare daddovero, e pensavo che quei mia giovani fussino stati ammazzati, resoluto andavo per morire anch’io. Non molti passi corse il cavallo indietro, che io riscontrai che inverso me venivano, ai quali io domandai se gli avevano male. Rispose Ascanio che Pagolo era ferito d’uno spuntone a morte. Allora io dissi: "O Pagolo figliuol mio! Addunche34 lo spuntone ha sfondato il giaco?" "No" disse, "ché il giaco avevo messo nella bisaccia questa mattina." "Addunche e’ giachi si portano per Roma per mostrarsi bello alle dame? e in e’ luoghi pericolosi, dove fa mestiero35 avergli, si tengono alla bisaccia? Tutti e’ mali che tu hai, ti stanno molto bene e se’ causa che io voglio andare a morire quivi anch’io or ora"; e inmentre che io dicevo queste parole, sempre tornavo indietro gagliardamente. Ascanio e lui mi pregavono che io fussi contento per l’amor de Dio salvarmi e salvargli, perché sicuro s’andava alla morte. In questo scontrai quel messer Cherubino, insieme con quel milanese ferito: subito mi sgridò 36, dicendo che. nissuno non aveva male, e che il colpo di 37 Pagolo era ito tanto ritto 38, che non era isfondato 39; e che quel vecchio delle poste era restato in terra morto, e che i figliuoli, con altre persone assai, s’erano messi in ordine 40, e che al sicuro ci arebbon tagliati tutti a pezzi: "Sicché, Benvenuto, poiché la fortuna ci ha salvati da quella prima furia, non la tentar più, ché la non ci salverebbe". Allora io dissi: "Da poi che voi sete contenti così, ancora 41 io son contento"; e voltomi a Pagolo e Ascanio, dissi loro: "Date di píè a’ vostri cavalli, e galoppiamo insino a Staggia 42 sanza mai fermarci, e quivi saremo sicuri". Quel-milanese ferito disse: "Che venga il canchero ai peccati! ché questo male che io ho, fu solo per il peccato d’un po’ di minestra di carne 43 che io mangiai ieri, non avendo altro che desinare". Con tutte queste gran tribulazioni che noi avevamo, fummo forzati a fare un poco di segno di ridere 44 di quella bestia e di quelle sciocche parole che lui aveva detto. Demmo di piedi a’ cavagli, e lasciammo messer Cherubino e ’l milanese, che a loro agio se ne venissino.
V. Intanto e’ figliuoli del morto corsono al duca di Melfi 1, e che dessi loro parecchi cavagli leggieri, per raggiugnierci e pigliarci. Il detto Duca, saputo che noi eramo degli uomini del cardinale di Ferrara, non volse dare né cavagli né licenzia. Intanto noi giugnemmo a Staggia, dove ivi noi fummo sicuri. Giunti in Istaggia, cercammo d’un medico, il meglio che in quel luogo si poteva avere; e fatto vedere il detto Pagolo, la ferita andava pelle pelle 2, e cogniobbi che non arebbe male. Facemmo mettere in ordine da desinare. Intanto comparse messer Cherubino e quel pazzo di quel milanese, che continuamente mandava il canchero alle quistione 3, e diceva d’essere iscomunicato, perché non aveva potuto dire in quella santa mattina un sol Paternostro. Per essere costui brutto di viso, e 4 la bocca aveva grande per natura; da poi per la ferita che in essa aveva auta gli era cresciuta la bocca più di tre dita; e con quel suo giulìo 5 parlar milanese, e con essa lingua isciocca, quelle parole che lui diceva ci davano tanta occasione di ridere, che in cambio di condolerci della fortuna 6, non possevamo fare di non ridere7 a ogni parola che costui diceva. Volendogli il medico cucire quella ferita della bocca, avendo fitto di già tre punti, disse al medico che sostenessi 8 alquanto, ché non arebbe voluto che per qualche nimicizia e’ gliene avessi cucita tutta; e messe mano a un cucchiaio, e diceva che voleva che lui gnene lasciassi tanto aperta, che quel cucchiaio v’entrassi, acciò che potessi tornar vivo alle sue brigate 9. Queste parole che costui diceva con certi scrollamenti di testa, davano sì grande occasione di ridere, che in cambio di condolerci della nostra mala fortuna, noi non restammo mai di ridere; e così sempre ridendo ci conducemmo a Firenze. Andammo a scavalcare a casa della mia povera sorella, dove noi fummo dal mio cogniato e da lei molto maravigliosamente carezzati. Quel messer Cherubino e ’l milanese andorno ai fatti loro. Noi restammo in Firenze per quattro giorni, inne’ quali si guarì Pagolo; ma era ben gran cosa, che continuamente 10 che e’ si parlava di quella bestia del milanese, ci moveva a tante risa, quanto ci moveva a pianto l’altre disgrazie avvenute: di modo che continuamente in un tempo medesimo si rideva e piagneva. Facilmente guarì Pagolo; di poi ce ne andammo alla volta di Ferrara, e il nostro Cardinale trovammo, che ancora non era arrivato a Ferrara, e aveva inteso tutti e’ nostri accidenti; e condolendosi disse: "Io priego Idio che mi dia tanta grazia che io ti conduca vivo a quel Re che11 ìo t’ho promesso". Il ditto Cardinale mi consegnò in Ferrara un suo palazzo, luogo bellissimo, dimandato Belfiore12: confina con le mura della città; quivi mi fece acconciare da lavorare. Di poi dette ordine di partirsi sanza me alla volta di Francia; e veduto che io restavo molto mal contento, mi disse: "Benvenuto, tutto quello che io fo si è per la salute13 tua: perché innanzi che io ti levi della Italia, io voglio che tu sappia benissimo in prima quel che tu vieni a fare in Francia: in questo mezzo sollecita 14 il più che tu puoi questo mio bacino e boccaletto; e tutto quel che tu hai di bisogno lascerò ordine a un mio fattore che te lo dia". E partitosi, io rimasi molto mal contento, e più volte ebbi voglia di andarmi con Dio; ma sol mi teneva quell’avermi libero da papa Pagolo15, perché del resto io stavo mal contento e con mio gran danno. Pure, vestitomi di quella gratitudine che meritava il benifizio ricevuto, mi disposi aver pazienzia e vedere che fine aveva da ’vere questa faccenda; e messomi a lavorare con quei dua mia giovani, tirai molto maravigliosamente innanzi quel boccale e quel bacino. Dove noi eramo alloggiati era l’aria cattiva, e per venire verso la state 16, tútti ci ammalammo un poco. In queste nostre indisposizione andavamo guardando il luogo dove noi eramo, il quale era grandissimo, e lasciato salvatico quasi un miglio di terreno scoperto, innel quale era tanti pagoni nostrali17, che come uccei salvatici ivi covavano. Avvedutomi di questo, acconciai il mio scoppietto con certa polvere senza far romore; di poi appostavo di quei pagoni giovani, e ogni dua giorni io ne ammazzavo uno, il quale larghissimamente ci nutriva, ma di tanta virtù 18 che tutte le malattie da noi si partirno; e attendemmo quei parecchi mesi lietissimamente a lavorare, e tirammo innanzi quel boccale e quel bacino, quale era opera che portava 19 molto gran tempo.
VI. In questo tempo il duca di Ferrara s’accordò con papa Pagolo romano certe lor differenze 1 antiche, che gli 2 avevano di Modana 3 e di certe altre città; le quali, per averci ragione la Chiesa, il Duca fece questa pace col ditto Papa con forza di danari; la qual quantità fu grande: credo che la passassi più di trecento mila ducati di Camera 4. Aveva il Duca in questo tempo un suo tesauriere vecchio, allievo del duca Alfonso suo padre, il quale si domandava messer Girolamo Giliolo. Non poteva questo vecchio sopportare questa ingiuria di questi tanti danari che andavano al Papa, e andava gridando per le strade, dicendo: "Il duca Alfonso suo padre con questi danari gli arebbe più presto con essi tolto 5 Roma, che mostratigliele 6"; e non v’era ordine 7 che gli volessi pagare. All’utimo poi sforzato il Duca 8 a fargnene pagare, venne a questo vecchio un flusso sì grande di corpo, che lo condusse vicino alla morte. In questo mezzo, che lui stava ammalato, mi chiamò il ditto Duca e volse che io lo ritraessi, la qual cosa io feci in un tondo di pietra nera, grande quanto un taglieretto 9 da tavola. Piaceva al Duca quelle mie fatiche insieme con molti piacevoli ragionamenti: le qual dua cose ispesso causavano che quattro e cinque ore il manco istava attento a lasciarsi ritrarre, e alcune volte mi faceva cenare alla sua tavola. In ispazio d’otto giorni io gli fini’ questo ritratto della sua testa; di poi mi comandò che io facessi il rovescio; il quale si era figurata per la 10 Pace una femmina con una faccellina in mano, che ardeva un trufeo d’arme: la quale io feci, questa ditta femmina, in istatura lieta 11, con panni sottilissimi, di bellissima grazia; e sotto i piedi di lei figurai afflitto e mesto, e legato con molte catene, il disperato Furore12. Questa opera io la feci con molto istudio, e la detta mi fece grandissimo onore. Il Duca non si poteva saziare di chiamarsi sattisfatto, e mi dette le lettere 13 per la testa di sua Eccellenzia e per il rovescio. Quelle del rovescio dicevano: "Pretiosa in conspectu Domini 14". Mostrava che quella pace s’era15 venduta per prezzo di danari.
VII. In questo tempo che io messi a fare questo ditto rovescio, il Cardinale m’aveva scritto dicendomi che io mi mettessi in ordine, perché il Re m’aveva domandato; e che alle prime lettere sue s’arebbe l’ordine di 1 tutto quello che lui m’aveva promesso. Io feci incassare 2 il mio bacino e ’l mio boccale bene acconcio; e l’avevo di già mostro al Duca. Faceva le faccende del Cardinale un gentiluomo ferrarese, il qual si chiamava per nome messer Alberto Bendidio. Questo uomo era stato in casa dodici anni sanza uscirne mai, causa d’una sua infirmità. Un giorno con grandissima prestezza 3 mandò per me, dicendomi che io dovessi montare in poste subito per andare a trovare il Re, il quale con grand’istanzia m’aveva domandato, pensando che io fussi in Francia. Il Cardinale per iscusa sua aveva detto che io ero restato a una sua badia in Lione 4, un poco ammalato, ma che farebbe che io sarei presto da sua Maestà: però faceva questa diligenza 5 che io corressi in poste. Questo messer Alberto era grande uomo da bene, ma era superbo, e per la malattia superbo insopportabile; e sì come io dico, mi disse che io mi mettessi in ordine presto, per correre in poste. Al quale io dissi che l’arte mia non si faceva in poste, e che se io vi avevo da ’ndare, volevo andarvi a piacevol giornate 6 e menar meco Ascanio e Pagolo, mia lavoranti, i quali avevo levati di7 Roma; e di più volevo un servitore con esso noi a cavallo, per mio servizio, e tanti danari che bastassino a condurmivi . Questo vecchio infermo con superbissime parole mi rispose che in quel modo che io dicevo, e non altrimenti, andavano i figliuoli del Duca. A lui subito risposi che i figliuoli de l’arte mia andavano in quel modo che io avevo detto; e per non essere stato mai figliuol di duca quelli non sapevo come s’andassino8; e che se gli usava meco quelle istratte 9 parole ai mia orecchi, che io non v’andrei in modo nessuno, sì per avermi mancato il Cardinale della fede sua e, arrotomi 10 poi queste villane parole, io mi risolverei sicuramente di non mi voler inpacciare con ferraresi; e voltogli le stiene 11, io brontolando e lui bravando 12, mi parti’. Andai a trovare il sopraditto Duca con la sua medaglia finita; il quale mi fece le più onorate carezze che mai si facessino a uomo del mondo; e aveva commesso a quel suo messer Girolamo Giliolo che per quelle mie fatiche trovassi uno anello d’un diamante di valore di ducento scudi, e che lo dessi al Fiaschino suo cameriere, il quale me lo dessi. Così fu fatto. Il ditto Fiaschino, la sera che il giorno 13 gli avevo dato la medaglia, a un’ora di notte mi porse uno anello drentovi 14 un diamante, il quale aveva gran mostra 15; e disse queste parole da parte del suo Duca: che quella unica virtuosa mano 16, che tanto bene aveva operato, per memoria di sua Eccellenzia con quel diamante si adornassi la ditta mano. Venuto il giorno, io guardai il ditto anello, il quale era un diamantaccio sottile, il 17 valore d’un dieci scudi in circa. E perché quelle tante meravigliose parole, che quel Duca m’aveva fatto usare 18, io che non volsi che le fussino vestite di 19 un così poco premio, pensando il Duca d’avermi ben sattisfatto; e io che m’inmaginai che la venissi 20 da quel suo furfante tesauriere, detti l’anello a un mio amico, che lo rendessi al cameriere Fiaschino, in ogni 21 modo che egli poteva. Questo fu Bernardo Saliti, che fece questo uffizio mirabilmente. Il detto Fiaschino subito mi venne a trovare con grandissime sclamazioni, dicendomi che se il Duca sapeva che io gli rimandassi un presente in quel modo, che lui così benigniamente m’aveva donato, che egli l’arebbe molto per male, e forse me ne potrei pentire. Al ditto risposi che l’anello che sua Eccellenzia m’avea donato, era di valore d’un dieci scudi in circa, e che l’opera che io avevo fatta a sua Eccellenzia valeva più di ducento; ma per mostrare a sua Eccellenzia che io stimavo l’atto della sua gentilezza, che solo mi mandassi uno anello del granchio 22, di quelli che vengon d’Inghilterra, che vagliono un carlino in circa; quello io lo terrei per memoria di sua Eccellenzia in sin che io vivessi, insieme con quelle onorate parole che sua Eccellenzia m’aveva fatto porgere: perché io facevo conto che lo splendore di sua Eccellenzia avessi largamente pagato le mie fatiche, dove quella bassa gioia 23 me le vituperava. Queste parole furno di tanto dispiacere al Duca, che egli chiamò quel suo detto tesauriere, e gli disse villania, la maggiore che mai pel passato lui gli avessi detto; e a me fe’comandare, sotto pena della disgrazia sua, che io non partissi di Ferrara se lui non me lo faceva intendere 24; e al suo tesauriere comandò che mi dessi un diamante che arrivassi a trecento scudi. L’avaro tesauriere ne trovò uno che passava di poco sessanta scudi, e dette ad intendere che il ditto diamante valeva molto più di dugento.
VIII. Intanto il sopra ditto messer Alberto1aveva ripreso la buona via 2, e m’aveva provisto di tutto quello che io avevo domandato. Eromi quel dì disposto di partirmi di Ferrara a ogni modo; ma quel diligente cameriere del Duca aveva ordinato col ditto messer Alberto che per quel dì io non avessi cavalli. Avevo carico 3 un mulo di molte mia bagaglie, e con esse avevo incassato quel bacino e quel boccale che fatto avevo per il Cardinale. In questo sopraggiunse un gentiluomo ferrarese, il quale si domandava per nome messer Alfonso de’ Trotti. Questo gentiluomo era molto vecchio ed era persona affettatissima 4, e si dilettava delle virtù 5 grandemente; ma era una di quelle persone che sono difficilissime a contentare; e se per aventura elle s’abbattono 6 mai a vedere qualche cosa che piaccia loro, se la dipingono tanto eccellente nel cervello, che mai più pensono di rivedere altra cosa che piaccia loro. Giunse questo messer Alfonso: per la qual cosa messer Alberto gli disse: "A me sa male 7 che voi sete venuto tardi: perché di già s’è incassato e fermo 8 quel boccale e quel bacino che noi mandiamo al Cardinale in Francia". Questo messer Alfonso disse che non se ne curava; e accennato a un suo servitore, lo mandò a casa sua: il quale portò un boccale di terra bianca 9, di quelle terre di Faenza, molto dilicatamente lavorato. In mentre che il servitore andò e tornò, questo messer Alfonso diceva al ditto messer Alberto: "Io vi voglio dire per quel che10 io non mi curo di vedere mai più vasi: questo si è che una volta io ne vidi uno d’argento, antico, tanto bello e tanto maraviglioso, che la immaginazione umana non arriverebbe a pensare a tanta eccellenzia; e però io non mi curo di vedere altra cosa tale, acciò che la non mi guasti quella maravigliosa inmaginazione di quello. Questo11 si fu un gran gentiluomo virtuoso, che andò a Roma per alcune sue faccende e segretamente gli fu mostro questo vaso antico; il quale12 per vigore13 d’una gran quantità di scudi corroppe quello che l’aveva, e seco ne lo portò in queste nostre parti; ma lo tien ben segreto, che ’l Duca non lo sappia: perché arebbe paura di perderlo a ogni modo". Questo messer Alfonso, in mentre che diceva queste sue lunghe novellate 14, egli non si guardava da me, che ero alla presenza 15, perché non mi conosceva. Intanto, comparso questo benedetto modello di terra, iscoperto con una tanta boriosità, ciurma 16 e sicumera, che veduto che io l’ebbi, voltomi a messer Alberto, dissi: "Pur beato che io l’ho veduto!" Messer Alfonso adirato, con qualche parola ingiuriosa, disse: "O chi se’ tu, che non sai quel che tu di’?"A questo io dissi: "Ora ascoltatemi, e poi vedrete chi di noi saprà meglio quello che e’ si dice". Voltomi a messer Alberto, persona molto grave 17 e ingegniosa, dissi: "Questo è un boccaletto d’argento di tanto 18 peso, il quale io lo feci innel tal tempo a quel ciurmadore 19 di maestro Iacopo cerusico da Carpi, il quale venne a Roma e vi stette sei mesi; e con una sua unzione inbrattò di molte decine di signiori e poveri gentiluomini, da i quali lui trasse di molte migliara di ducati. In quel tempo io gli feci questo vaso e un altro diverso da questo; e lui me lo pagò, l’uno e l’altro, molto male, e ora sono in Roma tutti quelli sventurati che gli unse, storpiati e malcondotti 20. A me è gloria grandissima che l’opere mie sieno in tanto nome appresso a voi altri Signiori ricchi; ma io vi dico bene, che da quei tanti anni in qua io ho atteso quanto io ho potuto a ’mparare: di modo che io mi penso che quel vaso, ch’io porto in Francia, sia altrimenti degno del Cardinale e del Re, che non fu quello di quel vostro mediconzolo". Ditte che io ebbi queste mie parole, quel messer Alfonso pareva propio che si struggessi di desiderio di vedere quel bacino e boccale, il quale io continuamente gli negavo. Quando un pezzo fummo stati in questo 21, disse che se ne andrebbe al Duca e per mezzo di sua Eccellenzia lo vedrebbe. Allora messer Alberto Bendidio ch’era, come ho detto, superbissimo, disse: "Innanzi che voi partiate di qui, messer’Alfonso, voi lo vedrete, sanza adoperare i favori del Duca". A queste parole io mi parti’ e lasciai Ascanio e Pagolo che lo mostrassi loro; qual 22 disse poi che egli 23 avean ditto cose grandissime in mia lode. Volse poi messer Alfonso che io mi addomesticassi seco, onde a me parve mill’anni di uscir di Ferrara e levarmi lor dinanzi. Quanto io v’avevo aùto di buono si era stata la pratica 24 del cardinal Salviati e quella del cardinal di Ravenna 25, e di qualcuno altro di quelli virtuosi musici, e non d’altri: perché i Ferraresi son gente avarissime e piace loro la roba d’altrui in tutti e’ modi che la possino avere; così son tutti. Conparse alle ventidua ore il sopra ditto Fiaschino, e mi porse il ditto diamante di valore di sessanta scudi in circa, dicendomi con faccia malinconica e con breve parole che io portassi quello per amore di sua Eccellenzia. Al quale io risposi: "E io così farò". Mettendo i piedi innella staffa in sua presenza, presi il 26 viaggio per andarmi con Dio. Notò l’atto e le parole; e riferito al Duca, in còllora 27 ebbe voglia grandissima di farmi tornare indietro.
IX. Andai la sera innanzi più di dieci miglia, sempre trottando; e quando l’altro giorno 1 io fu’ fuora del Ferrarese, n’ebbi grandissimo piacere, perché da quei pagoncelli, che io vi mangiai, causa della mia sanità, in fuora, altro non vi cogniobbi di buono. Facemmo il viaggio per il Monsanese 2, non toccando la città di Milano per il sospetto sopraditto 3: in modo che sani e salvi arrivammo a Lione. Insieme con Pagolo e Ascanio e un servitore, eramo quattro con quattro cavalcature assai buone. Giunti a Lione, ci fermammo parecchi giorni per aspettare il mulattiere, il quale aveva quel bacino e boccale d’argento insieme con altre nostre bagaglie: fummo alloggiati in una badia 4, che era del Cardinale. Giunto che fu il mulattiere, mettemmo tutte le nostre cose in una carretta e l’avviammo alla volta di Parigi: così noi andammo in verso Parigi, e avemmo per la strada qualche disturbo, ma non fu molto notabile. Trovammo la corte del Re a Fontana Beleò 5: facemmoci vedere al Cardinale, il quale subito ci fece consegniare alloggiamenti, e per quella sera stemmo bene. L’altra giornata comparse la carretta; e preso le nostre cose, intesolo il Cardinale, lo disse al Re, il quale subito mi volse vedere. Andai da sua Maestà con il ditto bacino e boccale, e giunto alla presenza sua, gli baciai il ginochio e lui gratissimamente mi raccolse6. Intanto che io ringraziavo sua Maestà dell’avermi libero del7carcere, dicendo che gli era ubrigato, ogni principe buono e unico al mondo, come era sua Maestà, a liberare uomini buoni a qualcosa, e maggiormente innocenti come ero io; che quei benifizii eran prima iscritti in su’ libri de Dio, che ogni altro che far si potessi al mondo; questo buon Re mi stette a ’scoltare finché io dissi 8, con tanta gratitudine 9 e con qualche parola, sola degnia di lui. Finito che io ebbi, prese il vaso e il bacino, e poi disse: "Veramente che tanto bel modo d’opera non credo mai che degli antichi se ne vedessi: perché ben mi sovviene di aver veduto tutte le-miglior opere e dai miglior maestri fatte, di tutta la Italia; ma io non viddi mai cosa che mi movessi 10 più grandemente che questa". Queste parole il ditto Re le parlava in franzese al cardinale di Ferrara, con molte altre maggior che queste. Di poi voltosi a me mi parlò in taliano 11, e disse: "Benvenuto, passatevi tempo lietamente qualche giorno, e confortatevi il cuore e attendete a far buona cera 12; e intanto noi penseremo di darvi buone comodità al 13 poterci far qualche bell’opera".
