LVI. Avevo aùto molto ispesso lettere di Francia da quel mio fidelissimo amico messer Guido Guidi: queste lettere per ancora non mi dicevano se non bene; quel mio Ascanio ancora lui m’avvisava dicendomi che io attendessi a darmi buon tempo, e che, se nulla occorressi 1, me l’arebbe avvisato. Fu riferito al Re come io m’ero messo a lavorare per il duca di Firenze; e perché questo uomo 2 era il miglior del mondo, molte volte disse: "Perché non torna Benvenuto?" E dimandatone particularmente quelli mia giovani, tutti a dua gli dissono che io scrivevo loro che stavo così bene, e che pensavano che io non avessi più voglia di tornare a servire sua Maestà. Trovato il Re in còllora, e sentendo queste temerarie parole, le quale non vennono mai da me, disse: "Da poi che s’è partito da noi sanza causa nessuna, io non lo dimanderò mai più: sì che stiesi dove gli è". Questi ladroni assassini, avendo condutta la cosa a quel termine che loro desideravono, perché ogni volta che io fussi ritornato in Francia loro si ritornavano lavoranti sotto a di me come gli erano in prima: per il che, non ritornando, loro restavano liberi e in mio scanbio 3: per questo e’ facevano tutto il loro sforzo perché io non ritornassi.

 

LVII. Inmentre che io facevo murare la bottega per cominciarvi drento il Perseo, io lavoravo in una camera terrena, innella quale io facevo il Perseo di gesso, della grandezza che gli aveva da essere, con pensiero di formarlo da quel di gesso. Quando io viddi che il farlo per questa via mi riusciva un po’ lungo, presi un altro espediente, perché di già era posto sù 1, di mattone sopra mattone, un poco di bottegaccia, fatta con tanta miseria, che troppo mi offende il ricordarmene. Cominciai la figura della Medusa, e feci una ossatura di ferro; di poi la cominciai a far di terra, e fatta che io l’ebbi di terra, io la cossi. Ero solo con certi fattoruzzi 2, infra i quali ce ne era uno molto bello a: questo si era figliuolo d’una meretrice, chiamata la Gambetta. Servivomi di questo fanciullo per ritrarlo, perché noi non abbiamo altri libri che ci insegnin l’arte, altro che il naturale4. Cercavo di pigliar de’ lavoranti per ispedir5presto questa mia opera, e non ne potevo trovare, e da per me solo io non potevo fare ogni cosa. Eracene qualcuno in Firenze che volentieri sarebbe venuto, ma il Bandinello subito m’inpediva che non6 venissino, e faccendomi stentare così un pezzo, diceva al Duca che io andavo cercando dei sua lavoranti, perché da per me non era mai possibile che io sapessi mettere insieme una figura grande. Io mi dolsi col Duca della gran noia 7 che mi dava questa bestia, e lo pregai che mi facessi avere qualcun di quei lavoranti dell’Opera 8. Queste mie parole furno causa di far credere al Duca quello che gli diceva il Bandinello. Avvedutomi di questo, io mi disposi di far da me quanto io potevo. E messomi giù con le più estreme fatiche che inmaginar si possa, in questo che io giorno e notte m’affaticavo, si ammalò il marito della mia sorella, e in brevi giorni si morì. Lasciòmi la mia sorella, giovane. con sei figliuole fra piccole e grande: questo fu il primo gran travaglio che io ebbi in Firenze: restar padre e guida d’una tale isconfitta 9.

 

LVIII. Desideroso pure che nulla non 1 andassi male, essendo carico 2 il mio orto di molte brutture, chiamai dua manovali, e’ quali mi furno menati dal Ponte Vecchio: di questi ce n’era uno vecchio di sessant’anni, l’altro si era giovane di diciotto. Avendogli tenuti circa tre giornate, quel giovane mi disse che quel vecchio non voleva lavorare e che io facevo meglio a mandarlo via, perché non tanto che lui non voleva lavorare, inpediva il giovane che non lavorassi3; e mi disse che quel poco che v’era da fare, lui se lo poteva fare da sé, sanza gittar via e’ denari in altre persone: questo aveva nome Bernardino Manellini di Mugello. Vedendolo io tanto volentieri affaticarsi, lo domandai se lui si voleva acconciar meco per servidore: al primo 4 noi fummo d’accordo. Questo giovane mi governava un cavallo, lavorava l’orto, di poi s’ingegniava d’aiutarmi in bottega, tanto che a poco a poco e’ cominciò a ’nparare l’arte con tanta gentilezza, che io non ebbi mai migliore aiuto di quello. E risolvendomi di far con costui ogni cosa, cominciai a mostrare al Duca che ’l Bandinello direbbe le bugie, e che io farei benissimo sanza i lavoranti del Bandinello. Venrremi in questo tempo un poco di male alle rene5; e perché io non potevo lavorare, volentieri mi stavo in guardaroba del Duca con certi giovani orefici, che si domandavano Gianpagolo e Domenico Poggini, ai quali io facevo fare uno vasetto d’oro, tutto lavorato-di basso rilievo, con figure e altri belli ornamenti: questo era per la Duchessa, il quale sua Eccellenzia faceva fare per bere dell’acqua. Ancora mi richiese che io le facesse una cintura d’oro; e anche quest’opera ricchissimamente, con gioie e con molte piacevole invenzione di mascherette e d’altro: questa se le fece. Veniva a ogni poco il Duca in questa guardaroba, e pigliavasi piacere grandissimo di veder lavorare e di ragionare con esso meco. Cominciato un poco a migliorare delle mie rene, mi feci portar della terra, ed inmentre che ’l Duca si stava quivi a passar tempo, io lo ritrassi, faccendo una testa assai maggiore del vivo 6. Di questa opera sua Eccellenzia ne prese grandissimo piacere e mi pose tanto amore, che lui mi disse che gli sarebbe stato grandissimo a piacere 7 che io mi fussi accomodato a lavorare in Palazzo 8, cercandomi in esso Palazzo di stanze capace, le quale io mi dovessi fare acconciare con le fornacie e con ciò che io avessi di bisognio: perché pigliava piacere di tal cose grandissimo. A questo io dissi a sua Eccellenzia che non era possibile, perché io non arei finito l’opere mia in cento anni.

 

LIX. La Duchessa mi faceva favori inistimabili, e arebbe voluto che io avessi atteso a lavorare per lei, e non mi fussi curato né di Perseo né di altro. Io, che mi vedevo in questi vani favori, sapevo certo che la mia perversa e mordace fortuna non poteva sosprastare a farmi qualche nuovo assassinamento: perché ogniora mi s’apprestava innanzi el gran male che io avevo fatto, cercando di fare un sì gran bene: dico quanto alle cose di Francia. Il Re non poteva inghiottire quel gran dispiacere che gli aveva della mia partita, e pure arebbe voluto che io fussi ritornato, ma con ispresso suo onore 1; a me pareva avere molte gran ragione, e non mi volevo dichinare 2: perché pensavo, se io mi fussi dichinato a scrivere umilmente, quelli uomini alla franciosa arebbono detto che io fussi stato peccatore, e che e’ fussi stato il vero certe magagnie, che a torto m’erano aposte 3. Per questo io stavo in su l’onorevole 4, e, come uomo che ha ragione, iscrivevo rigorosamente 5, quale era il maggior piacere che potevano avere quei dua traditori mia allevati 6: perché io mi vantavo, scrivendo loro, delle gran carezze che m’era fatte nella patria mia da un Signiore e da una Signiora, assoluti patroni della città di Firenze, mia patria. Come eglino avevano una di queste cotal lettere, andavano dal Re e strignievano 7 sua Maestà a dar loro il mio castello, in quel modo che l’aveva dato a me. Il Re, qual era persona buona e mirabile, mai volse acconsentire alle temerarie dimande di questi gran ladroncelli, perché si era cominciato a ’vedere a quel che 8 loro maligniamente espiravano 9; e per dar loro un poco di speranza e a me occasione di tornar subito, mi fece iscrivere alquanto in còllora da un suo tesauriere, che si dimandava messer Giuliano Buonaccorsi, cittadino fiorentino. La lettera conteneva questo: che se io volevo mantenere quel nome de l’uomo da bene che io v’avevo portato, da poi che io me n’ero partito sanza nessuna causa, ero veramente ubrigato a render conto di tutto quello che io avevo maneggiato e fatto per sua Maestà. Quando io ebbi questa lettera, mi dette tanto piacere, che a chiedere a lingua 10, io non arei domandato né più né manco. Messomi a scrivere, enpie’ nove fogli di carta ordinaria 11; e in quegli narrai tritamente 12 tutte l’opere che io avevo fatte e tutti gli accidenti che io avevo auti in esse, e tutta la quantità de’ denari che s’erano ispesi in dette opere, i quali tutti s’erano dati per mano di dua notari e d’un suo tesauriere, e sottoscritti da tutti quelli proprii uomini che gli avevano auti, i quali alcuno aveva dato delle robe sue e gli altri le sue fatiche; e che di essi danari io non m’ero messo un sol quattrino in borsa, e che delle opere mie finite io non avevo auto nulla al mondo: solo me ne avevo portato in Italia alcuni favori e promesse realissime 13, degne veramente di sua Maestà. E se bene io non mi potevo vantare d’aver tratto nulla altro delle mie opere, che certi salari ordinatimi da sua Maestà per mio trattenimento, e di quelli anche restavo d’avere più di settecento scudi d’oro, i quali apposta io lasciai, perché mi fussino mandati per il mio buon ritorno: "Però, conosciuto che alcuni maligni per propia invidia hanno fatto qualche malo uffizio, la verità ha a star sempre di sopra: io mi glorio di sua Maestà cristianissima, e non mi muove l’avarizia. Se bene io cogniosco d’avere attenuto 14 molto più a sua Maestà di quello che io mi offersi di fare; e se bene a me non è conseguito il canbio promissomi 15, d’altro non mi curo al mondo, se non di restare, nel concetto di sua Maestà, uomo da bene e netto 16, tal quale io fui sempre. E se nessun dubbio di questo fussi in vostra Maestà, a un minimo cenno verrò volando a render conto di me, con la propia vita; ma vedendo tener così poco conto di me, non son voluto tornare a offerirmi, saputo che a me sempre avanzerà del pane dovunche io vada; e quando io sia chiamato, sempre risponder ò”. Era in detta lettera molti altri particulari degni di quel maraviglioso Re e della salvazione dell’onor mio. Questa lettera, innanzi che io la mandassi, la portai al mio Duca, il quale ebbe molto piacere di vederla; di poi subito la mandai in Francia, diritta17 al cardinal di Ferrara.

 

LX. In questo tempo Bernardone Baldini, sensale di gioie di sua Eccellenzia, aveva portato di Vinezia un diamante grande, di più di trentacinque carati di peso: eraci Antonio di Vittorio Landi ancora1 lui interessato per farlo conperare al Duca. Questo diamante era stato già una punta, ma perché e’ non riusciva con qúella linpidità fulgente, che a tal gioia si doveva desiderare, li padroni di esso diamante avevano ischericato 2 questa ditta punta, la quale veramente non faceva bene né per tavola né per punta3. Il nostro Duca, che si dilettava grandemente di gioie, ma però non se ne intendeva, dette sicura isperanza a questo ribaldone di Bernardaccio di volere conperare questo ditto diamante. E perché questo Bernardo cercava di averne l’onore lui solo, di questo inganno che voleva fare al duca di Firenze, mai non conferiva nulla con il suo compagnio, il ditto Antonio Landi. Questo ditto Antonio era molto mio amico per insino da puerizia, e perché lui vedeva che io ero tanto domestico con il mio Duca, un giorno infra gli altri mi chiamò da canto 4 — era presso a mezzodì, e fu in sul canto di Mercato Nuovo —, e mi disse così: "Benvenuto, io son certo che ’l Duca vi mostrerrà un diamante, il quale e’ dimostra aver voglia di comperarlo: voi vedrete un gran diamante. Aiutate la vendita; e io vi dico che io lo posso dare per diciassette mila scudi: io son certo che il Duca vorrà il vostro consiglio; se voi lo vedete inclinato bene al volerlo, e’ si farà cosa 5 che lo potrà pigliare". Questo Antonio mostrava di avere una gran sicurtà nel poter far partito 6 di questa gioia. Io li promessi che, essendomi mostra 7 e di poi domandato del mio parere, io arei detto tutto quello che io intendessi, senza danneggiare la gioia. Sì come io ho detto di sopra, il Duca veniva ogni giorno in quella oreficeria 8 per parecchi ore; e dal dì che m’aveva parlato Antonio Landi, più di otto giorni dappoi, il Duca mi mostrò un giorno doppo desinare questo ditto diamante, il quale io ricogniobbi per quei contra segni che m’aveva detto Antonio Landi e della forma e del peso. E perché questo ditto diamante era d’un’acqua 9, sì come io dissi di sopra, torbidiccia e per quella causa avevano ischericato quella punta, vedendolo io di quella sorte, certo l’arei isconsigliato a far tale ispesa: però, quando e’ me lo mostrò, io domandai sua Eccellenzia quello che quella 10 voleva che io dicessi, perché gli era divario a’ gioiellieri a il pregiare una gioia 11, di poi che un Signiore l’aveva compera 12, o al porgli pregio 13 perché quello la comperassi. Allora sua Eccellenzia mi disse che l’aveva compro 14 e che io dicessi solo il mio parere. Io non volsi mancare di non gli accennare modestamente quel poco che di quella gioia io intendevo. Mi disse che io considerassi la bellezza di quei gran filetti15che l’aveva.Allora io dissi che quella non era quella gran bellezza che sua Eccellenzia s’inmaginava e che quella era una punta ischericata. A queste parole il mio Signiore, che s’avvedde che io dicevo il vero, fece un mal grugnio e mi disse che io attendessi a stimar la gioia e giudicare quello che mi pareva che la valessi. Io che pensavo che, avendomelo Antonio Landi offerto per diciasette mila scudi, mi credevo che il Duca l’avessi auto per quindici mila il più, e per questo io, che vedevo che lui aveva per male che io gli dicessi il vero, pensai di mantenerlo nella sua falsa oppinione, e pòrtogli il diamante, dissi: "Diciotto mila scudi avete ispeso". A queste parole il Duca levò un rumore, faccendo uno "o" più grande che una bocca di pozzo, e disse: "Or cred’io che tu non te ne intendi". Dissi a lui: "Certo, Signior mio, che voi credete male: attendete a tenere la vostra gioia in riputazione e io attender ò a intendermene. Ditemi almanco quello che voi vi avete speso drento16, acciò che io impari a intendermene sicondo i modi di vostra Eccellenzia". Rizzatosi il Duca con un poco di sdegnioso ghignio, disse: "Venticinque mila iscudi e da vantaggio 17, Benvenuto, mi costa"; e andato via. A queste parole era alla presenza Gianpagolo e Domenico Poggini, orefici; e il Bachiacca ricamatore, ancora lui che lavorava in una stanza vicina alla nostra, corse a quel rimore: dove io dissi: "Io non l’arei mai consigliato che egli lo conperassi; ma se pure egli n’avessi auto voglia, Antonio Landi otto giorni fa me lo offerse per diciasette mila scudi; io credo che io l’arei auto per quindici o manco. Ma il Duca vuol tenere la sua gioia in riputazione: perché avendomela offerta Antonio Landi per un cotal prezzo, diavol 18 che Bernardone avessi fatto al Duca una così vituperosa giunteria 19!" E non credendo mai che tal cosa fussi vera, come l’era, ridendo ci passammo 20 quella sinplicità 21 del Duca.

 

LXI. Avendo di già condotto la figura della gran Medusa, sì come io dissi, avevo fatto la sua ossatura di ferro; di poi fattala di terra, come di notomia 1, e magretta 2 un mezzo dito, io la cossi benissimo; di poi vi messi sopra la cera e fini’la innel3 modo che io volevo che la stessi. Il Duca, che più volte l’era venuta a vedere, aveva tanta gelosia che la non mi venissi 4 di bronzo, che egli arebbe voluto che io avessi chiamato qualche maestro che me la gittassi. E perché sua Eccellenzia parlava continuamente e con grandissimo favore delle mie saccenterie 5, il suo maiordomo, che continuamente cercava di qualche lacciuolo per farmi rompere il collo, e perché gli aveva l’autorità di comandare a’ bargelli e a tutti gli uffizi della povera isventurata città di Firenze6,che un pratese, nimico nostro, figliuol d’un bottaio, igniorantissimo, per essere stato pedante fradicio 7 di Cosimo de’ Medici innanzi che fussi Duca, fussi venuto in tanta grande autorità, sì come ho detto, stando vigilante quanto egli poteva per farmi male, veduto che per verso nessuno lui non mi poteva appiccare ferro addosso 8, pensò un modo di far qualcosa. E andato a trovare la madre di quel mio fattorino, che aveva nome Cencio e lei la Gambetta, dettono uno ordine9, quel briccon pedante e quella furfante puttana, di farmi uno spavento, acciò che per quello io mi fussi andato con Dio. La Gambetta, tirando all’arte sua, uscì, di commessione 10 di quel pazzo ribaldo pedante maiordomo; e perché gli avevano ancora indettato 11 il bargello, il quale era un certo bolognese, che per far di queste cose 12 il Duca lo cacciò poi via, venendo un sabato sera, alle tre ore di notte mi venne’ a trovare la ditta Gambetta con il suo figliuolo, e mi disse che ella l’aveva tenuto parecchi dì rinchiuso per la salute mia. Alla quale io risposi che per mio conto lei non lo tenessi rinchiuso; e ridendomi della sua puttanesca arte, mi volsi al figliuolo in sua presenza e gli dissi: "Tu lo sai, Cencio, se io ho peccato teco"; il qual piagnendo disse che no. Allora la madre, scotendo il capo, disse al figliuolo: "Ahi ribaldello, forse che io non so come si fa?" Poi si volse a me, dicendomi che io lo tenessi nascosto in casa, perché il bargello ne cercava, e che l’arebbe preso ad ogni modo fuor di casa mia; ma che in casa mia non l’arebbon tocco 13. A questo io le dissi che in casa mia io avevo la sorella vedova con sei sante figlioline, e che io non volevo, in casa mia, persona. Allora lei disse che ’l maiordomo aveva dato le commessione al bargello e che io sarei preso a ogni modo; ma poiché io non volevo pigliare il figliuolo in casa, se io le davo cento scudi potevo non dubitar più di nulla, perché essendo il maiordomo tanto grandissimo suo amico, io potevo star sicuro che lei gli arebbe fatto fare tutto quel che a lei piaceva, purché io le dessi li cento scudi. Io ero venuto in tanto furore, col quale io le dissi: "Levamiti d’innanzi, vituperosa puttana, che se non fussi per onor di mondo e per la innocenzia di quello infelice figliuolo che tu hai quivi, io ti arei di già iscannata con questo pugnialetto, che dua o tre volte ci ho messo sù le mane". E con queste parole, con molte villane urtate, lei e ’l figliuolo pinsi 14 fuor di casa.

 

LXII. Considerato poi da me la ribalderia e possanza di quel mal pedante, giudicai che il mio meglio fussi di dare un poco di luogo a quella diavoleria 1, e la mattina di buon’ora, consegniato alla mia sorella gioie e cose per vici no a 2 dumila scudi, montai a cavallo e me ne andai alla volta di Vinezia 3, e menai meco quel mio Bernardino di Mugello. E giunto che io fui a Ferrara, io scrissi alla Eccellenzia del Duca che se bene io me n’ero ito sanza esserne mandato4,io ritornerei sanza esser chiamato. Di poi, giunto a Vinezia, considerato con quanti diversi modi la mia crudel fortuna mi straziava, niente di manco trovandomi sano e gagliardo, mi risolsi di schermigliar 5 con essa al mio solito. E in mentre andavo così pensando a’ fatti miei, passandomi tempo per quella bella e ricchissima città, avendo salutato quel maraviglioso Tiziano pittore e Iacopo del Sansovino, valente scultore e architetto nostro fiorentino molto ben trattenuto 6 dalla Signoria di Venezia, e per esserci conosciuti nella giovanezza in Roma e in Firenze come nostro fiorentino, questi duoi virtuosi mi feciono molte carezze. L’altro giorno a presso io mi scontrai in messer Lorenzo de’ Medici 7, il quale subito mi prese per mano con la maggior raccoglienzia che si possa veder al mondo, perché ci eramo cognosciuti in Firenze quando io facevo le monete al duca Lessandro, e di poi in Parigi, quando io ero al servizio del Re. Egli si tratteneva in casa di messer Giuliano Buonacorsi, e per non aver dove andarsi a passar tempo altrove sanza grandissimo suo pericolo 8, egli si stava più 9 del tempo in casa mia, vedendomi lavorare quelle grand’opere. E sì come io dico, per questa passata conoscenzia egli mi prese per mano e menòmi a casa sua, dov’era il signor Priore delli Strozzi10, fratello del signor Pietro, e rallegrandosi, mi domandorno quanto io volevo soprastare in Venezia, credendosi che io me ne volessi ritornare in Francia. A’ quali Signori io dissi che io mi ero partito di Fiorenze per una tale occasione sopra detta, e che fra dua o tre giorni io mi volevo ritornare a Fiorenze a servire il mio gran Duca. Quando io dissi queste parole, il signor Priore e messer Lorenzo mi si volsono con tanta rigidità, che io ebbi paura grandissima, e mi dissono: "Tu faresti il meglio a tornartene in Francia, dove tu sei ricco e conosciuto: ché se tu torni a Firenze, tu perderai tutto quello che avevi guadagnato in Francia, e di Firenze non trarrai altro che dispiaceri". Io non risposi alle parole loro, e partitomi l’altro giorno più secretamente che io possetti, me ne tornai alla volta di Fiorenze, e intanto era maturato le diavolerie, perché io avevo scritto al mio gran Duca tutta l’occasione che mi aveva traportato a Venezia. E con 11 la sua solita prudenzia e severità, io lo visitai senza alcuna cerimonia; stato alquanto con la detta severità, di poi piacevolmente mi si volse e mi domandò dove io ero stato. Al quale io risposi che il cuor mio mai non si era scostato un dito da sua Eccellenzia illustrissima, se bene per qualche giuste occasioni e’ mi era stato di necessità di menare un poco il mio corpo a zonzo. Allora faccendosi più piacevole, mi cominciò a domandar di Vinezia, e così ragionammo un pezzo; poi ultimamente mi disse che io attendessi a lavorare e che io gli finissi il suo Persero. Così mi tornai a casa lieto e allegro, e rallegrai la mia famiglia, cioè la mia sorella con le sue sei figliuole, e ripreso l’opere mie, con quanta sollecitudine io potevo le tiravo innanzi.