X. Il cardinal di Ferrara sopra ditto, veduto che il Re aveva preso grandissimo piacere del mio arrivo; ancora lui 1 veduto che con quel poco dell’opere 2 il Re s’era promesso 3 di potersi cavar la voglia di fare certe grandissime opere, che lui aveva in animo: però4 in questo tempo, che noi andavamo drieto alla Corte, puossi dire tribulando 5: il perché si è che il traino del Re si strascica continuamente drieto dodici mila cavalli. E questo è il manco: perché quando la Corte in e’ tempi di pacie è intera, e’ sono diciotto mila, di modo che sempre vengono da 6 essere più di dodici mila: per la qual cosa noi andavamo seguitando la ditta Corte in tai luoghi, alcuna volta, dove non era dua case a pena; e sì come fanno i zingani, si faceva delle trabacche 7 di tele, e molte volte si pativa assai. Io pure 8 sollecitavo il Cardinale che incitassi il Re a mandarmi a lavorare; il Cardinale mi diceva che il meglio di questo caso si era d’aspettare che il Re da sé se ne ricordassi; e che io mi lasciassi alcuna volta vedere a 9 sua Maestà, in mentre ch’egli mangiava. Così faccendo, una mattina al suo desinare mi chiamò il Re: cominciò a parlar meco in taliano, e disse che aveva animo di fare molte opere grande, e che presto mi darebbe ordine dove io avessi a lavorare, con provvedermi 10 di tutto quello che mi faceva bisognio; con molti altri ragionamenti di piacevoli e diverse cose. Il cardinal di Ferrara era alla presenza, perché quasi di continuo mangiava la mattina al tavolino del Re; e sentito tutti questi ragionamenti, levatosi il Re dalla mensa, il cardinal di Ferrara in mio favore disse, per quanto mi fu riferito: "Sacra Maestà, questo Benvenuto ha molto gran voglia di lavorare; quasi che si potria dire l’esser peccato a far perder tempo a un simile virtuoso". Il Re aggiunse che gli aveva ben detto, e che meco istabilissi 11 tutto quello che io volevo per la mia provvisione. Il qual Cardinale la sera seguente che la 12mattina aveva aùto la commessione, dipoi la cena fattomi domandare, mi disse da parte di sua Maestà come sua Maestà s’era risoluta che io mettessi mano a lavorare; ma prima voleva che io sapessi qual dovessi essere la mia provvisione. A questo disse il Cardinale: "A me pare, che se sua Maestà vi dà di provvisione trecento scudi l’anno, che voi benissimo vi possiate salvare 13; appresso vi dico che voi lasciate la cura a me, perché ogni giorno viene occasione di poter far bene in questo gran regnio e io sempre vi aiuterò mirabilmente". Allora io dissi: "Sanza che io ricercassi14 vostra Signoria reverendissima, quando quella15 mi lasciò in Ferrara, mi promise di non mi cavar 16 mai di Italia, se prima io non sapevo tutto il modo17 che con sua Maestà io dovevo stare; vostra Signoria reverendissima, in cambio di mandarmi a dire il modo che io dovevo stare, mandò espressa commessione che io dovessi venire in poste, come se tale arte in poste si facessi: ché se voi mi avessi mandato a dire di trecento scudi, come voi mi dite ora, io non mi sarei mosso per sei 18. Ma di tutto ringrazio Idio e vostra Signioria reverendissima ancora, perché Idio l’ha adoperata per istrumento a un sì gran bene, quale è stato la mia liberazione del carcere. Per tanto dico a vostra Signioria che tutti e’ gran mali che ora io avessi da quella 19, non possono aggiugnere alla20 millesima parte del gran bene che da lei ho ricevuto, e con tutto il cuore ne la ringrazio, e mi piglio buona licenzia, e dove io sarò, sempre infin che io viva, pregherò Idio per lei". Il Cardinale adirato disse in còllora: "Va’ dove tu vuoi, perché a forza non si può far bene a persona". Certi di quei sua cortigiani scanna pagniotte21 dicevano: "A costui gli par essere qualche gran cosa, perché e’ rifiuta trecento ducati di entrata". Altri, di quei virtuosi, dicevano: "Il Re non troverrà mai un par di costui; e questo nostro Cardinale lo vuole mercatare 22, come se ei fusse una soma di legne". Questo fu messer Luigi Alamanni, che così mi fu ridetto che lui disse. Questo fu innel Delfinato 23, a un castello che non mi sovviene il nome; e fu l’ultimo dì d’ottobre.
XI. Partitomi dal Cardinale, me ne andai al mio alloggiamento tre miglia lontano di quivi, insieme con un segretario del Cardinale che al medesimo alloggiamento ancora lui veniva. Tutto 1 quel viaggio quel segretario mai restò di domandarmi quel che io volevo far di me, e quel che saria stato la mia fantasia 2 di volere di provvisione. Io non gli risposi mai se none una parola, dicendo: "Tutto mi sapevo 3". Di poi giunto allo alloggiamento, trovai Pagolo e Ascanio che quivi vi stavano; e vedendomi turbatissimo, mi sforzorno a dir loro quello che io avevo; e veduto isbigottiti i poveri giovani, dissi loro: "Domattina io vi darò tanti danari che largamente voi potrete tornare alle case vostre; e io andrò a 4 una mia faccenda inportantissima, sanza di voi, che gran pezzo è che io ho aùto in animo di fare". Era la camera nostra a muro a muro accanto a quella del ditto segretario, e talvolta 5 è possibile che lui lo scrivessi al Cardinale tutto quello che io avevo in animo di fare; se bene io non ne seppi mai nulla. Passossi la notte sanza mai dormire: a me pareva mill’anni che si facessi giorno, per seguitare 6 la resoluzione che di me fatto avevo. Venuto l’alba del giorno, dato ordine ai cavagli e io prestamente messomi in ordine, donai a quei dua giovani tutto quello che io avevo portato meco, e di più cinquanta ducati d’oro; e altretanta ne salvai per me, di più quel diamante che mi aveva donato il Duca; solo due camicie ne portavo e certi non troppi boni7 panni da cavalcare, che io avevo addosso. Non potevo ispiccarmi8 dalli dua giovani, che se ne volevano venire con esso meco a ogni modo: per la qual cosa io molto glisvili’9 dicendo loro: "Uno è di prima barba e l’altro a mano a mano comincia a ’verla, e avete da me inparato tanto di questa povera virtù 10 che io v’ho potuto insegniare, che voi siete oggi i primi giovani di Italia; e non vi vergogniate che non vi basti l’animo a uscire del carruccio del babbo 11, qual sempre vi porti? Questa è pure una vil cosa! O se vi lasciassi andare sanza danari, che diresti voi? Ora levatevimi d’inanzi, che Dio vi benedica mille volte: a Dio". Volsi il cavallo, e lascia’li piangendo12. Presi la strada bellissima per un bosco, per discostarmi quella giornata quaranta miglia il manco, in luogo più incognito che pensar potevo. E di già m’era discostato incirca a dua miglia; e in quel poco viaggio io m’ero risoluto di non mai più praticare in parte dove io fussi conosciuto, né mai più volevo lavorare altra opera che un Cristo grande di tre braccia, appressandomi più che potevo a quella infinita bellezza che da lui stesso m’era stata mostra 13. Essendomi già resoluto affatto, me n’andavo alla volta del Sepulcro 14. Pensando essermi tanto iscostato che nessuno più trovar non mi potessi, in questo io mi senti’ correr dietro cavagli; e mi feciono alquanto sospetto 15, perché in quelle parte v’è una certa razza di brigate, li quali si domandan venturieri 16, che volentieri assassinano alla strada; e se bene ogni ’n dì assai se ne impicca, quasi pare che non se ne curino. Appressatimisi più costoro, cogniobbi che gli erano un mandato del Re, insieme con quel mio giovane Ascanio; e giunto a me disse: "Da parte del Re vi dico che prestamente voi vegniate a lui". Al quale uomo io dissi: "Tu vieni da parte del Cardinale: per la qual cosa io non voglio venire". L’uomo disse che da poi che io non volevo andare amorevolmente, aveva autorità di comandare a’ populi 17, i quali mi merrebbono legato come prigione. Ancora Ascanio, quant’egli poteva, mi pregava, ricordandomi che quando il Re metteva un prigione 18, stava dappoi cinque anni per lo manco19 a risolversi di cavarlo. Questa parola della prigione, sovvenendomi di quella di Roma, mi porse tanto ispavento, che prestamente volsi il cavallo dove il mandato del Re mi disse. Il quale, sempre borbottando in franzese, non restò mai in tutto quel viaggio, insinché m’ebbe condutto alla Corte: or mi bravava, or mi diceva una cosa, ora un’altra, da farmi rinnegare il mondo.
XII. Quando noi fummo giunti agli alloggiamenti del Re, noi passammo dinanzi a quelli del cardinale di Ferrara. Essendo il Cardinale in su la porta, mi chiamò a sé e disse: "Il nostro Re cristianissimo da per se stesso v’ha fatto la medesima provvisione che sua Maestà dava a Lionardo da Vinci pittore: qual sono1 settecento scudi l’anno; e di più vi paga tutte l’opere che voi gli farete: ancora per la vostra venuta vi dona cinquecento scudi d’oro, i quali vuol che vi sien pagati prima che voi vi partiate di qui". Finito che ebbe di dire il Cardinale, io risposi che quelle erono offerte da quel Re che gli era. Quel mandato del Re, non sapendo chi io mi fussi, vedutomi fare quelle grande offerte da parte del Re, mi chiese molte volte perdono. Pagolo e Ascanio dissono: "Idio ci ha aiutati ritornare in così onorato carruccio 2". Di poi l’altro giorno io andai a ringraziare il Re, il quale m’inpose che io gli facessi i modelli di dodici statue d’argento, le quali voleva che servissino per dodici candelieri intorno alla sua tavola; e voleva che fussi figurato sei iddei e sei iddee, della grandezza appunto di sua Maestà, quale era poco cosa manco di quattro braccia alto. Dato che egli m’ebbe questa commessione, si volse al tesauriere de’ risparmi 3 e lo domandò se lui mi aveva pagato li cinquecento scudi. Disse che non gli era stato detto nulla. El Re l’ebbe molto per male, ché aveva commesso al Cardinale che gnene dicessi. Ancora mi disse che io andassi a Parigi, e cercassi che stanza fussi a proposito 4 per far tale opere, perché me la farebbe dare. Io presi li cinquecento scudi d’oro e me ne andai a Parigi in una stanza del cardinale di Ferrara; e quivi cominciai innel nome di Dio a lavorare, e feci quattro modelli piccoli di dua terzi di braccio l’uno, di cera: Giove, Iunone, Appollo, Vulgano 5. In questo mezzo il Re venne a Parigi: per la qual cosa io subito lo andai a trovare, e portai i detti modelli con esso meco, insieme con quei mia dua giovani, cioè Ascanio e Pagolo. Veduto che io ebbi che il Re era sadisfatto delli detti modelli, e’ m’impose per il primo 6 che io gli facessi il Giove d’argento della ditta altezza. Mostrai a sua Maestà che quelli dua giovani ditti io gli avevo menati di Italia per servizio di sua Maestà; e perché io me gli avevo allevati, molto meglio per questi principii 7 avrei tratto aiuto da loro, che da quelli della città di Parigi. A questo il Re disse che io facessi 8 alli ditti dua giovani un salario qual mi paressi a me, che fussi recipiente a potersi trattenere9. Dissi che cento scudi d’oro per ciascuno stava bene, e che io farei benissimo guadagniar loro tal salario. Così restammo d’accordo. Ancora dissi che io aveva trovato un luogo il quale mi pareva molto a proposito da fare in esso tali opere: el ditto luogo si era di sua Maestà particulare 10, domandato il piccol Nello 11, e che allora lo teneva il provosto di Parigi 12, a chi sua Maestà l’aveva dato13;ma perché questo provosto non se ne serviva, sua Maestà poteva darlo a me, che l’adoperrei per suo servizio. Il Re subito disse: "Cotesto luogo è casa mia; e io so bene che quello a chi io lo detti non lo abita, e non se ne serve: però 14 ve ne servirete voi per le faccende nostre"; e subito comandò al suo luogotenente che mi mettessi in detto Nello. Il quale fece alquanto di resistenza, dicendo al Re che non lo poteva fare. A questo il Re rispose in còllora che voleva dar le cose sue a chi piaceva a lui e a uomo che lo servissi, perché di cotestui 15 non si serviva niente: però non gli parlassi più di tal cosa. Ancora aggiunse il luogotenente che saria di necessità 16 di usare un poco di forza. Al quale il Re disse: "Andate adesso, e se la piccola forza non è assai 17, mettetevi della grande". Subito mi menò al luogo ed ebbe a usar forza a mettermi in possessione; di poi mi disse che io m’avessi benissimo cura18di non v’essere ammazzato. Entrai drento, e subito presi de’ servitori, e comperai parecchi gran pezzi d’arme in aste19, e parecchi giorni mi stetti con grandissimo dispiacere: perché questo era gran gentiluomo parigiano 20, e gli altri gentiluomini m’erano tutti nimici, di modo che mi facevano tanti insulti che io non potevo resistere. Non voglio lasciare indietro, che in questo tempo che io m’acconciai con sua Maestà correva appunto il millesimo del 1540, che appunto era l’età mia de’ quaranta anni.
XIII. Per questi grandi insulti io ritornai al Re, pregando sua Maestà che mi accomodassi altrove: alle qual parole mi disse il Re: "Chi siate 1 voi, e come avete voi nome?" Io restai molto ismarrito e non sapevo quello che il Re si volessi dire; e standomi così cheto, il Re replicò un’altra volta le medesime parole quasi adirato. Allora io risposi che aveva nome Benvenuto. Disse il Re: "Addunche se voi siete quel Benvenuto che io ho inteso, fate sicondo il costume vostro, ché io ve ne do piena licenza". Dissi a sua Maestà che mi bastava solo mantenermi nella grazia sua, del resto io non conoscevo cosa nessuna che mi potessi nuocere. Il Re, ghigniato un pochetto, disse: "Andate addunche, e la grazia mia non vi mancherà mai". Subito mi ordinò 2 un suo primo segretario, il quale si domandava Monsignior di Villurois 3, che dessi ordine a farmi provvedere e acconciare per tutti i miei bisogni. Questo Villurois era molto grande amico di quel gentiluomo chiamato il provosto, di chi 4 era il ditto luogo di Nello. Questo luogo era in forma triangulare, ed era appiccato 5 con le mura della città ed era castello antico, ma non si teneva guardie: era di buona grandezza. Questo detto Monsignior di Villurois mi consigliava che io cercassi di qualche altra cosa, e che io lo lasciassi a ogni modo: perché quello di che gli era, era uomo di grandissima possanza, e che certissimo lui mi arebbe fatto ammazzare. Al quale io risposi che ero andato di Italia in Francia solo per servire quel maraviglioso Re, e quanto al morire, io sapevo certo che a morire avevo 6; che un poco prima o un poco dappoi non mi dava una noia al mondo 7. Questo Villurois era uomo di grandissimo ispirito, e mirabile in ogni cosa sua, grandissimamente ricco: non è al mondo cosa che lui non avessi fatto per farmi dispiacere, ma non lo dimostrava niente; era persona grave, di bello aspetto, parlava adagio. Commesse 8 a un altro gentiluomo, che si domandava Monsignior di Marmagnia 9, quale era tesauriere di Lingua d’oca 10. Questo uomo, la prima cosa che e’ fece, cercato le migliore stanze di quel luogo, le faceva acconciare per sé: al quale io dissi che quel luogo me lo aveva dato il Re perché io lo servissi, e che quivi non volevo che abitassi altri che me e li mia servitori. Questo uomo era superbo, aldace, animoso; e mi disse che voleva fare quanto gli piaceva, e che io davo della testa nel muro a voler contrastare contro a di lui; e che tutto quel che lui faceva, ne aveva auto commessione da Villurois di poter farlo. Allora io dissi che io avevo auto commessione dal Re, che né lui né Villurois tal cosa non potrebbe fare. Quando io dissi questa parola, questo superbo uomo mi disse in sua lingua franzese molte brutte parole, alle quali io risposi in lingua mia che lui mentiva. Mosso dall’ira, fece segnio di metter mano a una sua daghetta: per la qual cosa io messi la mano in sun una mia daga grande, che continuamente io portavo accanto per mia difesa; e li dissi: "Se tu sei tanto ardito di sfoderar quell’arme, io subito ti ammazzerò". Gli aveva seco dua servitori, e io avevo li mia dua giovani; e, inmentre che il ditto Marmagnia stava così sopra di sé 11, non sapendo che farsi, più presto vòlto al male 12, e’ diceva borbottando: "Già mai non conporterò 13 tal cosa". Io vedevo la cosa andar per la mala via; subito mi risolsi e dissi a Pagolo e Ascanio: "Come voi vedete che io sfodero la mia daga, gittatevi addosso ai dua servitori e ammazzategli, se voi potete: perché costui io lo ammazzerò al primo 14; poi ci andren con Dio d’accordo subito". Sentito Marmagnia questa resoluzione, gli parve fare assai 15 a uscir di quel luogo vivo. Tutte queste cose, alquanto un poco più modeste 16, io le scrissi al cardinale di Ferrara, il quale subito le disse al Re. Il Re crucciato mi dette in custode17 a un altro di quei suoi ribaldi 18, il quale si domandava Monsignior lo Iscontro d’Orbech 19. Questo uomo con tanta piacevolezza, quanto inmaginar si possa, mi provvedde di tutti li mia bisogni.
XIV. Fatto ch’io ebbi tutti gli acconci 1 della casa e della bottega, accomodatissimi a poter servire, e onoratissimamente, per li mia servizii della casa, subito messi mano a far tre modelli, della grandezza appunto che gli avevano da essere d’argento: questi furno Giove e Vulgano e Marte. Gli feci di terra, benissimo armati di ferro 2, di poi me ne andai dal Re, il quale mi fece dare, se ben mi ricordo, trecento libbre d’argento, acciò che io cominciassi a lavorare. Inmentre che io davo ordine a queste cose, si finiva il vasetto e il bacino ovato, i quali ne portorno 3 parecchi mesi. Finiti che io gli ebbi, gli feci benissimo dorare. Questa parve la più bell’opera che mai si fosse veduta in Francia. Subito lo portai al cardinal di Ferrara, il quale mi ringraziò assai; di poi sanza me lo portò al Re e gnene fece un presente. Il Re l’ebbe molto caro, e mi lodò più smisuratamente che mai si lodassi uomo par mio; e per questo presente donò al cardinal di Ferrara una badia di sette mila scudi d’entrata; e 4 a me volse far presente 5. Per la qual cosa il Cardinale lo inped ì, dicendo a sua Maestà che quella faceva troppo presto, non gli avendo ancora dato opera nessuna. E il Re, che era liberalissimo, disse: "Però gli vo’ io dar coraggio che me ne possa dare". Il Cardinale, a questo vergogniatosi, disse: "Sire, io vi priego che voi lasciate fare a me: perché io gli farò una pensione di trecento scudi il manco, subito che io abbia preso il possesso della badia". Io non gli ebbi mai, e troppo lungo sarebbe a voler dire la diavoleria 6 di questo Cardinale; ma mi voglio riserbare a cose di maggiore inportanza.
XV. Mi tornai a Parigi. Con tanto favore fattomi dal Re io era ammirato da ugniuno. Ebbi l’argento, e cominciai la ditta statua di Giove. Presi di molti lavoranti, e con grandissima sollecitudine giorno e notte non restavo mai di lavorare: di modo che, avendo finito di terra 1 Giove, Vulcano e Marte, di già cominciato d’argento a tirare innanzi assai bene il Giove, si mostrava la bottega di già molto ricca. In questo conparse el Re a Parigi: io l’andai a visitare; e subito che sua Maestà mi vedde, lietamente mi chiamò e mi domandava se alla mia magione 2 era qualcosa da mostrargli di bello, perché verrebbe insin quivi. Al quale io contai tutto quel che io avevo fatto. Subito gli venne voluntà grandissima di venire; e di poi il suo desinare, dette ordine con madama de Tampes 3, col cardinal di Loreno 4 e certi altri di quei signori, qual fu il re di Navarra 5 cogniato del re Francesco e la Regina sorella del ditto re Francesco a; venne il Dalfino 7 e la Dalfina 8: tanto si è, che quel dì venne tutta la nobiltà della Corte. Io m’ero avviato a casa, e m’ero misso a lavorare. Quando il Re comparse alla porta del mio castello, sentendo picchiare a parecchi martella, comandò a ugniuno che stessi cheto: in casa mia ogniuno era in opera: di modo che io mi trovai sopraggiunto dal Re, che io non lo aspettavo. Entrò nel mio salone; e ’l primo che vedde, vedde me con una gran piastra d’argento in mano, qual serviva per il corpo del Giove: un altro faceva la testa, un altro le gambe, in modo che il romore era grandissimo. In mentre che io lavoravo, avendo un mio ragazzetto franzese intorno, il quale m’aveva fatto non so che poco di dispiacere, per la qual cosa io gli avevo menato un calcio, e per mia buona sorte, entrato col piè nella inforcatura delle gambe, l’avevo spinto innanzi più di quattro braccia, di modo che all’entrare del Re questo putto s’attenne 9 addosso al Re: il perché il Re grandemente se ne rise, e io restai molto smarrito. Cominciò il Re a dimandarmi quello che io facevo, e volse che io lavorassi; di poi mi disse che io gli farei molto più piacere a non mi affaticare mai, sì bene tòrre 10 quanti uomini io volessi, e quelli far lavorare: perché voleva che io mi conservassi sano per poterlo servir più lungamente. Risposi a sua Maestà che subito io mi ammalerei se io non lavorassi, né manco l’opere non sarebbono di quella sorte che"io desidero fare per sua Maestà." Pensando il Re che quello che io dicevo fussi detto per millantarsi, e non perché così fussi la verità, me lo fece ridire dal cardinal de Loreno, al quali io mostrai tanto larghe11 le mie ragione e aperte 12, che lui ne restò capacissimo 13: però confortò 14 il Re che mi lasciassi lavorare poco e assai, secondo la mia voluntà.
XVI. Restato sadisfatto il Re delle opere mie, se ne tornò al suo palazzo 1, e mi lasciò pieno di tanti favori che saria lungo a dirgli. L’altro giorno appresso, al2 suo desinare, mi mandò a chiamare. V’era alla presenza il cardinal di Ferrara, che desinava seco. Quando io giunsi, ancora il Re era alla siconda vivanda: accostatomi a sua Maestà, subito cominciò a ragionar meco, dicendo che da poi che gli aveva così bel bacino e così bel boccale di mia mano, che per compagnia di quelle tal cose richiedeva una bella saliera, e che voleva che io gnene facessi un disegnio; ma ben l’arebbe voluto veder presto. Allora io aggiunsi dicendo: "Vostra Maestà vedrà molto più presto un tal disegnio, che la mi domanda3: perché in mentre che io facevo il bacino pensavo che per sua compagnia si gli dovessi far la saliera"; e che tal cosa era di già fatta; e che se gli piaceva, io gliene mostrerrei subito. El Re si risentì con molta baldanza, e voltosi a quei Signori, qual era il re di Navarra, el cardinal di Loreno e ’l cardinal di Ferrara, e’ disse: "Questo veramente è un uomo da farsi amare e desiderare da ogni uomo che non lo cogniosca"; di poi disse a me che volentieri vedrebbe quel disegnio che io avevo fatto sopra tal cosa. Messimi in via, e prestamente andai e tornai, perché avevo solo a passare la fiumara, cioè la Sena 4: portai meco un modello di cera, il quale io avevo fatto già a richiesta del cardinal di Ferrara in Roma. Giunto che io fui dal Re, scopertogli il modello, il Re maravigliatosi disse: "Questa è cosa molto più divina l’un cento 5, che io non arei mai pensato. Questa è gran cosa di quest’uomo! Egli non debbe mai posarsi 6". Di poi si volse a me con faccia molto lieta, e mi disse che quella era un’opera che gli piaceva molto, e che desiderava che io gliene facessi d’oro. Il cardinal di Ferrara, che era alla presenza, mi guardò in viso e mi accennò 7, come quello che la ricogniobbe che quello era il modello che io avevo fatto per lui in Roma. A questo io dissi che quell’opera già avevo detto che io la farei a chi l’aveva avere 8. Il Cardinale, ricordatosi di quelle medesime parole, quasi che isdegnato, parutogli che io mi fussi voluto vendicare, disse al Re: "Sire, questa è una grandissima opera, e però io non sospetterei 9 d’altro, se none che io non crederrei mai vederla finita: perché questi valenti uomini, che hanno quei gran concetti di quest’arte, volentieri danno lor principio, non considerando bene quando ell’hanno aver la fine. Per tanto, faccendo fare di queste cotale grande opere, io vorrei sapere quando io l’avessi avere". A questo rispose il Re, dicendo che chi cercassi così sottilmente la fine dell’opere, non ne comincierebbe mai nessuna; e lo disse in un certo modo, mostrando che quelle cotali opere non fussino materia da uomini di poco animo 10. Allora io dissi: "Tutti e’ principi che danno animo ai servitori loro, in quel modo che fa e che dice sua Maestà, tutte le grande imprese si vengono a facificare 11; e poi che Dio m’ha dato un così maraviglioso padrone, io spero di dargli finite di molte grande e meravigliose opere". "E io lo credo" disse il Re; e levossi da tavola. Chiamommi nella sua camera, e mi domandò quanto oro bisognava per quella saliera: "Mille scudi" dissi io. Subito il Re chiamò un suo tesauriere, che si domandava Monsignior lo risconte12 di Orbeche, e gli comandò che allora allora mi provvedessi mille scudi vecchi di buon peso, d’oro. Partitici da sua Maestà, mandai a chiamare quelli dua notari che m’avevan fatto dare l’argento per il Giove e molte altre cose, e passato la Sena, presi una piccolissima sportellina 13 che m’aveva donato una mia sorella cugina, monaca, innel passare per Firenze; e per mia buona aùria14 tolsi quella sportellina, e none un sacchetto; e pensando di spedire15 tal faccenda di giorno, perché ancora era buon’otta16, e non volendo isviare17i lavoranti; e manco non mi curai di menare servitore meco. Giunsi a casa il18 tesauriere, il quale di già aveva innanzi li danari, e gli sceglieva sì come gli aveva detto il Re. Per quanto a me parve vedere, quel ladrone tesauriere fece con arte19 il tardare insino a tre ore di notte a contarmi li detti dinari. Io, che non mancai di diligenza, mandai a chiamare parecchi di quei mia lavoranti, che venissino a farmi compagnia, perché era cosa di molta importanza. Veduto che li detti non venivano, io domandai a quel mandato20 se gli aveva fatto l’anbasciata mia. Un certo ladroncello servitore disse che l’aveva fatta, e che loro avevan detto non poter venire; ma che lui di buona voglia mi porterebbe quelli dinari: al quale io dissi che li dinari volevo portar da me. Intanto era spedito21 il contratto, contato li dinari e tutto. Messomili nella sportellina ditta, di poi messi il braccio nelli dua manichi; e perché entrava molto per forza, erano ben chiusi, e con più mia comodità gli portavo che se fussi stato un sacchetto. Ero bene armato di giaco e maniche, e con la mia spadetta e ’l pugniale accanto prestamente mi messi la via fra gambe22.
XVII. In quello stante1 viddi certi servitori, che, bisbigliando, presto ancora 2 loro si partirno di casa, mostrando andare per altra via che quella dove io andavo. Io che sollecitamente camminavo, passato il ponte al Cambio3, venivo su per un muricciuolo della fiumara, il quale mi conduceva a casa mia a Nello. Quando io fui appunto dagli Austini4, luogo pericolosissimo se ben vicino a casa mia cinquecento passi; per essere l’abitazione5 del castello a drento quasi che altretanto, non si sarebbe sentito la voce, se io mi fussi messo a chiamare; ma resolutomi in un tratto che io mi veddi scoperto6 a dosso quattro con quattro spade, prestamente copersi quella sportellina con la cappa, e messo mano in su la mia spada, veduto che costoro con sollecitudine7 mi serravano, dissi: "Dai soldati 8 non si può guadagniare altro che la cappa e la spada; e questa, prima che io ve la dia, spero l’arete con poco vostro guadagnio". E pugniando contro a di loro animosamente, più volte m’apersi9, acciò che, se e’ fussino stati di quelli indettati10 da quei servitori, che m’avevan visto pigliare i danari, con qualche ragione iudicassino che io non avevo tal somma di danari addosso. La pugnia durò poco, perché a poco a poco si ritiravono; e da lor dicevano in lingua loro: "Questo è un bravo11 Italiano, e certo non è quello che noi cercavamo; o sì veramente, se gli è lui, e’ non ha nulla addosso". Io parlavo italiano, e continuamente a colpi di stoccate e inbroccate 12 talvolta molto a presso gl’investi’ alla vita13; e perché io ho benissimo maneggiato l’arme, più giudicavono che io fussi soldato che altro; e ristrettisi insieme, a poco a poco si scostavano da me, sempre borbottando sotto voce in lor lingua; e ancora io sempre dicevo, modestamente pure, che chi voleva la mia arme e la mia cappa, non l’arebbe senza fatica. Cominciai a sollecitare14 il passo, e loro sempre venivano a lento passo drietomi15, 16: per la qual cosa a me crebbe la paura, pensando di non dare in qualche inboscata di parecchi altri simili, che m’avessino messo in mezzo: di modo che, quando io fui presso a cento passi, mi messi a tutta corsa e ad alta voce gridavo: "Arme arme, fuora fuora, ché io sono assassinato". Subito corse17 quattro giovani con quattro pezzi d’arme in aste; e volendo seguitar drieto a coloro, che ancor gli vedevano, gli fermai, dicendo pur forte: "Quei quattro poltroni non hanno saputo fare, contro a uno uomo solo, un bottino di mille scudi d’oro in oro18, i quali m’hanno rotto un braccio 19: sì che andiangli prima a riporre, e di poi io vi farò compagnia col mio spadone a dua mane dove voi vorrete". Andammo a riporre li dinari; e quelli mia giovani, condolendosi molto del gran pericolo che io avevo portato, modo che isgridarmi20, dicevano: "Voi vi fidate troppo di voi stesso, e una volta ci avete a far piagnier tutti". Io dissi di molte cose; e lor mi risposono anche; fuggirno gli aversari mia; e noi tutti allegri e lieti cenammo, ridendoci di quei gran pressi21 che fa la fortuna, tanto in bene quanto in male; e non cogliendo22, è come se nulla non fussi stato. Gli è ben vero che si dice: "Tu inparerai per un’altra volta". Questo non vale, perché la23 vien sempre con modi diversi e non mai inmaginati24.
XVIII. La mattina seguente subito detti principio alla gran saliera, e con sollecitudine quella con l’altre opere facevo tirare innanzi. Di già avevo preso di molti lavoranti, sì per l’arte della scultura, come per l’arte della oreficeria. Erano, questi lavoranti, italiani, franzesi, todeschi, e talvolta n’avevo buona quantità, sicondo che io trovavo de’ buoni: perché di giorno in giorno mutavo, pigliando di quelli che sapevano più, e quelli io gli sollecitavo di sorte1, che per il continuo affaticarsi, vedendo fare a me, che mi serviva un poco meglio la complessione2 che a loro, non possendo resistere alle gran fatiche, pensando ristorarsi col bere e col mangiare assai, alcuni di quei todeschi, che meglio sapevano che gli altri, volendo seguitarmi3, non sopportò da loro la natura tale ingiurie 4, che quegli ammazzò. Inmentre che io tiravo innanzi il Giove d’argento, vedutomi avanzare assai bene dell’argento5, messi mano sanza saputa6 del Re a fare un vaso grande con dua manichi, dell’altezza d’un braccio e mezzo in circa. Ancora mi venne voglia di gittare di7 bronzo quel modello grande che io avevo fatto per il Giove d’argento; messo mano a tal nuova impresa, quale io non avevo mai più fatta, e conferitomi8 con certi vecchioni di quei maestri di Parigi, dissi loro tutti e’ modi che noi nella Italia usavono9 fare tal impresa. Questi a me dissono che per quella via non erano mai camminati, ma se io lasciavo fare sicondo i lor modi, me lo darebbon fatto e gittato tanto netto e bello, quant’era quello di terra. Io volsi fare mercato10, dando quest’opera sopra di loro11; e sopra la domanda che quei m’avevan fatta, promessi loro parecchi scudi di più. Messon mano a tale impresa; e veduto io che loro non pigliavono la buona via, prestamente cominciai una testa di Iulio Cesare, col suo petto, armata, grande molto più del naturale, qual ritraevo da un modello piccolo che io m’avevo portato di Roma, ritratto da una testa maravigliosissima antica. Ancora messi mano in un’altra testa della medesima grandezza, quale io ritraevo da una bellissima fanciulla, che per mio diletto carnale a presso a me tenevo. A questa posi nome Fontana Beliò, che era quel sito che aveva eletto12 il Re per sua propria dilettazione13. Fatto la fornacetta bellissima per fondere il bronzo, e messo in ordine e cotto le nostre forme, quegli14 el Giove e io le mia dua teste, dissi a loro: "Io non credo che il vostro Giove venga, perché voi non gli avete dati tanti spiriti da15 basso, che el vento possa girare: però16 voi perdete il tempo". Questi dissono a me che quando la loro opera non fussi venuta, mi renderebbono tutti li dinari che io avevo dati loro a buon conto, e mi rifarebbono17 tutta la perduta ispesa; ma che io guardassi bene, ché quelle mie belle teste, che io volevo gittare al mio modo della Italia, mai non mi verrebbono. A questa disputa fu presente quei tesaurieri ed altri gentiluomini, che per commession del Re mi venivano a vedere; e tutto quello che si diceva e faceva, ogni cosa riferivano al Re. Feciono questi dua vecchioni, che volevan gittare il Giove, soprastare alquanto il dare ordine18 del getto: perché dicevano che arebbon voluto acconciare quelle dua forme delle mie teste: perché quel19 modo che io facevo, non era possibile che le venissino, ed era gran peccato a perder così bell’opere. Fattolo intendere al Re, rispose sua Maestà che gli attendessino a ’nparare e non cercassino di volere insegniare al maestro. Questi con gran risa messono in fossa20 l’opera loro; e io saldo, sanza nissuna dimostrazione né di risa né di stizza — che l’avevo — messi con le mie dua forme in mezzo il Giove; e quando il nostro metallo fu benissimo fonduto, con grandissimo piacere demmo la via al21 ditto metallo, e benissimo s’empié la forma del Giove; innel medesimo tempo s’empié la forma delle mie due teste: di modo che loro erano lieti e io contento: perché avevo caro d’aver detto le bugie della22 loro opera, e loro mostravano d’aver molto caro d’aver detto le bugie della mia. Domandorno pure alla franciosa con gran letizia da bere: io molto volentieri feci far loro una ricca colezione. Da poi mi chiesono li dinari che gli avevano da avere, e quegli di più che io avevo promessi loro. A questo io dissi: "Voi vi siate23 risi di quello, che io ho ben paura che voi non abbiate a piangere: perché io ho considerato che in quella vostra forma è entrato molto più roba24 che’l suo dovere: però io non vi voglio dare più dinari, di quelli che voi avete auti, insino a domattina". Cominciorno a considerare questi poveri uomini quello che io avevo detto loro, e sanza dir niente se ne andorno a casa. Venuti la mattina, cheti cheti cominciorno a cavare di fossa; e perché loro non potevano iscoprire la loro gran forma, se prima egli non cavavano quelle mie due teste, le quali cavorno e stavono benissimo, e le avevano messe in piede, che benissimo si vedevano. Cominciato da poi a scoprire il Giove, non furno dua braccia in giù, che loro con quattro lor lavoranti messono sì grande il grido, che io li sentii. Pensando che fussi grido di letizia, mi cacciai a correre, ché ero nella mia camera lontano più di cinquecento passi. Giunsi a loro e li trovai in quel modo che si figura25 quelli che guardavano il sepulcro di Cristo, afflitti e spaventati. Percossi26 gli occhi nelle mie due teste, e veduto che stavan bene, accomoda’mi27 il piacere col dispiacere; e loro si scusavano, dicendo: "La nostra mala fortuna!" Alle qual parole io dissi: "La vostra fortuna è stata bonissima, ma gli è bene stato cattivo il vostro poco sapere. Se io avessi veduto mettervi innella forma l’anima28, con una sola parola io v’arei insegniato che29 la figura sarebbe venuta benissimo: per la qual cosa a me ne risultava molto grande onore e a voi molto utile; ma io del mio onore mi scuserò, ma voi né de l’onore né de l’utile non avete iscampo30: però un’altra volta inparate a lavorare e non inparate a uccellare 31". Pur mi si raccomandavono32, dicendomi che io ave vo ragione, e che se io non gli aiutavo, che avendo a pagare quella grossa spesa e quel danno, loro andrebbono accattando33 insieme con le lor famiglie. A questo io dissi che quando gli tesaurieri del Re volessin lor far pagare quello a che loro s’erano ubrigati, io prommettevo loro di pagargli del mio, perché io avevo veduto veramente che loro avevan fatto di buon cuore34 tutto quello che loro sapevano. Queste cose m’accrebbono tanta benivolenzia con quei tesaurieri e con quei ministri del Re, che fu inistimabile. Tutto si scrisse al Re, il quale unico liberalissimo 35 comandò che si facessi tutto quello che io dicevo.
XIX. Era in questo giunto il maravigliosissimo bravo1 Piero Strozzi; e ricordato al Re le sue lettere di naturalità 2, il Re subito comandò che fussino fatte. "E insieme con esse" disse "fate ancora quelle di Benvenuto, mon ami3, e le portate subito da parte mia a sua magione, e dategnene senza nessuna spesa." Quelle del gran Piero Strozzi gli costorno molte centinaia di ducati; le mie me le portò un di quei primi sua segretari, il quale si domandava messer Antonio Massone4. Questo gentiluomo mi porse le lettere con maravigliosa dimostrazione, da parte di sua Maestà, dicendo: "Di queste vi fa presente il Re, acciò che con maggior coraggio voi lo possiate servire. Queste son lettere di naturalità"; e contonmi5 come molto 6 tempo e con molti favori l’aveva date7 a richiesta di Piero Istrozzi a esso, e che queste da per se istesso me le mandava a presentare: ché un tal favore non s’era mai più fatto in quel regnio. A queste parole io con gran dimostrazione ringraziai il Re; di poi pregai il ditto segretario, che di grazia mi dicessi quel che voleva dire quelle "lettere di naturalità". Questo segretario era molto virtuoso e gentile, e parlava benissimo italiano: mossosi prima a gran risa, di poi ripreso la gravità, mi disse innella lingua mia, cioè in italiano, quello che voleva dire "lettere di naturalità": quale era una delle maggior degnità8 che si dessi a un forestiero; e disse: "Questa è altra maggiore cosa, che esser fatto gentiluomo veniziano". Partitosi da me, tornato al Re, tutto riferì a sua Maestà, il quale rise un pezzo, di poi disse: "Or voglio che sappia per quel che9 io gli ho mandato lettere di naturalità. Andate, e fatelo signiore del castello del piccolo Nello che lui abita, il quale è mio di patrimonio. Questo saprà egli che cosa egli è, molto più facilmente che lui non ha saputo che cosa fussino le lettere di naturalità". Venne a me un mandato con il detto presente, per la qual cosa io volsi usargli cortesia: non volse accettar nulla, dicendo che così era commessione di sua Maestà. Le ditte lettere di naturalità, insieme con quelle del dono del castello, quando io venni in Italia le portai meco; e dovunque io vada, e dove io finisca la vita mia, quivi m’ingegnierò d’averle10.
XX. Or séguito innanzi il cominciato discorso della vita mia. Avendo infra le mane le sopra ditte opere, cioè il Giove d’argento, già cominciato, la ditta saliera d’oro, il gran vaso ditto d’argento, le due teste di bronzo, sollecitamente in esse opere si lavorava. Ancora detti ordine a gittare la basa1 del ditto Giove, qual feci di bronzo ricchissimamente, piena di ornamenti, infra i quali ornamenti iscolpi’ in basso rilievo il ratto di Ganimede2; da l’altra banda poi Leda e ’l cigno3: questa gittai di bronzo, e venne benissimo. Ancora ne feci un’altra simile per porvi sopra la statua di Iunone, aspettando di cominciare questa ancora, se il Re mi dava l’argento da poter fare tal cosa. Lavorando sollecitamente, avevo messo di già insieme il Giove d’argento; ancora avevo misso insieme la saliera d’oro; il vaso era molto innanzi; le due teste di bronzo erano di già finite. Ancora avevo fatto parecchi operette al cardinale di Ferrara; di più un vasetto d’argento, riccamente lavorato, avevo fatto per donarlo a madama de Tampes; a molti Signiori italiani, cioè il signior Piero Strozzi, il conte dell’Anguillara, il conte di Pitigliano4, il conte della Mirandola 5, e a molti altri avevo fatto di molte opere. Tornando al mio gran Re, sì come io ho detto, avendo tirato innanzi benissimo queste sue opere, in questo tempo lui ritornò a Parigi, e il terzo giorno venne a casa mia con molta quantità della maggior nobiltà della sua Corte, e molto si maravigliò delle tante opere che io avevo innanzi e a così buon porto tirate; e perché e’ v’era seco la sua madama di Tampes, cominciorno a ragionare di Fontana Beliò. Madama di Tampes disse a sua Maestà che egli doverrebbe farmi fare qualcosa di bello per ornamento della sua Fontana Beliò. Subito il Re disse: "Gli è ben fatto quel che voi dite, e adesso adesso mi voglio risolvere che là si faccia qualcosa di bello"; e voltosi a me, mi cominciò a domandare quello che mi pareva da fare per quella bella fonte. A questo io proposi alcune mie fantasie: ancora sua Maestà disse il parer suo; dipoi mi disse che voleva andare a spasso per quindici o venti giornate a San Germano dell’Aia, quale era dodici leghe discosto di Parigi6; e che in questo tanto io facessi un modello per questa sua bella fonte con più ricche invenzione che io sapevo, perché quel luogo era la maggior recreazione 7 che lui avessi nel suo regnio: però mi comandava e pregava che mi sforzassi di fare qualcosa di bello; e io tanto gli promessi. Veduto il Re tante opere innanzi, disse a madama de Tampes: "Io non ho mai auto uomo di questa professione che più mi piaccia, né che meriti più d’esser premiato di questo: però bisognia pensare di fermarlo. Perché gli spende assai, ed è buon compagnione8 e lavora assai, è di necessità che da per noi ci ricordiamo di lui: il perché si è9, considerate, Madama, tante volte quante gli è venuto da me, e quanto io son venuto qui, non ha mai domandato niente: il cuor suo si vede essere tutto intento all’opere; e’ bisognia fargli qualche bene presto, acciò che noi non lo perdiamo". Madama de Tampes disse: "Io ve lo ricorderò". Partirnosi10: io messi con gran sollecitudine intorno all’opere mie cominciate, e di più messi mano al modello della fonte e con sollecitudine lo tiravo innanzi.
XXI. In termine d’un mese e mezzo il Re ritornò a Parigi; e io, che avevo lavorato giorno e notte, l’andai a trovare, e portai meco il mio modello, di tanta bella bozza 1 che chiaramente s’intendeva. Di già era cominciato a rinnovare le diavolerie della guerra in fra lo Imperadore e lui2, di modo che io lo trovai molto confuso; pure parlai col cardinale di Ferrara, dicendogli che io avevo meco certi modelli, i quali m’aveva commesso sua Maestà: così lo pregai che se e’ vedeva tempo da commettere3 qualche parola per causa che questi modegli si potessin mostrare, "io credo che il Re ne piglierebbe molto piacere". Tanto fece il Cardinale: propose al Re4 detti modelli; subito il Re venne dove io avevo i modelli. Imprima avevo fatto la porta del palazzo di Fontana Beliò: per non alterare il manco che io potevo l’ordine5 della porta6 che era fatta a ditto palazzo, qual era grande e nana7, di quella lor mala maniera8 franciosa; la quale era l’apritura poco più d’un quadro9, e sopra esso quadro un mezzo tondo istiacciato a uso10 d’un manico di canestro: in questo mezzo tondo il Re desiderava d’averci una figura, che figurassi Fontana Beliò11. Io detti bellissima proporzione al vano ditto; di poi posi sopra il ditto vano un mezzo tondo giusto; e dalle bande12 feci certi piacevoli risalti 13, sotto i quali nella parte da basso, che veniva a conrispondenza di quella di sopra, posi un zocco14; e altanto15 di sopra; e in cambio di due colonne, che mostrava che si richiedessi sicondo le modanature fatte di sotto e di sopra16, avevo fatto un satiro17 in ciascuno de’ siti18 delle colonne. Questo 19 era più che di mezzo rilievo, e con un de’ bracci mostrava di reggere quella parte che tocca alle colonne: innell’altro braccio aveva un grosso bastone, con la sua testa ardito e fiero, qual mostrava spavento a’ riguardanti. L’altra figura era simile di positura, ma era diversa e varia di testa e d’alcune altre tali cose: aveva in mano una sferza con tre palle accomodate con certe catene. Se bene io dico satiri, questi non avevano altro di satiro che certe piccole cornetta e la testa caprina; tutto il resto era umana forma. Innel mezzo tondo avevo fatto una femmina in bella attitudine a diacere20: questa teneva il braccio manco 21 sopra al collo d’un cervio22, quale era una de l’inprese del Re: da una banda avevo fatto di mezzo rilievo caprioletti, e certi porci cigniali e altre salvaticine23 di più basso rilievo; da l’altra banda cani bracchi e livrieri di più sorte, perché così produce quel bellissimo bosco, dove nasce la fontana. Avevo di poi tutta quest’opera ristretta in un quadro oblungo24 e innegli anguli del quadro di sopra, in ciascuno, avevo fatto una Vittoria in basso rilievo, con quelle faccelline25 in mano, come hanno usato gli antichi. Di sopra al ditto quadro avevo fatto la salamandra, propia26 impresa del Re, con molti gratissimi altri ornamenti a proposito della ditta opera, qual dimostrava di essere di ordine ionico.