 

LXIII. E la prima opera che io gittai di bronzo’ fu quella testa grande, ritratto di sua Eccellenzia, che io avevo fatta di terra nell’oreficerie 1, mentre che io avevo male alle stiene 2. Questa fu un’opera che piacque e io non la feci per altra causa se non per fare sperienzia delle terre da gittare il 3 bronzo. E se bene io vedevo che quel mirabil Donatello aveva fatto le sue opere di bronzo, quale aveva gittate con la terra di Firenze, e’ mi pareva che l’avessi condutte con grandissima difficultà; e pensando che venissi dal difetto della terra, innanzi che io mi mettessi a gittare il mio Perseo io volsi fare queste prime diligenzie 4: per le quali trovai esser buona la terra, se bene non era stata bene intesa da quel mirabil Donatello, perché con grandissima difficultà vedevo condotte le sue opere. Così, come io dico di sopra, per virtù d’arte io composi la terra, la quale mi servì benissimo; e, sì come io dico, con essa gittai la detta testa; ma perché io non avevo ancora fatto la fornace, mi servi’ della fornace di maestro Zanobi di Pagno, campanaio 5. E veduto che la testa era ben venuta netta, subito mi messi a fare una fornacetta nella bottega che mi aveva fatta il Duca, con mio ordine e disegno, nella propria6casa che mi aveva donata; e subito fatto la fornace, con quanta più sollecitudine io potevo, mi messi in ordine per gittare la statua della Medusa, la quale si è quella femmina scontorta che è sotto i piedi del Perseo. E per essere questo getto 7 cosa difficilissima, io non volsi mancare di tutte quelle diligenzie che avevo imparato, acciò che non mi venissi fatto qualche errore; e così il primo getto ch’io feci in detta mia fornacina venne bene superlativo 8 grado, ed era tanto netto ch’e’ non pareva alli amici mia il dovere 9 che io altrimenti la dovessi rinettare: la qual cosa hanno trovato certi todeschi e franciosi, quali dicono e si vantano di bellissimi secreti di gittare i bronzi senza rinettare: cosa veramente da pazzi, perché il bronzo, di poi che gli è gittato, bisogna riserarlo 10 con i martelli e con i ceselli, sì come i maravigliosissimi antichi, e come hanno ancor fatto i moderni, dico quei moderni c’hanno saputo lavorare il bronzo. Questo getto piacque assai a sua Eccellenzia illustrissima, che più volte lo venne a vedere sino a casa mia, dandomi grandissimo animo al ben fare. Ma possette tanto quella rabbiosa invidia del Bandinello, che 11 con tanta sollecitudine intorno alli orecchi di sua Eccellenzia illustrissima, che gli fece pensare, che se bene io gittava qualcuna di queste statue, che mai io non le metterei insieme, perché l’era in 12 me arte nuova; e che sua Eccellenzia doveva ben guardare a non gittare via i sua denari. Possetton tanto queste parole in quei gloriosi orecchi, che mi fu allentato alcuna spesa di 13 lavoranti: di modo che io fui necessitato a risentirmi arditamente con sua Eccellenzia: dove una mattina, aspettando quella nella via de’ Servi, le dissi: "Signor mio, io non son soccorso d’i 14 miei bisogni, di modo che io sospetto che vostra Eccellenzia non 15 diffidi di me; il perché di nuovo le dico che a me basta la vista di condur tre volte meglio quest’opera. che non fu il modello, sì come io vi ho promesso".

LXIV. Avendo detto queste parole a sua Eccellenzia, e conosciuto che le non facevan frutto nissuno, perché non ne ritraevo risposta, subito mi crebbe una stizza, insieme con una passione intollerabile, e di nuovo cominciai a riparlare al Duca e gli dissi: "Signor mio, questa città veramente è stata sempre la scuola delle maggior virtute; ma cognosciuto che uno s’è 1, avendo imparato qualche cosa, volendo accrescer gloria alla sua città e al suo glorioso Principe, gli è bene andare a operare altrove. E che questo, Signor mio, sia il vero, io so che l’Eccellenzia vostra ha saputo chi fu Donatello, e chi fu il gran Leonardo da Vinci, e chi è ora il mirabil Michelagnol Buonarroti. Questi accrescono la gloria per le lor virtù all’Eccellenzia vostra: per la qual cosa io ancora spero di far la parte mia: sì che, Signor mio, lasciatemi andare. Ma vostra Eccellenzia avvertisca bene a non lasciare andare il Bandinello, anzi dateli sempre più che lui non vi domanda: perché se costui va fuora, gli è tanto la ignoranzia sua prosuntuosa, che gli è atto a vituperare questa nobilissima scuola. Or datimi licenzia, Signore, né domando altro delle mie fatiche sino a qui, che la grazia di vostra Eccellenzia illustrissima". Vedutomi sua Eccellenzia a quel modo resoluto, con un poco di sdegno mi si volse, dicendo: "Benvenuto, se tu hai voglia di finir l’opera, e’ non si mancherà di nulla". Allora io lo ringraziai, e dissi che altro desiderio non era il mio, se non di mostrare a quelli invidiosi che a me bastava la vista di condurre l’opera promessa. Così spiccatomi 2 da sua Eccellenzia, mi fu dato qualche poco di aiuto: per la qual cosa fui necessitato a metter mano alla borsa mia, volendo che la mia opera andassi un poco più che di passo 3. E perché la sera io sempre me ne andavo a veglia nella guardaroba di sua Eccellenzia, dove era Domenico e Gianpavolo Poggini, suo fratello, quali lavoravano un vaso di oro, che addietro s’è detto, per la Duchessa e una cintura d’oro; ancora sua Eccellenzia m’aveva fatto fare un modellino d’un pendente, dove andava legato dentro4quel diamante grande che li aveva fatto comperare Bernardone e Antonio Landi. E con tutto che io fuggissi di non voler 5 far tal cosa, il Duca con tante belle piacevolezze mi vi faceva lavorare ogni sera in sino alle quattro ore. Ancora mi strigneva 6 con piacevolissimi modi a far che io vi lavorassi ancora di giorno: alla qual cosa non volsi mai acconsentire; e per questo io credetti per cosa certa che sua Eccellenzia si adirassi meco. E una sera in fra le altre, essendo giunto alquanto più tardi che al mio solito, il Duca mi disse: "Tu sia il malvenuto". Alle quali parole io dissi: "Signor mio, cotesto non è il mio nome, perché io ho nome Benvenuto; e perché io penso che l’Eccellenzia vostra motteggi 7 meco, io non entrerò in altro 8". A questo il Duca disse che diceva da maledetto senno 9 e non motteggiava, e che io avvertissi bene quel che io facevo, perché gli era venuto alli orecchi che prevalendomi 10 del suo favore, io facevo fare 11 or questo or quello. A queste parole io pregai sua Eccellenzia illustrissima di farmi degno di dirmi solo un omo che io avevo mai fatto fare al mondo. Subito mi si volse in collera e mi disse: "Va e rendi quello che tu hai di Bernardone: eccotene uno". A questo io dissi: "Signor mio, io vi ringrazio, e vi priego mi facciate degno d’ascoltarmi quattro parole: egli è il vero che e’ mi prestò un paio di bilance vecchie e due ancudine e tre martelletti piccoli, le qual masserizie oggi son passati quindici giorni che io dissi al suo Giorgio da Cortona chemandassi per ess12: il perché il detto Giorgio venne per esse lui stesso; e se mai vostra Eccellenzia illustrissima truova che dal dì che io nacqui in qua, io abbia mai nulla di quello di persona in cotesto modo, se bene 13 in Roma o in Francia, faccia intender 14 da quelli che li hanno riferite quelle cose, o da altri; e trovando il vero, mi castighi a misura di carboni 15". Vedutomi il Duca in grandissima passione, come Signor discretissimo 16 e amorevole mi si volse e disse: "E’ non si dice a 17 quelli che non fanno li errori: sì che, se l’è come tu di,’ io ti vedrò sempre volentieri, come ho fatto per il passato". A questo io dissi: "Sappi l’Eccellenzia vostra che le ribalderie di Bernardone mi sforzano a domandarla e pregarla che quella mi dica quel che la spese nel diamante grande, punta schericata: perché io spero mostrarle perché questo male omaccio cerca mettermivi 18 in disgrazia". Allora sua Eccellenzia mi disse: "Il diamante mi costò 25 mila ducati: perché me ne domandi tu?" "Perché, Signor mio, il tal dì, alle tal ore, in sul canto di Mercato Nuovo, Antonio di Vettorio Landi mi disse che io cercassi di far mercato con vostra Eccellenzia illustrissima, e di prima domanda ne chiese sedici mila ducati: ora vostra Eccellenzia sa quel che la l’ha comperato. E che questo sia il vero, domandate ser Domenico Poggini e Giampavolo suo fratello, che son qui: ché io lo dissi loro subito, e da poi non ho mai più parlato, perché l’Eccellenzia vostra disse che io non me ne intendevo: onde io pensavo che quella lo volessi tenere in riputazione. Sappiate, Signor mio, che io me ne intendo; e quanto all’altra parte, fo professione d’esser uomo da bene quanto altro che sia nato al mondo, e sia chi vuole. Io non cercher ò di rubarvi otto o dieci mila ducati per volta, anzi mi ingegnerò guadagnarli con le mie fatiche; e mi fermai a servir vostra Eccellenzia per 19 iscultore, orefice e maestro di monete; e di riferirle delle cose d’altrui 20, mai. E questa che io le dico adesso, la dico per difesa mia, e non ne voglio il quarto 21; e gnene dico presente tanti uomini dabbene che son qui, acciò vostra Eccellenzia illustrissima non creda a Bernardone ciò che dice". Subito il Duca si levò in collera e mandò per Bernardone, il qual fu necessitato a correre22sino a Vinezia, lui e Antonio Landi; quale Antonio mi diceva che non aveva volsuto dir quel diamante 23. Gli andorno e tornorno da Vinezia, e io trovai il Duca, e dissi: "Signore, quel che io vi dissi è vero, e quel 24 vi disse delle masserizie Bernardone non fu vero; e faresti bene a farne la pruova, e io mi avviarò al Bargello 25". A queste parole il Duca mi si volse, dicendomi: "Benvenuto, attendi a esser omo da bene, come hai fatto per il passato, e non dubitar mai di nulla". La cosa andò in fumo e io non ne senti’ mai più parlare. Attesi a finire il suo gioiello; e portatolo un giorno finito alla Duchessa, lei stessa mi disse che stimava tanto la mia fattura quanto il diamante, che li aveva fatto comperar Bernardaccio, e volse che io gnene appiccassi 26 al petto di mia mano, e mi dette uno spilletto grossetto in mano, e con quello gnene appiccai, e mi parti’ con molta sua buona grazia. Da 27 poi io intesi che e’ l’avevano fatto rilegare a un tedesco o altro forestiero, salvo ’l vero, perché il detto Bernardone disse che ’l detto diamante mostrerrebbe 28 meglio legato con manco opera.

 

LXV. Domenico e Giovanpagolo Poggini, orefici e frategli, lavoravano, sì come io credo d’aver detto, in guardaroba di sua Eccellenzia illustrissima cone i miei disegni certi vasetti d’oro cesellati, con istorie di figurine di basso rilievo e altre cose di molta inportanza. E perché io dissi più volte al Duca: "Signior mio, se vostra Eccellenzia illustrissima mi pagassi parecchi lavoranti, io vi farei le monete della vostra zecca e le medaglie colla testa di vostra Eccellenzia illustrissima, le qual farei a gara con gli antichi e arei speranza di superargli: perché dappoi in qua che io feci le medaglie di papa Clemente io ho inparato tanto, che io farei molto meglio di quelle; e così farei meglio delle monete che io feci al duca Alessandro, le quale sono ancora tenute belle; e così vi farei de’ vasi grandi d’oro e d’argento, sì come io ne ho fatti tanti a quel mirabil re Francesco di Francia, solo per le gran comodità che ei m’ha date, né mai s’è perso tempo ai gran colossi né all’altre statue". A queste mie parole il Duca mi diceva: "Fa’, e io vedrò"; né mai mi dette comodità né aiuto nessuno. Un giorno sua Eccellenzia illustrissima mi fecie dare parecchi libbre d’argento e mi disse: "Questo è dello argento delle mie cave 1: fammi un bel vaso". E perché io non volevo lasciare in dietro il mio Perseo e ancora avevo gran volontà di servirlo, io lo detti da fare, con i miei disegni e modelletti di cera, a un certo ribaldo che si chiama Piero di Martino 2, orafo: il quale lo cominciò male e anche non vi lavorava, di modo che io vi persi più tempo che se io lo avessi fatto tutto di mia mano. Così avendomi straziato 3 parecchi mesi, e veduto che il detto Piero non vi lavorava, né manco vi faceva lavorare, io me lo feci rendere, e durai una gran fatica a riavere, con el corpo del vaso mal cominciato, come io dissi, il resto dell’argento che io gli avevo dato. Il Duca, che intese qualcosa di questi romori 4, mandò per il vaso e per i modelli, e mai più mi disse né perché né per come: basta che con certi mia disegni e’ ne fecie fare a diverse persone e a Venezia e in altri luoghi, e fu malissimo servito. La Duchessa mi diceva spesso che io lavorassi per lei di oreficerie: alla quale io più volte dissi che ’l mondo benissimo sapeva, e tutta la Italia, che io era buono orefice; ma che la Italia non aveva mai veduto opere di mia mano di scultura: "E per l’arte 5 certi scultori arrabbiati, ridendosi di me, mi chiamano lo scultor nuovo 6: ai quali io spero di mostrare d’essere scultor vecchio, se Idio mi darà tanta grazia che io possa mostrar finito ’l mio Perseo in quella onorata piazza di sua Eccellenzia illustrissima". E ritiratomi a casa, attendevo a lavorare il giorno e la notte, e non mi lasciavo vedere in Palazzo. E pensando pure di mantenermi nella buona grazia della Duchessa, io gli feci fare certi piccoli vasetti, grandi come un pentolino di dua quattrini, d’argento, con belle mascherine in foggia rarissima, all’antica; e portatole li detti vasetti, lei mi fecie la più grata accoglienza che inmaginar si possa al mondo e mi pagò ’l mio argento e oro che io vi avevo messo. E io pure mi raccomandavo a sua Eccellenzia illustrissima pregandola che la dicessi al Duca che io avevo poco aiuto a così grande opera, e che sua Eccellenzia illustrissima doverrebbe dire al Duca che ei non volessi tanto credere a quella mala lingua del Bandinello, con la quale e’ m’inpediva al 7 finire il mio Perseo. A queste mie lacrimose parole la Duchessa si ristrinse nelle spalle e pur mi disse: "Per certo che ’l Duca lo doverria pur conoscere, che questo suo Bandinello non val niente".

 

LXVI. Io mi stavo in casa, e di rado mi appresentavo 1 al Palazzo, e con gran sollicitudine lavoravo, per finire la mia opera; e mi conveniva pagare i lavoranti de il mio: perché, avendomi fatto pagare certi lavoranti il Duca da Lattanzio Gorini in circa a diciotto mesi ed essendogli venuto a noia, mi fecie levare le commessione 2, per la qual cosa io domandai il detto Lattanzio, perché e’ non mi pagava. E’ mi rispose, menando certe sue manuzze di ragnatelo, con una vocerellina di zanzara: "Perché non finisci questa tua opera? E’ si crede che tu nolla finirai mai". Io subito gli risposi adirato e dissi: "Così vi venga il canchero e a voi e a tutti quegli che non credono che io nolla finisca". E così disperato mi ritornai a casa al mio mal fortunato Perseo, e non senza lacrime, perché mi tornava in memoria il mio bello stato che io avevo lasciato in Parigi sotto ’l servizio di quel maraviglioso re Francesco, con el quale mi avanzava ogni cosa, e qui mi mancava ogni cosa. E parecchi volte mi disposi di gittarmi al disperato; e una volta infra l’altre io montai in su un mio bel cavalletto, e mi missi cento scudi accanto, e me n’andai a Fiesole a vedere un mio figliolino naturale, il quale tenevo a baglia con 3 una mia comare, moglie di un mio lavorante. E giunto al mio figliolino, lo trovai di buono essere 4, e io così malcontento lo baciai; e volendomi partire, e’ non mi lasciava, perché mi teneva forte colle manine e con un furore di pianto e strida, che in quell’età di due anni in circa5 era cosa più che maravigliosa. E perché io m’ero resoluto che, se io trovavo ’l Bandinello, il quale soleva andare ogni sera a quel suo podere 6 sopra San Domenico, come disperato lo volevo gittare in terra 7, così mi spiccai dal mio banbino, lasciandolo con quel suo dirotto pianto. E venendomene inverso Firenze, quando io arrivai alla piazza di San Domenico appunto il Bandinello entrava dall’altro lato in su la piazza. Subito resolutomi di fare quella sanguinosa opera, giunsi a lui, e alzato gli occhi, lo vidi senza arme, in su un muluccio come uno asino8 e aveva seco un fanciullino dell’età di dieci anni; e subito che lui mi vidde, divenne di color di morto, e tremava dal capo ai piedi. Io, conosciuto la vilissima opera 9, dissi: "Non aver paura, vil poltrone, che io non ti vo’ far degnio delle mie busse". Egli mi guardò rimesso 10 e non disse nulla. Allora io ripresi la virtù 11, e ringrazia’ Iddio che per sua vera virtute non aveva voluto che io facessi un tal disordine. Così liberatomi da quel diabolico furore, mi accrebbe animo e meco medesimo dicevo: «Se Iddio mi dà tanto di grazia che io finisca la mia opera, spero con quella di ammazzare tutti i mia ribaldi nimici: dove 12 io farò molte maggiori e più gloriose le mie vendette, che se io mi fussi sfogato con un solo"; e con questa buona resoluzione mi tornai a casa. In capo di tre giorni io intesi come quella mia comare mi aveva affogato il mio unico figliolino, il quale mi dette tanto dolore che mai non senti’ il maggiore. Inperò mi inginocchiai in terra e, non senza lacrime, al mio solito ringraziai il mio Iddio, dicendo: "Signior mio, tu me lo desti, e or tu me l’hai tolto, e di tutto io con tutto ’l cuor mio ti ringrazio 13". E con tutto che ’l gran dolore mi aveva quasi smarrito 14, pure, al mio solito, fatto della necessità virtù, il meglio che io potevo mi andavo accomodando 15.

 

LXVII. E’ s’era partito1 un giovane in questo tempo dal Bandinello, il quale aveva nome Francesco, figliuolo di Matteo fabbro. Questo detto giovane mi fecie domandare se io gli volevo dare da lavorare; e io fui contento, e lo missi a rinettare la figura della Medusa, che era di già gittata. Questo giovane, dipoi quindici giorni, mi disse che aveva parlato con el suo maestro, cioè il Bandinello, e che lui mi diceva da sua parte che, se io volevo fare una figura di marmo, che ei mi mandava a offerire di donarmi un bel pezzo di marmo. Subito io dissi: "Digli che io l’accetto; e potria essere il mal marmo per lui 2, perché ei mi va stuzzicando, e non si ricorda il gran pericolo che lui aveva passato meco in su la piazza di San Domenico: or digli che io lo voglio a ogni modo. Io non parlo mai di lui e sempre questa bestia mi dà noia; e mi credo che tu sia venuto a lavorare meco mandato da lui, solo per spiare i fatti mia. O va, e digli che io vorrò il marmo a suo malgrado; e ritòrnatene seco".

 

LXVIII. Essendo stato di molti giorni che io non m’ero lasciato rivedere in Palazzo, v’andai una mattina, che mi venne quel capriccio, e il Duca aveva quasi finito di desinare; e, per quel che io intesi, sua Eccellenzia aveva la mattina ragionato e ditto molto bene di me, e infra l’altre cose ei mi aveva molto lodato in legar gioie; e per questo, come la Duchessa mi vide, la mi fece chiamare da messer Sforza 1; e appressatomi a sua Eccellenzia illustrissima, lei mi pregò che io le legassi un diamantino in punta in uno anello, e mi disse che lo voleva portare sempre nel suo dito; e mi dette la misura e ’l diamante, il quale valeva in circa a cento scudi, e mi pregò che io lo facessi presto. Subito ’l Duca cominciò a ragionare con la Duchessa e le disse: "Certo che Benvenuto fu in cotesta arte senza pari; ma ora che lui l’ha dimessa a, io credo che ’l fare uno anellino come voi vorresti, e’ gli sarebbe troppa gran fatica: sì che io vi priego che voi nollo affatichiate in questa piccola cosa, la quale a lui saria grande, per essersi disuso 3". A queste parole io ringraziai el Duca, e poi lo pregai che mi lasciassi fare questo poco del servizio alla signiora Duchessa; e subito messovi le mani, in pochi giorni lo ebbi finito. L’anello si era per il dito piccolo della mano: così feci quattro puttini tondi con quattro mascherine, le qual cose facevano il detto anellino; e anche vi accomodai alcune frutte e legaturine smaltate: di modo che la gioia e l’anello si mostravano molto bene insieme. E subito lo portai alla Duchessa: la quale con benignie parole mi disse che io gli avevo fatto un lavoro bellissimo, e che si ricorderebbe di me. Il detto anellino la lo mandò a donare al re Filippo 4, e dappoi sempre la mi comandava qualche cosa, ma tanto amorevolmente, che io sempre mi sforzavo di servirla, con tutto che io vedessi pochi dinari, e Iddio sa se io ne avevo gran bisognio, perché disideravo di finire ’l mio Perseo, e avevo trovati certi giovani che mi aiutavano, i quali io pagavo del mio; e di nuovo cominciai a lasciarmi vedere più spesso che io non avevo fatto per il passato.

 

LXIX. Un giorno di festa in fra gli altri me n’andai in Palazzo dopo ’l desinare, e giunto in su la sala dell’Oriolo, viddi aperto l’uscio della guardaroba, e appressatomi un poco, il Duca mi chiamò, e con piacevole accoglienza mi disse: "Tu sia ’l benvenuto: guarda quella cassetta, che m’ha mandato a donare ’l signiore Stefano di Pilestina 1; aprila e guardiamo che cosa l’è". Subito apertola, dissi al Duca: "Signior mio, questa è una figura di marmo greco ed è cosa maravigliosa: dico che per un fanciulletto 2 io non mi ricordo di avere mai veduto fra le anticaglie una così bella opera, né di così bella maniera: di modo che io mi offerisco a vostra Eccellenzia illustrissima di restaurarvela e la testa e le braccia, i piedi. E gli farò una aquila, acciò che e’ sia battezzato per un Ganimede. E se bene e’ non si conviene a me il rattoppare 3le statue, perché ell’è arte da certi ciabattini, i quali la fanno assai malamente: inperò 4 l’eccellenzia di questo gran maestro mi chiama a servirlo". Piacque al Duca assai che la statua fussi così bella, e mi domandò di assai cose, dicendomi: "Dimmi, Benvenuto mio, distintamente 5 in che consiste tanta virtù di questo maestro 6, la quale ti dà tanta maraviglia". Allora io mostrai 7a sua Eccellenzia illustrissima con el meglio modo che io seppi, di farlo capacie 8 di cotal bellezza e di virtù di intelligenzia, e di rara maniera; sopra le qual cose io avevo discorso assai, e molto più volentieri lo facevo, conosciuto che sua Eccellenzia ne pigliava grandissimo piacere.