XXII. Veduto il Re questo modello, subito lo fece rallegrare, e lo divertì1 da quei ragionamenti fastidiosi in che gli era stato più di dua ore. Vedutolo io lieto a mio modo, gli scopersi l’altro modello, quale lui punto non aspettava, parendogli d’aver veduto assai opera in quello. Questo modello era grande più di due braccia, nel quale avevo fatto una fontana in forma d’un quadro perfetto, con bellissime iscalee intorno, quale s’intrasegavano2 l’una nell’altra: cosa che mai più s’era vista in quelle parti, e rarissima in queste3. In mezzo a detta fontana avevo fatto un sodo4, il quale si dimostrava un poco più alto che ’l ditto vaso della fontana: sopra questo sodo avevo fatto, a conrispondenza, una figura igniuda5 di molta bella grazia. Questa teneva una lancia rotta nella man destra elevata in alto, e la sinistra teneva in sul manico d’una sua storta6 fatta di bellissima forma: posava in sul piè manco e il ritto teneva in su un cimiere7 tanto riccamente lavorato, quanto inmaginar si possa; e in su e quattro canti della fontana avevo fatto, in su ciascuno, una figura8 a sedere elevata, con molte sue vaghe inprese 9 per ciascuna. Comincionmi a dimandare il Re che io gli dicessi che bella fantasia era quella che io avevo fatta, dicendomi che tutto quello che io avevo fatto alla porta, sanza dimandarmi di nulla10 lui l’aveva inteso, ma che questo della fonte, sebbene gli pareva bellissimo, nulla non n’intendeva; e ben sapeva che io non avevo fatto come gli altri sciocchi, che se bene e’ facevano cose con qualche poco di grazia, le facevano senza significato nissuno 11. A questo io mi messi in ordine: ché essendo piaciuto col fare, volevo bene che altretanto piacessi il mio dire. "Sappiate, sacra Maestà, che tutta quest’opera piccola è benissimo misurata a piedi piccoli12, qual mettendola poi in opera, verrà di questa medesima grazia che voi vedete. Quella figura di mezzo si è cinquantaquattro piedi" (questa parola il Re fe’grandissimo segnio di maravigliarsi13); "appresso, è fatta figurando lo idio Marte14. Quest’altre quattro figure son fatte per le Virtù, di che si diletta e15 favorisce tanto vostra Maestà: questa a man destra è figurata per la scienza di tutte le Lettere: vedete che l’ha i sua contra segni, qual dimostra la Filosofia con tutte le sue virtù compagnie. Quest’altra dimostra essere tutta l’Arte del disegnio, cioè Scultura, Pittura e Architettura. Quest’altra è figurata per la Musica, qual si conviene per compagnia a tutte queste iscienzie. Quest’altra, che si dimostra tanto grata e benignia, è figurata per la Liberalità: ché sanza lei non si può dimostrare nessuna di queste mirabil Virtù che Idio ci mostra. Questa istatua di mezzo, grande, è figurata per vostra Maestà istessa, quale è un dio Marte, che voi siete sol bravo al mondo; e questa bravuria voi l’adoperate iustamente e santamente in difensione della gloria vostra." Appena che gli ebbe tanta pazienza che mi lasciassi finir di dire, che levato gran voce, disse: "Veramente io ho trovato uno uomo sicondo il cuor mio 16"; e chiamò li tesaurieri ordinatimi17, e disse che mi provvedessino tutto quel che mi faceva di bisognio, e fussi grande ispesa quanto si volessi: poi a me dette in su la spalla con la mana, dicendomi: "Mon ami (che vuol dire ’amico mio’), io non so qual s’è maggior piacere, o quello d’un principe l’aver trovato un uomo sicondo il suo cuore, o quello di quel virtuoso l’aver trovato un principe che gli dia tanta comodità, che lui possa esprimere i sua gran virtuosi concetti". Io risposi che se io ero quello che diceva sua Maestà, gli era stato molto maggior ventura la mia. Rispose ridendo: "Diciamo che la sia eguale". Partimmi con grande allegrezza, e tornai alle mie opere.
XXIII. Volse la mia mala fortuna che io non fui avvertito 1 di fare altretanta commedia2 con madama de Tampes, che saputo la sera tutte queste cose, che erano corse3, dalla propia bocca del Re, gli4 generò tanta rabbia velenosa innel petto che con isdegno la disse: "Se Benvenuto m’avessi mostro le belle opere sue, m’arebbe dato causa di ricordarmi di lui al tempo". Il Re mi volse iscusare, e nulla s’appiccò5. Io che tal cosa intesi, ivi a quindici giorni — ché girato per la Normandia a Roano e a Diepa 6, dipoi eran ritornati a San Germano de l’Aia7 sopra ditto — presi quel bel vasetto che io avevo fatto a riquisizione 8 della ditta madama di Tampes, pensando che, donandoglielo, dovere riguadagniare la sua grazia. Così lo portai meco; e fattogli intendere per una sua nutrice, e mòstrogli alla ditta il bel vaso che io avevo fatto per la sua Signiora, e come io gliene volevo donare, la ditta nutrice mi fece carezze ismisurate, e mi disse che direbbe una parola a Madama, qual non era ancor vestita, e che subito dittogliene, mi metterebbe drento9. La nutrice disse il tutto a Madama, la qual rispose isdegniosamente: "Ditegli che aspetti". Io, inteso questo, mi vesti’ di pazienzia, la qual cosa mi è difficilissima; pure ebbi pazienzia insin doppo il suo desinare; e veduto poi l’ora tarda, la fame mi causò tanta ira, che non potendo più resistere, mandatole divotamente il canchero nel cuore, di quivi mi parti’ e me n’andai a trovare il cardinale di Loreno10, e li feci presente11 del ditto vaso, raccomandatomi solo che mi tenessi in buona grazia del Re. Disse che non bisogniava, e quando fussi bisognio, che lo farebbe volentieri; di poi chiamato un suo tesauriere, gli parlò nello orecchio. Il ditto tesauriere aspettò che io mi partissi dalla presenza del Cardinale; di poi mi disse: "Benvenuto, venite meco, che io vi darò da bere un bicchier di buon vino"; al quale io dissi, non sapendo quel che lui si volessi dire: "Di grazia, Monsigniore tesauriere, fatemi donare un sol bicchier di vino e un boccon di pane, perché veramente io mi vengo manco12, perché sono stato da questa mattina a buon’otta insino a quest’ora, che voi vedete, digiuno, alla porta di madama di Tampes, per donargli quel bel vasetto d’argento dorato, e tutto gli ho fatto intendere, e lei, per istraziarmi sempre, m’ha fatto dire che io aspettassi. Ora m’era sopraggiunto la fame, e mi sentivo mancare; e, sì come Idio ha voluto, ho donato la roba e le fatiche mie a chi molto meglio le meritava, e non vi chieggo altro che un poco da bere, ché per essere alquanto troppo colleroso, mi offende13 il digiuno di sorte, che mi faria cader in terra isvenuto". Tanto quanto io penai a dire queste parole, era comparso di mirabil vino e altre piacevolezze14 di far colezione, tanto che io mi recreai molto bene; e riaùto gli spiriti vitali, m’era uscita la stizza. Il buon tesauriere mi porse cento scudi d’oro; ai quali io feci resistenza, di non gli volere in modo nissuno. Andollo a riferire al Cardinale; il quale, dettogli una gran villania, gli comandò che me gli facessi pigliar per forza, e che non gli andassi più inanzi altrimenti. Il tesauriere venne a me crucciato, dicendo che mai più era stato gridato15 per l’addietro dal Cardinale; e volendomegli dare, io che feci16 un poco di resistenza, molto crucciato mi disse che me gli farebbe pigliar per forza. Io presi li dinari. Volendo andare a ringraziare il Cardinale, mi fece intendere per un suo segretario, che sempre che lui mi poteva far piacere, che me ne farebbe di buon cuore: io me ne tornai a Parigi la medesima sera. Il Re seppe ogni cosa. Dettono la baia a17 madama de Tampes, qual fu causa di farla maggiormente invelenire a far contro a di me, dove io portai gran pericolo della vita mia, qual si dirà al suo luogo.
XXIV. Se bene molto prima io mi dovevo ricordare della guadagniata amicizia del più virtuoso, del più amorevole e del più domestico1 uomo dabbene che mai io conoscessi al mondo: questo si fu messer Guido Guidi, eccellente medico e dottore e nobil cittadin fiorentino; per gli infiniti travagli postimi innanzi dalla perversa fortuna, l’avevo alquanto lasciato un poco indietro. Benché questo non importi molto, io mi pensavo, per averlo di continuo innel cuore, che bastassi; ma avvedutomi poi che la mia Vita2 non istà bene senza lui, l’ho commesso3 infra questi mia maggior travagli, acciò che sì come là e’ m’era conforto e aiuto, qui mi faccia memoria di quel bene. Capit ò il ditto messer Guido in Parigi; e avendolo cominciato a cognioscere, lo menai al mio castello, e quivi gli detti una stanza libera da per sé: così ci godemmo insieme parecchi anni. Ancora capitò il vescovo di Pavia, cioè monsignior de’ Rossi, fratello del conte di San Sicondo. Questo Signiore io levai d’in su l’osteria4e lo missi innel mio castello, dando ancora5 a lui una istanza libera, dove benissimo istette accomodato6 con sua servitori e cavalcature per di molti mesi. Ancora altra volta accomodai messer Luigi Alamanni con i figliuoli per qualche mese; pure mi dette grazia Idio che io potetti far qualche piacere, ancora io, agli uomini e grandi e virtuosi. Con il sopraditto messer Guido godemmo l’amicizia tanti anni, quanto io là soprastetti, gloriandoci spesso insieme che noi imparavamo qualche virtù alle spese di quello così grande e maraviglioso Principe, ogniun di noi innella sua professione. Io posso dire veramente che quello che io sia, e quanto di buono e bello io m’abbia operato, tutto è stato per causa di quel maraviglioso Re: però7rappicco il filo a ragionare di lui e delle mie grande opere fattegli.
XXV. Avevo in questo mio castello un giuoco di palla da giucare alla corda1, del quale io traevo assai utile mentre che io lo facevo esercitare. Era in detto luogo alcune piccole stanzette dove abitava diversa sorte di uomini, in fra i quali era uno stampatore2 molto valente di libri: questo teneva quasi tutta la sua bottega drento innel mio castello, e fu quello che stampò quel primo bel libro di medicina a messer Guido3. Volendomi io servire di quelle stanze, lo mandai via, pur con qualche difficultà non piccola. Vi stava ancora un maestro di salnitri4; e perché io volevo servirmi di queste piccole istanzette per certi mia buoni lavoranti todeschi, questo ditto maestro di salnitri non voleva diloggiare5; e io piacevolmente più volte gli avevo detto che lui m’accomodassi6 delle mie stanze, perché me ne volevo servire per abituro7 de’ mia lavoranti per il servizio del Re. Quanto più umile parlavo, questa bestia tanto più superbo mi rispondeva: all’utimo poi io gli detti per termine tre giorni. Il quale se ne rise, e mi disse che in capo di tre anni comincierebbe a pensarvi. Io non sapevo che costui era domestico8 servitore di madama di Tampes; e se e’ non fussi stato che quella causa di madama di Tampes mi faceva un po’ più pensare alle cose, che prima io non facevo, lo arei subito mandato via; ma volsi aver pazienzia quei tre giorni: i quali passati che e’ furno, sanza dire altro, presi todeschi, italiani e franciosi, con l’arme in mano, e molti manovali che io avevo; e in breve tempo sfasciai tutta la casa, e le sue robe gittai fuor del mio castello. E questo atto alquanto rigoroso feci, perché lui aveva dettomi che non conosceva possanza di italiano tanto ardita, che gli avessi mosso una maglia del suo luogo. Però, di poi il fatto, questo arrivò; al quale io dissi: "Io sono il minimo italiano della Italia, e non t’ho fatto nulla appetto9 a quello che mi basterebbe l’animo di farti, e che io ti farò, se tu parli un motto solo", con altre parole ingiuriose che io gli dissi. Quest’uomo, attonito e spaventato, dette ordine alle sue robe il meglio che potette; di poi corse a madama de Tampes, e dipinse uno inferno; e quella mia gran nimica, tanto maggiore10, quanto lei era più eloquente e più d’assai, lo dipinse al Re; il quale due volte, mi fu detto, si volse crucciar meco e dare male commessione 11 contro a di me; ma perché Arrigo Dalfino suo figliuolo 12, oggi re di Francia, aveva ricevuto alcuni dispiaceri da quella troppo ardita donna, insieme con la regina di Navarra, sorella del re Francesco, con tanta virtù mi favorirno, che il Re convertì in riso ogni cosa: per la qual cosa, con il vero aiuto de Dio, io passai una gran fortuna13.
XXVI. Ancora ebbi a fare il medesimo a un altro simile a questo, ma non rovinai la casa: ben gli gittai tutte le sue robe fuori. Per la quale cosa madama de Tampes ebbe ardire tanto, che la disse al Re: "Io credo che questo diavolo una volta vi saccheggierà Parigi". A queste parole il Re adirato rispose a madama de Tampes dicendole che io facevo troppo bene a difendermi da quella canaglia, che mi volevano inpedire il suo servizio1. Cresceva ogniora maggior rabbia a questa crudel donna: chiamò a sé un pittore, il quale istava per istanza2 a Fontana Beli ò, dove il re stava quasi di continuo. Questo pittore era italiano e bolognese, e per il Bolognia era conosciuto: per il nome suo proprio si chiamava Francesco Primaticcio. Madama di Tampes gli disse che lui doverrebbe domandare a il Re quell’opera della Fonte, che sua Maestà aveva resoluta3 a me, e che lei con tutta la sua possanza ne lo aiuterebbe: così rimasono d’accordo. Ebbe questo Bolognia la maggiore allegrezza che gli avessi mai, e tal cosa si promesse4 sicura, con tutto che la non fussi sua professione; ma perché gli aveva assai buon disegno, e’ s’era messo in ordine5 con certi lavoranti, i quali erano fattisi sotto la disciplina6 de il Rosso, pittore nostro fiorentino, veramente maravigliosissimo valentuomo; e ciò che costui faceva di buono, l’aveva preso dalla mirabil maniera del ditto Rosso, il quale era di già morto7. Potettono tanto quelle argute ragione, con il grande aiuto di madama di Tampes e con il continuo martellare giorno e notte, or Madama, ora il Bolognia, agli orecchi di quel gran Re. E quello che fu potente causa a farlo cedere, che8 lei e il Bolognia d’accordo dissono: "Come è ’gli possibile, sacra Maestà, che, volendo quella9 che Benvenuto gli faccia dodici statue d’argento, per la qual cosa non n’ha ancora finito una? O se voi lo inpiegate in una tanta grande inpresa, è di necessità che di queste altre, che tanto voi desiderate, per certo voi ve ne priviate: perché cento valentissimi uomini non potrebbono finire tante grande opere, quante questo valente uomo ha ordite. Si vede espresso10 che lui ha gran voluntà di fare; la qual cosa sarà causa che a un tratto vostra Maestà perda e lui e l’opere". Queste con molt’altre simile parole, trovato il Re in tempera 11, compiacque12 tutto quello che dimandato e’ gli avevano; e per ancora non s’era mai mostro13 né disegni né modegli di nulla di mano del detto Bolognia.
XXVII. In questo medesimo tempo in Parigi s’era mosso contro a di me quel sicondo abitante che io avevo cacciato del mio castello, e avevami mosso una lite, dicendo che io gli avevo rubato gran quantità della sua roba, quando l’avevo iscasato1. Questa lite mi dava grandissimo affanno e toglievami tanto tempo, che più volte mi volsi mettere al disperato2 per andarmi con Dio. Hanno per usanza in Francia di fare grandissimo capitale d’una3 lite che lor cominciano con un forestiero o con altra persona che e’ veggano che sia alquanto istraccurato4 a litigare; e subito che lor cominciano a vedersi qualche vantaggio innella ditta lite, truovano da venderla; e alcuni l’hanno data per dote a certi, che fanno totalmente quest’arte di comperar lite. Hanno un’altra brutta cosa, che gli uomini di Normandia, quasi la maggior parte, hanno per arte loro il fare il testimonio falso: di modo che questi che comprano la lite, subito instruiscono quattro di questi testimoni o sei, sicondo il bisognio, e per via di questi, chi non è avvertito a5 produrne tanti in contrario, un che non sappia l’usanza, subito ha la sentenzia contro. E a me intravenne6 questi ditti accidenti; e parendomi cosa molto disonesta, conparsi alla gran sala7 di Parigi per difender le mie ragione; dove io viddi un giudice, luogotenente del Re, del civile8, elevato in sun un gran tribunale. Questo uomo era grande, grosso e grasso, e d’aspetto austerissimo: aveva all’intorno di sé da una banda e da l’altra molti proccuratori e avvocati, tutti messi per ordine da destra e da sinistra: altri venivano, un per volta; e proponevano al ditto giudice una causa. Quelli avvocati, che erano da canto, io gli viddi talvolta parlar tutti a un tratto; dove io stetti maravigliato che quel mirabile uomo, vero aspetto di Plutone9, con attitudine evidente porgeva l’orecchio ora a questo ora a quello, e virtuosamente a tutti rispondeva. E perché a me sempre è dilettato il vedere e gustare ogni sorte di virtù, mi parve questa tanto mirabile, che io non arei voluto per gran cosa non l’aver veduta. Accadde, per essere quella sala grandissima e piena di gran quantità di gente, ancora usavano diligenza che quivi non entrassi chi non v’aveva che fare, e tenevano la porta serrata e una guardia a detta porta; la qual guardia alcune volte, per far resistenza a chi lui non voleva ch’entrassi, inpediva con quel gran romore quel maraviglioso giudice, il quale adirato diceva villania alla ditta guardia. E io più volte mi abbatte’10, e considerai l’accidente; e le formate11 parole, quale io senti’, furno queste, che disse il propio12 giudice, il quale iscòrse dua gentiluomini che venivano per vedere; e faccendo questo portiere grandissima resistenza, il ditto giudice disse gridando ad alta voce: "Sta’ cheto. sta’ cheto, Satanasso, levati di costì, e sta’ cheto". Queste parole innella lingua franzese suonano in questo modo: "Phe phe Satan phe phe Satan alè phe13". Io che benissimo avevo inparata la lingua franzese, sentendo questo motto, mi venne in memoria quel che Dante volse dire quando lui entrò con Vergilio suo maestro drento alle porte dello Inferno. Perché Dante a tempo di Giotto dipintore furno insieme in Francia e maggiormente in Parigi14, dove per le ditte cause si può dire quel luogo dove si litiga essere uno Inferno: però ancora15 Dante intendendo bene la lingua franzese, si servì di quel motto; e m’è parso gran cosa che mai non sia stato inteso per tale: di modo che io dico e credo che questi comentatori gli fanno dir cose le quale lui non pensò mai.
XXVIII. Ritornando ai fatti mia, quando io mi viddi dar certe sentenzie per mano di questi avvocati, non vedendo modo alcuno di potermi aiutare, ricorsi per mio aiuto a una gran daga che io avevo, perché sempre mi son dilettato di tener belle armi; e il primo che io cominciai a intaccare1 si fu quel principale2 che m’aveva mosso la ingiusta lite; e una sera gli detti tanti colpi pur guardando di non lo ammazzare, innelle gambe e innelle braccia, che di tutt’a due le gambe io lo privai. Di poi ritrovai quell’altro che aveva compro3 la lite, e anche lui toccai di sorte che tal lite si fermò4. Ringraziando di questo e d’ogni altra cosa sempre Idio, pensando per allora di stare un pezzo sanza esser molestato, dissi ai mia giovani di casa, massimo a l’italiani, per5 amor de Dio ogniuno attendesse alle faccende sua, e m’aiutassino qualche tempo, tanto che io potessi finire quell’opere cominciate, perché presto le finirei; di poi me volevo ritornare in Italia, non mi potendo conportare con6 le ribalderie di quei franciosi; e che se quel buon Re s’adirava una volta meco, m’arebbe fatto capitar male, per avere io fatto per mia difesa di molte di quelle cotal cose. Questi italiani ditti si erano, il primo e ’l più caro, Ascanio, del regnio di Napoli, luogo ditto Tagliacozzze; l’altro si era Pagolo, romano, persona nata molto umile e non si cogniosceva suo padre: questi dua erano quelli che io avevo menato di Roma, li quali in detta Roma stavano meco. Un altro romano, che era venuto ancora lui a trovarmi di Roma apposta, ancora questo si domandava per nome Pagolo ed era figliuolo d’un povero gentiluomo romano della casata de’ Macaroni: questo giovane non sapeva molto de l’arte, ma era bravissimo con l’arme. Un altro n’avevo, il quale era ferrarese, e per nome Bartolomeo Chioccia. Ancora un altro n’avevo: questo era fiorentino e aveva nome Pagolo Miccieri. E perché il suo fratello, ch’era chiamato per sopra nome il Gatta: questo era valente in su le scritture 7, ma aveva speso troppo innel maneggiare la roba di Tommaso Guadagni ricchissimo mercatante8; questo Gatta mi dette ordine a certi libri, dove io tenevo i conti del gran Re cristianissimo e d’altri; questo Pagolo Miccieri, avendo preso9 il modo dal suo fratello di questi mia libri, lui me gli seguitava, e io gli davo bonissima provvisione. E perché e’ mi pareva molto buon giovane, perché lo vedevo divoto, sentendolo continuamente quando borbottar salmi, quando con la corona10 in mano, assai mi promettevo della11sua fintå bontà. Chiamato lui solo da parte, gli dissi: "Pagolo, fratello carissimo; tu vedi come tu stai meco bene, e sai che tu non avevi nissuno avviamento 12, e di più ancora tu se’ fiorentino: per la qual cosa io mi fido più di te, per vederti molto divoto con gli atti della religione, quale è cosa che molto mi piace. Io ti priego che tu mi aiuti, perché io non mi fido tanto di nessuno di quest’altri: pertanto ti priego che tu m’abbia cura a queste due prime cose, che molto mi darieno fastidio: l’una si è, che tu guardi benissimo la roba mia, che la non mi sia tolta, e così tu non me la toccare; ancora, tu vedi quella povera fanciulletta della Caterina, la quale io tengo principalmente per servizio de l’arte mia13, che senza non potrei fare: ancora, perché io sono uomo, me ne son servito ai mia piaceri carnali, e potria essere che la mi farebbe un figliuolo; e perché io non vo’ dar le spese ai14 figliuoli d’altri, né manco sopporterei che mi fussi fatto una tale ingiuria. Se nissuno15 di questa casa fussi tanto ardito di far tal cosa, e io me ne avvedessi, per certo credo che io ammazzerei l’una e l’altro. Però16 ti priego, caro fratello, che tu m’aiuti; e se tu vedi nulla 17, subito dimmelo, perché io manderò alle forche lei e la madre e chi a tal cosa attendessi18: però sia19 il primo a guardartene". Questo ribaldo si fece un segnio di croce, che arrivò dal capo ai piedi, e disse: "O Iesu benedetto! Dio me ne guardi che mai io pensassi a tal cosa! prima, per non esser dedito a coteste cosaccie; di poi, non credete voi che io cogniosca il gran bene che io ho20 da voi?" A queste parole, vedutemele dire in atto simplice e amorevole in verso di me, credetti che la stessi appunto come lui diceva.
XXIX. Di poi dua giorni appresso, venendo la festa, messer Mattia del Nazaro, ancora lui italiano e servitor del Re, della medesima professione valentissimo uomo, m’aveva invitato con quelli mia giovani a godere a1 un giardino. Per la qual cosa io mi messi in ordine, e dissi ancora a Pagolo che lui dovessi venire a spasso a rallegrarsi, parendomi d’avere alquanto quietato un poco quella ditta fastidiosa lite2. Questo giovane mi rispose dicendomi: "Veramente che sarebbe grande errore a lasciare la casa così sola: vedete quant’oro, argento e gioie voi ci avete. Essendo a questo modo in città di ladri, bisognia guardarsi di dì come di notte: io mi attenderò a dire certe mie orazioni, in mentre che io guarderò la casa; andate con l’animo posato3 a darvi piacere e buon tempo: un’altra volta farà un altro questo uffizio4". Parendomi di andare con l’animo riposato, insieme con Pagolo, Ascanio e il Chioccia al ditto giardino andammo a godere, e quella giornata gran pezzo d’essa passammo lietamente. Cominciatosi a ’pressare5 più inverso la sera, sopra il mezzo giorno mi toccò l’umore6, e cominciai a pensare a quelle parole che con finta semplicità m’aveva detto quello isciagurato; montai in sul mio cavallo e con dua mia servitori tornai al mio castello, dove io trovai Pagolo e quella Caterinaccia quasi in sul peccato: perché giunto che io fui, la franciosa ruffiana madre con gran voce disse: "Pagolo, Caterina, gli è qui il padrone". Veduto venire l’uno e l’altro ispaventati e sopragiunti a me tutti sconpigliati, non sapendo né quello che lor si dicevano, né, come istupidi, dove loro andavano, evidentemente si cogniobbe il commesso lor peccato. Per la qual cosa sopra fatta7 la ragione dall’ira, messi mano alla spada, resolutomi per ammazzargli tutt’a dua. Uno si fuggì, l’altra si gittò in terra ginocchioni, e gridava tutte le misericordie del cielo. Io, che arei prima voluto dare al mastio, non lo potendo così giugnere al primo8, quando da poi l’ebbi raggiunto intanto m’ero consigliato 9: il mio meglio si era di cacciargli via tutt’a dua: perché con tante altre cose fattesi vicine a questa10, io con difficultà arei campato la vita. Però dissi a Pagolo: "Se gli occhi mia avessino veduto quello che tu, ribaldo, mi fai credere, io ti passerei dieci volte la trippa con questa spada: or lievamiti dinanzi, che se tu dicesti mai il Pater nostro, sappi che gli è quel di san Giuliano 11". Di poi cacciai via la madre e la figliuola a colpi di pinte12, calci e pugnia. Pensorno vendicarsi di questa ingiuria, e conferito con uno avvocato normando13, insegniò loro che lei dicessi che io avessi usato14 seco al modo italiano: qual modo s’intendeva contro natura, cioè in soddomia; dicendo: "Per lo manco, come questo italiano sente questa tal cosa, e saputo quanto e’ l’è di gran pericolo, subito vi donerà parecchi centinaia di ducati, acciò che voi non ne parliate, considerando la gran penitenzia che si fa15 in Francia di questo tal peccato". Così rimasino d’accordo: mi posono l’accusa, e io fui richiesto16.
XXX. Quanto più cercavo di riposo, tanto più mi si mostrava le tribulazione. Offeso dalla fortuna ogni dì in diversi modi, cominciai a pensare qual cosa delle dua io dovevo fare: o andarmi con Dio e lasciare la Francia nella sua malora; o sì veramente combattere anche questa pugnia 1 e vedere a che fine m’aveva creato Idio. Un gran pezzo m’ero tribulato sopra questa cosa; all’utimo poi, preso per resoluzione d’andarmi con Dio, per non voler tentare tanto la mia perversa fortuna, che lei m’avessi fatto rompere il collo, quando io fui disposto in tutto e per tutto, e mosso2 i passi per dar presto luogo a3 quelle robe che io non potevo portar meco, e quell’altre sottile4, il meglio che io potevo, accomodarle a dosso a me e miei servitori, pur con molto mio grave dispiacere faceva tal partita. Ero rimasto solo in un mio studiuolo: perché quei mia giovani, che m’avevano confortato5 che io mi dovessi andar con Dio, dissi loro che gli era bene che io mi consigliassi un poco da per me medesimo; con tutto ciò che io conoscevo bene che loro dicevano in gran parte il vero; perché da poi che io fussi fuor di prigione e avessi dato un poco di luogo a6 questa furia, molto meglio mi potrei scusare con il Re, dicendo con lettere questo tale assassinamento fattomi sol per invidia. E sì come ho detto, m’ero risoluto a far così; e mossomi, fui preso per una spalla e volto, e una voce che disse animosamente: "Benvenuto, come tu suoi7, e non aver paura". Subito presomi contrario consiglio da quel che avevo fatto, i’ dissi a quei mia giovani taliani: "Pigliate le buone arme e venite meco, e ubbidite a quanto io vi dico, e non pensate ad altro, perché io voglio comparire8. Se io mi partissi, voi andresti l’altro dì tutti in fumo 9: sì che ubbidite e venite meco". Tutti d’accordo quelli giovani dissono: "Da poi che noi siamo qui e viviamo del suo, noi doviamo andar seco e aiutarlo insinché c’è vita a ciò che lui proporrà: perché gli ha detto più il vero che noi non pensavamo. Subito che e’ fussi fuora di questo luogo, e’ nemici sua ci farebbon tutti mandar via. Consideriamo bene le grande opere, che son qui cominciate, e di quanta grande inportanza le sono: a noi non ci basterebbe la vista di finirle sanza lui, e li nimici sua direbbono che e’ se ne fussi ito per non gli bastar la vista di finire queste cotale imprese". Dissono di molte parole, oltre a queste, d’inportanza. Quel giovane romano de’ Macaroni fu il primo a metter animo agli altri: ancora chiamò parecchi di quei tedeschi e franciosi che mi volevan bene. Eramo dieci infra tutti: io presi il cammino dispostomi, resoluto di non mi lasciare carcerare vivo. Giunto alla presenza dei giudici cherminali10, trovai la ditta Caterina e sua madre. Sopragiunsi loro addosso che le ridevano con un loro avvocato: entrai drento e animosamente domandai il giudice, che gonfiato, grosso e grasso, stava elevato sopra gli altri in su ’n un tribunale. Vedutomi quest’uomo, minaccioso con la testa, disse con sommissa 11 voce: "Se bene tu hai nome Benvenuto, questa volta tu sarai il mal venuto". Io intesi, e replicai un’altra volta dicendo: "Presto ispacciatemi12: ditemi quel che io son venuto a far qui". Allora il ditto giudice si volse a Caterina e le disse: "Caterina, dì tutto quel che t’è occorso d’avere a fare con Benvenuto". La Caterinå disse che io avevo usato seco al modo della Italia. Il giudice voltosi a me, disse: "Tu senti quel che la Caterina dice, Benvenuto". Allora io dissi: "Se io avessi usato seco al modo italiano, l’arei fatto solo per desiderio d’avere un figliuolo, sì come fate voi altri". Allora il giudice replicò, dicendo: "Ella vuol dire che tu hai usato seco fuora del vaso dove si fa figliuoli". A questo io dissi che quello non era il modo italiano: anzi che doveva essere il modo franzese, da poi che lei lo sapeva e io no; e che io volevo che lei dicessi a punto innel modo che io avevo aùto a far seco. Questa ribaldella puttana iscelleratamente disse iscoperto e chiaro il brutto modo che la voleva dire. Io gnene feci raffermare13tre volte l’uno appresso a l’altro; e ditto che l’ebbe, io dissi ad alta voce: "Signior giudice, luogotenente del Re cristianissimo, io vi domando giustizia: perché io so che le legge del cristianissimo Re a tal peccato promettono il fuoco a l’agente e al paziente14: però costei confessa il peccato: io non la cogniosco15 in modo nessuno: la ruffiana madre è qui, che per l’un delitto e l’altro merita il fuoco; io vi domando iustizia". E queste parole replicavo tanto frequente e ad alta voce, sempre chiedendo il fuoco per lei e per la madre: dicendo al giudice che se non la metteva prigione alla presenza mia, che io correrei al Re, e direi la ingiustizia che mi faceva un suo luogotenente cherminale. Costoro a questo mio gran romore cominciorno a ’bassar le voci; allora io l’alzavo più: la puttanella a piagnere insieme con la madre, e io al giudice gridavo: "Fuoco, fuoco". Quel poltroncione 16, veduto che la cosa non era passata in quel modo che lui aveva disegniato, cominciò con più dolce parole a iscusare il debole sesso femminile. A questo, io considerai che mi pareva pure d’aver vinto una gran pugna. e, borbottando e minacciando, volentieri m’andai con Dio: ché certo arei pagato cinquecento scudi a non v’esser mai comparso. Uscito di quel pelago17, con tutto il cuore ringraziai Idio, e lieto me ne tornai con i mia giovani al mio castello.
XXXI. Quando la perversa fortuna, o sì veramente vogliam dire quella nostra contraria istella, toglie1 a perseguitare uno uomo, non gli manca mai modi nuovi da mettere in campo contro a di lui. Parendomi d’esser uscito di uno inistimabil pelago, pensando pure che per qualche poco di tempo questa mia perversa istella mi dovessi lasciare istare, non avendo ancora ripreso il fiato da quello inistimabil pericolo, che lei2 me ne dette dua a un tratto innanzi3. In termine di tre giorni mi occorre dua casi; a ciascuno dei dua la vita mia è in sul bilico della bilancia. Questo si fu che, andando io a Fontana Beliò a ragionare con il Re, che m’aveva iscritto una lettera, per la quale lui voleva che io facessi le stampe delle monete di tutto il suo regnio, e con essa lettera m’aveva mandato alcuni disegnietti per mostrarmi parte della voglia sua4; ma ben mi dava licenzia che io facessi tutto quel che a me piaceva: io avevo fatto nuovi disegni, sicondo il mio parere e sicondo la bellezza de l’arte. Così giunto a Fontana Beliò, uno di quei tesaurieri, che avevano commessione dal Re di provvedermi — questo si chiamava monsignior della Fa —, il quale subito mi disse: "Benvenuto, il Bolognia pittore ha auto dal Re commessione di fare il vostro gran colosso5 e tutte le commessione che ’l nostro Re ci aveva dato per voi, tutte ce l’ha levate, e datecele per lui. A noi c’è saputo grandemente male6, e c’è parso che questo vostro italiano molto temerariamente si sia portato7 invero di voi: perché voi avevi di già auto l’opera per virtù de’ vostri modelli e delle vostre fatiche; costui ve la toglie solo per il favore di madama di Tampes; e sono oramai di molti mesi che gli ha auto tal commessione, e ancora non s’è visto che dia ordine a8 nulla". Io, maravigliato, dissi: "Come è egli possibile che io non abbia mai saputo nulla di questo?" Allora mi disse che costui l’aveva tenuta segretissima, e che l’aveva auta con grandissima difficultà, perché il Re non gnene voleva dare; ma le sollecitudine9 di madama di Tampes solo gnene avevan fatto avere. Io sentitomi a questo modo offeso e a così gran torto, e veduto tormi un’opera la quale io m’avevo guadagniata con le mia gran fatiche, dispostomi di fare qualche gran cosa di momento10 con l’arme, difilato me n’andai a trovare il Bolognia. Trova’lo in camera sua, e inne’ sua11 studii: fecemi chiamare drento, e con certe sue lombardesche raccoglienze 12 mi disse qual buona faccenda mi aveva condotto quivi. Allora io dissi: "Una faccenda bonissima e grande". Quest’uomo commesse ai sua servitori che portassino da bere, e disse: "Prima che noi ragioniamo di nulla13, voglio che noi beviamo insieme: ché così è il costume di Francia". Allora io dissi: "Misser Francesco, sappiate che quei ragionamenti che noi abbiamo da fare insieme, non richieggono il bere imprima: forse dappoi si potria bere". Cominciai a ragionar seco dicendo: "Tutti gli uomini che fanno professione di uomo dabbene, fanno le opere loro che per quelle si cogniosce quelli essere uomini dabbene; e faccendo il contrario, non hanno più il nome di uomo da bene. Io so che voi sapevi14 che il Re m’aveva dato da fare quel gran colosso, del quale s’era ragionato diciotto mesi, e né voi né altri mai s’era fatto innanzi a dir nulla sopraciò: per la qual cosa con le mie gran fatiche io m’ero mostro15 al gran Re, il quale, piaciutogli i mia modelli, questa grande opera aveva dato a fare a me; e son tanti mesi che non ho sentito altro: solo questa mattina ho inteso che voi l’avete aùta e toltola a me; la quale opera io me la guadagniai con i mia maravigliosi fatti, e voi me la togliete solo con le vostre vane parole".
XXXII. A questo il Bolognia rispose e disse: "O Benvenuto, ogniun cerca di fare il fatto suo in tutt’i modi che si può: se il Re vuol così, che volete voi replicare altro? ché getteresti via il tempo, perché io l’ho aùta ispedita 1, ed è mia. Or dite voi ciò che voi volete, e io v’ascolter ò". Dissi così: "Sappiate, messer Francesco, che io v’arei da dire molte parole, per le quale con ragion mirabile e vera io vi farei confessare che tal modi non si usano, qual son cotesti che voi avete fatto e ditto, in fra gli animali razionali2: però verrò con breve parole presto al punto della conclusione; ma aprite gli orecchi e intendetemi bene, perché la inporta3". Costui si volse muovere da sedere, perché mi vidde tinto in viso e grandemente canbiato; io dissi che non era ancor tempo a muoversi: che stessi a sedere e che m’ascoltassi. Allora io cominciai, dicendo così: "Messer Francesco, voi sapete che l’opera era prima mia, e che, a ragion di mondo, gli era passato il tempo che nessuno non ne doveva più parlare: ora io vi dico che io mi contento che voi facciate un modello, e io, oltra a quello che io ho fatto, ne farò un altro; di poi cheti cheti lo porteremo al nostro gran Re; e chi guadagnerà per quella via il vanto d’avere operato meglio, quello meritamente sarà degnio del colosso4; e se a voi toccherà a farlo, io diporrò5 tutta questa grande ingiuria che voi m’avete fatto, e benedirovvi le mane, come più degne delle mia d’una tanta gloria. Sì che rimagniamo così, e saremo amici; altrimenti noi saremo nimici; e Dio che aiuta sempre la ragione, e io che le fo la strada, vi mostrerrei in quanto grande error voi fussi". Disse messer Francesco: "L’opera è mia, e da poi che la m’è stata data, io non voglio mettere il mio in compromesso". A cotesto io rispondo: "Messer Francesco, che6 da poi che voi non volete pigliare il buon verso, quale è giusto e ragionevole, io vi mostrerrò quest’altro, il quale sarà come il vostro, che è brutto e dispiacevole. Vi dico così che se io sento mai in modo nessuno che voi parliate di questa mia opera, io subito vi ammazzerò come un cane; e perché noi non siamo né in Roma, né in Bolognia, né in Firenze — qua si vive in un altro modo —, se io so mai che voi ne parliate al Re o ad altri, io vi ammazzerò a ogni modo. Pensate qual via voi volete pigliare: o quella prima buona, che io dissi, o questa ultima cattiva, che io dico". Quest’uomo non sapeva né che si dire, né che si fare, e io ero in ordine per7 fare più volentieri quello effetto allora8, che mettere altro tempo in mezzo. Non disse altre parole che queste, il ditto Bolognia: "Quando io farò le cose che debbe fare uno uomo da bene, io non arò una paura al mondo". A questo dissi: "Bene avete detto; ma faccendo il contrario abbiate paura, perché la v’inporta9"; e subito mi parti’da lui, e anda’mene10dal Re, e con sua Maestà disputai un gran pezzo la faccenda delle monete; la quale noi non fummo molto d’accordo: perché essendo quivi il suo Consiglio, lo persuadevano che le monete si dovessin fare in quella maniera di Francia, sì come le s’eran fatte insino a quel tempo. Ai quali risposi che sua Maestà m’aveva fatto venire della Italia perché io gli facessi dell’opere che stessin bene; e se sua Maestà mi comandassi al contrario, a me non comporteria l’animo11 mai di farle. A questo si dette spazio12 per ragionarne un’altra volta: subito io me ne tornai a Parigi.
XXXIII. Non fui sì tosto iscavalcato, che una buona persona, di quelli che hanno piacere di vedere del male, mi venne a dire che Pagolo Miccieri aveva preso una casa per quella puttanella della Caterina e per sua madre, e che continuamente lui si tornava quivi 1, e che parlando di me sempre con ischerno diceva: "Benvenuto aveva dato a guardia la lattuga ai paperi, e pensava che io non me la mangiassi; basta che ora e’ va bravando2 e crede che io abbia paura di lui: io mi son messo questa spada e questo pugniale a canto per dargli a divedere3 che anche la mia spada taglia, e son fiorentino come lui, de’ Miccieri, molto meglio casata che non sono i sua Cellini". Questo ribaldo, che mi portò tale inbasciata, me la disse con tanta efficacia, io mi senti’ subito balzare la febbre addosso, dico la febbre sanza dire per comparazione4. E perché forse di tale bestiale passione io mi sarei morto, presi per rimedio di dar quell’esito5 che m’aveva dato tale occasione, sicondo il modo che in me sentivo. Dissi a quel mio lavorante ferrarese, che si chiamava il Chioccia, che venissi meco, e mi feci menar dietro dal servitore el mio cavallo; e giunto a casa, dove era questo isciagurato, trovato la porta socchiusa, entrai dentro: viddilo che gli aveva accanto la spada e ’l pugniale, ed era a sedere in su ’n un cassone, e teneva il braccio al collo a la Caterina: appunto6 arrivato, senti’ che lui con la madre di lei motteggiava de’ casi mia. Spinta la porta, in un medesimo tempo messo la mana alla spada, gli posi la punta d’essa alla gola, non gli avendo dato tempo a poter pensare che ancora lui aveva la spada, dissi a un tratto: "Vil poltrone, raccomàndati a Dio, che tu se’ morto". Costui, fermo, disse tre volte: "O mamma mia, aiutatemi". Io che avevo voglia d’ammazzarlo a ogni modo, sentito che ebbi quelle parole tanto isciocche, mi passò la metà della stizza. Intanto avevo detto a quel mio lavorante Chioccia che non lasciassi uscire né lei né la madre, perché se io davo a lui, altretanto male volevo fare a quelle dua puttane. Tenendo continuamente la punta della spada alla gola, e alquanto un pochette lo pugnevo, sempre con paventose parole; veduto poi che lui non faceva una difesa al mondo, e io non sapevo più che mi fare, e quella bravata fatta non mi pareva che l’avessi fine nessuna7, mi venne in fantasia, per il manco male, di fargnene isposare, con disegnio di far da poi le mie vendette. Così resolutomi, dissi: "Càvati quello anello che tu hai in dito, poltrone, e sposala, acciò che poi io possa fare le vendette che tu meriti". Costui subito disse: "Purché voi non mi ammazziate, io farò ogni cosa". "Adunche" diss’io "mettigli l’anello." Scostatogli un poco la spada dalla gola, costui le misse l’anello. Allora io dissi: "Questo non basta, perché io voglio che si vadia 8 per dua notari, che tal cosa passi per contratto". Ditto al Chioccia che andassi per e’ notari, subito mi volsi a lei e alla madre. Parlando in franzese dissi: "Qui verrà i notari e altri testimoni: la prima che io sento di voi che parli nulla di tal cosa, subito l’ammazzer ò, e v’ammazzerò tutt’a tre: sì che state in cervello". A lui dissi in italiano: "Se tu replichi nulla a tutto quel che io proporrò, ogni minima parola che tu dica, io ti darò tante pugnialate, che io ti farò votare ciò che tu hai nelle budella". A questo lui rispose: "A me basta che voi non mi ammazziate; e io farò ciò che voi volete". Giunse i notari e li testimoni, fecesi il contratto altentico 9 e, mirabile!, passommi la stizza e la febbre. Pagai li notari, e anda’mene. L’altro giorno10 venne a Parigi il Bolognia a posta, e mi fece chiamare da Mattio del Nasaro: andai e trovai il detto Bolognia, il quale con lieta faccia mi si fece incontro, pregandomi che io lo volessi per buon fratello, e che mai più parlerebbe di tale opera, perché conosceva benissimo che io avevo ragione11.
XXXIV. Se io non dicessi, in qualcuno di questi mia accidenti, cognioscere1 d’aver fatto male, quell’altri, dove io cogniosco aver fatto bene, non sarebbono passati per 2 veri: però 3 io cogniosco d’aver fatto errore a volermi vendicare tanto istranamente con Pagolo Miccieri. Benché, se io avessi pensato che lui fussi stato uomo di tanta debolezza, non mai mi sarie4venuta in animo una tanto vituperosa vendetta, qual io feci: ché non tanto mi bastò l’avergli fatto pigliar per moglie una così iscellerata puttanella; ché ancora di poi, per voler finire il restante della mia vendetta, la facevo chiamare, e la ritraevo: ognindì le davo trenta soldi; e faccendola stare ignuda, voleva la prima cosa che io li dessi li sua dinari innanzi; la siconda voleva molto bene da far colezione; la terza io per vendetta usavo seco, rinproverando 5 a lei e al marito le diverse corna che io gli facevo; la quarta si era che io la facevo stare con gran disagio parecchi e parecchi ore; e stando in questo disagio a lei veniva molto a fastidio, tanto quanto a me dilettava, perché lei era di bellissima forma e mi faceva grandissimo onore6. E perché e’ non le pareva che io l’avessi quella discrezione che prima io avevo, innanzi che lei fussi maritata, venendole grandemente a noia, cominciava a brontolare; e in quel modo suo francioso con parole bravava 7, allegando 8 il suo marito, il quale era ito a stare col priore di Capua 9, fratello di Piero Strozzi. E sì come i’ ho detto, la allegava questo suo marito; e come io sentivo parlar di lui, subito mi veniva una stizza inistimabile; pure me la sopportavo, mal volentieri, il meglio che io potevo, considerando che per l’arte mia io non potevo trovare cosa 10 più a proposito di costei; e da me dicevo: "Io fo qui dua diverse vendette: l’una per esser moglie: queste non son corna vane, come eran le sua quando lei era a me puttana: però se io fo questa vendetta sì rilevata 11 inverso di lui, e inverso di lei ancora tanta istranezza 12 faccendola stare qui con tanto disagio, il quale, oltra al piacere, mi resulta 13 tanto onore e tanto utile, che poss’io più desiderare?" In mentre che io facevo questo mio conto, questa ribalda moltipricava 14 con quelle parole ingiuriose, parlando pure 15 del suo marito; e tanto faceva e diceva che lei mi cavava de’ termini della 16 ragione; e datomi in preda all’ira, la pigliavo pe’ capegli e la strascicavo per la stanza, dandogli tanti calci e tante pugnia insino che io ero stracco. E quivi non poteva entrare persona al suo soccorso. Avendola molto ben pesta, lei giurava di non mai più voler tornar da me: per la qual cosa la prima volta mi parve molto aver mal fatto, perché mi pareva perdere una mirabile occasione al farmi onore. Ancora vedevo lei esser tutta lacerata, livida e enfiata 17, pensando che, se pure lei tornassi, essere di necessità di farla medicare per quindici giorni, innanzi che io me ne potessi servire.
XXXV. Tornando a lei, mandavo una mia serva che l’aiutassi vestire, la qual serva era una donna vecchia che si domandava Ruberta, amorevolissima; e giunta a questa ribaldella, le portava di nuovo da bere e da mangiare; di poi l’ugneva con un poco di grasso di carnesecca arrostinto quelle male percosse che io le avevo date, e ’l resto del grasso che avanzava se lo mangiavano insieme. Vestita, poi si partiva bestemmiando e maladicendo tutti li taliani e il Re che ve gli teneva: così se ne andava piagnendo e borbottando insino a casa. Certo che a me questa prima volta parve molto aver mal fatto; e la mia Ruberta mi riprendeva, e pur 1 mi diceva: "Voi sete ben crudele a dare tanto aspramente a una così bella figlietta". Volendomi scusare con questa mia Ruberia, dicendole le ribalderie che l’aveva fatte, e lei e la madre, quando la stava meco, a questo la Ruberta mi sgridava, dicendo che quel non era nulla, perché gli era il costume di Francia, e che sapeva certo che in Francia non era marito che non avessi le sue cornetta. A queste parole io mi movevo a risa, e poi dicevo alla Ruberta che andassi a vedere come la Caterina istava, perché io arei auto a piacere 2 di poter finire quella mia opera, servendomi di lei. La mia Ruberia mi riprendeva, dicendomi che io non sapevo vivere: perché "A pena sarà egli giorno, che lei verrà qui da per sé, dove che, se voi la mandassi a domandare o a visitare, la farebbe il grande 3 e non ci vorrebbe venire". Venuto il giorno seguente, questa ditta Caterina venne alla porta mia, e. con gran furore picchiava la ditta porta, di modo che, per essere io abbasso corsi a vedere se questo era pazzo o di casa 4, Aprendo la porta, questa bestia ridendo mi si gitt ò al collo, abbracciommi e baciommi, e mi dimandò se io era più crucciato con essa. Io dissi che no. Lei disse: "Datemi ben d’asciolvere 5 addunche". Io le detti ben d’asciolvere, e con essa mangiai per segnio di pace. Di poi mi messi a ritrarla, e in quel mezzo vi occorse le piacevolezze carnali, e di poi a quell’ora medesima del passato giorno, tanto lei mi stuzzicò, che io l’ebbi a dare le medesime busse; e così durammo parecchi giorni, faccendo ogni dì tutte queste medesime cose, come che a stampa 6: poco variava dal più al manco. Intanto io, che m’avevo fatto grandissimo onore e finito la mia figura 7, detti ordine di gittarla di 8 bronzo: innella quale io ebbi qualche difficultà, che sarebbe bellissimo per gli accidenti dell’arte a narrare tal cosa; ma perché io me ne andrei troppo in lunga, me la passerò. Basta che la mia figura venne benissimo, e fu così bel getto come mai si facessi.