 

LXX. In mentre che io così piacevolmente trattenevo 1 ’l Duca, avvenne che un paggio uscì fuori della guardaroba e che, nell’uscire il detto, entrò il Bandinello. Vedutolo’l Duca, mezzo si conturbò, e con cera austera gli disse: "Che andate voi faccendo?" Il detto Bandinello, sanza rispondere altro, subito gittò gli occhi a quella cassetta, dove era la detta statua scoperta, e con un suo mal ghigniaccio 2, scotendo ’l capo, disse volgendosi inverso ’l Duca: "Signiore, queste sono di quelle cose che io ho tante volte dette a vostra Eccellenzia illustrissima. Sappiate 4 tuttavia. che questi antichi non intendevano niente la notomia 3, e per questo le opere loro sono tutte piene di errori". Io mi stavo cheto e non attendevo 4 a nulla di quello che egli dicieva, anzi gli avevo volte le rene 5. Subito che questa bestia ebbe finita la sua dispiacevol cicalata, il Duca disse: "O Benvenuto, questo si è tutto ’l contrario di quello che con tante belle ragioni tu m’hai pure ora sì ben dimostro 6: sì che difendila 7 un poco". A queste ducal parole, portemi con tanta piacevolezza, subitó io risposi e dissi: "Signior mio, vostra Eccellenzia illustrissima ha da sapere che Baccio Bandinelli si è conposto tutto di male8, e così ei è stato sempre: di modo che ciò che lui guarda, subito a’ sua dispiacevoli occhi, se bene le cose sono in sopralativo9 grado tutto bene, subito le si convertono in un pessimo male. Ma io, che solo son tirato 10 ai bene, veggo più santamente ’l vero: di modo che quello che io ho detto di questa bellissima statua a vostra Eccellenzia illustrissima si è tutto il puro vero, e quello che n’ha ditto ’l Bandinello si è tutto quel male solo, di quel che lui è conposto". Il Duca mi stette a udire con molto piacere, e in mentre che io dicevo queste cose il Bandinello si scontorceva e faceva i più brutti visi del suo viso, che era bruttissimo, che inmaginar si possa al mondo. Subito’l Duca si mosse, avviandosi per certe stanze basse, e il detto Bandinello lo seguitava. I camerieri mi presono per la cappa e me gli avviorno dietro 11 e così seguitammo il Duca, tanto che sua Eccellenzia illustrissima giunto in una stanza, e’ si misse a sedere, e il Bandinello e io stavamo un da destra e un da sinistra di sua Eccellenzia illustrissima. Io stavo cheto, e quei che erano all’intorno, parecchi servitori di sua Eccellenzia, tutti guardavano fiso ’l Bandinello, alquanto soghignando l’un coll’altro di quelle parole che io gli avevo detto in quella stanza di sopra. Così il detto Bandinello cominciò a favellare e disse: "Signiore, quando io scopersi il mio Ercole e Cacco 12, certo che io credo che più di cento sonettacci ei mi fu fatti, i quali dicevano il peggio che inmaginar si possa al mondo da questo popolaccio 13". Io allora risposi e dissi: "Signiore, quando il nostro Michelagniolo Buonaroti scoperse la sua Sacrestia 14, dove ei si vidde tante belle figure, questa mirabile e virtuosa scuola, amica della verità e del bene, gli fecie più di cento sonetti, a gara l’un l’altro a chi ne poteva dir meglio; e così come quella del Bandinello meritava quel tanto male che lui dicie che della sua si disse, così meritava quel tanto bene quella del Buonaroti, che di lei si disse". A queste mie parole il Bandinello venne in tanta rabbia, che ei crepava, e mi si volse e disse: "E tu che le sapresti apporre 15?" "Io te lo dirò se tu arai tanta pazienza di sapermi ascoltare." Diss’ei: "Or di’ sù". Il Duca e gli altri, che erano quivi, tutti stavano attenti. Io cominciai e in prima dissi: "Sappi ch’ei m’increscie di averti a dire e’ difetti di quella tua opera, ma none io ti dirò tal cose, anzi ti dirò tutto quello che dicie questa virtuosissima scuola". E perché questo uomaccio or dicieva qualcosa dispiacevole e or faceva 16 con le mani e con i piedi, ei mi fecie venire in tanta còllora, che io cominciai in molto più dispiacevol modo che, faccendo ei altrimenti 17, io non arei fatto. "Questa virtuosa scuola dicie che se e’ si tosassi i capegli a Ercole, che e’ non vi resterebbe zucca che fussi tanta per riporvi il cervello; e che quella sua faccia e’ non si conoscie se l’è di omo o se l’è di lionbue 18; e che la non bada a quel che la fa, e che l’è male appiccata in sul collo, con tanta poca arte e con tanta mala grazia, che e’ non si vedde mai peggio; e che quelle sue spallacce somigliano due arcioni d’un basto d’un asino; e che le sue poppe e il resto di quei muscoli non son ritratti da un omo, ma sono ritratti da un saccaccio pieno di poponi, che diritto sia messo, appoggiato al muro. Così le stiene 19 paiono ritratte da un sacco pieno di zucche lunghe; le due gambe e’ non si conoscie in che modo le si sieno appiccate a quel torsaccio: perché e’ non si conoscie in su qual gamba e’ posa o in su quale e’ fa qualche dimostrazione di forza20; né manco si vede che ei posi in su tutt’a dua, sì come e’ s’è usato alcune volte di fare da quei maestri che sanno qualche cosa: ben si vede che la cade21 innanzi più d’un terzo di braccio: ché questo solo si è ’l maggiore e il più incomportabile 22 errore che faccino quei maestracci di dozzina plebe’. Delle braccia dicono che le son tutt’a dua giù distese senza nessuna grazia, né vi si vede arte, come se mai voi non avessi visto degl’igniudi vivi, e che la gamba dritta d’Ercole e quella di Cacco fanno a mezzo delle polpe delle gambe loro 23: ché se un de’ dua si scostassi dall’altro, non tanto 24 l’uno di loro, anzi tutt’a dua resterebbono senza polpe da quella parte che ei si toccano; e dicono che uno dei piedi di Ercole si è sotterrato, e che l’altro pare che gli abbia il fuoco sotto 25."

LXXI. Questo uomo non potette stare alle mosse 1 d’aver pazienza che io dicessi ancora i gran difetti di Cacco: l’una 2 si era che io dicevo ’l vero, l’altra si era che io lo facevo conoscere chiaramente al Duca e agli altri che erano alla presenzia nostra, che facevano i più gran segni e atti di dimostrazione di maravigliarsi e allora conoscere che io dicevo il verissimo. A un tratto quest’uomaccio disse: "Ahi cattiva linguaccia, o dove lasci tu ’l mio disegnio 3?" Io dissi che chi disegniava bene e’ non poteva operar mai male: "Inperò io crederrò che ’l tuo disegnio sia come sono le opere". Or, veduto quei visi ducali e gli4 altri, che con gli sguardi e con gli atti lo laceravano, egli si lasciò vincere troppo dalla sua insolenzia, e voltomisi con quel suo bruttissimo visaccio, a un tratto mi disse: "Oh sta cheto, soddomitaccio". Il Duca a quella parola serrò le ciglia malamente inverso di lui, e gli altri serrato le bocche e aggrottato gli occhi inverso di lui. Io, che mi senti’ così scelleratamente offendere, sforzato dal furore, e a un tratto, corsi al rimedio, e dissi: "O pazzo, tu esci dei termini 5; ma Iddio ’l volessi che io sapessi fare una così nobile arte, perché e’ si leggie ch’e’ l’usò Giove con Ganimede in paradiso, e qui in terra e’ la usano i maggiori inperatori e i più gran re del mondo. Io sono un basso e umile omicciattolo, il quale né potrei né saprei inpacciarmi d’una così mirabil cosa". A questo nessuno non potette esser tanto continente 6, ché ’l Duca e gli altri levorono un rumore delle maggior risa, che inmaginar si possa al mondo. E con tutto che io mi dimostrassi tanto piacevole, sappiate, benigni lettori, che dentro mi scoppiava ’l cuore, considerato che uno, ’l più sporco scellerato che mai nascessi al mondo, fussi tanto ardito, in presenza di un così gran principe, a dirmi una tanta e tale ingiuria; ma sappiate che egli ingiuriò ’l Duca e non me: perché, se io fussi stato fuor di così gran presenza, io l’arei fatto cader morto. Veduto questo sporco ribaldo goffo che le risa di quei Signiori non cessavano, ei cominciò, per divertirgli 7 da tanta sua beffe, a entrare in un nuovo proposito 8, dicendo: "Questo Benvenuto si va vantando che io gli ho promesso un marmo". A queste parole io subito dissi: "Come! non m’hai tu mandato a dire per 9 Francesco di Matteo fabbro, tuo garzone, che se io voglio lavorar di marmo, che tu mi vuoi donare un marmo? Ed io l’ho accettato, e vo’lo 10". Allora ei disse: "Oh fa conto di noll’aver mai". Subito io, che ero ripieno di rabbia per le ingiuste ingiurie dettemi in prima, smarrito dalla ragione e accecato 11 della presenza del Duca, con gran furore dissi: "Io ti dico espresso 12 che se tu non mi mandi il marmo insino a casa, cèrcati di un altro mondo, perché in questo io ti sgonfierò 13 a ogni modo ". Subito avvedutomi che io ero alla presenza d’un sì gran Duca, umilmente mi volsi a sua Eccellenzia, e dissi: "Signior mio, un pazzo ne fa cento: le pazzie di questo omo mi avevano fatto smarrire la gloria di vostra Eccellenzia illustrissima e me stesso: sì che perdonatemi". Allora il Duca disse al Bandinello: "È egli ’l vero, che tu gli abbia promesso ’l marmo?" Il detto Bandinello disse che gli era il vero. Il Duca mi disse: "Va all’Opera 14, e to’tene uno a tuo modo 15". Io dissi che ei me l’aveva promesso di mandarmelo a casa. Le parole furno terribile; e io in altro modo nollo volevo. La mattina seguente e’ mi fu portato un marmo a casa: il quale io dimandai chi me lo mandava; e’ dissono che e’ me lo mandava ’l Bandinello, e che quello si era ’l marmo che lui mi aveva promesso.

 

LXXII. Subito io me lo feci portare in bottega e cominciai a scarpellarlo; e in mentre che io lavoravo, io facevo il modello; e gli era tanta la voglia che io avevo di lavorare di marmo, che io non potevo aspettare di risolvermi a fare un modello con quel giudizio che si aspetta 1 a tale arte. E perché io lo sentivo tutto crocchiare 2, io mi penti’ più volte di averlo mai cominciato a lavorare; pure ne cavai quel che io potetti, che è l’Appollo e Iacinto 3, che ancora si vede inprefetto in bottega mia. E in mentre che io lo lavoravo, il Duca veniva a casa mia, e molte volte mi disse: "Lascia stare un poco ’l bronzo e lavora un poco di marmo, che io ti vegga". Subito io pigliavo i ferri da marmo e lavoravo via sicuramente. Il Duca mi domandava del modello che io avevo fatto per il detto marmo; al quale io dissi: "Signiore, questo marmo si è tutto rotto, ma a suo dispetto io ne caverò qualcosa: inperò io non mi sono potuto risolvere al modello, ma io andrò così faccendo ’l meglio che io potrò". Con molta prestezza mi fecie venire ’l Duca un pezzo di marmo greco 4, di Roma, acciò ché io restaurassi il suo Ganimede antico, qual fu causa della ditta quistione con il Bandinello. Venuto che fu ’l marmo greco, io considerai che gli era peccato a farne pezzi per farne la testa e le braccia e l’altre cose per il Ganimede; e mi providdi d’altro marmo, e a quel pezzo di marmo greco feci un piccol modellino di cera, al quale posi nome Narciso 5, E perché questo marmo aveva dua buchi che andavano a fondo più di un quarto di braccio e larghi dua buone dita, per questo feci l’attitudine che si vede, per difendermi da quei buchi, di modo che io gli avevo cavati della 6 mia figura. Ma quelle tante decine d’anni che v’era piovuto sù, perché e’ restava sempre quei buchi pieni d’acqua, la detta7 aveva penetrato tanto che il detto marmo si era debilitato; e come marcio in quella parte del buco di sopra; e si dimostrò dappoi che e’ venne quella gran piena d’acqua d’Arno 8, la quale alzò 9 in bottega mia più d’un braccio e mezzo. E perché il detto Narciso era posato in su un quadro di legnio, la detta acqua gli fecie dar la volta 10, per la quale e’ si roppe in su le poppe, e io lo rappiccai; e perché e’ non si vedessi quel fesso della appiccatura 11, io gli feci quella grillanda de’ fiori, che si vede che gli ha in sul petto12;e me l’andavo finendo a cierte ore innanzi dì, o sì veramente il giorno delle feste, solo per non perdere tempo dalla mia opera del Perseo. E perché una mattina in fra l’altre io mi acconciavo certi scarpelletti per lavorarlo, ed e’ mi schizzò una verza 13 d’acciaio sottilissima nell’occhio dritto; ed era tanto entrata dentro nella pupilla, che in modo nessuno la non si poteva cavare. Io pensavo per certo di perdere la, lucie di quell’occhio. Io chiamai in capo di 14 parecchi giorni maestro Raffaello de’ Pilli, cerusico, il quale prese dua pipioni 15 vivi, e faccendomi stare rovescio in su una tavola, prese i detti pipioni e con un coltellino forò loro una venuzza che gli hanno nell’alie16, di modo che quel sangue mi colava dentro innel mio occhio: per il qual sangue subito mi senti’ confortare e in ispazio di dua giorni uscì la verza d’acciaio e io restai libero e migliorato della vista. E venendo la festa di santa Luscia 17. alla quale eravamo presso a tre giorni, io feci uno occhio d’oro di uno scudo franzese, e gnele feci presentare a una delle sei mie nipotine, figliuole della Liperata 18 mia sorella, la quale era dell’età di dieci anni in circa, e con essa io ringraziai Iddio e santa Luscia; e per un pezzo non volsi lavorare in sul detto Narciso, ma tiravo innanzi il Perseo colle sopra ditte dificuità, e m’ero disposto di finirlo e andarmi con Dio.

 

LXXIII. Avendo gittata la1 Medusa, ed era venuta bene, con grande speranza tiravo il mio Perseo a fine 2, che lo avevo di cera 3, e mi promettevo che così bene e’ mi verrebbe di bronzo, sì come aveva fatto la detta Medusa. E perché vedendolo di cera ben finito ei si mostrava tanto bello che, vedendolo il Duca a quel modo e parendogli bello; o che e’ fussi stato qualche uno che avessi dato a credere al Duca che ei non poteva venire così di bronzo, o che il Duca da per sé se lo inmaginassi; e venendo più spesso a casa che ei non soleva, una volta infra l’altre e’ mi disse: "Benvenuto, questa figura non ti può venire di bronzo, perché l’arte non te lo promette 4". A queste parole di sua Eccellenzia io mi risenti’ grandemente, dicendo: "Signiore, io conosco che vostra Eccellenzia illustrissima m’ha questa molta poca fede; e questo io credo che venga perché 5 vostra Eccellenzia illustrissima crede troppo a quei che le dicono tanto mal di me, o sì veramente lei non se ne intende". Ei non mi lasciò finire appena le parole, che disse: "Io fo professione di intendermene, e me ne intendo benissimo". Io subito risposi e dissi: "Sì, come Signiore, e non come artista: perché se vostra Eccellenzia illustrissima se ne intendessi innel modo che lei crede di intendersene, lei mi crederrebbe mediante la bella testa di bronzo che io l’ho fatto, così grande, ritratto di vostra Eccellenzia illustrissima che s’è mandato all’Elba 6; e mediante l’avere restauratole il bel Ganimede di marmo con tanta strema 7 difficultà, dove io ho durato molta maggior fatica che se io lo avessi fatto tutto di nuovo; e ancora per avere gittata la Medusa, che pur si vede qui alla presenza di vostra Eccellenzia: un getto 8 tanto difficile, dove io ho fatto quello che mai nessuno altro uomo ha fatto innanzi a me, di questa indiavolata 9 arte. Vedete, Signior mio: io ho fatto la fornacie di nuovo, a un modo diverso dagli altri 10: perché io, oltre a molte altre diversità e virtuose iscienze 11 che in essa si vede, io l’ho fatto12dua uscite per il bronzo, perché questa difficile e storta 13 figura in altro modo non era possibile che mai la venissi: e sol per queste mie intelligienzie 14 l’è così ben venuta, la qual cosa non credette mai nessuno di questi pratici di questa arte. E sappiate, Signior mio, per certissimo che tutte le grandi e difficilissime opere che io ho fatte in Francia sotto quel maravigliosissimo re Francesco, tutte mi sono benissimo riuscite, solo per il grande animo che sempre quel buon Re mi dava con quelle gran provvisione, e nel compiacermi di tanti lavoranti quanto io domandavo: ché gli era 15 talvolta che io mi servivo di più di quaranta lavoranti, tutti a mia scelta; e per queste cagioni io vi feci tanta quantità di opere in così breve tempo. Or, Signior mio, credetemi e soccorretemi degli aiuti che mi fanno di bisognio, perché io spero di condurre a fine una opera che vi piacerà: dove che16, se vostra Eccellenzia illustrissima mi avvilisce d’animo e non mi dà gli aiuti che mi fanno di bisognio, gli è inpossibile che né io né qualsivoglia uomo mai al mondo possa fare cosa che bene stia".

 

LXXIV. Con gran difficultà stette il Duca a udire queste mie ragione, che or si volgeva in un verso e or in un altro; e io disperato, poverello, che mi ero ricordato del mio bello stato che io avevo in Francia, così mi affliggevo. Subito il Duca disse: "Or dimmi, Benvenuto, come è egli possibile che quella bella testa di Medusa, che è lassù in alto in quella mano del Perseo, mai possa venire?" Subito io dissi: "Or vedete, Signior mio, che se vostra Eccellenzia illustrissima avessi quella cognizione dell’arte, che lei dicie di avere, la non arebbe paura di quella bella testa che lei dicie, che la non venissi; ma sì bene arebbe ad aver paura di questo piè diritto 1, il quale si è quaggiù tanto discosto". A queste mie parole il Duca mezzo adirato subito si volse a certi Signiori che erano con sua Eccellenzia illustrissima e disse: "Io credo che questo Benvenuto lo faccia per saccenteria, il contraporsi 2 ogni cosa"; e subito voltomisi con mezzo scherno, dove3tutti quei che erano alla presenza facevano il simile, e’ cominciò a dire: "Io voglio aver teco tanta pazienza di ascoltare che ragione tu ti saprai inmaginare di darmi, che io la creda". Allora io dissi: "Io vi darò una tanto vera ragione, che vostra Eccellenzia ne sarà capacissima 4"; e cominciai: "Sappiate, Signiore, che la natura del fuoco si è di ire all’insù, e per questo le prometto che quella testa di Medusa verrà benissimo; ma perché la natura del fuoco non è l’andare all’ingiù, e per avervelo a 5 spigniere sei braccia ingiù per forza d’arte, per questa viva ragione io dico a vostra Eccellenzia illustrissima che gli è inpossibile che quel piede venga; ma ei mi sarà facile a rifarlo". Disse ’l Duca: "O perché non pensavi tu che quel piede venissi innel modo che tu di’ che verrà la testa?" Io dissi: "E’ bisogniava fare molto maggiore la fornace, dove io arei potuto fare un ramo di gitto 6, grosso quanto io ho la gamba, e con quella gravezza di 7 metallo caldo per forza ve l’arei fatto andare, dove il mio ramo, che va insino a’ pie .di quelle sei braccia che io dico, non è grosso più che dua dita. Inperò e’ non portava ’l pregio 8: ché facilmente si racconcerà 9. Ma quando la mia forma sarà più che mezza piena, sì come io spero, da quel mezzo in sù, il fuoco che monta 10 sicondo la natura sua, questa testa di Perseo e quella della Medusa verranno benissimo: sì che statene certissimo". Detto che io gli ebbi queste mie belle ragioni con molte altre infinite, che per non essere troppo lungo io non ne scrivo, il Duca, scotendo il capo, si andò con Dio.

 

LXXV. Fattomi da per me stesso sicurtà di buono animo 1, e scacciato tutti quei pensieri che di ora in ora mi si rappresentavano innanzi (i quali mi facevano spesso amaramente piangere con el pentirmi della partita mia di Francia, per essere venuto a Firenze, patria mia dolcie, solo per fare una lemosina alle ditte sei mia nipotine, e per così fatto bene2vedevo che mi mostrava prencipio di tanto male); con tutto questo io certamente mi promettevo 3 che, finendo la mia cominciata opera del Perseo, che tutti i mia travagli si doverriano convertire in sommo piacere e glorioso bene. E così ripreso ’l vigore, con tutte le mie forze e del corpo e della borsa, con tutto che pochi dinari e’ mi fussi restati, cominciai a procacciarmi di parecchi cataste di legni di pino, le quali ebbi dalla pineta de’ Seristori, vicino a Monte Lupo 4; e in mentre che io l’aspettavo, io vestivo il mio Perseo di quelle terre che io avevo acconcie 5 parecchi mesi in prima, acciò che l’avessino la loro stagione 6. E fatto che io ebbi la sua tonaca di terra, che tonaca si dimanda innell’arte, e benissimo armatola e ricinta con gran diligenzia di ferramenti, cominciai con lente7fuoco a trame la cera, la quali usciva per molti sfiatatoi che io avevo fatti: ché quanti più se ne fa, tanto meglio si empie le forme8.E finito che io ebbi di cavar la cera, io feci una manica 9 intorno al mio Perseo, cioè alla detta forma, di mattoni, tessendo 10 l’uno sopra l’altro, e lasciavo di molti spazi, dove ’l fuoco potessi meglio esalare; dipoi vi cominciai a mettere delle legnie cos ì pianamente11, e gli feci fuoco dua giorni e dua notte continuamente: tanto che, cavatone tutta la cera, e dappoi s’era benissimo cotta la detta forma, subito cominciai a votar12 la fossa per sotterrarvi la mia forma, con tutti ’quei bei modi che la bella arte ci comanda. Quand’io ebbi finito di votar la detta fossa, allora io presi la mia forma, e con virtù 13 d’argani e di buoni canapi diligientemente la dirizzai; e sospesala un braccio sopra ’l piano della mia fornacie 14, avendola benissimo dirizzata di sorte che la si spenzolava appunto nel mezzo della sua fossa, pian piano la feci discendere in sino nel fondo della fornacie, e si posò con tutte quelle diligenzie che inmaginar si possano al mondo. E fatto che io ebbi questa bella fatica, cominciai a incalzarla 15 con la medesima terra che io ne avevo cavata; e di mano in mano che io vi alzavo la terra, vi mettevo i sua sfiatatoi, i quali erano cannoncini 16 di terra cotta che si adoperano per gli acquai e altre simil cose. Come che io vidi d’averla benissimo ferma 17 e che quel modo di incalzarla con el metter quei doccioni 18 bene ai sua luoghi, e che quei mia lavoranti avevono bene inteso il modo mio, il quale si era molto diverso da tutti’19 gli altri maestri di tal professione; assicuratomi che io mi potevo fidare di loro, io mi volsi alla mia fornacie, la quale avevo fatta empiere di molti masselli di rame e altri pezzi di bronzi; e accomodatigli l’uno sopra l’altro in quel modo che l’arte ci mostra, cioè sollevati 20, faccendo 21 la via alle fiamme del fuoco, perché più presto il detto metallo piglia il suo calore e con quello si fonde e riduciesi in bagno 22, così animosamente dissi che dessino fuoco alla detta fornacie. E mettendo di quelle legnie di pino, le quali per quella untuosità della ragia 23 che fa ’l pino, e per essere tanto ben fatta la mia fornacietta, ella lavorava tanto bene che io fui necessitato a soccorrere 24 ora da una parte e ora da un’altra con tanta fatica, che la m’era insopportabile; e pure io mi sforzavo. E di più mi sopra giunse ch’e’ s’appiccò fuoco nella bottega, e avevamo paura che ’l tetto non ci cadessi addosso; dall’altra parte di verso l’orto il cielo mi spigneva tant’acqua e vento, che e’ mi freddava la fornacie. Così combattendo con questi perversi accidenti parecchi ore, sforzandomi la fatica tanto di più che la mia forte valitudine di conplessione 25 non potette resistere, di sorte che e’ mi saltò una febbre efimera 26 addosso, la maggiore che inmaginare si possa al mondo, per la qual cosa io fui sforzato andarmi a gittare nel letto. E così molto mal contento, bisogniandomi per forza andare, mi volsi a tutti quegli che mi aiutavano, i quali erano in circa a dieci o più, infra maestri di fonder bronzo e manovali e contadini e mia lavoranti particulari di bottega: infra e’ quali si era un Bernardino Mannellini di Mugello, che io m’avevo allevato parecchi anni; e al detto dissi, dappoi che mi ero raccomandato a tutti: "Vedi, Bernardino mio caro, osserva l’ordine che io ti ho mostro27, e fa presto quanto tu puoi, perché il metallo sarà presto in ordino 28: tu non puoi errare, e questi altri uomini dabbene faranno presto i canali, e sicuramente potrete con questi dua mandriani dare nelle due spine 29, e io son certo che la mia forma si empierà benissimo. Io mi sento ’l maggior male che io mi sentissi mai da poi che io venni al mondo, e credo certo che in poche ore questo gran male m’arà morto 30". Così molto mal contento mi parti’ da loro, e me n’andai a letto.