XXXVI. In mentre che questa opera si tirava innanzi, io conpartivo 1 certe ore del giorno e lavoravo in su la saliera, e quando in sul Giove. Per essere la saliera lavorata da molte più persone, che io non avevo tanto di comodità 2 per lavorare in sul Giove, di già a questo tempo io l’avevo finita di tutto punto. Era ritornato il Re a Parigi, e io l’andai a trovare, portandogli la ditta saliera finita; la quale, sì come io ho detto di sopra, era in forma ovata ed era di grandezza di dua terzi di braccio in circa, tutta d’oro, lavorata per virtù di cesello. E sì come io dissi quando io ragionai del modello, avevo figurato il Mare e la Terra a sedere l’uno e l’altro, e s’intramettevano le gambe, sì come entra certi rami 3 del mare infra la terra, e la terra infra del detto mare: così propiamente avevo dato loro quella grazia. A il Mare avevo posto in mano un tridente innella destra; e innella sinistra avevo posto una barca sottilmente lavorata, innella quale si metteva la salina 4. Era sotto a questa detta figura i sua quattro cavalli marittimi, che insino al petto e le zampe dinanzi erano di cavallo; tutta la parte dal mezzo indietro era di pesce: queste code di pesce con piacevol modo s’intrecciavano insieme; in sul qual gruppo sedeva con fierissima attitudine il detto Mare: aveva all’intorno molta sorte di pesci e altri animali marittimi. L’acqua era figurata con le sue onde; di poi era benissimo smaltata del suo propio colore. Per la Terra avevo figurato una bellissima donna, con il corno della sua dovizia 5 in mano, tutta ignuda come il mastio appunto; nell’altra sua sinistra mana avevo fatto un tempietto di ordine ionico, sottilissimamente lavorato; e in questo avevo accomodato il pepe. Sotto a questa femina avevo fatto i più belli animali che produca la terra; e i sua scogli terresti avevo parte ismaltati e parte lasciati d’oro. Avevo da poi posata questa ditta opera e investita in6una basa 7 d’ebano nero: era di una certa accomodata 8 grossezza, e aveva un poco di goletta 9, nella quale io aveva compartito quattro figure d’oro, fatte di più che mezzo rilievo: questi si erano figurato la Notte, il Giorno, il Graprusco e l’Aurora10. Ancora v’era quattro altre figure della medesima grandezza, fatte per 11 i quattro venti principali, con tanta puletezza 12 lavorate e parte ismaltate, quanto inmaginar si possa. Quando questa opera io posi agli occhi del Re, messe una voce di stupore, e non si poteva saziare di guardarla; di poi mi disse che io la riportassi a casa mia, e che mi direbbe a tempo quello che io ne dovessi fare13.Porta’nela a casa, e subito invitai parecchi mia cari amici, e con essi con grandissima lietitudine desinai, mettendo la saliera in mezzo alla tavola; e fummo i primi a ’doperarla. Di poi seguitavo di finire il Giove d’argento, e un gran vaso, già ditto, lavorato tutto con molti ornamenti piacevolissimi e con assai figure.
XXXVII. In questo tempo il Bolognia pittore sopra ditto dette ad intendere al Re che gli era bene che sua Maestà lo lasciassi andare insino a Roma, e gli facessi lettere di favori 1, per le quali lui potessi formare 2 di quelle prime belle 3 anticaglie, cioè il Leoconte 4, la Cleopatra 5, la Venere 6, il Comodo 7, la Zingana 8 e Appollo 9. Queste veramente sono le più belle cose che sieno in Roma. E diceva al Re che quando sua Maestà avessi dappoi veduto quelle meravigliose opere, allora saprebbe ragionare dell’arte del disegnio: perché tutto quello che gli aveva veduto di noi moderni era molto discosto dal ben fare di quelli antichi10.Il Re fu contento, e fecegli tutti i favori che lui domandò. Così andò nella sua malora questa bestia. Non gli essendo bastato la vista di fare con le sue mane a gara meco, prese quell’altro lombardesco ispediente, cercando di svilire l’opere mie facendosi formatore di antichi. E con tutto che lui benissimo l’avessi fatte formare, gliene riuscì tutto contrario effetto da quello che lui s’era inmaginato: qual cosa si dirà da poi al suo luogo 11. Avendo a fatto cacciato via la ditta Caterinaccia, e quel povero giovane isgraziato del marito andatosi con Dio di Parigi, volendo finire di nettare la mia Fontana Beliòt12,qual era di già fatta di bronzo, ancora per fare bene quelle due Vittorie, che andavano 13 negli anguli da canto nel mezzo tondo della porta, presi una povera fanciulletta de l’età di quindici anni in circa. Questa era molto bella di forma di corpo ed era alquanto brunetta; e per essere salvatichella e di pochissime parole, veloce nel suo andare, accigliata negli occhi, queste tali cose causorno ch’io le posi nome Scorzone 14: il nome suo proprio si era Gianna. Con questa ditta figliuola io fini’ benissimo di bronzo la ditta Fontana Beliò, e quelle due Vittorie ditte per la ditta porta. Questa giovanetta era pura e vergine, e io la ’ngravidai; la quale mi partorì una figliuola a’ dì sette di giugnio a ore tredici di giorno, 1544, quale era il corso dell’età mia appunto de’ 44 anni. La detta figliuola, io le posi nome Constanza; e mi fu battezzatai15da messer Guido Guidi, medico del Re, amicissimo mio, siccome di sopra ho scritto. Fu lui solo compare, perché in Francia così è il costume d’un solo compare e dua comare, che una fu la signiora Maddalena 16, moglie di messer Luigi Alamanni, gentiluomo fiorentino e poeta maraviglioso; l’altra comare si fu la moglie di messer Ricciardo del Bene nostro cittadin fiorentino e là gran mercante; lei gran gentildonna franzese. Questo fu il primo figliuolo che io avessi mai, per quanto io mi ricordo. Consegniai alla detta fanciulla tanti dinari per dota, quanti si contentò una sua zia, a chi 17 io la resi; e mai più da poi la cogniobbi 18.
XXXVIII. Sollecitavo l’opere mie, e l’avevo molto tirate innanzi: il Giove era quasi che alla sua fine, il vaso similmente; la porta cominciava a mostrare le sue bellezze. In questo tempo capitò il Re a Parigi; e se bene io ho detto per la nascita della mia figliuola 1544, noi non eramo ancora passati il 1543 1; ma perché m’è venuto in proposito il parlar di questa mia figliuola ora, per non mi avere a inpedire in quest’altre cose di più inportanza, non ne dirò altro per insino al suo luogo. Venne il Re a Parigi, come ho detto, e subito se ne venne a casa mia, e trovato quelle tante opere innanzi, tale che gli occhi si potevan benissimo sattisfare 2: sì come fecero quegli 3 di quel maraviglioso Re, al quale sattisfece tanto le ditte opere quanto desiderar possa uno che duri fatica come avevo fatto io; subito da per sé si ricordò che il sopra ditto cardinale di Ferrara non m’aveva dato nulla, né pensione né altro, di quello che lui m’aveva promesso; e borbottando con il suo Amiraglia 4, disse che il cardinale di Ferrara s’era portato 5 molto male a non mi dar niente; ma che voleva rimediare a questo tale inconveniente, perché vedeva che io ero uomo da far poche parole; e, da vedere a non vedere 6, una volta io mi sarei ito con Dio sanza dirgli altro. Andatisene a casa, di poi il desinare di sua Maestà, disse al Cardinale che con la sua parola dicessi al tesauriere de’ risparmi che mi pagassi il più presto che poteva settemila scudi d’oro, in tre o in quattro paghe 7, secondo la comodità che a lui veniva, purché di questo non mancassi; e più gli replicò, dicendo: "Io vi detti Benvenuto in custode, e voi ve l’avete dimenticato". Il Cardinale disse che farebbe volentieri tutto quello che diceva sua Maestà. Il ditto Cardinale per sua mala natura lasciò passare a il Re questa voluntà. Intanto le guerre crescevano; e fu nel tempo che lo Inperadore con il suo grandissimo esercito veniva alla volta di Parigi 8. Veduto il Cardinale che la Francia era in gran penuria di danari, entrato un giorno in proposito a parlar di me, disse: "Sacra Maestà, per far meglio io non ho fatto dare danari a Benvenuto; l’una si è, perché ora ce n’è troppo bisognio; l’altra causa si è, perché una così grossa partita di danari più presto v’arebbe fatto perdere Benvenuto: perché parendogli esser ricco, lui se ne arebbe compro 9 de’ beni nella Italia, e una volta che gli fussi tocco la bizzaria 10, più volentieri si sarebbe partito da Voi: sì che io ho considerato che il meglio sia che vostra Maestà gli dia qualcosa innel suo regnio, avendo voluntà che lui resti per più lungo tempo al suo servizio". Il Re fece11 buone queste ragioni, per essere in penuria di danari; niente di manco, come animo nobilissimo, veramente degnio di quel Re che gli era, considerò che il detto Cardinale aveva fatto cotesta cosa più per gratificarsi 12 che per necessità, che lui inmaginare avessi possuto tanto innanzi le necessità di un sì gran regnio.
XXXIX. E con tutto che, sì come io ho detto, il Re dimostrassi di avergli fatte buone queste ditte ragiòne, inel segreto suo lui non la intendeva così: perché, sì come io ho detto di sopra, egli rivenne a Parigi, e l’altro giorno 1, senza che io l’andassi a incitare, da per sé venne a casa mia: dove, fattomigli incontro, lo menai per diverse stanze, dove erano diverse sorte d’opere, e cominciando alle 2 cose più basse 3, gli mostrai molta quantità d’opere di bronzo, le quali lui non aveva vedute tante di gran pezzo 4. Di poi lo menai a vedere il Giove d’argento, e gnene mostrai come finito, con tutti i sua bellissimi ornamenti: qual gli parve cosa molto più mirabile che non saria parsa ad altro uomo, rispetto a 5 una certa terribile occasione che a lui era avvenuta certi pochi anni innanzi: ché passando, di poi la presa di Tunizi 6, lo Imperadore per Parigi d’accordo con il suo cogniato re Francesco 7, il detto Re, volendo fare un presente 8 degnio d’un così grande Imperadore, gli fece fare uno Ercole d’argento 9, della grandezza appunto che io avevo fatto il Giove; il quali Ercole il Re confessava essere la più brutta opera che lui mai avessi vista; e così avendola accusata per tale a 10 quelli valenti uomini di Parigi i quali si pretendevano essere li più valenti uomini del mondo di tal professione, avendo dato ad intendere a il Re che quello era tutto quello che si poteva fare in argento e nondimanco volsono 11 dumila ducati di quel lor porco lavoro; per questa cagione avendo veduto il Re quella mia opera, vidde in essa tanta pulitezza, quale lui non arebbe mai creduto. Così fece buon giudizio, e volse che la mia opera del Giove fussi valutata ancora essa dumila ducati, dicendo: "A quelli io non davo salario nessuno: a questo, che io do mille scudi incirca di salario, certo egli me la può fare per il prezzo di dumila scudi d’oro, avendo il ditto vantaggio del suo salario". Appresso io lo menai a vedere altre opere d’argento e d’oro, e molti altri modegli12 per inventare opere nuove. Di poi all’utimo della sua partita 13, innel mio prato del castello scopersi quel gran gigante 14, a il quale il Re fece una maggior maraviglia che mai gli avessi fatto a nessuna altra cosa; e voltosi all’Amiraglio, qual si chiamava Monsignior Aniballe15, disse: "Da poi che dal Cardinale costui di nulla è stato provisto, gli è forza che per essere ancor lui pigro a domandare, sanza dire altro voglio che lui sia provisto: sì che questi uomini, che non usano dimandar nulla, par lor dovere16 che le fatiche loro dimandino assai: però 17 provedetelo della prima badia che vaca 18, qual sia insino al valore di dumila scudi d’entrata; e quando ella non venga in una pezza sola, fate che la sia in dua e tre pezzi 19, perché a lui gli sarà il medesimo". Io, essendo alla presenza 20, senti’ ogni cosa e subito lo ringraziai, come se auta io l’avessi, dicendo a sua Maestà che io volevo, quando questa cosa fussi venuta, lavorare per sua Maestà sanza altro premio né di salario né d’altra valuta 21 d’opere, infino a tanto che costretto dalla vecchiaia, non possendo più lavorare, io potessi in pace riposare la istanca vita mia, vivendo con. essa entrata onoratamente, ricordandomi d’aver servito un così gran Re, quant’era sua Maestà. A queste mie parole il Re con molta baldanza lietissimo inverso di me disse: "E così si facci"; e contento sua Maestà da me si partì, e io restai.
XL. Madama di Tampes, saputo queste mie faccende, più grandemente inverso di me inveleniva, dicendo da per sé: "Io governo oggi il mondo, e un piccolo uomo, simile a questo, nulla mi stima!" Si messe in tutto e per tutto a bottega per fare contra di me 1. E capitandogli uno certo uomo alle mani, il quale era grande istillatore 2 — questo gli dette alcune acque odorifere e mirabile, le quali gli facevan tirare la pelle 3, cosa per l’addietro non mai usata in Francia —, lei lo misse innanzi al Re: il quale uomo propose alcune di queste istillazione, le quali molto dilettorno al Re; e in questi piaceri fece che lui domandò a sua Maestà un giuoco di palla che io avevo nel mio castello, con certe piccole istanzette, le quale lui diceva che io non me ne servivo4.Quel buon Re, che cogniosceva la cosa onde la veniva 5, non dava risposta alcuna. Madama di Tampes si messe a sollecitare per quelle vie che possono le donne innegli uomini, tanto che facilmente gli riuscì questo suo disegnio, che trovando il Re in una amorosa tempera 6, alla quale lui era molto sottoposto, conpiacque a Madama tanto quanto lei desiderava. Venne questo ditto uomo insieme con il tesauriere Grolier, grandissimo gentiluomo di Francia; e perché questo tesauriere parlava benissimo italiano, venne al mio castello, e entrò in esso alla presenza mia parlando meco in italiano, in modo di motteggiare. Quando e’ vidde il bello7, disse: "Io metto in tenuta 8 da parte del Re questo uomo qui di quel giuoco di palla insieme con quelle casette che a il detto giuoco appartengono". A questo io dissi: "Del sacro Re è ogni cosa: però 9 più liberamente voi potevi entrare qua drento: perché in questo modo, fatto per via di notai e della Corte, mostra più essere una via d’inganno, che una istietta commessione10di un sì gran Re; e vi protesto che prima che io mi vadia 11 a dolere al Re, io mi difender ò in quel modo che sua Maestà l’altr’ieri mi commisse 12 che io facessi; e vi sbalzerò quest’uomo, che voi m’avete messo qui, per le finestre, se altra spressa 13 commessione io non veggo per la propia mana del Re". A queste mie parole il detto tesauriere se n’andò minacciando e borbottando, e io faccendo il simile mi restai, né volsi per allora fare altra dimostrazione; di poi me n’andai a trovare quelli notari, che avevano messo colui in possessione. Questi erano molto mia conoscenti, e mi dissono che quella era una cerimonia fatta bene con commessione del Re, ma che la non inportava molto; e che se io gli avessi fatto qualche poco di resistenza, lui non arebbe preso la posessione, come egli fece; e che quelli erano atti e costumi della Corte, i quali non toccavano punto l’ubidienza del Re: di modo che, quando a me venissi bene il14 cavarlo di possessione in quel modo che v’era entrato, saria ben fatto, e non ne saria altro. A me bastò essere accennato 15, che l’altro giorno cominciai a mettere mano all’arme; e se bene io ebbi qualche difficultà, me l’avevo presa per piacere 16. Ogni dì un tratto facevo uno assalto con sassi, con picche, con archibusi, pure sparando sanza palla; ma mettevo loro tanto ispavento, che nissuno non voleva più venire a ’iutarlo. Per la qual cosa, trovando un giorno la sua battaglia 17 debole, entrai per forza in casa, e lui ne cacciai, gittandogli fuori tutto tutto quello che lui v’aveva portato. Di poi ricorsi al Re, e li dissi che io avevo fatto tutto tutto 18 che sua Maestà m’aveva commisso, difendendomi da tutti quelli che mi volevano inpedire il servizio di sua Maestà. A questo il Re se ne rise, e mi spedì nuove lettere 19, per le quale io non avessi più da esser molestato.
XLI. Intanto con gran sollecitudine io fini’ il bel Giove d’argento, insieme con la sua basa dorata, la quale io avevo posta sopra uno zocco 1 dei legnio, che appariva poco; e in detto zocco di legnio avevo commesso 2 quattro pallottole di legnio forte, le quali istavano più che mezze nascoste nelle lor casse, in foggia di nocie di balestre 3. Eran queste cose tanto gentilmente ordinate, che un piecol fanciullo, facilmente per tutti i versi sanza una fatica al mondo, mandava innanzi e indietro e volgeva la ditta statua di Giove. Avendola assettata a mio modo, me ne andai con essa a Fontana Beliò, dove era il Re. In questo tempo il sopra ditto Bolognia aveva portato di Roma le sopra ditte statue 4, e l’aveva con gran sollecitudine fatte gittare di bronzo. Io che non sapevo nulla di questo, sì perché lui aveva fatto questa sua faccenda molto segretamente, e perché Fontana Beliò è discosto da Parigi più di quaranta miglia: però 5 non avevo potuto sapere niente. Faccendo intendere al Re dove voleva che io ponessi il Giove, essendo alla presenza Madama di Tampes, disse al Re che non v’era luogo più a proposito dove metterlo, che nella sua bella galleria. Questo si era, come noi diremmo in Toscana, una loggia, o sì veramente uno androne 6: più presto 7 androne si potria chiamare, perché loggia noi chiamiamo quelle stanze che sono aperte da una parte. Era questa stanza lunga molto più di cento passi andanti 8, ed era ornata e ricchissima di pitture di mano di quel mirabile Rosso, nostro fiorentino; e infra le pitture era accomodato moltissime parte di scultura, alcune tonde, altre di basso rilievo: era di larghezza di passi andanti dodici in circa. Il sopra ditto Bolognia aveva condotto 9 in questa ditta galleria tutte le sopra ditte opere antiche, fatte di bronzo e benissimo condotte, e l’aveva poste con bellissimo ordine, elevate in su le sue base; e sì come di sopra ho ditto, queste erano le più belle cose tratte da quelle antiche di Roma. In questa ditta istanza io condussi il mio Giove; e quando viddi quel grande apparecchio 10, tutto fatto a arte11,io da per me dissi: «Questo si è come passare in fra le picche 12.Ora Idio mi aiuti". Messolo al suo luogo e, quanto io potetti, benissimo acconcio 13, aspettai quel gran Re che venissi. Aveva il ditto Giove innella sua mano destra accomodato il suo fùlgore 14 in attitudine di volerlo trarre 15, e nella sinistra gli avevo accomodato il Mondo. Infra le fiamme16,avevo con molta destrezza commisso un pezzo d’una torcia bianca. E perché madama di Tampes aveva trattenuto il Re insino a notte per fare uno de’ duo mali, o che lui non venissi o sì veramente che l’opera mia, causa della notte, si mostrassi manco bella; e come Idio promette 17 a quelle creature che hanno fede in lui, ne avvenne tutto il contrario: perché veduto fattosi notte, io accesi la ditta torcia che era in mano al Giove; e per essere alquanto elevata sopra la testa del ditto Giove, cadevano i lumi di sopra e facevano molto più bel vedere, che di dì non arien fatto. Comparse il ditto Re insieme con la sua madama di Tampes, col Dalfino suo figliuolo e con la Dalfina, oggi re, con il re di Navarra suo cogniato, con madama Margherita sua figliuola, e parecchi altri gran Signiori, i quali erano instruiti a posta da madama di Tampes per dire contro a di me. Veduto entrare il Re, feci ispigniere innanzi da quel mio garzone già ditto, Ascanio, che pianamente moveva il bel Giove incontro al Re; e perché ancora io avevo fatto con un poco d’arte, quel poco del moto che si dava alla ditta figura, per essere assai ben fatta, la faceva parer viva; e lasciatomi alquanto le ditte figure antiche indietro, detti prima gran piacere, agli occhi, della 18 opera mia. Subito disse il Re: "Questa è molto più bella cosa che mai per nessuno uomo si sia veduta, e io, che pur me ne diletto e ’ntendo, non n’arei inmaginato la centesima parte". Quei Signiori, che avevano a dire contr’a di me, pareva che non si potessino saziare di lodare la ditta opera. Madama di Tampes arditamente 19 disse: "Ben pare che voi non abbiate occhi. Non vedete voi quante belle figure di bronzo antiche son poste più là, innelle quali consiste la vera virtù di quest’arte, e non in queste baiate 20 moderne?" Allora il Re si mosse, e gli altri seco; e dato una occhiata alle ditte figure, e quelle, per esser lor porto i lumi inferiori 21, non si mostravano punto bene, a questo il Re disse: "Chi ha voluto disfavorire questo uomo, gli ha fatto un gran favore: perché mediante queste mirabile figure si vede e cogniosce questa sua da gran lunga esser più bella e più maravigliosa di quelle. Però 22 è da fare un gran conto di Benvenuto, che non tanto che l’opere sue restino 23 al paragone dell’antiche, ancora quelle superano". A questo madama di Tampes disse che vedendo di dì tale opera, la non parrebbe l’un mille bella di quel che lei par di notte; ancora v’era da considerare che io avevo messo un velo addosso alla ditta figura, per coprire gli errori. Questo si era un velo sottilissimo, che io avevo messo con bella grazia addosso al ditto Giove, perché gli accrescessi maestà: il quale a quelle parole io lo presi, alzandolo per di sotto, scoprendo quei bei membri genitali, e con un poco di dimostrata istizza 24 tutto lo stracciai. Lei pensò che io gli avessi scoperto quella parte per proprio ischerno. Avedutosi il Re di quello isdegnio e io vinto dalla passione, volsi cominciare a parlare: subito il savio Re disse queste formate 25 parole in sua lingua: "Benvenuto, io ti taglio 26 la parola: sì che sta cheto, e arai più tesoro che tu non desideri, l’un mille". Non possendo io parlare, con gran passione mi scontorcevo: causa che lei più sdegniosa brontolava; e il Re, più presto assai di quel che gli arebbe fatto, si partì, dicendo forte, per darmi animo, aver cavato di Italia il maggior uomo che nascessi mai, pieno di tante professione.
XLII. Lasciato il Giove quivi, volendomi partire la mattina, mi fece dare mille scudi d’oro: parte erano di mia salari, e parte di conti, che io mostravo avere speso di mio. Preso li dinari, lieto e contento me ne tornai a Parigi; e subito giunto, rallegratomi in casa, di poi il desinare feci portare tutti li miei vestimenti, quali erano molta quantità di seta, di finissime pelle e similmente di panni sottilissimi. Questi 1 io feci a tutti quei mia lavoranti un presente, donandogli sicondo i meriti d’essi servitori, insino alle serve e i ragazzi di stalla, dando a tutti animo che m’aiutassino di buon cuore. Ripreso il vigore, con grandissimo istudio e sollecitudine mi missi intorno a finire quella grande statua del Marte, quale avevo fatta di legni benissimo tessuti 2 per armadura; e di sopra la sua carne si era una crosta, grossa uno ottavo di braccio, fatta di gesso e diligentemente lavorata; dipoi avevo ordinato di formare di molti pezzi la ditta figura, e commetterla da poi a coda di rondine 3, sì come l’arte promette: ché molto facilmente mi veniva fatto. Non voglio mancare di dare un contra segnio di questa grande opera, cosa veramente degnia di riso: perché io avevo comandato a tutti quelli a chi io davo le spese 4, che nella casa mia e innel mio castello non vi conducessino meretrice; e a questo io ne facevo molta diligenza che tal cosa non vi venissi. Era quel mio giovane Ascanio innamorato d’una bellissima giovine, e lei di lui: per la qual cosa fuggitasi questa ditta giovine da sua madre, essendo venuta una notte a trovare Ascanio, non se ne volendo poi andare, e lui non sapendo dove se la nascondere, per utimo rimedio, come persona ingegniosa, la misse drento nella figura del ditto Marte, e inella propia 5 testa ve l’accomodò da dormire; e quivi soprastette 6 assai, e la notte lui chetamente alcune volte la cavava. Per avere lasciato quella testa molto vicino alla sua fine 7, e per un poco di mia boria8, lasciavo iscoperto la ditta testa, la quale si vedeva per la maggior parte della città di Parigi: avevano cominciato quei più vicini a salire su per i tetti, e andavavi assai popoli9 a posta per vederla. E perché era un nome 10 per Parigi che in quel mio castello ab antico abitassi uno spirito, della qual cosa io ne vidi alcuno contra segnio da credere che così fussi il vero — il detto spirito universalmente per la plebe di Parigi lo chiamavano 11 per nome Lemmonio Boreò 12 —, e perché questa fanciulletta, che abitava innella ditta testa, alcune volte non poteva fare che non si vedessi per gli occhi 13 un certo poco di muovere; dove alcuni di quei sciocchi popoli dicevano che quel ditto spirito era entrato in quel corpo di quella gran figura, e che e’ faceva muovere gli occhi a quella testa, e la bocca, come se ella volessi parlare; e molti ispaventati si partivano, e alcuni astuti, venuti a vedere e non si potendo discredere di 14 quel balenamento degli occhi che faceva la ditta figura, ancora 15 loro affermavano che ivi fussi spirito, non sapendo che v’era spirito e buona carne di più.
XLIII. In quel mentre io m’attendevo a mettere insieme la mia bella porta 1, con tutte le infrascritte cose. E perché io non mi voglio curare di scrivere in questa mia Vita cose che s’appartengono a quelli che scrivono le cronache, però ho lasciato indietro la venuta dello Inperadore con il suo grande esercito, e il Re con tutto il suo sforzo 2 armato. E in questi tempi cercò del mio consiglio, per affortificare 3 prestamente Parigi: venne a posta per me a casa, e menommi intorno a tutta la città di Parigi; e sentito con che buona ragione io prestamente gli affortificavo Parigi, mi dette ispressa commessione che quanto io avevo detto subitamente facessi; e comandò al suo Amiraglio che comandassi a quei populi che mi ubbidissino, sotto ’l poter della disgrazia sua. L’Amiraglio, che era fatto tale per il favore di madama di Tampes e non per le sue buone opere, per essere uomo di poco ingegnio e per essere il nome suo monsigniore d’Anguebò, se bene in nostra lingua e’ vol dire monsignior d’Aniballe, in quella lor lingua e’ suona in modo che quei populi i più lo chiamavano monsigniore Asino Bue4; questa bestia, conferito 5 il tutto a madama di Tampes, lei gli comandò che prestamente egli facessi venire Girolimo Bellarmato. Questo era uno ingegniere sanese ed era a Diepa6, poco più d’una giornata discosto da Parigi. Venne subito, e messo in opera la più lunga via da forzificare, io mi ritirai da tale impresa; e se lo Imperadore spignieva innanzi, con gran facilità si pigliava Parigi. Ben si disse che in quello accordo 7 fatto da poi, madama di Tampes, che più che altra persona vi s’era intermessa, aveva tradito il Re 8. Altro non mi occorre dire di questo, perché non fa al mio proposito. Mi missi con gran sollecitudine a mettere insieme la mia porta di bronzo, e a finire quel gran vaso e du’ altri mezzani fatti di mio argento. Dipoi queste tribulazioni venne il buon Re a riposarsi alquanto a Parigi. Essendo nata questa maladetta donna quasi per la rovina del mondo, mi par pure esser da qualcosa, da poi che l’ebbe me per9suo nimico capitale. Caduta in proposito10 con quel buon Re de’ casi mia, gli disse tanto mal di me, che quel buono uomo, per conpiacerle, si misse a giurare che mai più terrebbe un conto di me al mondo, come se cognosciuto mai non mi avessi. Queste parole me le venne a dir subito un paggio del cardinal di Ferrara, che si chiamava il Villa, e mi disse lui medesimo averle udite della bocca del Re. Questa cosa mi messe in tanta collora, che gittato a traverso 11 tutti i miei ferri, e tutte l’opere ancora, mi missi in ordine per andarmi con Dio, e subito andai a trovare il Re. Dipoi il suo desinare, entrai in una camera dove era sua Maestà con pochissime persone; e quando e’ mi vidde entrare, fattogli io quella debita reverenza che s’appartiene a un Re, subito con lieta faccia m’inchinò il capo. Per la qual cosa presi isperanza, e a poco a poco accostatomi a sua Maestà, perché si mostrava alcune cose della mia professione, quando si fu ragionato un pezzetto sopra le ditte cose, sua Maestà mi domandò se io avevo da mostrargli a casa mia qualche cosa di bello, di poi disse quando io volevo che venissi a vederle. Allora io dissi che io stavo in ordine da 12 mostrargli qualcosa, se gli avessi ben voluto, allora 13. Subito disse che io mi avviassi a casa, e che allora voleva venire.
XLIV. Io mi avviai, aspettando questo buon Re, il quale era ito per tor licenza di 1 madama di Tampes. Volendo ella saper dove gli andava, perché disse che gli terrebbe compagnia, quando il Re gli ebbe ditto dove gli andava, lei disse a sua Maestà che non voleva andar seco, e che lo pregava che gli facessi tanto di grazia per quel dì di non andare manco lui. Ebbe a rimettersi 2 più di due volte, volendo svolgere 3 il Re da quella impresa: per quel dì non venne a casa mia. L’altro giorno da poi io tornai dal Re in su quella medesima ora: subito vedutomi, giurò di voler venir subito a casa mia. Andato al suo solito per licenzia dalla sua madama di Tampes, veduto con tutto il suo potere di non aver potuto distorre il Re, si misse con la sua mordace lingua a dir tanto male di me, quanto dir si possa d’uno uomo, che fussi nimico mortale di quella degnia Corona. A questo quel buon Re disse che voleva venire a casa mia, solo per gridarmi di sorte, che m’arebbe ispaventato; e così dette la fede4 a madama di Tampes di fare. E subito venne a casa, dove io lo guidai in certe grande stanze basse, nelle quale io avevo messo insieme tutta quella mia gran porta; e giunto a essa il Re rimase tanto stupefatto, che egli non ritrovava la via per dirmi quella gran villania che lui aveva promesso a madama di Tampes. Né anche per questo non volse mancare di non trovare l’occasione per dirmi quella promessa villania, e cominciò dicendo: "Gli è pure grandissima cosa, Benvenuto, che voi altri, se bene voi sete virtuosi, doverresti cognioscere che quelle tal virtù da per voi 5 non le potete mostrare; e solo vi dimostrate grandi mediante le occasione che voi ricevete da noi. Ora voi doverresti essere un poco più ubbidienti, e non tanto superbi e di vostro capo 6. Io mi ricordo avervi comandato espressamente che voi mi facessi dodici statue d’argento; e quello era tutto il mio desiderio. Voi mi avete voluto fare una saliera, e vasi e teste e porte, e tante altre cose, che io sono molto smarrito, veduto lasciato indrieto7 tutti i desideri delle mie voglie, e atteso 8 a conpiacere a tutte le voglie vostre: sì che pensando di fare di questa sorte 9, io vi darò poi a divedere 10 come io uso di fare, quando io voglio che si faccia a mio modo. Pertanto vi dico: attendete a ubbidire a quanto v’è detto, perché stando ostinato a queste vostre fantasie, voi darete del capo nel muro11". E in mentre che egli diceva queste parole, tutti quei Signiori stavano attenti, veduto che lui scoteva il capo, aggrottava gli occhi, or con una mana or con l’altra faceva cenni 12: talmente che tutti quelli uomini che erano quivi alla presenza, tremavono di paura per me, perché io m’ero risoluto di non avere una paura al mondo.
XLV. E subito finito che gli ebbe di farmi quella bravata, che gli aveva promesso alla sua madama di Tampes, io missi un ginocchio in terra, e baciatogli la vesta in sul suo ginocchio, dissi: "Sacra Maestà, io affermo tutto quello che voi dite, che sia vero; solo dico a quella 1 che il mio cuore è stato continuamente giorno e notte con tutti li mia vitali spiriti intenti solo per ubbidirla e per servirla; e tutto quello che a vostra Maestà paressi che fussi in contrario da quel che io dico, sappi vostra Maestà che quello 2 non è stato Benvenuto, ma può essere stato un mio cattivo fato o ria fortuna, la quale m’ha voluto fare indegnio di servire il più maraviglioso principe che avessi mai la terra: pertanto la priego che mi perdoni. Solo mi parve che vostra Maestà mi dessi argento per una istatua sola; e non avendo da me, io none possetti fare più che quella; e di quel poco dello argento che della detta figura m’avanzò, io ne feci quel vaso, per mostrare a vostra Maestà quella bella maniera degli antichi, qual forse prima lei di tal sorte non aveva vedute. Quanto alla saliera, mi parve, se ben mi ricordo, che vostra Maestà da per sé me ne richiedessi un giorno, entrato in proposito d’una che ve ne fu portata innanzi: per la qual cosa mostratogli un modello, quale io avevo fatto già in Italia, solo a vostra requisizione 3 voi mi facesti dare subito mille ducati d’oro perché io la facessi, dicendo che mi sapevi il buon grado di 4 tal cosa; e maggiormente mi parve che molto mi ringraziassi quando io ve la detti finita. Quanto alla porta, mi parve che, ragionandone a caso, vostra Maestà dessi le commessione a monsignior di Villurois suo primo segretario, il quale commesse 5 a monsignior di Marmagnia e monsignior della Fa che tale opera mi sollecitassino, e mi provvedessino 6; e sanza queste commessione, da per me 7 io non arei mai potuto tirare innanzi così grande imprese. Quanto alle teste di bronzo e la base del Giove, e d’altro, le teste io le feci veramente da per me, per isperimentare queste terre di Francia, le quali io, come forestiero, punto non conoscevo; e sanza fare esperienza delle ditte terre io non mi sarei messo a gettare 8 queste grande opere. Quanto alle base, io le feci, parendomi che tal cosa benissimo si convenissi per compagnia di quelle tal figure: però tutto quello che io ho fatto, ho pensato di fare il meglio, e non mai discostarmi dal volere di vostra Maestà. Gli è bene il vero che quel gran colosso 9 io l’ho fatto tutto, insino al termine che gli 10 è, con le spese della mia borsa; solo parendomi che voi sì gran Re e io quel poco artista che io sono, dovessi fare per vostra gloria e mia una statua, quale gli antichi non ebbon mai. Conosciuto ora che a Dio non è piaciuto di farmi degnio d’un tanto onorato servizio, la priego che, canbio 11 di quello onorato premio che vostra Maestà alle opere mie aveva destinato, solo mi dia un poco della sua buona grazia e con essa buona licenzia: perché in questo punto, faccendomi degnio di tal cose, mi partirò tornandomi in Italia, sempre ringraziando Idio e vostra Maestà di quell’ore felice che io sono stato al suo servizio".
XLVI. Mi prese con le sue mane, e levommi con gran piacevolezza 1 di ginocchioni; di poi mi disse che io dovessi contentarmi2 di servirlo, e che tutto quello che io avevo fatto era buono, e gli era gratissimo. E voltosi a quei Signiori disse queste formate parole: "Io credo certamente che, se il Paradiso avessi d’aver porte, che più bella di questa già mai non l’arebbe". Quando io viddi fermato un poco la baldanza 3 di quelle parole, quale erano tutte in mio favore, di nuovo con grandissima reverenza io lo ringraziai, replicando pure di volere licenza: perché a me non era passata ancora la stizza. Quando quel gran Re s’avvidde che io non aveva fatto quel capitale che meritavono 4 quelle sue inusitate e gran carezze, mi comandò con una grande e paventosa voce che io non parlassi più parola, ché guai a me; e poi aggiunse che mi affogherebbe nell’oro, e che mi dava licenzia che, dipoi l’opere commessemi da sua Maestà, tutto quel che io facevo in mezzo da per me era 5 contentissimo, e che non mai più io arei diferenza 6 seco, perché m’aveva conosciuto; e che ancora io m’ingegniassi di cognioscere sua Maestà, sì come voleva il dovere. Io dissi che ringraziavo Idio e sua Maestà di tutto, di poi lo pregai che venissi a vedere la gran figura, come io l’avevo tirata innanzi: così venne appresso di me. Io la feci scoprire: la qual cosa gli dette tanta maraviglia, che inmaginar mai si potria; e subito commesse a un suo segretario che incontinente 7 mi rendessi tutti li danari che di mio io avevo spesi, e fussi che somma la8volessi, bastando che io la dessi scritta di mia mano. Da poi si partì, e mi disse: "Addio, mon ami": qual gran parola a 9 un re non si usa.
XLVII. Ritornato al suo palazzo, venne a replicare le gran parole tanto maravigliosamente umile e tanto altamente superbe, che io avevo usato con sua Maestà, le qual parole l’avevano molto fatto crucciare; e contando alcuni de’ particulari di tal parole alla presenza di madama di Tampes, dove era monsignor di San Polo 1, gran barone di Francia. Questo tale aveva fatto per il passato molta gran professione d’essere amico mio; e certamente che a questa volta molto virtuosamente, alla franciosa 2, lui lo dimostrò. Perché, dipoi molti ragionamenti, il Re si dolse del cardinal di Ferrara che, avendomigli dato in custode 3, non aveva mai più pensato a’ fatti mia, e che non era mancato per causa sua che io non mi fussi andato con Dio del suo regnio, e che veramente penserebbe di darmi in custode a qualche persona che mi conoscessi meglio, che non aveva fatto il cardinale di Ferrara, perché non mi voleva dar più occasione di perdermi. A queste parole subito si offerse monsignior di San Polo, dicendo al Re che mi dessi in guardia a lui, e che farebbe ben cosa che io non arei mai più causa di partirmi del suo regnio. A questo il Re disse che molto era contento, se San Polo gli voleva dire il modo che voleva tenere perché io non mi partissi. Madama, che era alla presenza, stava molto ingrogniata, e San Polo stava in su l’onorevole 4, non volendo dire al Re il modo che lui voleva tenere. Dimandatolo di nuovo il Re, e lui, per piacere a madama di Tampes, disse: "Io lo inpiccherei per la gola, questo vostro Benvenuto; e a questo modo voi non lo perderesti del vostro regnio". Subito madama di Tampes levò una gran risa, dicendo che io lo meritavo bene. A questo il Re per conpagnia si messe a ridere, e disse che era molto contento che San Polo m’inpiccassi, se prima lui trovava un altro par mio: ché, con tutto che io non l’avessi mai meritata, gliene dava piena licenzia. Innel modo ditto fu finita questa giornata, e io restai sano e salvo: che Dio ne sia laudato e ringraziato.
XLVIII. Aveva in questo tempo il Re quietata la guerra con lo Inperadore 1, ma non con gli Inghilesi 2, di modo che questi diavoli ci tenevano in molta tribulazione. Avendo il capo ad altro il Re che ai piaceri, aveva commesso a Piero Strozzi che conducessi certe galee in quei mari d’Inghilterra: qual fu cosa grandissima e difficile a condurvele pure a quel mirabil soldato, unico ne’ tempi sua in tal professione, e altanto 3 unico disavventurato 4. Era passato parecchi mesi che io non avevo auto danari né ordine nessuno di lavorare: di modo che io avevo mandato via tutti i mia lavoranti, da quei dua in fuora italiani, ai quali io feci lor fare dua vasotti di mio argento, perché loro non sapevan lavorare in sul bronzo. Finito che gli ebbono i dua vasi, io con essi me n’andai a una città, che era della regina di Navarra: questa si domanda Argentana 5, ed è discosto da Parigi di molte giornate. Giunsi al ditto luogo e trovai il Re che era indisposto; el cardinal di Ferrara disse a sua Maestà come io ero arrivato in quel luogo. A questo il Re non rispose nulla, qual fu causa che io ebbi a stare di molti giorni a disagio. E veramente che io non ebbi mai il maggior dispiacere: pure in capo di parecchi giorni io me gli feci una sera innanzi, e appresenta’gli agli occhi quei dua bei vasi: e’ quali oltramodo gli piacquono. Quando io veddi benissimo disposto il Re, io pregai sua Maestà che fussi contento di farmi tanto di grazia, che io potessi andare a spasso infino in Italia, e che io lascierei sette mesi di salario che 6 io ero creditore, i quali danari sua Maestà si degnierebbe farmegli da poi pagare, se mi facessino di mestiero 7 per il mio ritorno. Pregavo sua Maestà che mi compiacessi questa cotal grazia, avvenga che allora era veramente tempo da militare 8, e non da statuare; ancora, perché sua Maestà aveva conpiaciuto tal cosa al suo Bolognia pittore, per ò 9 divotissimamente lo pregavo che fussi contento farne degnio ancora 10 me. Il Re, mentre che io gli dicevo queste parole, guardava con grandissima attenzione quei dua vasi, e alcune volte mi feriva con un suo sguardo terribile; io, pure, il meglio che io potevo e sapevo, lo pregavo che mi concedessi questa tal grazia. A un tratto lo viddi isdegniato, e rizzossi da sedere e a me disse in lingua italiana: "Benvenuto, voi sete un gran matto: portatene questi vasi a Parigi, perché io gli voglio dorati"; e non mi 11 data altra risposta, si partì. Io mi accostai al cardinal di Ferrara, che era alla presenza, e lo pregai che, da poi che m’aveva fatto tanto bene innel cavarmi del carcere di Roma, insieme con tanti altri benifizi ancora mi compiacessi questo, che io potessi andare insino in Italia. Il ditto Cardinale mi disse che molto volentieri arebbe fatto tutto quel che potessi per farmi quel piacere, e che liberamente io ne lasciassi la cura a lui; e anche, se io volevo, potevo andare liberamente, perché lui mi tratterrebbe benissimo 12 con il Re. Io dissi al ditto Cardinale sì come io sapevo che sua Maestà m’aveva dato in custode a sua Signioria reverendissima, e che se quella mi dava licenzia, io volentieri mi partirei, per tornare a un sol minimo cenno di sua Signioria reverendissima. Allora il Cardinale mi disse che io me n’andassi a Parigi, e quivi sopra stessi 13 otto giorni, e in questo tempo lui otterrebbe grazia dal Re che io potrei andare; e in caso che il Re non si contentassi che io partissi, sanza manco nessuno 14 me ne darebbe avviso: il perché, non mi scrivendo altro, saria segnio che io potrei liberamente andare.
XLIX. Andatomene a Parigi, sì come m’aveva detto il Cardinale, feci di mirabil casse per quei tre vasi d’argento. Passato che fu venti giorni, mi messi in ordine, e li tre vasi messi in su ’n una soma di mulo, il quale mi aveva prestato per insino in 1 Lione il vescovo di Pavia 2, il quale io avevo alloggiato di nuovo innel mio castello. Partimmi 3 innella mia malora4, insieme col signiore Ipolito Gonzaga, il qual signiore stava al soldo del Re e trattenuto dal conte Galeotto della Mirandola, e con certi altri gentiluomini del detto conte. Ancora s’accompagni ò con esso noi Lionardo Tedaldi nostro fiorentino. Lasciai Ascanio e Pagolo in custode 5 del mio castello e di tutta la mia roba, infra la quale era certi vasetti cominciati, i quali io lasciavo, perché quei dua giovani non si stressino 6. Ancora c’era molto mobile7 di casa di gran valore, perché io stavo molto onoratamente: era il valore di queste mie dette robe di più di mille cinquecento scudi. Dissi a Ascanio che si ricordassi quanti gran benifizi lui aveva aùti da me, e che per insino allora lui era stato fanciullo di poco cervello; che gli era tempo omai d’aver cervello da uomo: però 8 io gli volevo lasciare in guardia tutta la mia roba, insieme con tutto l’onor mio: ché se lui sentiva più una cosa che un’altra 9 da quelle bestie di quei Franciosi, subito me l’avvisassi, perché io monterei in poste e volerei d’onde io mi fussi, sì per il grande obrigo che io avevo a quel buon Re, e sì per lo onor mio. Il ditto Ascanio con finte e ladronesche lacrime mi disse: "Io non cogniobbi mai altro miglior padre di voi, e tutto quello che debbe fare un buon figliuolo inverso del suo buon padre, io sempre lo farò inverso di voi". Così d’accordo mi parti’ con un servitore e con un piccolo ragazzetto franzese. Quando fu passato mezzo giorno, venne al mio castello certi di quei tesaurieri, i quali non erano punto mia amici. Questa canaglia ribalda subito dissono che io m’ero partito con l’argento del Re, e dissono a messer Guido e al vescovo di Pavia che rimandassino prestamente per10 i vasi del Re; se non che11 loro manderebbon per essi drietomi 12 con molto mio gran dispiacere. Il Vescovo e messer Guido ebbon molto più paura che non faceva mestiero, e prestamente mi mandorno drieto in poste quel traditore d’Ascanio, il quale conparse in su la mezza notte. E io che non dormivo, da per me stesso mi condolevo, dicendo: "A chi lascio la roba mia, il mio castello? Oh che destino mio è questo, che mi sforza 13 a far questo viaggio? Pur che il Cardinale non sia d’accordo con madama di Tampes, la quale non desidera altra cosa al mondo, se non che io perda la grazia di quel buon Re!"