LXXVI. Messo che io mi fui nel letto, comandai alle mie serve che portassino in bottega da mangiare e da bere a tutti; e dicevo loro: "Io non sarò mai vivo domattina". Loro mi davano pure animo, dicendomi che ’l mio gran male si passerebbe, e che e’ mi era venuto per la troppa fatica. Così soprastato dua ore con questo gran combattimento di febbre; e di continuo io me la sentivo cresciere, e sempre dicendo "Io mi sento morire", la mia serva, che governava tutta la casa, che aveva nome monna1 Fiore di Castel del Rio: questa donna era la più valente che nascessi mai e altanto2la più amorevole, e di continuo mi sgridava che io mi ero sbigottito, e dall’altra banda mi facieva le maggiore amorevolezze di servitù che mai far si possa al mondo. Inperò, vedendomi con così smisurato male e tanto sbigottito, con tutto il suo bravo cuore lei non si poteva tenere che qualche quantità di lacrime non gli cadessi dagli occhi; e pure lei quanto poteva si riguardava che io non le vedessi. Stando in queste smisurate tribulazione, io mi veggo entrare in camera un certo omo, il quale nella sua persona ei mostrava d’essere storto come una "esse" maiuscola; e cominciò a dire con un certo suon di vocie mesto, afflitto, come coloro che danno il commandamento dell’anima a quei che hanno a ’ndare a giostizia 3, e disse: “O Benvenuto! la vostra opera si è guasta 4, e non ci è più un rimedio al mondo". Subito che io senti’ le parole di quello sciagurato, messi un grido tanto smisurato, che si sarebbe sentito dal cielo del fuoco 5, e sollevatomi del letto presi li mia panni e mi cominciai a vestire; e le serve e ’l mio ragazzo e ognuno che mi si accostava per aiutarmi, a tutti io davo o calci o pugnia, e mi lamentavo dicendo: "Ahi traditori, invidiosi! Questo si è un tradimento fatto a arte; ma io giuro per Dio che benissimo i’ lo conoscerò 6 e innanzi che io muoia lascer ò di me un tal saggio al mondo, che più d’uno ne resterà maravigliato". Essendomi finito di vestire, mi avviai con cattivo animo inverso bottega, dove io viddi tutte quelle gente, che con tanta baldanza avevo lasciate, tutti stavano attoniti e sbigottiti. Cominciai, e dissi: "Orsù intendetemi, e dappoi che voi non avete o saputo o voluto ubbidire al modo che io v’insegniai, ubbiditemi ora che io sono con voi alla presenza dell’opera mia; e non sia nessuno che mi si contraponga 7, perché questi cotai casi hanno bisognio di aiuto e non consigli08". Aqueste mie parole e’ mi rispose un certo maestro Alessandro Lastricati e disse: "Vedete, Benvenuto, voi vi volete mettere a fare una inpresa, la quale mai nollo promette9l’arte, né si può fare in modo nissuno". A queste parole io mi volsi con tanto furore e resoluto al male, che ei e tutti gli altri, tutti a una vocie dissono: "Sù, comandate, ché tutti vi aiuteremo tanto quanto voi ci potretecomandare,in10quanto si potrà resistere con la vita". E queste amorevol parole io mi penso che ei le dicessino pensando che io dovessi poco soprastare a cascar morto. Subito andai a vedere la fornacie, e viddi tutto rappreso il metallo, la qual cosa si domanda l’essersi fatto un migliaccio 11. Io dissi a dua manovali che andassino al dirimpetto, in casa ’l Capretta beccaio, per 12 una catasta di legnie di quercioli giovani, che erano secchi di più di uno anno, le quali legnie madonna Ginevra, moglie del detto Capretta, me l’aveva offerte; e venute che furno le prime bracciate, cominciai a empiere la braciaiuola 13. E perché la quercia di quella sorte fa ’l più vigoroso fuoco che tutte l’altre sorte di legnie, avvenga che e’14si adopera legnie di ontano o di pino per fondere per l’artiglierie, perché è fuoco dolcie; oh quando quel migliaccio cominciò a sentire quel terribil fuoco, ei si cominciò a schiarire, e lampeggiava. Dall’altra banda sollecitavo 15 i canali; e altri avevo mandato sul tetto a riparare al fuoco, il quale per la maggior forza di quel fuoco 16 si era maggiormente appiccato; e di verso l’orto avevo fatto rizzare certe tavole e altri tappeti e pannacci, che mi riparavano all’acqua 17.

 

LXXVII. Di poi che io ebbi dato il rimedio a tutti questi gran furori, con vocie grandissima dicievo ora a questo e ora a quello: "Porta qua, leva là": di modo che, veduto che ’l detto migliaccio si cominciava a liquefare, tutta quella brigata con tanta voglia mi ubbidiva, che ogniuno faceva per tre. Allora io feci pigliare un mezzo pane di stagnio, il quale pesava in circa a 60 libbre, e lo gittai in sul migliaccio dentro alla fornacie, il quale cone gli altri aiuti e di legnie e di stuzzicare or co’ ferri e or cone stanghe, in poco spazio di tempo e’ divenne liquido. Or veduto di avere risuscitato un morto, contro al credere di tutti quegli ignioranti, e’ mi tornò tanto vigore che io non mi avvedevo se io avevo più febbre o più paura di morte. In un tratto ei si sente un romore con un lampo di fuoco grandissimo, che parve propio che una saetta si fussi creata quivi alla presenza nostra: per la quale insolita spaventosa paura ogniuno s’era sbigottito, e io più degli altri. Passato che fu quel grande romore e splendore, noi ci cominciammo a rivedere in viso l’un l’altro; e veduto che ’l coperchio della fornacie si era scoppiato e si era sollevato di modo che ’l bronzo si versava1, subito feci aprire le bocche 1 della mia forma e nel medesimo tempo feci dare alle 2 due spine. E veduto che ’l metallo non correva con quella prestezza ch’ei soleva fare, conosciuto che la causa forse era per essersi consumata la lega3 per virtù di, quel terribil fuoco, io feci pigliare tutti i mia piatti e scodelle e tondi di stagno, i quali erano in circa a dugiento,4 e a uno a uno io gli mettevo dinanzi ai mia canali, e parte ne feci gittare drento nella fornacie: di modo che, veduto ogniuno che ’l mio bronzo s’era benissimo fatto liquido, e che la mia forma si empieva, tutti animosamente e lieti mi aiutavano e ubbidivano; e io or qua e or là comandavo, aiutavo e dicievo: "O Dio, che con le tue immense virtù risuscitasti da e’ morti, e glorioso te ne salisti al cielo5!"; di modo che in un tratto e’ s’empié la mia forma: per la qual cosa io m’inginochiai e con tutto ’l cuore ne ringraziai Iddio; dipoi mi volsi a un piatto d’insalata che era quivi in sur un banchettaccio, e con grande appetito mangiai e bevvi insieme con tutta quella brigata; dipoi me n’andai nel letto sano e lieto, perché gli era due ore innanzi il giorno; e come se mai io non avessi aùto un male al mondo, così dolcemente mi riposavo. Quella mia buona serva, senza che io le dicessi nulla, mi aveva provvisto d’un grasso capponcello: di modo che, quando io mi levai del letto, che era vicino all’ora del desinare, la mi si fecie incontro lietamente, dicendo: "Oh, è questo uomo quello che si sentiva morire? Io credo che quelle pugnia e calci che voi davi 6 a noi stanotte passata, quando voi eri così infuriato, che con quel diabolico furore che voi mostravi d’avere, quella vostra tanto smisurata febbre, forse spaventata che voi non dessi 7 ancora a lei, si cacciò a fuggire". E così tutta la mia povera famigliuola, rimossa 8 da tanto spavento e da tante smisurate fatiche, in un tratto si mandò a ricomperare, in cambio di quei piatti e scodelle di stagnio, tante stoviglie di terra, e tutti lietamente desinammo, ché mai non mi ricordo in tempo di mia vita né desinare con maggior letizia né con migliore appetito. Dopo ’l desinare mi vennono a trovare tutti quegli che mi avevano aiutato, i quali lietamente si rallegravano, ringraziando Iddio di tutto quel che era occorso, e dicevano che avevano inparato e veduto fare cose, le quali era dagli altri maestri tenute inpossibili. Ancora io, alquanto baldanzoso, parendomi d’essere un poco saccente 9, me ne gloriavo; e messomi mano alla mia borsa, tutti pagai e contentai. Quel mal uomo, nimico mio mortale, di messer Pierfrancesco Ricci, maiordomo del Duca, con gran diligenzia cercava di intendere come la cosa si era passata 10: di modo che quei dua, di chi io avevo auto sospetto che mi avessino fatto fare quel migliaccio, gli dissono che io non ero uno uomo, anzi ero uno spresso 11 gran diavolo, perché io avevo fatto quello che l’arte nollo poteva fare; con tante altre gran cose, le quali sarieno state troppe a 12 un diavolo. Sì come lor dicievano molto più di quello che era seguito 13, forse per loro scusa, il detto maiordomo lo scrisse subito al Duca, il quale era a Pisa, ancora più terribilmente e piene 14 di maggior maraviglie, che coloro non gli avevano detto.

 

LXXVIII. Lasciato che io ebbi dua giorni freddare la mia gittata opera, cominciai a scoprirla pian piano; e trovai, la prima cosa, la testa della Medusa, che era venuta benissimo per virtù degli sfiatatoi, sì come io dissi al Duca che la natura del fuoco si era l’andare all’insù; di poi seguitai di scoprire il resto, e trovai l’altra testa, cioè quella del Perseo, che era venuta similmente benissimo; e questa mi dette molto più di meraviglia, perché sì come e’ si vede, l’è più bassa assai bene di quella della Medusa. E perché le bocche di detta opera si erano poste nel disopra della testa del Perseo e per le spalle, io trovai che alla fine della detta testa del Perseo si era appunto finito tutto ’l bronzo che era nella mia fornacie. E fu cosa maravigliosa, che e’ non a vanzò punto di bocca di getto1, né manco non mancò nulla: ché questo mi dette tanta maraviglia, che e’ parve propio che la fussi cosa miracolosa, veramente guidata e maneggiata da Iddio. Tiravo feliciemente innanzi di2 finire di scoprirla, e sempre trovavo ogni cosa venuto benissimo, insino a tanto che e’ s’arivò al piede della gamba diritta che posa 3, dove io trovai venuto il calcagnio; e andando innanzi, vedevol essere tutto pieno, di modo che io da una banda molto mi ralegravo e da un’altra parte mezzo e’ m’era discaro4, solo perché io avevo detto al Duca che e’ non poteva venire. Di modo che finendolo di scoprire, trovai che le dita non erano venute, di detto piede, e non tanto le dita, ma e’ mancava sopra le dita un pochetto, a tale che gli era quasi manco mezze 5; e se bene e’ mi crebbe quel poco di fatica, io l’ebbi molto caro, solo per mostrare al Duca che io intendevo quello che io facevo. E se bene gli era venuto molto più di quel piede che io non credevo, e’ n’era stato causa che per i detti tanti diversi accidenti il metallo si era più caldo, che non promette l’ordine 6 dell’arte; e ancora per averlo aùto a soccorrerlo con la lega7in quel modo che s’è detto, con quei piatti di stagnio, cosa che mai per 8 altri non s’è usata. Or veduta l’opera mia tanto bene venuta, subito me n’andai a Pisa a trovare il mio Duca; il quale mi fecie una tanto gratissima accoglienza, quanto inmaginar si possa al mondo; e il simile mi fecie la Duchessa; e se bene quel lor maiordomo gli aveva avvisati del tutto, ei parve a loro Eccellenzie altra cosa più stupenda e più meravigliosa il sentirla contare a me in vocie 9; e quando io venni a quel piede del Perseo, che non era venuto, sì come io ne avevo avvisato in prima sua Eccellenzia illustrissima, io lo viddi empiere di meraviglia, e lo contava alla Duchessa, sì come io gnel’avevo detto innanzi. Ora veduto quei mia Signiori tanto piacevoli inverso di me, allora io pregai il Duca che mi lasciassi andare insino a Roma. Così benigniamente mi dette licenzia, e mi disse che io tornassi presto a finire ’l suo Perseo, e mi fecie lettere di favore al suo imbasciadore, il quale era Averardo Serristori; ed erano li primi anni di papa Iulio de’ Monti10.

 

LXXIX. Innanzi che io mi partissi, detti ordine ai mia lavoranti che seguitassino sicondo ’l modo che io avevo lor mostro. E la cagione perché io andai si fu che, avendo fatto a Bindo d’Antonio Altoviti un ritratto della sua testa, grande quanto ’l propio vivo, di bronzo1,e gnel’avevo mandato insino a Roma, questo suo ritratto egli l’aveva messo in un suo scrittoio 2, il quale era molto riccamente ornato di anticaglie e altre belle cose; ma il detto scrittoio non era fatto per sculture, né manco per pitture, perché le finestre venivano sotto le dette belle opere, di sorte che, per avere quelle sculture e pitture i lumi al contrario, le non mostravano bene 3, in quel modo che le arebbono fatto se le avessino aùto i loro ragionevoli lumi 4. Un giorno si abbatté 5 ’l detto Bindo a essere in su la sua porta, e passando Michelagniolo Buonaroti, scultore, ei lo pregò che si degniassi di entrare in casa sua a vedere un suo scrittoio; e così lo menò. Subito entrato, e veduto, disse: "Chi è stato questo maestro che v’ha ritratto così bene e con sì bella maniera? E sappiate che quella testa mi piacie come e meglio qualcosa, che si faccino 6 quelle antiche; e pur le sono delle buone che di loro si veggono; e se queste finestre fussino lor di sopra, come le son lor di sotto, le mostrerrieno tanto meglio, che quel vostro ritratto infra queste tante belle opere si farebbe un grande onore". Subito partito che ’l detto Michelagniolo si fu di casa ’l detto Bindo, ei mi scrisse una piacevolissima lettera la quale diceva così: "Benvenuto mio, io v’ho conosciuto tanti anni per il maggiore oreficie che mai ci sia stato notizia; e ora vi conoscierò per scultore simile 7. Sappiate che messer Bindo Altoviti mi menò a vedere una testa del suo ritratto, di bronzo, e mi disse che l’era di vostra mano; io n’ebbi molto piacere; ma e’ mi seppe molto male 8 che l’era messa a cattivo lume, ché se l’avessi il suo ragionevol lume, la si mostrerrebbe quella bella opera che l’è". Questa lettera si era piena delle più amorevol parole e delle più favorevole inverso di me: ché innanzi che io mi partissi per andare a Roma, l’avevo mostrata al Duca, il quale la lesse con molta affezione, e mi disse: "Benvenuto, se tu gli scrivi e faccendogli 9 venir voglia di tornarsene a Firenze, io lo farei de’ Quarantotto 10". Così io gli scrissi una lettera tanta amorevole, e in essa gli dicievo da parte del Duca più l’un cento 11 di quello che io avevo aùto la commessione; e per non voler fare errore, la mostrai al Duca in prima che io la suggellassi, e dissi a sua Eccellenzia illustrissima: "Signiore, io ho forse promessogli troppo". Ei rispose e disse: "E’ merita più di quello che tu gli hai promesso, e io gliele atterrò da vantaggio 12". A quella mia lettera Michelagniolo non fecie mai risposta, per la qual cosa il Duca mi si mostrò molto sdegniato seco.

 

LXXX. Ora giunto che io fui a Roma, andai alloggiare in casa del detto Bindo Altoviti: ei subito mi disse come gli aveva mostro ’l suo ritratto di bronzo a Michelagniolo, e che ei lo aveva tanto lodato; così di questo noi ragionammo molto a lungo. Ma perché gli aveva in mano di mio 1 mille dugento scudi d’oro in oro2,i quali il detto Bindo me gli aveva tenuti insieme di cinque mila simili, che lui ne aveva prestati al Duca, che quattro mila ve n’era de’ sua e in nome suo v’era li mia, e me ne dava quel utile della parte mia che e’ mi si preveniva 3; qual fu la causa che io mi messi a fargli il detto ritratto. E perché quando’l detto Bindo lo vide di cera, ei mi mandò a donare 50 scudi d’oro per un suo ser Giuliano Paccalli notai’, che stava seco, i quali dinari io non gli volsi pigliare e per il medesimo gliele rimandai, e di poi dissi al detto Bindo: "A me basta che quei mia dinari voi me gli tegniate vivi 4, e che e’ mi guadagnino qualche cosa". Io mi avvidi che gli aveva cattivo animo, perché in cambio di farmi carezze, come gli era solito di farmi, egli mi si mostrò rigido; e con tutto che ei mi tenessi in casa, mai non mi si mostrò chiaro 5, anzi stava ingrogniato. Pure con poche parole la risolvemmo 6: io mi persi la mia fattura7di quel suo ritratto e il bronzo ancora, e ci convenimmo che quei mia dinari e’ gli tenessi a 15 per cento8a vita mia durante naturale.

 

LXXXI. In prima ero ito a baciare i piedi al Papa; e in mentre che io ragionavo col Papa, sopra giunse messer Averardo Serristori, il quale era inbasciadore del nostro Duca; e perché io avevo mossi certi ragionamenti con el Papa, con e’ quali io credo che facilmente mi sarei convenuto 1 seco e volentieri mi sarei tornato a Roma per le gran difficultà che io avevo a Firenze; ma ’l detto inbasciatore io mi avvidi che egli aveva operato in contrario. Andai a trovare Michelagniolo Buonaroti e gli replicai quella lettera che di Firenze io gli avevo scritto da parte del Duca. Egli mi rispose che era inpiegato nella fabbrica di San Piero 2, e che per cotal causa ei non si poteva partire. Allora io gli dissi che da poi che e’ s’era.resoluto al 3 modello di detta fabbrica, che ei poteva lasciare il suo Urbino 4, il quale ubbidirebbe benissimo quando lui gli ordinassi; e aggiunsi molte altre parole di promesse, dicendogliele da parte del Duca. Egli subito mi guardò fiso, e sogghignando disse: "E voi come state contento seco?" Se bene io dissi che stavo contentissimo, e che io ero molto ben tratto 5, ei mostrò di sapere la maggior parte dei mia dispiaceri; e così mi rispose ch’egli sarebbe difficile il potersi partire. Allora io aggiunsi che ei farebbe ’l meglio a tornare alla sua patria, la quale era governata da un Signiore giustissimo e il più amatore delle virtute che mai altro Signiore che mai nascessi al mondo. Sì come di sopra ho detto, gli aveva seco un suo garzone, che era da Urbino, il quale era stato seco di molti anni e lo aveva servito più di ragazzo e di serva che d’altro; e il perché si vedeva, che ’l detto non aveva inparato nulla dell’arte; e perché io avevo stretto Michelagniolo con tante buone ragione, che e’ non sapeva che dirsi subito, ei si volse al suo Urbino con un modo di domandarlo 6 quel che gnele pareva. Questo suo Urbino subito, con un suo villanesco modo, co’ molta gran vocie così disse: "Io non mi voglio mai spiccare 7 dal mio messer Michelagniolo, insino o che io scorticherò lui, o che lui scorticherà me8". A queste sciocche parole io fui sforzato a ridere, e senza dirgli addio, colle spalle basse mi volsi, e parti’mi.

 

LXXXII. Da poi che così male io avevo fatto la mia faccenda con Bindo Altoviti, col perdere la mia testa di bronzo e ’l dargli li mia danari a vita mia 1, io fui chiaro 2 di che sorte si è la fede dei mercatanti, e così malcontento me ne ritornai a Firenze. Subito andai a Palazzo per visitare il Duca; e sua Eccellenzia illustrissima si era a Castello, sopra ’l Ponte a Rifredi 3. Trovai in Palazzo messer Pierfrancesco Ricci, maiordomo, e volendomi accostare al detto per fare le usate cerimonie, subito con una smisurata maraviglia disse: "Oh tu sei tornato!"; e colla medesima maraviglia battendo le mani, disse: "Il Duca è a Castello"; e voltomi le spalle si partì. Io non potevo né sapere né inmaginare il perché quella bestia si aveva fatto quei cotai atti. Subito me n’andai a Castello, ed entrato nel giardino, dove era ’l Duca, io lo vidi di discosto, che quando ei mi vide, fecie segnio di meravigliarsi, e mi fece intendere che io me n’andassi. Io che mi ero promesso4che sua Eccellenzia mi facessi le medesime carezze e maggiore ancora, che ei mi fecie quando io andai 5, or vedendo una tanta stravaganza, molto malcontento mi ritornai a Firenze; e riprese le mie faccende, sollicitando di tirare a fine la mia opera, non mi potevo inmaginare un tale accidente da quello che e’ si potessi procedere 6: se non che osservando in che modo mi guardava messer Sforza7 e certi altri di quei più stretti 8 al Duca, e’ mi venne voglia di domandare messer Sforza che cosa voleva dire questo; il quale così sorridendo, disse: "Benvenuto, attendete a essere uomo dabbene, e non vi curate d’altro". Pochi giorni appresso mi fu dato comodità che io parlai al Duca, ed ei mi fecie certe carezze torbide 9 e mi domandò quello che si facieva a Roma: così ’l meglio che io seppi appiccai ragionamento, e gli dissi della testa che io avevo fatta di bronzo a Bindo Altoviti, con tutto quel che era seguìto. Io mi avvidi che gli stava a ’scoltarmi con grande attenzione; e gli dissi similmente di Michelagniolo Buonaroti il tutto. Il quale mostrò alquanto sdegnio; e delle parole del suo Urbino, di quello ’scorticamento che gli aveva detto, forte se ne rise; poi disse: "Suo danno 10"; e io mi parti’. Certo che quel ser Pierfrancesco, maiordomo, doveva aver fatto qualche male uffizio contra di me cone il Duca, il quale non gli riuscì: ché Iddio amatore della verità mi difese, sì come sempre insino a questa mia età di tanti smisurati pericoli e’ m’ha scampato, e spero che mi scamperà insino al fine di questa mia, se bene travagliata, vita; pure vo innanzi, sol per sua virtù, animosamente, né mi spaventa nissun furore di fortuna o di perverse stelle: sol mi mantenga Iddio nella sua grazia.

 

LXXXIII. Or senti un terribile accidente, piacevolissimo lettore. Con quanta sollicitudine io sapevo e potevo, attendevo a dar fine alla mia opera, e la sera me n’andavo a veglia nella guardaroba del Duca, aiutando a quegli orefici che vi lavoravano per sua Eccellenzia illustrissima: ché la maggior parte di quelle opere che lor facevano si erano sotto i 1 mia disegni; e perché io vedevo che ’l Duca ne pigliava molto piacere, sì del vedere lavorare come del confabulare 2 meco, ancora e’ mi veniva a proposito lo andarvi alcune volte di giorno. Essendo un giorno in fra gli altri nella detta guardaroba, il Duca venne al suo solito e più volentieri assai, saputo 3 sua Eccellenzia illustrissima che io v’ero; e subito giunto cominciò a ragionar meco di molte diverse e piacievolissime cose, e io gli rispondevo a proposito, e lo avevo di modo invaghito 4, che ei mi si mostrò più piacevole che mai ei mi si fussi mostro per il passato. In un tratto e’ comparse un dei sua segretarii, il quale parlando all’orecchio di sua Eccellenzia per esser forse cosa di molta inportanza, subito il Duca si rizz ò e andossene in un’altra stanza con el detto segretario. E perché la Duchessa aveva mandato a vedere quel che faceva sua Eccellenzia illustrissima, disse il paggio alla Duchessa: "Il Duca ragiona e ride con Benvenuto, ed è tutto in buona 5". Inteso questo, la Duchessa subito venne in guardaroba e non vi trovando ’l Duca, si messe a sedere appresso a noi; e veduto che la ci ebbe un pezzo lavorare, con gran piacevolezza si volse a me e mi mostrò un vezzo di perle grosse, e veramente rarissime, e domandandomi quello che e’ me ne pareva, io le dissi che gli era cosa molto bella. Allora sua Eccellenzia illustrissima mi disse: "Io voglio che il Duca me lo comperi: sì che, Benvenuto mio, lodalo al Duca quanto tu sai e puoi al mondo". A queste parole io, con quanta reverenzia seppi, mi scopersi 6 alla Duchessa, e dissi: "Signiora mia, io mi pensavo che questo vezzo di perle fussi di vostra Eccellenzia illustrissima; e perché la ragione non vuole che e’ si dica mai nessuna di quelle cose che saputo el non essere di vostra Eccellenzia illustrissima ei mi occorre dire, anzi e’ m’è di necessità il dirle 7: sappi vostra Eccellenzia illustrissima che, per essere molto mia professione 8, io conosco in queste perle di moltissimi difetti, per i quali già mai vi consiglierei che vostra Eccellenzia lo 9comperassi". A queste mie parole lei disse: "Il mercatante me lo dà per sei mila scudi: ché se e’ non avessi qualcuno di quei difettuzzi, e’ ne varrebbe più di dodici mila". Allora io dissi che quando quel vezzo fussi di tutta infinita bontà 10, che io non consiglierei mai persona che aggiugniessi a 11 cinque mila scudi: perché le perle non sono gioie: le perle sono uno osso di pescie 12 e in ispazio di tempo le vengono manco 13; ma i diamanti e i rubini e gli smeraldi non invecchiano, e i zaffiri: queste quattro son gioie, e di queste si vuol 14 comperare. A queste mie parole, alquanto sdegniosetta la Duchessa mi disse: "Io ho voglia or di queste perle, e però ti priego che tu le porti al Duca, e lodale quanto tu puoi e sai al mondo; e se bene e’ ti par dire qualche poco di bugie, dille per far servizio a me: ché buon per te". Io che son sempre stato amicissimo della verità e nimico delle bugie, ed essendomi di necessità 15, volendo non perdere la grazia di una tanto gran principessa, così malcontento presi quelle maladette perle, e andai con esse in quell’altra stanza, dove s’era ritirato ’l Duca. Il quale subito che e’ mi vide, disse: "O Benvenuto, che vai tu faccendo?" Scoperto quelle perle, dissi: "Signior mio, io vi vengo a mostrare un bellissimo vezzo di perle, rarissimo e veramente degnio di vostra Eccellenzia illustrissima; e per ottanta perle, io non credo che mai e’ se ne mettessi tante insieme, che meglio si mostrassino in un vezzo: sì che comperatele, Signiore, che le sono miracolose". Subito ’l Duca disse: "Io nolle voglio comperare, perché le non sono quelle perle né di quella bontà che tu di; e le ho viste, e non mi piacciono". Allora io dissi: "Perdonatemi, Signiore, ché queste perle avanzano di infinita bellezza tutte le perle che per vezzo mai fussino ordinate 16". La Duchessa si era ritta 17, e stava dietro a una porta e sentiva tutto quello che io dicievo: di modo che, quando io ebbi detto più di mille cose, più di quel che io scrivo, il Duca mi si volse con benignio aspetto, e mi disse: "O Benvenuto mio, io so che tu te ne ’ntendi benissimo; e se coteste perle fussino con quelle virtù tante rare che tu apponi 18 loro, a me non parrebbe fatica il comperarle, sì per piacere alla Duchessa, e sì per averle: perché queste tal cose mi sono di necessità, non tanto per la Duchessa, quanto per l’altre mia faccende di mia figliuoli e figliuole 19". E io a queste sue parole, dappoi che io avevo cominciato a dir le bugie, ancora con maggior aldacia 20 seguitavo di dirne, dando loro il maggior colore di verità, acciò che ’l Duca me le credessi, fidandomi della Duchessa, che a tempo 21 ella mi dovessi aiutare. E perché ei mi si preveniva 22 più di dugento scudi, faccendo un cotal mercato, e la Duchessa me n’aveva accennato, io m’ero resoluto e disposto di non voler pigliar un soldo, solo per mio scampo 23, acciò che ’l Duca mai non avessi pensato che io lo facessi per avarizia. Di nuovo ’l Duca con piacevolissime parole mosse a dirmi: "Io so che tu te ne intendi benissimo: inperò se tu se’ quell’uomo dabbene, che io mi son sempre pensato che tu sia, or dimmi ’l vero". Allora, arrossiti li mia occhi e alquanto divenuti umidi di lacrime, dissi: "Signior mio, se io dico ’l vero a vostra Eccellenzia illustrissima, la Duchessa mi diventa mortalissima inimica, per la qual cosa io sarò necessitato andarmi con Dio, e l’onor del mio Perseo, il quale io ho promesso a questa nobilissima scuola di vostra Eccellenzia illustrissima, subito li inimici’miei mi vitupereranno: sì che io mi raccomando a vostra Eccellenzia illustrissima".

 

LXXXIV. Il Duca, avendo conosciuto che tutto quello che io avevo detto e’ m’era stato fatto dire come per forza, disse: "Se tu hai fede in me, non ti dubitare 1 di nulla al mondo". Di nuovo io dissi: "Oimè, Signior mio, come potrà egli essere che la Duchessa nollo sappia?" A queste mie parole ’l Duca alzò la fede 2 e disse: "Fa conto di averle sepolte in una cassettina di diamanti 3". A queste onorate parole subito io dissi il vero di quanto io intendevo di quelle perle, e che le non valevano troppo 4 più di dumila scudi. Avendoci sentiti la Duchessa racchetare, perché parlavàno quando dir si può piano, ella venne innanzi, e disse: "Signior mio, vostra Eccellenzia di grazia mi compri questo vezzo di perle, perché io ne ho grandissima voglia, e il vostro Benvenuto ha ditto che mai e’ non n’ha veduto il più bello". Allora il Duca disse: "Io nollo voglio comprare". "Perché, Signior mio, non mi vuole vostra Eccellenzia contentare di comperare questo vezzo di perle?" "Perché e’ non mi piacie di gittar via i danari." La Duchessa di nuovo disse: "Oh come gittar via li dinari, che ’l vostro Benvenuto, in chi 5 voi avete tanta fede meritamente, m’ha ditto che gli è buon mercato più di tremila scudi?" Allora il Duca disse: "Signiora, il mio Benvenuto m’ha detto che, se io lo compro, che io gitterò via li mia dinari, perché queste perle non sono né tonde né equali, e ce n’è assai delle vecchie; e che e’ sia il vero, or vedete questa e quest’altra, e vedete qui e qua: sì che le non sono ’l6 caso mio". A queste parole la Duchessa mi guardò con malissimo animo, e minacciandomi col capo si partì di quivi, di modo che io fui tutto tentato di andarmi con Dio e dileguarmi di Italia; ma perché il mio Perseo si era quasi finito, io non volsi mancare di nollo trar fuora 7; ma consideri ogni uomo in che greve travaglio io mi ritrovavo. Il Duca aveva comandato a’ suoi portieri in mia presenza che mi lasciassino sempre entrare per le camere e dove sua Eccellenzia fussi; e la Duchessa aveva comandato a quei medesimi che tutte le volte che io arrivavo in quel Palazzo, eglino mi cacciassino via: di sorte’che come ei mi vedevano, subito e’ si partivano da quelle porte 8. e mi cacciavano via; ma e’ si guardavano che ’l Duca no gli vedessi9,di sorte che se 10 ’l Duca mi vedeva in prima che questi sciagurati, o egli mi chiamava o e’ mi faceva cenno che io andassi. La Duchessa chiamò quel Bernardone11 sensale, il quale lei s’era meco tanto doluta della sua poltroneria e vil dappocaggine, e a lui si raccomandò, sì come l’aveva fatto a me; il quale disse: "Signiora mia, lasciate fare a me". Questo ribaldone andò innanzi al Duca con questo vezzo in mano. Il Duca, subito che e’ lo vide, gli disse che e’ se gli levassi d’inanzi. Allora il detto ribaldone con quella sua vociaccia, che ei la sonava per il suo nasaccio d’asino, disse: "Deh! Signior mio, comperate questo vezzo a quella povera Signiora, la quale se ne muor di voglia, e non può vivere sanz’esso". E aggiugniendo molte altre sue sciocche parolaccie, ed essendo venuto a fastidio al Duca, gli disse: "O tu mi ti lievi d’inanzi, o tu gonfia un tratto 12". Questo ribaldaccio, che sapeva benissimo quello che lui facieva, perché se o per via del gonfiare o per cantare La bella Franceschina 13, ei poteva ottenere che ’l Duca facessi quella compera, egli si guadagniava la grazia della Duchessa e di più la sua senseria, la quale montava 14 parecchi centinaia di scudi; e così egli gonfiò. Il Duca gli dette parecchi ceffatoni in quelle sue gotaccie, e per levarselo d’inanzi ei gli dette un poco più forte che e’ non soleva fare. A queste percosse forti in quelle sue gotaccie non tanto l’esser diventate troppo rosse, che 15 e’ ne venne giù le lacrime. Con quelle ei cominciò a dire: "Eh! Signore, un vostro fidel servitore, il quale cerca di far bene e si contenta di comportare 16 ogni sorte di dispiacere, pur che quella povera Signiora sia contenta". Essendo troppo venuto a fastidio al Duca questo uomaccio, e per le gotate e per amor della Duchessa, la quale sua Eccellenzia illustrissima sempre volse contentare, subito disse: "Levamiti d’inanzi col malanno che Dio ti dia, e va, fanne mercato 17, ché io son contento di far tutto quello che vuole la signiora Duchessa". Or qui si conoscie la rabbia della mala fortuna inverso d’un povero uomo e la vituperosa fortuna a favorire uno sciagurato: io mi persi tutta la grazia della Duchessa, che 18 fu buona causa di tormi 19 ancor quella del Duca; e lui si guadagniò quella grossa senseria e la grazia loro: sì che e’ non basta l’esser uomo dabbene e virtuoso.

 

LXXXV. In questo tempo si destò la guerra di Siena 1, e volendo ’l Duca afforzificare2Firenze, distribuì le porte infra i sua scultori e architettori, dove a me fu consegniato la Porta al Prato e la Porticciuola d’Arno, che è in sul prato dove si va alle mulina3; al cavalieri Bandinello la Porta a San Friano4; a Pasqualino d’Ancona la Porta a San Pier Gattolini; a Giulian di Baccio d’Agniolo5, legnaiuolo, la Porta a San Giorgio; al Particino 6, legnaiuolo, la Porta a Santo Niccolò; a Francesco da Sangallo, scultore, detto il Margolla, fú dato la Porta alla Crocie; e a Giovanbatista, chiamato il Tasso, fu data la Porta a Pinti; e così certi altri bastioni e porte a diversi ingegnieri, i quali non mi soviene né manco fanno al mio proposito. Il Duca, che veramente è sempre stato di buono ingegnio, da per se medesimo se n’andò intorno alla sua città; e quando sua Eccellenzia illustrissima ebbe bene esaminato e resolutosi, chiamò Lattanzio Gorini, il quale si era un suo pagatore; e perché anche questo Lattanzio si dilettava alquanto di questa professione, sua Eccellenzia illustrissima lo fecie disegniare tutti i modi che e’ 7 voleva che si afforzificassi le dette porte, e a ciascuno di noi mandò disegniata la sua porta: di modo che vedendo quella che toccava a me, e parendomi che ’l modo non fussi sicondo la sua ragione, anzi egli si era scorrettissimo, subito con questo disegno in mano me n’andai a trovare ’l mio Duca; e volendo mostrare a sua Eccellenzia i difetti di quel disegnio datomi, non sì tosto che io ebbi cominciato a dire, il Duca infuriato mi si volse, e disse: "Benvenuto, del far benissimo le figure io cederò a te 8, ma di questa professione io voglio che tu ceda a me: sì che osserva il9disegnio che io t’ho dato". A queste brave10 parole io risposi quanto benigniamente io sapevo al mondo e dissi: "Ancora, Signior mio, del bel modo di fare le figure io ho inparato da vostra Eccellenzia illustrissima: inperò noi l’abbiamo sempre disputata qualche poco insieme; così di questo afforzificare la vostra città, la qual cosa inporta molto più che ’l far delle figure, priego vostra Eccellenzia illustrissima che si degni di ascoltarmi, e così ragionando con vostra Eccellenzia, quella mi verrà meglio a mostrare il modo che 11 io l’ho a servire". Di modo che, con queste mie piacevolissime parole, benigniamente ei si messe a disputarla meco; e mostrando a sua Eccellenzia illustrissima con vive e chiare ragione che in quel modo che ei m’aveva disegniato e’ non sarebbe stato bene, sua Eccellenzia mi disse: "O va, e fa un disegnio tu, e io vedrò se e’ mi piacerà". Così io feci dua disegni sicondo la ragione del vero modo di afforzificare quelle due porte, e glieli portai, e conosciuto la verità dal falzo, sua Eccellenzia piacevolmente mi disse: "O va, e fa a tuo modo, ché io sono contento". Allora con gran sollecitudine io cominciai.

 

LXXXVI. Egli era alla guardia della Porta al Prato un capitano lombardo: questo si era uno uomo di terribil forma robusta, e con parole molto villane; ed era prosuntuoso e igniorantissimo. Questo uomo subito mi cominciò a domandare quel che io volevo fare: al quale io piacevolmente gli mostrai i mia disegni, e con una strema1fatica gli davo ad intendere il modo che io volevo tenere. Or questa villana bestia ora scoteva ’l capo, e ora e’ si voggeva 2 in qua e ora in là, mutando spesso ’l posar delle gambe, attorcigliandosi i mostacci della barba, che gli aveva grandissimi, e spesso ei si tirava la piega della berretta in su gli occhi, diciendo spesso: "Maidè, cancher 3! io nolla intendo questa tua fazenda". Di modo che, essendomi questa bestia venuto a noi’, dissi: "Or lasciatela addunche fare a me, che la ’ntendo"; e voltandogli le spalle per andare al fatto mio, questo uomo cominciò minacciando 4 col capo; e colla man mancina, mettendola in su ’l pomo della sua spada, gli fecie alquanto rizzar la punta, e disse: "Olà, mastro, tu vorrai che io facci quistion teco al sangue5". Io me gli volsi con grande còllora, perché e’ mi aveva fatto adirare, e dissi: "E’ mi parrà manco fatica il far quistione con esso teco, che il fare questo bastione a questa porta". A un tratto tutt’a dua mettemmo le mani in su le nostre spade, e nolle sfoderammo affatto, ché subito si mosse una quantità di uomini dabbene, sì de’ nostri Fiorentini e altri cortigiani; e la maggior parte sgridorno lui dicendogli che gli aveva ’l torto, e che io ero uomo da rendergli buon conto, e che se ’l Duca lo sapessi, che guai a lui. Così egli andò al fatto sua; e io cominciai il mio bastione. E come io ebbi dato l’ordine al detto bastione, andai all’altra Porticciuola d’Arno, dove io trovai un capitano da Cesena, il più gentil galante uomo 6 che mai io conosciessi di tal professione: ei dimostrava di essere una gentil donzelletta, e al bisognio egli si era de’ più bravi uomini e ’l più miciduale 7 che inmaginar si possa. Questo gentile uomo mi osservava tanto, che molte volte ei mi faceva peritare 8; e’ desiderava di intendere e io piacevolmente gli mostravo: basta che noi facevàno 9 a chi si faceva maggior carezze l’un l’altro, di sorte che io feci meglio questo bastione che quello, assai. Avendo presso e 10 finiti li mia bastioni, per aver dato una correria 11 certe gente di quelle di Piero Strozzi, e’ si era tanto spaventato ’l contado di Prato che tutto ei si sgombrava, e per questa cagione tutte le carra 12 di quel contado venivano cariche, portando ogniuno le sue robe alla città. E perché le carra si toccavano l’una l’altra 13, le quali erano una infinità grandissima, vedendo un tal disordine, io dissi alle guardie delle porte che avvertissino che a quella porta e’ non accadessi un disordine come avvenne alle porte di Turino 14: ché bisognando l’aversi a servirsi della saracinesca 15, la non potria fare l’uffizio suo, perché la resterebbe sospesa in su uno di que’ carri. Sentendo quel bestion di quel capitano queste mia parole, mi si volse con ingiuriose parole, e io gli risposi altanto 16: di modo che noi avemmo a far 17 molto peggio che quella prima volta: inperò noi fummo divisi; e io, avendo finiti i mia bastioni, toccai 18 parecchi scudi innaspettatamente, che e’ me ne giovò, e volentieri me ne tornai a finire ’l mio Perseo.

 

LXXXVII. Essendosi in questi giorni 1 trovato certe anticaglie nel contado d’Arezzo, in fra le quali si era la Chimera 2, ch’è quel lione di bronzo, il quale si vede nelle camere convicino 3 alla gran sala del Palazzo; e insieme con la detta Chimera si era trovato una quantità di piccole statuette, pur di bronzo, le quali erano coperte di terra e di ruggine, e a ciascuna di esse mancava o la testa o le mani o i piedi; il Duca pigliava piacere di rinettarsele da per se medesimo con certi cesellini di 4 orefici. Gli avvenne che e’ mi occorse di parlare a sua Eccellenzia illustrissima; e in mentre che io ragionavo seco, ei mi porse un piccol martellino con el quale io percotevo quei cesellini che ’l Duca teneva in mano, e in quel modo le ditte figurine si scoprivano dalla terra e dalla rugine. Così passando innanzi parecchi sere, il Duca mi misse in opera, dove io cominciai a rifare quei membri che mancavano alle dette figurine. E pigliandosi tanto piacere sua Eccellenzia di quel poco di quelle coselline 5, egli mi facieva lavorare ancora 6 di giorno, e se io tardavo all’andarvi, sua Eccellenzia illustrissima mandava per me. Più volte feci intendere a sua Eccellenzia che se io mi sviavo il giorno dal 7 Perseo, che e’ ne seguirebbe parecchi inconvenienti; e il primo, che più mi spaventava, si era che ’l gran tempo che io vedevo che ne portava la mia opera, non fussi causa di venire a noia a sua Eccellenzia illustrissima, sì come poi e’ mi avvenne; l’altro si era che io avevo parecchi lavoranti, e quando io non ero alla presenza 8 eglino facevano dua notabili 9 inconvenienti. E il primo si era che e’ mi guastavano la mia opera, e l’altro che eglino lavoravano poco al possibile 10: di modo che il Duca si era contento che io v’andassi solamente dalle 24 ore in là. E perché io mi avevo indolcito tanto maravigliosamente sua Eccellenzia illustrissima, che la sera che io arrivavo da lui, sempre ei mi crescieva le carezze. In questi giorni e’ si murava quelle stanze nuove di verso i Leoni 11: di modo che, volendo sua Eccellenzia ritirarsi. in parte più secreta, ei s’era fatto acconciare un certo stanzino in queste stanze fatte nuovamente, e a me aveva ordinato che io me n’andassi per. la sua guardaroba, dove io passavo segretamente sopra ’l palco 12 della gran sala, e per certi pugigattoli 13 me n’andavo al detto stanzino segretissimamente: dove14 che in ispazio di pochi giorni la Duchessa me ne privò, faccendo serrare tutte quelle mie comodità: di modo che ogni sera che io arrivavo in Palazzo, io avevo a ’spettare un gran pezzo per amor che 15 la Duchessa si stava in quelle anticamere dove io avevo da passare, alle sue comodità16; e per essere infetta 17, io non vi arrivavo mai volta 18, che io nolla scomodassi. Or per questa e per altra causa la mi s’era recata tanto a noia 19, che per verso nissuno la non poteva patir 20 di vedermi; e con tutto questo mio gran disagio e infinito dispiacere, pazientemente io seguitavo d’andarvi; e il Duca aveva di sorte fatto ispressi comandamenti 21 che subito che io picchiavo quelle porte, e’ m’era 22 aperto, e senza dirmi nulla e’ mi lasciavano entrare per tutto: di modo che e’ gli avvenne talvolta che, entrando chetamente così inaspettatamente per quelle secrete camere, che io trovava la Duchessa alle sue comodità; la quale subito si scrucciava 23 con tanto arrabbiato furore meco che io mi spaventavo, e sempre mi diceva: "Quando arai tu mai finito di racconciare queste piccole figurine? perché oramai questo tuo venire m’è venuto troppo a fastidio". Alla quale io benigniamente rispondevo: "Signiora, mia unica patrona, io non desidero altro, se none con fede e cone estrema ubbidienza servirla; e perché queste opere, che mi ha ordinato il Duca, dureranno di molti mesi, dicami vostra Eccellenzia illustrissima se la non vuole che io ci venga più: io non ci verrò in modo alcuno e chiami chi vuole; e se bene 24 e’ mi chiamerà ’l Duca, io dirò che mi sento male e in modo nessuno mai non ci capiterò". A queste mie parole ella dicieva: "Io non dico che tu non ci venga e non dico che tu non ubbidisca al Duca; ma e’ mi pare bene che queste tue opere non abbino mai fine". O che ’l Duca ne avessi auto qualche sentore, o in altro modo che la si fussi, sua Eccellenzia ricominciò: come e’ si appressava alle 24 ore, ei mi mandava a chiamare; e quello che veniva a chiamarmi, sempre mi diceva: "Avvertisci 25 a non mancare di venire, ché ’l Duca ti aspetta"; e così continuai, con queste medesime difficultà, parecchi serate. E una sera infra l’altre, entrando al mio solito, il Duca, che doveva ragionare colla Duchessa di cose forse segrete, mi si volse con el maggior furore del mondo; e io, alquanto spaventato, volendomi presto ritirare, in un subito disse: "Entra, Benvenuto mio, e va là alle tue facciende, e io starò poco a venirmi a star teco". Inmentre che io passavo, e’ mi prese per la cappa il signior don Grazia 26, fanciullino di poco tempo 27, e mi faceva le più piacevol baiuzze28 che possa fare un tal bambino; dove il Duca maravigliandosi, disse: "Oh che piacevole amicizia è questa che i mia figliuoli hanno teco!"