L. Inmentre che meco medesimo io facevo questo contrasto, mi senti’ chiamare da Ascanio; e al primo 1 mi sollevai dal letto, e li domandai se lui mi portava buone o triste nuove. Disse il ladrone2: "Buone nuove porto; ma sol bisognia che voi rimandiate indietro li tre vasi, perché quei ribaldi di quei tesaurieri gridano accorruomo 3, di modo che il Vescovo e messer Guido dicono che voi gli rimandiate a ogni modo; e del resto non vi dia noia nulla, e andate a godervi questo viaggio felicemente". Subitamente io gli resi i vasi, che ve n’era dua mia, con l’argento e ogni cosa. Io gli portavo alla badia del cardinale di Ferrara in Lione: perché se bene e’ mi detton nome 4 che io me ne gli volevo portare in Italia, questo si sa bene per ugniuno5 che non si può cavare 6 né danari, né oro, né argento, sanza gran licenzia. Or ben si debbe considerare se io potevo cavare quei tre gran vasi, i quali occupavono con le loro casse un mulo. Bene è vero che, per essere quelli cosa molto bella e di gran valore, io sospettavo della morte del Re, perché certamente io l’avevo lasciato molto indisposto; e da me dicevo: "Se tal cosa avenissi, avendogli io in mano al Cardinale7, io non gli posso perdere". Ora, in conclusione, io rimandai il detto mulo con i vasi e altre cose d’inportanza; e con la ditta compagnia la mattina seguente attesi a camminare innanzi, né mai per tutto il viaggio mi potetti difendere di8 sospirare e piagnere. Pure alcune volte con Idio mi confortavo, dicendo: "Signiore Idio, tu che sai la verità, cogniosci che questa mia gita è solo per portare una elimosina a sei povere meschine verginelle e alla madre loro, mia sorella carnale: ché se bene quelle hanno il lor padre, gli è tanto vecchio, e l’arte sua non guadagnia 9 nulla; che quelle facilmente potrieno andare per la mala via; dove faccendo io questa opera pia, spero da tua Maestà aiuto e consiglio". Questo si era quanta recreazione io mi pigliavo camminando innanzi. Trovandoci un giorno presso a Lione a una giornata, era vicino alle ventidua ore, cominciò il cielo a fare certi tuoni secchi, e l’aria era bianchissima10: io ero innanzi una balestrata11 dalli mia compagni; doppo i tuoni faceva il cielo un romore tanto grande e tanto paventoso, che io da per me giudicavo che fussi il dì del Giudizio; e fermatomi alquanto, cominciò a cadere una gragniuola senza gocciola d’acqua. Questa era grossa più che pallottole di cerbottana 12, e, dandomi addosso, mi faceva gran male: a poco a poco questa cominciò a ringrossare di modo che l’era come pallottole d’una balestra. Veduto che ’l mio cavallo forte ispaventava, lo volsi addietro con grandissima furia a corso13, tanto che io ritrovai li mia compagni, li quali per la medesima paura s’erano fermi14 drento in una pineta. La gragniuola ringrossava come grossi limoni: io cantavo un Miserere; e in mentre che così dicevo divotamente a Dio, venne un di quei grani tanto grosso, che gli scavezzò 15 un ramo grossissimo di quel pino, dove mi pareva esser salvo. Un’altra parte di quei grani dette in sul capo al mio cavallo, qual fe’segnio di cadere in terra; a me ne colse uno, ma non in piena 16, perché m’arìa morto 17. Similmente ne colse uno a quel povero vecchio di Lionardo Tedaldi, di sorte che lui, che stava come me ginocchioni, gli fe’ dare delle mane in terra. Allora io prestamente, veduto che quel gran ramo non mi poteva più difendere e che col Miserere bisogniava far qualche opera18, cominciai a raddoppiarmi e’ panni in capo; e così dissi a Lionardo, che accuorruomo gridava "Giesù, Giesù", che quello 19 lo aiuterebbe se lui si aiutava. Ebbi una gran fatica più a campar lui che me medesimo. Questa cosa durò un pezzo, pur poi cessò e noi, ch’eramo tutti pesti, il meglio che noi potemmo ci rimettemmo a cavallo; e in mentre che noi andavamo inverso l’alloggiamento, mostrandoci l’un l’altro gli scalfitti20 e le percosse, trovammo un miglio innanzi tanta maggior ruina della nostra, che pare inpossibile a dirlo. Erano tutti gli arbori mondi 21 e scavezzati, con tanto bestiame morto, quanto la 22 n’aveva trovati; e molti pastori ancora morti: vedemmo quantità assai di quelle granella 23 le quali non si sarebbon cinte con dua mani. Ce ne parve avere un 24 buon mercato, e cognioscemmo allora che il chiamare Idio e quei nostri Misereri ci avevano più servito che da per noi non aremmo potuto fare. Così ringraziando Idio, ce ne andammo in Lione l’altra giornata appresso, e quivi ci posammo 25 per otto giorni. Passati gli otto giorni, essendoci molto bene ricreati, ripigliammo il viaggio, e molto felicemente passammo i monti. Ivi io comperai un piccol cavallino, perché certe poche bagaglie avevano alquanto istracco 26 i mia cavalli.
LI. Di poi che noi fummo una giornata in Italia, ci raggiunse il conte Galeotto della Mirandola, il quale passava in poste, e fermatosi con esso noi, mi disse che io avevo fatto errore a partirmi, e che io dovessi non andare più innanzi, perché le cose mie, tornando subito, passerebbono 1 meglio che mai; ma se io andavo innanzi, che io davo campo ai mia nimici e comodità di potermi far male; dove che, se io tornavo subito, arei loro inpedita la via a quello che avevano ordinato 2 contro a di me; e quelli tali, in chi io avevo più fede, erano quelli che m’ingannavano. Non mi volse dire altro, che lui benissimo lo sapeva; e ’l cardinal di Ferrara s’era accordato con quei dua mia ribaldi che io avevo lasciato in guardia d’ogni cosa mia. Il ditto Contino 3 mi repricò più volte che io dovessi tornare a ogni modo. Montato in su le poste passò innanzi, e io, per la compagnia sopra ditta, ancora mi risolsi a passare innanzi. Avevo uno istruggimento al cuore, ora di arrivare prestissimo a Firenze, e ora di ritornarmene in Francia. Istavo in tanta passione, a quel modo inresoluto, che io per utimo mi risolsi voler montare in poste per arrivare presto a Firenze. Non fu’ d’accordo con la primaposta4: per questo fermai il mio proposito assoluto di venire a tribulare in Firenze. Avendo lasciato la compagnia del signiore Ipolito Gonzaga, il quale aveva preso la via per andare alla Mirandola e io quella di Parma e Piacenza, arrivato che io fui a Piacenza iscontrai per una strada il duca Pierluigi 5, il quale mi squadrò e mi cogniobbe. E io che sapevo che tutto il male che io avevo aùto nel castel Sant’Agniolo di Roma, n’era stato lui la intera causa, mi dette passione assai il vederlo; e non conoscendo nessun rimedio a uscirgli delle mane, mi risolsi di andarlo a visitare; e giunsi appunto che s’era levata la vivanda 6, ed era seco quelli uomini della casata de’ Landi, qual da poi furno quelli che lo ammazzorno 7. Giunto a sua Eccellenzia, questo uomo mi fece le più smisurate carezze che mai inmaginar si possa; e infra esse carezze da sé cadde in proposito, dicendo a quelli ch’erano alla presenza che io ero il primo uomo del mondo della mia professione, e che io ero stato gran tempo in carcere in Roma. E voltosi a me disse: "Benvenuto mio, quel male che voi avesti, a me ne ’ncrebbe assai; e sapevo che voi eri8innocente, e non vi potetti aiutare altrimenti, perché mio padre per9 soddisfare a certi vostri nimici, i quali gli avevano ancora dato ad intendere che voi avevi sparlato di lui: la qual cosa io so certissima che non fu mai vera; e a me ne increbbe assai del vostro10"; e con queste parole egli multipricò in tante altre simile, che pareva quasi che mi chiedessi perdonanza. Appresso mi domandò di tutte l’opere che io aveva fatte al Re cristianissimo; e dicendogliele io, istava attento, dandomi la più grata audienza che sia possibile al mondo. Di poi mi ricercò 11 se io lo volevo servire: a questo io risposi che con mio onore io non lo potevo fare; che se io avessi lasciato finite quelle tante grand’opere che io avevo cominciate per quel gran Re, io lascerei ogni gran signore, solo per servire sua Eccellenzia. Or qui si cogniosce quanto la gran virtù de Dio non lascia mai impunito di qualsivoglia sorta di uomini, che fanno torti e ingiustizie agli innocenti. Questo uomo come perdonanza mi chiese alla presenza di quelli, che poco da poi feciono le mie vendette12, insieme con quelle di molti altri ch’erano istati assassinati da lui: però nessun Signiore, per grande che e’ sia, non si faccia beffe della giustizia de Dio, sì come fanno alcuni di quei che io cogniosco, che sì bruttamente m’hanno assassinato, dove al suo luogo io lo dirò. E queste mie cose io non le scrivo per boria mondana, ma solo per ringraziare Idio, che m’ha campato da tanti gran travagli. Ancora di quelli 13 che mi s’appresentano innanzi alla giornata14, di tutti a lui mi querelo15, e per mio propio difensore chiamo e mi raccomando. E sempre, oltra che 16 io m’aiuti quanto io posso, da poi avvilitomi17 dove le debile forze mie non arrivano, subito mi si mostra quella gran bravuria 18 de Dio, la quale viene inaspettata a quelli che altrui offendono a torto, e a quelli che hanno poco cura della grande e onorata carica, che Idio ha dato loro.
LII. Torna’mene all’osteria e trovai che il sopra detto Duca m’aveva mandato abbundantissimamente presenti da mangiare e da bere, molto onorati: presi di buona voglia il mio cibo; da poi, montato a cavallo, me ne venni alla volta di Fiorenze; dove giunto che io fui, trovai la mia sorella carnale con sei figliolette, che una ve n’era da marito e una ancora a balia: trovai il marito suo, il quale per vari accidenti della città non lavorava più dell’arte sua. Avevo mandato più d’uno anno innanzi gioie e dorure1 franzese per il valore di più di dumila ducati, e meco ne avevo portate per il valore di circa mille scudi. Trovai che, se bene io davo loro continuamente quattro scudi d’oro il mese, ancora continuamente pigliavano di gran danari di quelle mie dorure che alla giornata2 loro vendevano. Quel mio cogniato era tanto uomo da bene che, per paura che io non mi avessi a sdegniar seco, non gli bastando i dinari che io gli mandavo per le sue provvisione dandogliene per limosina3, aveva inpegniato quasi ciò4 che gli aveva al mondo, lasciandosi mangiare dagli interessi, solo per non toccare di quelli dinari che non erano ordinati per5 lui. A questo io cogniobbi che gli era molto uomo da bene e mi crebbe voglia di fargli più limosina; e prima che io mi partissi di Firenze volevo dare ordine6 a tutte le sue figlioline.
LIII. Il nostro ducaa di Firenze in questo tempo, che eramo del mese d’agosto nel 1545, essendo al Poggio a Caianob, luogo dieci miglia discosto di Firenze, io l’andai a trovare, solo per fare il debito mio, per essere anch’io cittadino fiorentino e perché i mia antichi erano stati molto amici della casa de’ Medici, e io più che nessuno di loro amavo questo duca Cosimo. Sì come io dico, andai al detto Poggio solo per fargli reverenza e non mai con nessuna intenzione di fermarmi seco, sì come Dio, che fa bene ogni cosa, a lui piacque: ché veggendomi il detto Duca, dipoi fattomi molte infinite carezze, e lui e la Duchessa 3 mi dimandorno dell’opere che io avevo fatte al Re; alla qual cosa volentieri, e tutte per ordine, io raccontai. Udito che egli m’ebbe, disse che tanto aveva inteso, che così era il vero; e da poi aggiunse in atto di conpassione, e disse: "O poco premio a tante belle e gran fatiche! Benvenuto mio, se tu mi volessi fare qualche cosa a me, io ti pagherei bene altrimenti che non ha fatto quel tuo Re, di chi 4 per tua buona natura tanto ti lodi". A queste parole io aggiunsi li grandi obrighi che io avevo con sua Maestà, avendomi tratto d’un così ingiusto carcere, di poi datomi l’occasione di fare le più mirabile opere che ad altro artefice mio pari, che nascessi mai. Inmentre che io dicevo così, il mio Duca si scontorceva e pareva che non mi potessi stare a udire. Da poi finito che io ebbi mi disse: "Se tu vuoi far qualcosa per me, io ti farò carezze tali che forse tu resterai maravigliato, purché l’opere tue mi piacciano: della qual cosa io punto non dubito". Io poverello isventurato, desideroso di mostrare in questa mirabile iscuola5, che di poi che io ero fuor d’essa, m’ero affaticato in altra professione di quello che la ditta iscuola non istimava 6, risposi al mio Duca che volentieri, o di marmo o di bronzo, io gli farei una statua grande in su quella sua bella piazza7. A questo mi rispose che arebbe voluto da me, per una prima opera, solo un Perseo8: questo era quanto lui aveva di già desiderato un pezzo; e mi pregò che io gnene facessi un modelletto. Volentieri mi messi a fare il detto modello, e in breve 9 settimane finito l’ebbi, della altezza d’un braccio in circa: questo era di cera gialla, assai accomodamente finito; bene era fatto con grandissimo istudio e arte. Venne il Duca a Firenze e innanzi che io gli potessi mostrare questo ditto modello, passò parecchi dì: ché propio pareva che lui non mi avessi mai veduto né conosciuto, di modo che io feci un mal giudizio de’ fatti mia con sua Eccellenzia. Pur da poi, un dì doppo desinare, avendolo io condotto nella sua guardaroba10, lo venne a vedere insieme con la Duchessa e con pochi altri Signiori. Subito vedutolo gli piacque e lodollo oltramodo: per la qual cosa mi dette un poco di speranza che lui alquanto se ne ’ntendessi. Da poi che l’ebbe considerato assai, crescendogli grandemente di piacere, disse queste parole: "Se tu conducessi, Benvenuto mio, così in opera grande questo piccol modellino, questa sarebbe la più bella opera di piazza". Allora io dissi: "Eccellentissimo mio Signiore, in piazza sono l’opere del gran Donatello11 e del maraviglioso Michelagniolo12, qual sono istati dua li13 maggior uomini dagli antichi in qua. Per tanto vostra Eccellenzia illustrissima dà un grand’animo al mio modello 14, perché a me basta la vista di far meglio l’opera, che il modello, più di tre volte". A questo fu non piccola contesa 15, perché il Duca sempre diceva che se ne intendeva benissimo e che sapeva appunto quello che si poteva fare. A questo io gli dissi che l’opere mie deciderebbono quella quistione e quel suo dubbio, e che certissimo io atterrei 16 a sua Eccellenzia molto più di quel che io gli promettevo, e che mi dessi pur le comodità che io potessi fare tal cosa, perché sanza quelle comodità io non gli potrei attenere la gran cosa che io gli promettevo. A questo sua Eccellenzia mi disse che io facessi una supplica di quanto io gli dimandavo, e in essa contenessi tutti i mia bisogni, ché a quella amplissimamente darebbe ordine 17. Certamente che se io fussi stato astuto a legare per contratto tutto quello che io avevo di bisognio in queste mia opere, io non arei aùto e’ gran travagli, che per mia causa18 mi son venuti: perché la voluntà sua si vedeva grandissima sì in voler fare delle opere e sì nel dar buon ordine a esse. Però non conoscendo io che questo Signiore aveva più modo di mercatante che di duca, liberalissimamente procedevo con sua Eccellenzia come duca e non come mercatante. Fecigli le suppliche, alle quale sua Eccellenzia liberalissimamente rispose. Dove io dissi19: "Singularissimo mio patrone, le vere suppliche e i veri nostri patti non consistono in queste parole né in questi scritti, ma sì bene il tutto consiste che io riesca con l’opere mie a quanto io l’ho promesse; e riuscendo, allora io mi prometto che vostr å Eccellenzia illustrissima benissimo si ricorderà di quanto la promette a me". A queste parole invaghito sua Eccellenzia e del mio fare e del mio dire, lui e la Duchessa mi facevano i più isterminati favori che si possa inmaginare al mondo.
LIV. Avendo io grandissimo desiderio di cominciare a lavorare, dissi a sua Eccellenzia che io avevo bisognio d’una casa, la quale fussi tale che io mi vi potessi accomodare con le mie fornaciette, e da lavorarvi l’opere di terra e di bronzo, e poi, appartatamente1, d’oro e d’argento: perché io so che lui sapeva quanto io ero bene atto a servirlo di queste tale professione; e mi bisogniava stanze comode da poter far tal cosa. E perché sua Eccellenzia vedessi quanto io avevo voglia di servirla, di già io avevo trovato la casa, la quale era a mio proposito2, ed era in luogo che molto mi piaceva. E perché io non volevo prima intaccare sua Eccellenzia a danari o nulla3, che egli vedessi l’opere mie, avevo portato di Francia dua gioielli, coi quali io pregavo sua Eccellenzia che mi comperassi la ditta casa, e quelli salvassi4 insino a tanto che con l’opere e con le mie fatiche io me la guadagnassi. Gli detti gioielli erano benissimo lavorati di mano di mia lavoranti, sotto i mia disegni. Guardati che gli ebbe assai, disse queste animose parole, le quali mi vestirno di falsa isperanza: "Togliti5, Benvenuto, i tua gioielli, perché io voglio te e non loro; e tu abbi la casa6tua libera". Appresso a questo me ne fece uno rescritti7 sotto una mia supplica, la quale ho sempre tenuta8. Il detto rescritto diceva così: "Veggasi la detta casa, e a chi sta a venderla, e il pregio9 che se ne domanda: perché ne vogliamo conpiacere Benvenuto". Parendomi per questo rescritto esser sicuro della casa: perché sicuramente io mi promettevo che le opere mie sarebbono molto più piaciute di quello che io avevo promesso; appresso a questo sua Eccellenzia aveva dato espressa commessione a un certo suo maiordomo, il quale si domandava ser Pier Francesco Riccio. Era da Prato, ed era stato pedantuzzo10 del ditto Duca. Io parlai a questa bestia, e dissigli tutte le cose di quello che io avevo di bisognio, perché dove era orto in detta casa io volevo fare una bottega11. Subito questo uomo dette la commessione a un certo pagatore secco e sottile, il quale si chiamava Lattanzio Gorini. Questo omiciattolo con certe sue manine di ragniatelo e con una vociolina di zanzara, presto come una lumacuzza12, pure in malora13 mi fe’ condurre a casa sassi, rena e calcina tanta, che arebbe servito per fare un chiusino14 da colombi malvolentieri15. Veduto andar le cose tanto malamente fredde16, io micominciai a sbigottire; o pure da me dicevo: "I piccoli principii alcune volte hanno gran fine"; e anche mi dava qualche poco di speranza il vedere quante migliaia di ducati il Duca aveva gittato via in certe brutte operaccie di scultura, fatte di mano di quel bestial Buaccio Bandinello17. Fattomi da per me medesimo animo, soffiavo in culo a quel Lattanzio Gurini 18 per farlo muovere; gridavo a certi asini zoppi e a uno cecolino19 che gli guidava; e con queste difficultà, poi con mia danari, avevo segniato il sito della bottega, e sbarbato20 alberi e vite: pure, al mio solito, arditamente, con qualche poco di furore, andavo faccendo. Dall’altrabanda, ero alle man21 del Tasso legnaiuolo, amicissimo mio, e a lui facevo fare certe armadure di legnio per cominciare il Perseo grande. Questo Tasso era eccellentissimo valente uomo, credo il maggiore che fussi mai di sua professione; dall’altra banda era piacevole e lieto, e ogni volta che io andavo da lui, mi si faceva incontro ridendo, con un canzoncino in quilio22. E io, che ero di già più che mezzo disperato, sì perché cominciavo a sentire le cose di Francia che andavano male, e di queste23mi promettevo 24 poco per la loro freddezza, mi sforzava a farmi udire sempre la metà per lo manco di quel suo canzoncino; pure all’utimo alquanto mi rallegravo seco, sforzandomi di smarrire25, quel più cheio potevo, quattro di quei mia disperati pensieri.
LV. Avendo dato ordine a tutte le sopra ditte cose, e cominciato a tirare innanzi per apparecchiarmi più presto a questa sopra ditta inpresa — di già era spento parte della calcina —, in un tratto io fui chiamato dal sopra ditto maiordomo; e io, andando a lui, lo trovai dopo il desinare di sua Eccellenzia in sulla sala detta dell’Oriuolo1; e fattomigli innanzi, io a lui con grandissima riverenza, e lui a me con grandissima rigidità, mi domandò chi era quello che m’aveva messo in quella casa, e con che autorità io v’avevo cominciato drento a murare 2; e che molto si maravigliava di me, che io fussi così ardito prosuntuoso. A questo io risposi che innella casa m’aveva misso sua Eccellenzia, e in nome di sua Eccellenzia sua Signoria3, la quale aveva dato le commessione a Lattanzio Gurini; e il detto Lattanzio aveva condutto pietra, rena4, calcina, e dato ordine alle cose che io avevo domandato: "E di tanto diceva avere aùto commessione da vostra Signoria". Ditto queste parole, quella ditta bestia mi si volse con maggiore agrezza5 che prima, e mi disse che né io né nessuno di quelli che io avevo allegato6, non dicevano la verità. Allora io mi risenti’ e gli dissi: "O maiordomo, insino a tanto che vostra Signioria parlerà sicondo quel nobilissimo grado in che quella è involta7, io la riverirò e parlerò a lei con quella sommissione che io fo al Duca; ma faccendo altrimenti, io le parlerò come a un ser8 Pier Franco Riccio". Questo uomo venne in tanta collora, che io credetti che volesse inpazzare allora, per avanzar tempo da quello9 che i cieli determinato gli aveano 10; e mi disse insieme con alcune ingiuriose parole che si maravigliava molto di avermi fatto degno che io parlassi a un suo pari. A queste parole io mi mossi e dissi: "Ora ascoltatemi, ser Pier Francesco Riccio, che io vi dirò chi sono i mia pari, e chi sono i pari vostri, maestri d’insegniar leggere a’ fanciulli". Ditto queste parole, quest’uomo con arroncigliato11 viso alzò la voce, replicando più temerariamente quelle medesime parole. Alle quali ancora io accònciomi con ’l viso de l’arme12, mi vesti’ per causa sua d’un poco di presunzione, e dissi che li pari mia eran degni di parlare a papi e a inperatori e a gran re; e che delli pari mia n’andava forse un per mondo, ma delli sua pari n’andava dieci per uscio. Quando e’ sentì queste parole, salì in su ’n un muricciuolo 13 di finestra, che è in su quella sala; da poi mi disse che io replicassi un’altra volta le parole che io gli avevo dette: le quale più arditamente che fatto non avevo replicai, e di più dissi che io non mi curavo più di servire il Duca, e che io me ne tornerei nella Francia, dove io liberamente potevo ritornare. Questa bestia restò istupido e di color di terra 14, e io arrovellato mi parti’ con intenzione di andarmi con Dio: che volessi Idio che io l’avessi eseguita! Dovette l’Eccellenzia del Duca non saper così al primo 15 questa diavoleria occorsa, perché io mi stetti certi pochi giorni avendo dimesso 16 tutti i pensieri di Firenze, salvo che quelli della mia sorella e delle mie nipotine, i quali io andavo accomodando: ché con quel poco che io avevo portato le volevo lasciare acconcie 17 il meglio che io potevo, e quanto più presto da poi mi volevo ritornare in Francia, per non mai più curarmi di rivedere la Italia. Essendomi resoluto di spedirmi 18 il più presto che io potevo, e andarmene sanza licenzia del Duca o d’altro, una mattina quel sopra ditto maiordomo da per se medesimo molto umilmente mi chiamò, e messe mano a una certa sua pedantesca orazione, innella quale io non vi senti’ mai né modo, né grazia, né virtù, né principio, né fine: solo v’intesi che disse che faceva professione di buon cŕistiano, e che non voleva tenere odio con persona, e mi domandava da parte del Duca che salario io volevo per mio trattenimento 19. A questo io stetti un poco sopra di me e non rispondevo, con pura intenzione di non mi voler fermare. Vedendomi soprastare sanza risposta, ebbe pur tanta virtù che egli disse: "O Benvenuto, ai duchi si risponde; e quello che io ti dico te lo dico da parte di sua Eccellenzia". Allora io dissi che dicendomelo da parte di sua Eccellenzia, molto volentieri io volevo rispondere; e gli dissi che dicessi a sua Eccellenzia come io non volevo esser fatto secondo a nessuno di quelli che lui teneva della mia professione. Disse il maiordomo: "Al Bandinello si dà dugento scudi per suo trattenimento, sicché, se tu ti contenti di questo, il tuo salario è fatto". Risposi che ero contento, e che quel che io meritassi di più, mi fussi dato da poi vedute l’opere mie, e rimesso tutto nel buon giudizio di sua Eccellenzia illustrissima: così contra mia voglia rappiccai il filo e mi messi a lavorare, faccendomi di continuo il Duca i più smisurati favori che si potessi al mondo inmaginare.