LXXXVIII. Inmentre che io lavoravo in queste baie di poco momento 1, il Principe 2 e don Giovanni 3 e don Harnando 4 e don Grazia tutta sera mi stavano addosso, e ascosamente dal Duca ei mi punzecchiavano: dove io gli pregavo di grazia che gli stessino fermi. Eglino mi rispondevano, dicendo: "Noi non possiamo". E io dissi loro: "Quello che non si può non si vuole; or fate, via"; a un tratto el Duca e la Duchessa si cacciorno a ridere. Un’altra sera, avendo finite quelle quattro figurette di bronzo che sono nella basa commesse 5, qual sono Giove, Mercurio, Minerva e Danae madre di Perseo 6 con el suo Perseino a sedere ai sua piedi, avendole io fatte portare innella detta stanza dove io lavoravo la sera, io le messi in fila, alquanto levate un poco dalla vista 7, di sorte che le facevano un bellissimo vedere. Avendolo inteso il Duca, e’ se ne venne alquanto prima che ’l suo solito; e perché quella tal persona, che riferì a sua Eccellenzia illustrissima, gnele dovette mettere8 molto più di quello che ell’erano, perché ei gli disse: "Meglio che gli antichi" e cotai simil cose; il mio Duca se ne veniva insieme con la Duchessa lietamente ragionando pur 9 della mia opera; e io subito rizzatomi me gli feci incontro. Il quale con quelle sue ducale e belle accoglienze alzò la man dritta, innella quale egli teneva una pera bronca 10, più grande che si possa’vedere e bellissima, e disse: "Toi 11, Benvenuto mio, poni questa pera nell’orto della tua casa". A quelle parole io piacevolmente risposi, dicendo: "O Signior mio, dice da dovero vostra Eccellenzia illustrissima che io la ponga nell’orto della mia casa?" Di nuovo disse il Duca: "Nell’orto della casa, che è tua: ha’mi tu inteso?" Allora io ringraziai sua Eccellenzia, e il simile la Duchessa, con quelle meglio cerimonie che io sapevo fare al mondo. Dappoi ei si posono a sedere amendua al rincontro di 12 dette figurine, e per più di dua ore non ragionorno mai d’altro che delle belle figurine: di sorte che e’ n’era venuta una tanta smisurata voglia alla Duchessa, che la mi disse allora: "Io non voglio che queste belle figurine si vadino a perdere in quella basa giù in piazza, dove elle porteriano pericolo di esser guaste 13; anzi voglio che tu me le acconci in una mia stanza, dove le saranno tenute con quella reverenza che merita le lor rarissime virtute". A queste parole mi contrapposi con molte infinite ragioni; e veduto che ella s’era resoluta che io nolle mettessi innella basa dove le sono, aspettai il giorno seguente, me n’andai in Palazzo alle 22 ore; e trovando che ’l Duca e la Duchessa erano cavalcati 14, avendo di già messo in ordine la mia basa, feci portare giù le dette figurine, e subito le inpiombai, come l’avevano a stare. Oh quando la Duchessa lo intese, e’ gli crebbe tanta stizza che se e’ non fussi stato il Duca che virtuosamente m’aiutò, io l’arei fatta molto male 15; e per quella stizza del vezzo di perle e per questa lei operò tanto che ’l Duca si levò da quel poco del piacere 16: là qual cosa fu causa che io non v’ebbi più a ’ndare17, e subito mi ritornai in quelle medesime difficultà di prima, quanto all’entrare per il Palazzo.

 

LXXXIX. Torna’mi alla Loggia 1, dove io di già avevo condotto il Perseo, e me l’andavo finendo con le difficultà già ditte, cioè senza dinari, e con altri accidenti, che la metà di quegli arieno fatto sbigottire uno uomo armato di diamanti 2. Pure seguitando via al mio solito, una mattina infra l’altre, avendo udito messa in San Piero Scheraggio 3, e’ mi entrò innanzi Bernardone, sensale, orafaccio, e per bontà del Duca era provveditore della zecca 4; e subito che appena ei fu fuori della porta della chiesa, el porcaccio lasciò andare quattro coreggie, le quali si dovettono sentir da San Miniato. Al quale io dissi: "Ahi porco, poltrone, asino, cotesto si è il suono delle tue sporche virtute?"; e corsi per un bastone. Il quale presto si ritirò nella zecca, e io stetti al fesso 5 della mia porta 6, e fuori tenevo un mio fanciullino, il quale mi facessi segnio quando questo porco usciva di zecca. Or veduto d’avere aspettato un gran pezzo, e venendomi a noia, e avendo preso luogo 7 quel poco della stizza, considerato che i colpi non si danno a patti 8, dove e’ ne poteva uscire qualche inconveniente, io mi risolsi a fare le mie vendette in un altro modo. E perché questo caso fu intorno alle feste del nostro San Giovanni, vigino un dì o dua 9, io gli feci quattro versi, e gli appiccai nel cantone della chiesa, dove si pisciava e cacava, e dicevano così:

Qui giace Bernardone, asin, porcaccio,
spia, ladro, sensale, in cui pose
Pandora 10 i maggior mali, e poi traspose
di lui quel pecoron mastro Buaccio 11.

Il caso e i versi andorno per il Palazzo, e il Duca e la Duchessa se ne rise; e innanzi che lui se ne avvedessi, e’ vi si era fermo molta quantità di populi 12, e facevano le maggior risa del mondo; e perché e’ guardavano inverso la zecca e affissavano gli occhi a Bernardone, avvedendosene il suo figliuolo mastro Baccio, subito con gran còllora lo stracciò e si morse un dito minacciando con quella sua vociaccia, la quale gli escie per il naso: ei fecie una gran bravata 13.

 

XC. Quando il Duca intese che tutta la mia opera del Perseo si poteva mostrare come finita, un giorno la venne a vedere e mostrò per molti segni evidenti che la gli sattisfaceva1 grandemente; e voltosi a certi Signiori, che erano con sua Eccellenzia illustrissima, disse: "Con tutto che questa opera ci paia molto bella, ell’ha anche a piacere ai popoli 2: sì che, Benvenuto mio, innanzi che tu gli dia la ultima sua fine io vorrei che per amor mio tu aprissi un poco questa parte dinanzi, per un mezzo giorno, alla mia Piazza 3, per vedere quel che ne dicie ’l popolo: perché e’ non è dubbio che da vederla a questo modo ristretta, al vederla a campo aperto, la mosterrà un diverso modo4 da quello che la si mostra così ristretta". A queste parole io dissi umilmente a sua Eccellenzia illustrissima: "Sappiate, Signior mio, che la mosterrà meglio la metà5. O come non si ricorda vostra Eccellenzia illustrissima d’averla veduta nell’orto della casa mia, innel quale la si mostrava in tanta gran largura 6 tanto bene, che per l’orto delli Innocenti7 l’è venuta a vedere ’l Bandinello, e con tutta la sua mala e pessima natura, la l’ha sforzato 8, ed ei n’ha detto bene, che mai non disse ben di persona a’ sua dì? Io mi avveggo che vostra Eccellenzia illustrissima gli crede troppo". A queste mie parole, sogghigniando un poco isdegniosetto, pur con molte piacevol parole disse: "Fallo, Benvenuto mio, solo per un poco di mia sattisfazione". E partitosi, io cominciai a dare ordine di scoprire; e perché e’ mancava certo poco di oro, e certe vernicie e altre cotai coselline, che si appartengono alla fine 9 dell’opera, sdegniosamente borbottavo e mi dolevo, bestemiando quel maladetto giorno che fu causa a condurmi a Firenze: perché di già io vedevo la grandissima e certa perdita che io avevo fatta alla mia partita di Francia, e non vedevo né conoscievo ancora che modo io dovevo sperare di bene 10 con questo mio Signiore in Firenze: perché dal prencipio al mezzo, alla fine, sempre tutto quello che io avevo fatto, si era fatto con molto mio dannoso disavvantaggio, e così malcontento il giorno seguente io la scopersi. Or siccome piacque a Dio, subito che la fu veduta, ei si levò un grido tanto smisurato in lode della detta opera, la qual cosa fu causa di consolarmi alquanto. E non restavano 11 i popoli continuamente di appiccare 12 alle spalle della porta, che teneva un poco di parato 13, in mentre che io le davo la sua fine. Io dico che ’l giorno medesimo, che la si tenne parecchi ore scoperta, e’ vi fu appiccati più di venti sonetti, tutti in lode smisuratissime della mia opera; dappoi che io la ricopersi, ogni dì mi v’era appiccati quantità di sonetti e di versi latini e versi greci: perché gli era vacanza allo Studio 14 di Pisa, tutti quei eccellentissimi dotti e gli scolari facevano a gara. Ma quello che mi dava maggior contento 15 con isperanza di maggior mia salute inverso ’l16 mio Duca, si era che quegli dell’arte, cioè scultori e pittori, ancora 17 loro facevano a gara a chi meglio dicieva. E infra gli altri, quale io stimavo più, si era il valente pittore Iacopo da Puntorno 18, e più di lui il suo eccellente Bronzino 19, pittore, che non gli bastò il farvene appiccare parecchi, che egli me ne mandò per il suo Sandrino 20 insino a casa mia, i quali dicievano tanto bene, con quel suo bel modo, il quale è rarissimo, che questo fu causa di consolarmi alquanto. E così io la21 ricopersi, e mi sollicitavo di finirla.

 

XCI. Il mio Duca, con tutto che sua Eccellenzia 1 avessi sentito questo favore 2 che m’era stato fatto di quel poco della vista 3 da questa eccellentissima scuola, disse: "Io n’ho gran piacere che Benvenuto abbia aùto questo poco del contento 4, il quale sarà cagione che più presto e con più diligenzia ei le darà la sua desiderata fine; ma non pensi che poi, quando la si vedrà tutta scoperta e che la si potrà vedere tutta all’intorno, che i popoli abbino a dire a questo modo; anzi gli sarà scoperto tutti i difetti che vi sono, e appostovene 5 di molti di quei che non vi sono: sì che armisi di pazienza". Ora queste furno parole del Bandinello dette al Duca, con le quale egli allegò6 delle opere d’Andrea del Verocchio 7, che fecie quel bel Cristo e san Tommaso 8 di bronzo, che si vede nella facciata di Orsamichele; e allegò molte altre opere, insino al mirabil Davitte 9 del divino Michelagniolo Buonaroti, dicendo che ei non si mostrava bene se non per la veduta 10 dinanzi; e dipoi disse del suo Ercole e Cacco gli infiniti e vituperosi sonetti che ve gli fu appiccati, e diceva male di questo popolo. Il mio Duca, che gli credeva assai bene, l’aveva mosso 11 a dire quelle parole, e pensava per certo che la dovessi passare in gran parte in quel modo 12, perché quello invidioso del Bandinello non restava 13 di dir male; e una volta infra molte dell’altre, trovandovisi alla presenza quel manigoldo di Bernardone sensale, per far buone14 le parole del Bandinello, disse al Duca: "Sappiate, Signiore, che ’l fare le figure grande l’è un’altra minestra 15 che ’l farle piccoline: io non vo’ dire che le figurine piccole egli l’ha fatte assai bene; ma voi vedrete che là 16 non vi riuscirà". E con queste parolaccie mescolò molte dell’altre, faccendo la sua arte della spia 17, innella quale ei mescolava un monte di bugie.

 

XCII. Or come piacque al mio glorioso Signiore e immortale Iddio, io la fini’ del tutto, e un giovedì 1 mattina io la scopersi tutta. Subito, che e’ non era ancora chiaro il giorno, vi si ragunò tanta infinita quantità di popoli, che e’ saria inpossibile il dirlo, e tutti a una vocie facevano a gara a chi meglio ne diceva. Il Duca stava a una finestra bassa 2 del Palazzo, la quale si è sopra la porta, e così, dentro alla finestra mezzo ascoso, sentiva tutto quello che di detta opera si dicieva; e dappoi che gli ebbe sentito parecchi ore, ei si levò con tanta baldanza e tanto contento, che voltosi al suo messer Sforza 3 gli disse così: "Sforza, va, e truova Benvenuto e digli da mia parte che e’ m’ha contento 4 molto più di quello che io mi aspettavo, e digli che io contenterò lui di modo che io lo farò maravigliare: sì che digli che stia di buona voglia". Così il detto messer Sforza mi fecie la gloriosa inbasciata, la quale mi confortò; e quel giorno per questa buona nuova, e perché i popoli mi mostravano con il dito a questo e a quello, come cosa maravigliosa e nuova5. Infra gli altri e’ furno dua gentili uomini, i quali erano mandati dal Vecieré di Sicilia6 al nostro Duca per lor faccende. Ora questi dua piacevoli uomini mi affrontorno7 in piazza, ché io fui mostro 8 loro così passando: di modo che con furia e’ mi raggiunsono, e subito, colle lor berrette in mano, e’ mi feciono una la più cirimoniosa orazione9, la quale saria stata troppa a10 un papa: io pure, quanto potevo, mi umiliavo; ma e’ mi soprafacevano tanto, che io mi cominciai a raccomandare loro, che di grazia d’accordo ei s’uscissi di piazza, perché i popoli si fermavano a guardar me più fiso, che e’ non facevano al mio Perseo. E infra queste cirimonie eglino furno tanto arditi, che e’ mi richiesono all’andare11 in Sicilia, e che mi farebbono un tal patto che io mi contenterei; e mi dissono come frate Giovanagniolo de’ Servi aveva fatto loro una fontana piena e addorna di molte figure12, ma che le non erano di quella eccellenzia ch’ei vedevano in Perseo, e che e’ l’avevano fatto ricco. Io non gli lasciai finir dire tutto quel che eglino arebbono voluto dire, che io dissi loro: "Molto mi maraviglio di voi, che voi mi ricerchiate 13 che io lasci un tanto Signiore 14, amatore delle virtute più che altro principe che mai nascessi, e di più trovandomi nella patria mia, scuola di tutte le maggior virtute. Oh se io avessi appetito 15 al gran guadagnio, io mi potevo restare in Francia al servizio di quel gran re Francesco, il quale mi dava mille scudi d’oro per il mio piatto 16, e di più mi pagava le fatture di tutte le mie opere, di sorte che ogni anno io mi avevo avanzato più di quattro mila scudi d’oro l’anno; e avevo lasciato in Parigi le mie fatiche di quattro anni passati". Con queste e altre parole io tagliai17 le cerimonie, e gli ringraziai delle gran lode che eglino mi avevano date, le quale si erano i maggiori premii che si potessi dare a chi si affaticava virtuosamente; e che eglino m’avevano tanto fatto cresciere la volontà del far bene, che io speravo in brevi anni avvenire di mostrare un’altra opera, la quale io speravo di piacere18 all’ammirabile scuola fiorentina molto più di quella. Li dua gentili uomini arebbono voluto rappiccare il filo alle’cerimonie; dove io con una sberrettata 19 con gran reverenza dissi loro addio.

 

XCIII. Da poi che io ebbi lasciato passare dua giorni, e veduto che le gran lodi andavano sempre crescendo, allora io mi disposi d’andare a mostrarmi al mio signior Duca; il quale con gran piacevolezza mi disse: "Benvenuto mio, tu m’hai sattisfatto e contento 1; ma io ti prometto che io contenterò te di sorte, che io ti farò maravigliare; e più ti dico che io non voglio che e’ passi il giorno di domane2". A queste mirabil promesse, subito voltai tutte le mie maggior virtù e dell’anima e del corpo in un momento a Dio, ringraziandolo in verità3; e nel medesimo stante 4 m’accostai al mio Duca, e, così mezzo lacrimando d’allegrezza, gli baciai la vesta; dipoi aggiunsi dicendo: "O glorioso mio Signiore, vero liberalissimo amatore delle virtute e di quegli uomini che in esse si affaticano; io priego vostra Eccellenzia illustrissima che mi faccia grazia di lasciarmi prima andare per otto giorni a ringraziare Iddio: perché io so bene la smisurata mia gran fatica, e cogniosco che la mia buona fede ha mosso Iddio al mio aiuto: per questo e per ogni altro miracoloso soccorso, voglio andare per otto giornate pellegrinando, sempre ringraziando il mio immortale Iddio, il quale sempre aiuta chi in verità lo chiama". Allora mi domandò ’l Duca dove io volevo andare. Al quale io dissi: "Domattina mi partirò e me n’andrò a Valle Ombrosa 5, di poi a Camaldoli 6 e all’Ermo 7, e me n’andrò insino ai Bagni di Santa Maria 8 e forse insino a Sestile 9, perché io intendo che e’ v’è di belle anticaglie; dipoi mi tornerò da San Francesco della Vernia 10, e ringraziando Iddio sempre, contento mi ritornerò a servirla". Subito il Duca lietamente mi disse: "Va, e torna, ché tu veramente mi piaci, ma lasciami due versi di memoria11, e lascia fare a me". Subito io feci quattro versi, innei quali io ringraziavo sua Eccellenzia illustrissima, e gli detti a messer Sforza, il quale gli dette in mano al Duca da mia parte: il quale gli prese; di poi gli dette in mano al detto messer Sforza, e gli disse: "Fa che ogni dì tu me gli metta innanzi, perché se Benvenuto tornassi e trovassi che io noll’avessi spedito 12 io credo che e’ mi ammazzerebbe"; e così ridendo, sua Eccellenzia disse che gnele ricordassi. Queste formate 13 parole mi disse la sera messer Sforza, ridendo e anche maravigliandosi del gran favore che mi faceva ’l Duca; e piacevolmente mi disse: "Va, Benvenuto, e torna, ché io te n’ho invidia".

XCIV. Nel nome di Dio mi parti’ di Firenze sempre cantando salmi e orazione in onore e gloria di Dio per tutto quel viaggio; innel quale io ebbi grandissimo piacere, perché la stagione si era bellissima, di state, e il viaggio e il paese dove io non ero mai più stato mi parve tanto bello, che ne restai maravigliato e contento. E perché gli era venuto per mia guida un giovane mio lavorante, il quale era dal Bagnio 1, che si chiamava Cesere 2, io fui molto carezzato da suo padre e da tutta la casa sua: in fra e’ quali si era un vecchione di più di settant’anni, piacevolissimo uomo: questo era zio del detto Cesere, e faceva professione di medico cerusico, e pizzicava alquanto di archimista 3. Questo buono uomo mi mostrò come quei Bagni avevano miniera d’oro e d’argento, e mi fecie vedere molte bellissime cose di quel paese: di sorte che io ebbi de’ gran piaceri che io avessi mai. Essendosi domesticato a suo modo meco, un giorno in fra gli altri mi disse: "Io non voglio mancare di non vi dire un mio pensiero, al quale se sua Eccellenzia ci prestassi l’orecchio, io credo che e’ sarebbe cosa molto utile; e questo si è che intorno a Camaldoli ci si vede un passo tanto scoperto, che Piero Strozzi 4 potria non tanto 5 passare sicuramente, ma egli potrebbe rubar Poppi 6 sanza contrasto alcuno"; e con questo, non tanto7 l’avermelo mostro8 a parole, ch’egli si cavò un foglio della scarsella 9, nel quale questo buon vecchio aveva disegniato tutto quel paese in tal modo che benissimo si vedeva ed evidentemente si conoscieva il gran pericolo esser vero. Io presi il disegnio e subito mi parti’ dal Bagnio, e quanto più presto io potetti, tornandomene per la via di Prato Magnio 10 e da San Francesco della Vernia, mi ritornai a Firenze; e senza fermarmi, sol trattomi gli stivali, andai a Palazzo. E quando io fui dalla Badia11, io mi scontrai nel mio Duca, che se ne veniva per la via del Palagio del Podestà: il quale, subito ch’e’ mi vide, ei mi fecie una gratissima accoglienza insieme con un poco di maraviglia, dicendomi: "O perché sei tu tornato così presto? ché io non t’aspettavo ancora di questi otto giorni12”. Al quale io dissi: "Per servizio di vostra Eccellenzia illustrissima son tornato, ché volentieri io mi sarei stato parecchi giorni a spasso per quel bellissimo paese". "E che buone faccende?" disse ’l Duca. Al quale io dissi: "Signiore, gli è di necessità che io vi dica e mostri cose di grande importanza". Così me n’andai seco a Palazzo. Giunti a Palazzo, e’ mi menò in camera secretamente, dove noi eravamo soli. Allora io gli dissi il tutto, e gli mostrai quel poco del disegnio; il quale mostr ò di averlo gratissimo. E dicendo a sua Eccellenzia che gli era di necessità il rimediare a una cotal cosa presto, il Duca stette così un poco sopra di sé, e poi mi disse: "Sappi che no’ siamo d’accordo con el duca d’Urbino 13, il quale n’ha da ’ver cura lui; ma stia in te 14". E con molta gran dimostrazione di sua buona grazia, io mi ritornai a casa mia.

 

XCV. L’altro giorno io mi feci vedere e il Duca dipoi un poco di ragionamento, lietamente mi disse: "Domani senza fallo voglio spedire la tua faccenda 1: sì che sta di buona voglia". Io che me lo tenevo per certissimo, con gran disiderio aspettavo l’altro giorno. Venuto il desiderato giorno, me n’andai a Palazzo; e siccome per usanza par che sempre gli avvenga che le male nuove si dieno con più diligenzia che non fanno2le buone, messer Iacopo Guidi, segretario di sua Eccellenzia illustrissima, mi chiamò con una sua bocca ritorta e con vocie altiera, e ritiratosi tutto in sé, con la persona tutta incamatita 3, come interizzata4, cominciò in questo modo a dire: "Dicie il Duca che vuole saper da te quel che tu dimandi del tuo Perseo". Io restai ismarrito e maravigliato; e subito risposi come io non ero mai per domandar prezzo delle mie fatiche, e che questo non era quello che mi aveva promesso sua Eccellenzia dua giorni sono 5. Subito questo uomo con maggior vocie mi disse che mi comandava spressamente da parte del Duca che io dicessi quello che io ne volevo, sotto la pena della intera disgrazia di sua Eccellenzia illustrissima. Io che m’ero promesso 6 non tanto di aver guadagniato qualche cosa per le gran carezze fattemi da sua Eccellenzia illustrissima, anzi maggiormente mi ero promesso di avere guadagniato tutta la grazia del Duca, perché io nollo richiedevo mai d’altra maggior cosa, che solo della sua buona grazia: ora questo modo, innaspettato da me, mi fecie venire in tanto furore; e maggiormente per porgermela 7 in quel modo che faceva quel velenoso rospo. Io dissi che quando ’l Duca mi dessi dieci mila scudi, e’ non me la pagherebbe, e che, se io avessi mai pensato di venire a questi meriti 8, io non ci sarei mai fermo 9. Subito questo dispettoso mi disse una quantità di parole ingiuriose; e io il simile feci a lui. L’altro giorno appresso, faccendo io reverenza al Duca, sua Eccellenzia m’accennò 10; dove 11 io mi accostai; ed egli in còllora mi disse: "Le città e i gran palazzi si fanno, cone i dieci mila ducati". Al quale subito risposi come sua Eccellenzia troverebbe infiniti uomini che gli saprieno 12 fare delle città e dei palazzi; ma che dei Persei ei non troverrebbe forse uomo al mondo, che gnele sapessi fare un tale. E subito mi parti’ senza dire o fare altro. Certi pochi giorni appresso la Duchessa mandò per me, e mi disse che la differenza 13 che io avevo con el Duca io la rimettessi in 14 lei, perché la si vantava di far cosa che io saria contento. A queste benignie parole io risposi come io non avevo mai chiesto altro maggior premio delle mie fatiche che la buona grazia del Duca, e che sua Eccellenzia illustrissima me l’aveva promessa; e che e’ non faceva bisognio che io rimettessi in15 loro Eccellenzie illustrissime quello che, dai primi giorni che io li cominciai a servire, tutto liberamente io avevo rimesso; e di più aggiunsi che se sua Eccellenzia illustrissima mi dessi solo una crazia 16, che vale cinque quattrini, delle mie fatiche, io mi chiamerei contento e sattisfatto, pur che sua Eccellenzia non mi privassi della sua buona grazia. A queste mie parole la Duchessa alquanto sorridendo, disse: "Benvenuto, tu faresti il tuo meglio a fare quello che io ti dico"; e voltami le spalle, si levò da me 17. Io che pensa’ di fare il mio meglio per usare quelle cotal umil parole, avvenne che e’ ne risult ò il mio peggio, perché, con tutto che lei avessi aùto meco quel poco di stizza, ell’aveva poi in sé un certo modo di fare, il quale si era buono.

XCVI. In questo tempo io ero molto domestico di Girolimo degli Albizi1, il quale era commessario delle bande 2 di sua Eccellenzia; e un giorno infra gli altri egli mi disse: "O Benvenuto, e’ sarebbe pur bene il porre qualche sesto a 3 questo poco del dispiacere che tu hai con el Duca; e ti dico che se tu avessi fede in me, che e’ mi darebbe’l cuore da conciarla 4: perché io so quello che io mi dico. Come il Duca s’adira poi da dovero 5, tu ne farai 6 molto male: bastiti questo; io non ti posso dire ogni cosa". E perché e’ m’era stato detto da uno, forse tristerello 7, dipoi che la Duchessa m’aveva parlato, il quale disse, che aveva sentito dire che ’l Duca per non so che occasione datagli, disse: "Per manco di dua quattrini io gitter ò via il Perseo e così si finiranno tutte le differenze8". Ora per questa gelosia 9 io dissi a Girolimo degli Albizi che io rimettevo in lui il tutto, e che quello che egli faceva, io di tutto sarei contentissimo, pure che 10 io restassi in grazia del Duca. Questo galante uomo, che s’intendeva benissimo dell’arte del soldato, massimamente di quei delle bande, i quali sono tutti villani, ma dell’arte del fare la scultura egli non se ne dilettava e però11 e’ non se ne intendeva punto, di sorte che parlando con el Duca disse: "Signiore, Benvenuto s’è rimesso in me, e m’ha pregato che io lo raccomandi a vostra Eccellenzia illustrissima". Allora il Duca disse: "E ancora io mi rimetto in voi, e starò contento a tutto quello che voi giudicherete". Di modo che il detto Girolamo fecie una lettera molto ingegniosa e in mio gran favore, e giudicò che ’l Duca mi dessi tremila cinquecento scudi d’oro in oro, i quali bastassino non per premio di una cotal bella opera, ma solo per un poco di mio trattenimento: basta che12 io mi contentavo; con molte altre parole, le quali in tutto concludevano il detto prezzo. Il Duca la sottoscrisse molto volentieri tanto, quanto io ne fu’ malcontento. Come la Duchessa lo intese, la disse: "Gli era molto meglio per quel povero uomo che e’ l’avessi rimessa in me, che gnie l’arei fatto dare cinque mila scudi d’oro"; e un giorno che io ero ito in Palazzo, la Duchessa mi disse le medesime parole alla presenzia di messer Alamanno Salviati, e mi derise dicendomi che e’ mi stava bene tutto ’l male che io avevo. Il Duca ordinò che e’ mi fussi pagato cento scudi d’oro in oro il mese, insino alla detta somma, e così si andò seguitando qualche mese. Dipoi messer Antonio de’ Nobili, che aveva auta la detta commessione, cominciò a darmene cinquanta, e di poi quando me ne dava venticinque e quando non me gli dava: di sorte che, vedutomi così prolungare 13, amorevolmente dissi al detto messer Antonio, pregandolo che e’ mi dicessi la causa perché e’ non mi finiva di pagare. Ancora egli benigniamente mi rispose: innella qual risposta e’ mi parve ch’e’ s’allargassi 14 un poco troppo, perché — giudichilo chi intende — in prima mi disse che la causa perché lui non continuava il mio pagamento si era la troppa strettezza, che aveva ’l Palazzo, di danari, ma che egli mi prometteva che come gli venissi danari, che mi pagherebbe; e aggiunse dicendo: "Oimè! se io non ti pagassi, io saria un gran ribaldo". Io mi maravigliai il sentirgli dire una cotal parola, e per quella mi promissi15 che quando e’ potessi, che e’ mi pagherebbe. Per la qual cosa e’ ne seguì 16 tutto ’l contrario, di modo che, vedendomi straziare 17, io m’adirai seco e gli dissi molte ardite e collorose parole, e gli ricordai tutto quello che lui m’aveva detto che sarebbe 18, Inperò egli si morì, e io resto ancora a ’vere cinquecento scudi d’oro insino a ora, che siamo vicini alla fine dell’anno 1566.19 Ancora io restavo d’avere un resto di mia salari, il quale mi pareva che e’ non si facessi più conto di pagarmegli, perché gli eran passati incirca a. tre anni; ma gli avvenne una pericolosa infermità al Duca, che gli stette quarantotto ore senza potere orinare; e conosciuto che i remedi de’ medici non gli giovavano, forse ei ricorse a Iddio, e per questo e’ volse che ogniuno fussi pagato delle sue provvisione decorse e ancora 20 io fui pagato; ma non fu’ pagato già del mio resto del Perseo.

 

XCVII. Quasi che io m’ero mezzo disposto di non dir più nulla dello isfortunato mio Perseo; ma per essere una occasione che mi sforza tanta notabile 1, imperò io rappiccher ò il filo2per un poco, tornando alquanto addietro. Io pensai di fare il mio meglio, quando io dissi alla Duchessa che io non potevo più far conpromesso di 3 quello che non era più in mio potere, perché io avevo ditto al Duca che io mi contentavo di tutto quello che sua Eccellenzia illustrissima mi volessi dare; e questo io lo dissi pensando di gratuirmi 4 alquanto; e con quel poco de l’umiltà cercavo con ogni opportuno remedio di placare alquanto il Duca, perché certi pochi giorni in prima che e’ si venissi all’accordo dell’Albizi, il Duca s’era molto dimostro 5 di essersi crucciato meco; e la causa fu, che dolendomi con sua Eccellenzia di certi assassinamenti6bruttissimi che mi faceva messer Alfonso Quistello e messer Iacopo Polverino, fiscale, e più che tutti ser Giovanbattista Brandini, volterrano; così dicendo con qualche dimostrazione di passione queste mie ragioni, io vidi venire il Duca in tanta stizza quanto mai e’ si possa inmaginare. E poi che sua Eccellenzia illustrissima era venuta in questo gran furore, ei mi disse: "Questo caso si è come quello del tuo Perseo, che tu n’hai chiesto e’ dieci mila scudi: tu ti lasci troppo vincere da il tuo interesso 7: inper ò io lo voglio fare stimare, e tene darò tutto quello che e’ mi fia giudicato". A queste parole io subito risposi alquanto un poco troppo ardito e mezzo adirato — cosa la qual non è conveniente usarla cone i gran Signiori — e dissi: "O come è egli possibile che la mia opera mi sia stimata il suo prezzo, non essendo oggi uomo in Firenze che la sapessi fare?" Allora il Duca crebbe in maggiore furore, e disse di molte parole adirate, infra le quale disse: "In Firenze si è uomo oggi, che ne saprebbe fare un come quello, e però benissimo e’ lo saprà giudicare". Ei volse dire del Bandinello, cavalieri di santo Iacopo. Allora io dissi: "Signior mio, vostra Eccellenzia illustrissima m’ha dato facultà che io ho fatto 8 innella maggiore scuola del mondo una grande e difficilissima opera, la quale m’è stata lodata più che opera che mai si sia scoperta in questa divinissima scuola; e quello che più mi fa baldanzoso si è stato che quegli eccellenti uomini, che conoscono e che sono dell’arte, com’è ’l Bronzino pittore, questo uomo s’è affaticato e m’ha fatto quattro sonetti, dicendo le più iscelte e gloriose parole che sia possibil di dire; e per questa causa, di questo mirabile uomo, forse s’è mossa tutta la città a così gran romore; e io dico ben che se lui attendessi alla scultura, sì come ei fa alla pittura, lui sì, bene la potria forse saper fare. E più dico a vostra Eccellenzia illustrissima che il mio maestro Michelagniolo Buonaroti, sì bene, e’ n’arebbe fatta una così, quando egli era più giovane, e non arebbe durato manco fatiche che io mi abbia fatto; ma ora che gli è vecchissimo 9, egli nolla farebbe per cosa certa: di modo che io non credo che oggi ci sia notizia di uomo che la sapessi condurre. Sì che la mia opera ha ’uto il maggior premio che io potessi desiderare al mondo; e maggiormente, che vostra Eccellenzia illustrissima, non tanto che la si sia chiamata 10 contenta de l’opera mia, anzi più di ogni altro uomo quella 11 me l’ha lodata. O che maggiore e che più onorato premio si può egli desiderare? Io dico per certissimo che vostra Eccellenzia non mi poteva pagare di più gloriosa moneta; né con qualsivoglia tesoro certissimo e’ non si può agguagliare a questo: sì che io sono troppo pagato, e ne ringrazio vostra Eccellenzia illustrissima con tutto il cuore". A queste parole rispose il Duca e disse: "Anzi tu non pensi che io 12 abbia tanto che io te la possa pagare; e io ti dico che io te la pagherò molto più che la non vale". Allora io dissi: "Io non mi inmaginavo di avere altro premio da vostra Eccellenzia, ma io mi chiamo pagatissimo di quel primo 13 che m’ha dato la scuola, e con questo adesso adesso mi voglio ir con Dio, senza mai più tornare a quella casa che vostra Eccellenzia illustrissima mi donò, né mai più mi voglio curare di rivedere Firenze". Noi eravamo appunto da Santa Felicita 14 e sua Eccellenzia si ritornava a Palazzo. A queste mie collorose parole il Duca subito con gran ira si volse e mi disse: "Non ti partire, e guarda bene che tu non ti parta": di modo che io mezzo spaventato lo accompagniai a Palazzo. Giunto che sua Eccellenzia fu a Palazzo, ei chiamò il vescovo de’ Bartolini 15, che era arcivescovo di Pisa, e chiamò messer Pandolfo della Stufa, e disse loro che dicessino a Baccio Bandinelli da sua parte, che considerassi bene quella mia opera del Perseo, e che la stimassi, perché el Duca me la voleva pagare il giusto suo prezzo. Questi dua uomini dabbene subito trovorno il detto Bandinello, e fattegli la inbasciata, egli disse loro che quella opera ei l’aveva benissimo considerata, e che sapeva troppo bene quel che la valeva; ma per essere in discordia meco per altre faccende passate, egli non voleva inpacciarsi de’ casi mia in modo nessuno. Allora questi dua gentili uomini aggiunsono e dissono: "Il Duca ci ha detto che, sotto pena della disgrazia sua, che vi comanda che voi le diate prezzo; e se voi volete due o tre dì di tempo a considerarla bene, ve gli pigliate; dipoi dite a noi quel che e’ vi pare che quella fatica meriti". Il detto rispose che l’aveva benissimo considerata, e che non poteva mancare a’ comandamenti del Duca, e che quella opera era riuscita molto ricca e bella, di modo che gli pareva che la meritassi sedici mila scudi d’oro e da vantaggio 16. Subito i buoni gentili uomini lo riferirno al Duca, il quale si adirò malamente; e similmente ei17 lo ridissino a me. Ai quali io risposi che in modo nessuno io non volevo accettare le lode del Bandinello, avvenga che questo male uomo dicie mal di ogniuno. Queste mie parole furno riditte al Duca, e per questo voleva la Duchessa che io mi rimettessi in lei. Tutto questo si è la pura verità: basta che 18 io facevo il mio meglio a lasciarmi giudicare alla Duchessa, perché io sarei stato in breve pagato, e arei aùto quel più premio19.

 

XCVIII. Il Duca mi fecie intendere per 1 messer Lelio Torello, suo aulditore2, che voleva che io facessi certe storie di basso rilievo di bronzo intorno al coro di Santa Maria del Fiore3; e per essere il detto coro inpresa del Bandinello, io non volevo arricchire le sue operaccie con le fatiche mie; e con tutto che ’l detto coro non fussi suo disegnio, perché lui non intendeva nulla al mondo d’architettura — il disegnio si era di Giuliano di Baccio d’Agniolo, legniaiuolo, che guastò la cupola4 —: basta che e’ non v’è virtù nessuna; e per l’una e per l’altra causa io non volevo in modo nessuno far tal opera, ma umanamente 5 sempre dicevo al Duca che io farei tutto quello che mi comandassi sua Eccellenzia illustrissima, di modo che sua Eccellenzia commesse agli Operai di Santa Maria del Fiore 6 che fussino d’accordo meco, e che sua Eccellenzia mi darebbe solo la mia provvisione delli dugento scudi l’anno e che a ogni altra cosa voleva che i detti Operai sopperissino di quello 7 della ditta Opera. Di modo che io comparsi dinanzi alli detti Operai, i quali mi dissono tutto l’ordine che loro avevano dal Duca; e perché co’ loro e’ mi pareva molto più sicuramente poter dire le mie ragioni, cominciai a mostrar loro che tante storie di bronzo sariano di una grandissima spesa, la quale si era tutta gittata via; e dissi tutte le cagioni, per le quali eglino ne furno capacissimi 8. La prima si era che quel ordine di coro era tutto scorretto, ed era fatto senza nissuna ragione 9, né vi si vedeva né arte, né comodità, né grazia, né disegno; l’altra si era che le ditte storie andavano tanto poste basse, che le venivano troppo inferiore 10 alla vista, e che le sarebbono un pisciatoi’ da cani, e continue 11 starebbono piene d’ogni bruttura; e che per le ditte cagioni io in modo nessuno nolle volevo fare. Solo per non gittar via il resto dei mia migliori anni e non servire 12 sua Eccellenzia illustrissima, al quale io desideravo tanto di piacere e servire: inperò, se sua Eccellenzia si voleva servir delle fatiche mie, quella 13 mi lasciassi fare la porta di mezzo di Santa Maria del Fiore, la quale sarebbe opera che sarebbe veduta, e sarebbe molto più gloria di sua Eccellenzia illustrissima; e io mi ubbrigherei per contratto che, se io nolla facessi meglio di quella, che è più bella 14, delle porte di San Giovanni, non volevo nulla delle mie fatiche; ma se io la conducevo sicondo la mia promessa, io mi contentavo che la si facessi stimare, e dappoi mi dessino mille scudi di manco di quello che dagli uomini dell’arte la fussi stimata. A questi Operai molto piacque questo che io avevo lor proposto, e andorno a parlarne al Duca, che fu, in fra gli altri, Piero Salviati, pensando di dire al Duca cosa che gli fussi gratissima; e la gli fu tutto’l contrario; e disse15 che io volevo sempre fare tutto ’l contrario di quello che gli piaceva che io facessi; e sanza altra conclusione il detto Piero si partì dal Duca. Quando io intesi questo, subito me n’andai a trovare ’l Duca, il quale mi si mostrò alquanto sdegniato meco; il quali io pregai che si degniassi di ascoltarmi, ed ei così mi promesse: di modo che io mi cominciai da un capo; e con tante belle ragioni gli detti ad intendere la verità di tal cosa, mostrando a sua Eccellenzia che l’era una grande spesa gittata via: di sorte che io l’avevo molto addolcito con dirgli che se a sua Eccellenzia illustrissima non piaceva che e’ si facessi quella porta, che egli era di necessità il fare a quel coro dua pergami 16, e che quegli sarebbono due grande opere e sarebbono gloria di sua Eccellenzia illustrissima, e che io vi farei una gran quantità di storie di bronzo, di basso rilievo, con molti ornamenti: così io lo ammorbidai 17 e mi commesse che io facessi i modegli. Io feci più modelli e durai grandissime fatiche; e infra gli altri ne feci uno a otto faccie, con molto maggiore studio che io non avevo fatto gli altri, e mi pareva che e’ fussi molto più comodo 18 al servizio che gli aveva a fare. E perché io gli avevo portati più volte a Palazzo, sua Eccellenzia mi fece intendere per messer Cesere, guardaroba 19, che io gli lasciassi. Dappoi che ’l Duca gli aveva veduti, vidi che di quei sua Eccellenzia aveva scelto il manco bello. Un giorno sua Eccellenzia mi fe’ chiamare, e innel ragionare di questi detti modelli io gli dissi e gli mostrai con molte ragioni che quello a otto faccie saria stato molto più comodo a cotal servizio, e molto più bello da vedere. Il Duca mi rispose che voleva che io lo facessi quadro, perché gli piaceva molto più in quel modo; e così molto piacevolmente ragionò un gran pezzo meco. Io non mancai di non 20 dire tutto quello che mi occorreva, in difensione dell’arte. O che il Duca conosciessi che io dicevo’l vero, e pur volessi fare a suo modo, e’si stette di21 molto tempo che e’ non mi fu detto nulla.

 

XCIX. In questo tempo 1 il gran marmo del Nettunno 2 si era stato portato per il fiume d’Arno e poi condotto per la Grieve 3 in sulla strada del Poggio a Caiano, per poterlo poi meglio condurre a Firenze per quella strada piana, dove io lo andai a vedere. E se bene io sapevo certissimo che la Duchessa l’aveva per suo propio favore fatto avere al cavalieri Bandinello; non per invidia che io portassi al Bandinello, ma sì bene mosso a pietà del povero mal fortunato marmo (guardisi che qual cosa e’ si sia, la quale sia sottoposta a mal destino4, che un la cerchi scampare da qualche evidente male, gli avviene che la cade in molto peggio, come fecie il detto marmo alle man5di Bartolomeo Ammannato, del quale si dirà ’l vero al suo luogo 6) veduto che io ebbi il bellissimo marmo, subito presi la sua altezza e la sua grossezza per tutti i versi, e tornatomene a Firenze, feci parecchi modellini a proposito. Dappoi io andai al Poggio a Caiano, dove era il Duca e la Duchessa e ’l Principe7 lor figliuolo; e trovandogli tutti a tavola, il Duca con la Duchessa mangiava ritirato 8, di modo che io mi missi a trattenere 9 il Principe. E avendolo trattenuto un gran pezzo, il Duca, che era in una stanza ivi vicino, mi sentiva, e con molto favore e’ mi fecie chiamare; e giunto che io fui alle presenze di loro Eccellenzie, con molte piacevole parole la Duchessa cominciò a ragionar meco: con el qual10ragionamento, a poco a poco io cominciai a ragionar di quel bellissimo marmo, che io avevo veduto; e cominciai a dire come la lor nobilissima scuola i loro antichi 11 l’avevano fatta così virtuosissima, solo per far fare a gara 12 tutti i virtuosi nelle lor professione; e in quel virtuoso modo 13 ei s’era fatto la mirabil cupola, e le bellissime porte di Santo Giovanni 14, e tant’altri bei tempii e statue, le quali facevano una corona di tante virtù a la lor città, la quale dagli antichi in qua la non aveva mai aùto pari. Subito la Duchessa con istizza mi disse che benissimo lei sapeva quello che io volevo dire; e disse che alla presenza sua io mai più parlassi di quel marmo, perché io gnele facevo dispiacere. Dissi: "Addunche vi fo io dispiacere per volere essere proccuratore15di vostre Eccellenzie,facendo ogni opera perché le sieno servite meglio? Considerate, Signiora mia: se vostre Eccellenzie illustrissime si contentano che ogniuno facci un modello di un Nettunno, se bene voi siate resoluti che l’abbia il Bandinello, questo sarà causa che ’l Bandinello per onor suo si metterà con maggiore studio a fare un bel modello, che e’ non farà sapendo di non avere concorrenti; e in questo modo voi, Signiori, sarete molto meglio serviti e non torrete l’animo 16 alla virtuosa scuola, e vedrete chi si desta al bene 17: io dico al bel modo di questa mirabile arte, e mosterrete voi Signiori di dilettarvene e d’intendervene". La Duchessa con gran còllora mi disse che io l’avevo fradicia 18, e che voleva che quel marmo fussi del Bandinello, e disse: "Dimandane il Duca, ché anche sua Eccellenzia vole che e’ sia del Bandinello". Detto che ebbe la Duchessa, il Duca, che era sempre stato cheto, disse: "Gli è venti anni che io feci cavare 19 quel bel marmo apposta per il Bandinello, e così io voglio che il Bandinello l’abbia, e sia suo". Subito io mi volsi al Duca, e dissi: "Signior mio, io priego vostra Eccellenzia illustrissima che mi faccia grazia che io dica a vostra Eccellenzia quattro parole per suo servizio 20". Il Duca mi disse che io dicessi tutto quello che io volevo, e che e’ mi ascolterebbe. Allora io dissi: "Sappiate, Signior mio, che quel marmo, di che ’l Bandinello fecie Ercole e Cacco, e’ fu cavato per quel mirabil Michelagniolo Buonaroti, il quale aveva fatto un modello di un Sensone 21 con quattro figure, il quale saria stato la più bella opera del mondo; e il vostro Bandinello ne cavò dua figure sole, mal fatte e tutte rattoppate: il perché la virtuosa scuola ancor grida del gran torto che si fecie a quel bel marmo. Io credo che e’ vi fu appiccato più di mille sonetti, in vitupero 22 di cotesta operaccia; e io so che vostra Eccellenzia illustrissima benissimo se ne ricorda. E però, valoroso mio Signiore, se quegli uomini che avevano cotal cura furno tanto insapienti 23, che loro tolsono quel bel marmo a Michelagniolo, che fu cavato per lui, e lo dettono al Bandinello, il quale lo guastò, come si vede: oh! comporterete 24 voi mai che questo ancor molto più bellissimo marmo, se bene gli è del Bandinello, il quale lo guasterebbe, di nollo dare ad uno altro valent’uomo che ve lo acconci? Fate, Signior mio, che ogniuno che vuole faccia un modello e dipoi tutti si scuoprano alla scuola, e vostra Eccellenzia illustrissima sentirà quel che la scuola dicie; e vostra Eccellenzia con quel suo buon iudizio saprà scerre 25 il meglio, e in questo modo voi non gitterete via i vostri dinari, né manco torrete l’animo virtuoso a una tanto mirabile scuola, la quale si è oggi unica al mondo: che è tutta gloria di vostra Eccellenzia illustrissima". Ascoltato che il Duca m’ebbe benignissimamente, subito si levò da tavola e voltomisi, disse: "Va, Benvenuto mio, e fa un modello, e guadàgniati quel bel marmo, perché tu mi di’ il vero, e io lo conosco26 ". La Duchessa minacciandomi col capo, isdegniata disse borbottando non so che; e io feci lor reverenza, e me ne tornai a Firenze, che mi pareva mill’anni di metter mano nel detto modello.

 

C. Come il Duca venne a Firenze, senza farmi intendere nulla e’ se ne venne a casa mia, dove io gli mostrai dua modelletti 1 diversi l’uno da l’altro; e sebbene egli me gli lodò tutt’a dua, e’ mi disse che uno gnele piaceva più dell’altro, e che io finissi bene quello che gli piaceva, che buon per me; e perché sua Eccellenzia aveva veduto quello che aveva fatto il Bandinello e anche degli altri, sua Eccellenzia lodò molto più il mio da 2 gran lunga, ché così mi fu detto da molti dei sua cortigiani, che l’avevano sentito. Infra l’altre notabile memorie, da farne conto grandissimo, si fu che essendo venuto a Firenze il cardinale di Santa Fiore 3, e menandolo il Duca al Poggio a Caiano, innel passare, per il viaggio, e vedendo il detto marmo, il Cardinale lo lodò grandemente, e poi domandò a chi sua Eccellenzia lo aveva dedicato 4 che lo lavorassi. Il Duca subito disse: "Al mio Benvenuto, il quale ne ha fatto un bellissimo modello". E questo mi fu ridetto da uomini di fede; e per questo io me n’andai a trovare la Duchessa e gli portai alcune piacevole cosette dell’arte mia, le quale sua Eccellenzia illustrissima l’ebbe molto care; dipoi la mi dimandò quello che io lavoravo: alla quale io dissi: "Signiora mia, io mi sono preso per piacere di fare una delle più faticose opere che mai si sia fatte al mondo; e questo si è un Crocifisso di marmo bianchissimo, in su una crocie di marmo nerissimo, ed è grande quanto un grande uomo vivo". Subito la mi dimandò quello che io ne volevo fare. Io le dissi: "Sappiate, Signiora mia, che io nollo darei a chi me ne dessi dumila ducati d’oro in oro: perché una cotale opera nissuno uomo mai non s’è messo a una cotale estrema fatica; né manco io non mi sarei ubbrigato a farlo per qualsivoglia Signiore, per paura di non restarne in vergognia 5. Io mi sono comperato i marmi di mia danari, e ho tenuto un giovane in circa a dua anni, che m’ha aiutato, e infra marmi e ferramenti in su che gli è fermo 6, e salarii, e’ mi costa più di trecento scudi: a tale che io nollo darei per dumila scudi d’oro; ma se vostra Eccellenzia illustrissima mi vuol fare una lecitissima grazia, io gnele farò volentieri un libero presente 7: solo priego vostra Eccellenzia illustrissima che quella non mi sfavorisca, né manco non 8 mi favorisca nelli modelli che sua Eccellenzia illustrissima si ha commesso che si faccino del Nettunno per il gran marmo". Lei disse con molto sdegnio: "Addunche tu non istimi punto. i mia aiuti o mia disaiuti 9?" "Anzi, gli stimo, Signiora mia; o perché vi offero io di donarvi quello che io stimo dumila ducati? Ma io mi fido tanto delli mia faticosi e disciplinati studii, che io mi prometto 10 di guadagniarmi la palma, se bene e’ci fussi11 quel gran Michelagniolo Buonaroti, dal quale, e non mai da altri, io ho inparato tutto quel che io so; e mi sarebbe molto più caro che e’ facessi un modello lui, che sa tanto, che questi altri che sanno poco: perché con quel mio così gran maestro io potrei guadagniare assai, dové 12 con questi altri non si può guadagniare". Dette le mie parole, lei mezzo sdegniata si levò, e io ritornai al mio lavoro sollicitando il mio modello quanto più potevo. E finito che io lo ebbi, il Duca lo venne a vedere, ed era seco dua inbasciatori, quello del duca di Ferrara e quello della Signioria di Lucca 13; e così ei piacque grandemente, e il Duca disse a quei Signiori: "Benvenuto veramente lo merita". Allora li detti mi favorirno 14 grandemente tutt’a dua, e più lo inbasciatore di Lucca, che era persona litterata e dottore. Io, che mi ero scostato alquanto, perché e’ potessino dire tutto quello che pareva loro. sentendomi favorire, subito mi accostai, e voltomi al Duca, dissi: "Signior mio, vostra Eccellenzia illustrissima doverrebbe fare ancora un’altra mirabil diligenzia: comandare che chi vole faccia un altro modello di terra, della grandezza appunto che gli escie 15 di quel marmo; e a quel modo vostra Eccellenzia illustrissima vedrà molto meglio chi lo merita; e vi dico che se vostra Eccellenzia lo darà a chi nollo merita, quella 16 non farà torto a quel che lo merita, anzi la farà un gran torto a se medesima, perché la n’acquisterà danno e vergognia; dove faccendo il contrario, cone il darlo a chi lo merita, in prima ella ne acquisterà gloria grandissima e spenderà bene il suo tesoro, e le persone virtuose allora crederanno che quella se ne diletti e se ne intenda". Subito che io ebbi ditte queste parole, il Duca si ristrinse nelle spalle, e avviatosi per andarsene, lo inbasciatore di Lucca disse al Duca: “Signiore, questo vostro Benvenuto si è un terribile uomo". Il Duca disse: "Gli è molto più terribile che voi non dite; e buon per lui se e’ non fussi stato così terribile, perché gli arebbe aùto a quest’ora delle cose che e’ non ha aùte". Queste formate17 parole me le ridisse il medesimo inbasciatore, quasi riprendendomi che io non dovessi fare così. Al quale io dissi che io volevo bene al mio Signiore, come suo amorevol fidel servo, e non sapevo fare lo adulatore. Di poi parecchi settimane passate, il Bandinello si morì 18, e si credette che, oltre ai sua disordini, che questo dispiacere, vedutosi perdere il marmo, ne fussi buona causa.

 

CI. Il detto Bandinello aveva inteso come io avevo fatto quel Crocifisso che io ho detto di sopra: egli subito messe mano in un pezzo di marmo, e fecie quella Pietà che si vede nella chiesa della Nunziata 1. E perché io avevo dedicato 2 il mio Crocifisso a Santa Maria Novella, e di già vi avevo appiccati gli arpioni per mettervelo, solo domandai di fare sotto i piedi del mio Crocifisso, in terra, un poco di cassoncino, per entrarvi dipoi che io sia morto. I detti frati mi dissono che non mi podevano concedere tal cosa, sanza il dimandarne i loro Operai: ai quali io dissi: "O frati, perché non domandasti voi in prima gli Operai nel dar luogo al mio bel Crocifisso, che senza lor licenzia voi mi avete lasciato mettere gli arpioni e l’altre cose?" E per questa cagione io non volsi dar più alla chiesa di Santa Maria Novella le mie tante estreme fatiche, se bene dappoi e’ mi venne a trovare quegli Operai, e me ne pregorno. Subito mi volsi alla chiesa della Nunziata, e ragionando di darlo in quel modo che io volevo a Santa Maria Novella, quegli virtuosi frati di detta Nunziata tutti d’accordo mi dissono che io lo mettessi nella lor chiesa, e che io vi facessi la mia sepoltura in tutti quei modi che a me pareva e piaceva. Avendo presentito questo il Bandinello, e’ si misse con gran sollecitudine a finire la sua Pietà, e chiese alla Duchessa che gli facessi avere quella cappella che era de’ Pazzi 3: la quale s’ebbe con difficultà; e subito che egli l’ebbe, con molta prestezza ei messe sù la su’ opera, la quale non era finita del tutto, che egli si morì. La Duchessa disse che ella lo aveva aiutato in vita, e che lo aiuterebbe ancora in morte; e che se bene gli era morto, che io non facessi mai disegnio d’avere quel marmo. Dove Bernardone sensale mi disse un giorno, incontrandoci in villa, chi 4 la Duchessa aveva dato 5 il marmo: al quale io dissi: "Oh sventurato marmo! certo che alle mani del Bandinello egli era capitato male, ma alle mani dell’Ammanato gli è capitato cento volte peggio!" Io avevo aùto ordine dal Duca di fare il modello di terra, della grandezza che gli usciva del marmo6 e mi aveva fatto provvedere di legni e terra, e mi fecie fare un poco di parata7 nella loggia, dove è il mio Perseo, e mi pagò un manovale. Io messi mano con tutta la sollicitudine che io potevo, e feci l’ossatura di legnio con la mia buona regola, e feliciemente lo tiravo al suo fine 8, non mi curando 9 di farlo di marmo, perché io conoscievo che la Duchessa si era disposta che io noll’avessi, e per questo io non me ne curavo: solo mi piaceva di durare quella fatica, colla quale io mi promettevo che, finito che io lo avessi, la Duchessa, che era pure persona d’ingegnio, avvenga che la l’avessi dipoi veduto, io mi promettevo che e’ le sarebbe incresciuto d’aver fatto al marmo e a se stessa un tanto smisurato torto. E’ ne faceva uno Giovanni Fiammingo10 ne’ chiostri di Santa Crocie, e uno ne facieva Vincenzio Danti, perugino, in casa messer 11 Ottaviano de’ Medici; un altro ne cominciò il figliuolo del Moschino 12 a Pisa, e ’n altro lo faceva Bartolomeo Ammannato nella Loggia, ché cie l’avevano divisa13. Quando io l’ebbi tutto ben bozzato 14, e volevo cominciare a finire la testa, che di già io gli avevo dato un poco di prima mana, il Duca era sceso del Palazzo, e Giorgetto 15 pittore lo aveva menato nella stanza dell’Ammannato, per fargli vedere il Nettunno, in sul quale il detto Giorgino aveva lavorato di sua mano di molte giornate insieme co ’l detto Ammannato e con tutti i sua lavoranti. In mentre che ’l Duca lo vedeva, e’ mi fu detto che e’ se ne sattisfacieva molto poco; e se bene il detto Giorgino lo voleva empiere di quelle sue cicalate, il Duca scoteva ’l capo, e voltosi al suo messer Gianstefano 16, disse: "Va, e dimanda Benvenuto se il suo gigante è di sorte innanzi, che ei si contentassi di darmene un poco di vista 17”. Il detto messer Gianstefano molto accortamente e benignissimamente mi fece la inbasciata da parte del Duca; e di più mi disse che se l’opera mia non mi pareva che la fussi ancora da mostrarsi, che io liberamente lo dicessi: perché il Duca conoscieva benissimo che io avevo auto pochi aiuti a una così grande inpresa. Io dissi che e’ venissi di grazia 18, e se bene la mia opera era poco innanzi, lo ingegnio di sua Eccellenzia illustrissima si era tale che benissimo lo giudicherebbe quel che ei potessi riuscire finito. Così il detto gentile uomo fecie la inbasciata al Duca, il quale venne volentieri; e subito che sua Eccellenzia entrò nella stanza, gittato gli occhi alla mia opera, ei mostrò d’averne molta sattisfazione; di poi gli girò tutto all’intorno, fermandosi alle quattro vedute 19, che non altrimenti si arebbe fatto uno che fussi stato peritissimo dell’arte; di poi fecie molti gran segni e atti di dimostrazione di piacergli, e disse solamente: "Benvenuto, tu gli hai a dare solamente una ultima pelle 20”; poi si volse a quei che erano con sua Eccellenzia, e disse molto bene della mia opera, diciendo: "Il modello piccolo, che io vidi in casa sua, mi piacque assai; ma questa sua opera si ha trapassato la bontà del modello".

CII. Sì come piacque a Iddio, che ogni cosa fa per il nostro meglio — io dico di quegli che lo ricognioscono e che gli credono, sempre Iddio gli difende —, in questi giorni mi capitò innanzi un certo ribaldo da Vicchio 1, chiamato Piermaria d’Anterigoli, e per sopra nome lo Sbietta2: l’arte di costui si è il pecoraio, e perché gli è parente stretto di messer Guido Guidi, medico e oggi proposto di Pescia 3, io gli prestai orecchi 4. Costui mi offerse di vendermi un suo podere a vita mia naturale; il qual podere io nollo volsi vedere, perché io avevo desiderio di finire il mio modello del gigante Nettunno; e ancora perché e’ non faceva di bisognio 5 che io lo vedessi, perché egli me lo vendeva per entrata 6: la quale il detto mi aveva dato in nota di tante moggia 7 di grano e di vino, olio e biade e marroni 8 e vantaggi 9, i quali io facevo il mio conto che al tempo che noi eravamo le dette robe valevano molto più di cento scudi d’oro in oro, e io gli davo secento cinquanta scudi contando le gabelle 10. Di modo che, avendomi lasciato scritto di sua mano che mi voleva sempre, per tanto quanto io vivevo, mantenere le dette entrate, io non mi curai d’andare a vedere il detto podere; ma sì bene io, il meglio che io potetti, mi informai se il detto Sbietta e ser Filippo 11, suo fratello carnale, erano di modo benestanti che io fussi sicuro. Così da molte persone diverse che gli conoscievano, mi fu detto che io ero sicurissimo. Noi chiamammo d’accordo ser Pierfrancesco Bertoldi, notaio alla Mercatanzia 12; e la prima cosa io gli detti in mano 13 tutto quello che ’l detto Sbietta mi voleva14 mantenere, pensando che la detta scritta si avessi a nominare innel contratto: di modo ch ’l detto notaio, che lo rogò, attese a’ ventidua confini 15, che gli diceva il detto Sbietta, e sicondo me ei non si ricordò di includere nel detto contratto quello che ’l detto venditore mi aveva offerto; e io, in mentre che ’l notaio scriveva, io lavoravo; e perché ei penò 16 parecchi ore a scrivere, io feci un gran brano della testa del detto Nettunno. Così avendo finito il detto contratto, lo Sbietta mi cominciò a fare le maggior carezze del mondo, e io facevo ’l simile a lui. Egli mi presentava cavretti, caci, capponi, ricotte e molte frutte, di modo che io mi cominciai mezzo mezzo a vergogniare; e per queste amorevolezze io lo levavo, ogni volta che lui veniva a Firenze, d’in su la osteria 17; e molte volte gli era con qualcuno dei sua parenti, i quali venivano ancora 18 loro; e con piacevoli modi egli mi cominciò a dire che gli era una vergognia che io avessi compro 19 un podere, e che oramai gli era passato tante settimane, che io non mi risolvessi di lasciare per tre dì un poco le mie facciende ai mia lavoranti, e andassilo a vedere. Costui potette tanto cone ’l suo lusingarmi che io pure in mia mal’ora20 l’andai a vedere; e il detto Sbietta mi ricevvé 21 in casa sua con tante carezze e con tanto onore, che ei non ne poteva far più a un Duca; e la sua moglie mi facieva più carezze di lui; e in questo modo noi durammo un pezzo, tanto che e’ gli venne fatto tutto quello che gli avevano disegniato di fare, lui e ’l suo fratello ser Filippo.

CIII. Io non mancavo di sollicitare il mio lavoro del Nettunno, e di già l’avevo tutto bozzato, sì come io dissi di sopra, con bonissima regola, la quale non l’ha mai usata né saputa nessuno innanzi a me: di modo che, se bene io ero certo di non avere il marmo per le cause dette di sopra, io mi credevo presto di aver finito, e subito lasciarlo vedere alla Piazza, solo per mia sattisfazione. La stagione si era calda e piacevole, di modo che, essendo tanto carezzato da questi dua ribaldi 1, io mi mossi un mercoledì, che era dua feste2,di villa mia a Trespiano 3, e avevo fatto buona colezione, di sorte che gli era più di venti ore quando io arrivai a Vicchio; e subito trovai ser Filippo alla porta di Vicchio, il qual pareva che sapessi come 4 io vi andavo: tante carezze ei mi fecie e menatomi a casa dello Sbietta, dove era la sua inpudica moglie, ancora lei mi fecie carezze smisurate; alla quale io donai un cappello di paglia finissimo: perché ella disse di non aver mai veduto il più bello. Allora e’ non v’era lo Sbietta. Appressandosi alla sera, noi cenammo tutti insieme molto piacevolmente; di poi mi fu dato una onorevol camera, dove io mi riposai in un pulitissimo letto; e a dua mia servitori fu dato loro il simile, secondo il grado loro. La mattina, quando mi levai, e’ mi fu fatto le medesime carezze. Andai a vedere il mio podere, il quale mi piacque; è mi fu consegniato tanto grano e altre biade; e di poi, tornatomene a Vicchio, il prete ser Filippo mi disse: "Benvenuto, non vi dubitate: ché se bene voi non vi avessi trovato tutto lo intero di quello che e’ v’è stato promesso, state di buona voglia, ché e’ vi sarà attenuto 5 da vantaggio, perché voi vi siete inpacciato 6 con persone dabbene; e sappiate che cotesto lavoratore noi gli abbiamo dato licenzia 7, perché gli è un tristo". Questo lavoratore si chiamava Mariano Rosegli, il quale più volte mi disse: "Guardate bene a’ fatti vostri, ché alla fine voi conoscierete chi sarà di noi il maggior tristo". Questo villano, quando ei mi diceva queste parole, egli sogghigniava in un certo mal modo, dimenando’l capo, come dire: "Va pur là, che tu te n’avvedrai". Io ne feci un poco di mal giudizio, ma io non mi immaginavo nulla di quello che mi avvenne. Ritornato dal podere, il quale si è due miglia discoste da Vicchio, inverso l’alpe 8, trovai il detto prete, che colle sue solite carezze mi aspettava; così andammo a fare colezione tutti insieme: questo non fu desinare, ma fu una buona colezione. Dipoi andandomi a spasso per Vicchio, di già egli era cominciato il mercato; io mi vedevo guardare da tutti quei di Vicchio come cosa disusa da vedersi, e più che ogni altri da un uomo dabbene, che si sta, di molti anni sono, in Vicchio, e la sua moglie fa del pane a vendere. Egli ha quivi presso a un miglio certe sue buone possessione: però si contenta di stare a quel modo. Questo uomo dabbene abita una mia casa, la quale si è in Vicchio, che mi fu consegniata con il detto podere, qual si domanda il podere della Fonte; e mi disse: "Io sono in casa vostra, e al suo tempo io vi darò la vostra pigione; o vorretela innanzi9, in tutti i modi che vorrete farò: basta che meco voi sarete sempre d’accordo". E in mentre che noi ragionavamo, io vedevo che questo uomo mi affisava gli occhi addosso: di modo che io, sforzato da tal cosa, gli dissi: "Deh ditemi, Giovanni 10 mio caro, perché voi più volte mi avete così guardato tanto fiso?" Questo uomo dabbene mi disse: "Io ve lo dirò volentieri, se voi, da quello uomo che voi siate, mi promettete di non dire che io ve l’abbia detto". Io così gli promessi. Allora ei mi disse: "Sappiate che quel pretaccio di ser Filippo, e’ non sono troppi giorni, che lui si andava vantando delle valenterie 11 del suo fratello Sbietta, dicendo come gli aveva venduto il suo podere a un vecchio a vita sua, il quale e’ non arriverebbe all’anno intero. Voi vi siate inpacciato con parecchi ribaldi, sì che ingegniatevi di vivere il più che voi potete, e aprite gli occhi, perché ei vi bisognia 12: io non vi voglio dire altro".

 

CIV. Andando a spasso per il mercato, vi trovai Giovanbatista Santini, e lui e io fummo menati a cena dal detto prete; e, sì come io ho detto per l’addietro, egli era in circa alle venti ore, e per causa mia e’ si cenò così a buon’otta1, perché avevo detto che la sera io mi volevo ritornare a Trespiano: di modo che prestamente e’ si messe in ordine 2, e la moglie dello Sbietta si affaticava, e infra gli altri un certo Cecchino Buti, lor lancia3. Fatto che furno le insalate, e cominciando a volere entrare a tavola, quel detto mal prete, faccendo un certo suo cattivo risino, disse: "E’ bisogna che voi mi perdoniate, perché io non posso cenar con esso voi, perché e’ m’è sopragiunto una faccenda di grande inportanza per conto dello Sbietta, mio fratello: per non ci essere lui, bisognia che io sopperisca per lui". Noi tutti lo pregammo e non potemmo mai svoggerlo 4: egli se n’andò, e noi cominciammo a cenare. Mangiato che noi avemmo le insalate in certi piattelloni comuni, cominciandoci a dare carne lessa, venne una scodella per uno. Il Santino, che mi era a tavola al dirimpetto, disse: "A voi e’ danno tutte le stoviglie diferente da quest’altre: or vedesti voi mai le più belle?" Io gli dissi che di tal cosa io non me n’ero avveduto. Ancora ei mi disse che io chiamassi a tavola la moglie dello Sbietta, la quale, lei e quel Cecchino Buti, correvono innanzi e indietro, tutti infaccendati istrasordinatamente5.In fine io pregai tanto quella donna che la venne; la quale si doleva, dicendomi: "Le mie vivande non vi sono piaciute: però 6 voi mangiate così poco". Quando io l’ebbi parecchi volte lodato la cena, dicendole che io non mangiai mai né più di voglia né meglio, all’utimo io dissi che io mangiavo il 7 mio bisognio appunto. Io non mi sarei mai inmaginato perché quella donna mi faceva tanta ressa 8 che io mangiassi. Finito che noi avemmo di cenare, gli era passato le ventun’ora, e io avevo desiderio di tornarmene la sera a Trespiano, per potere andare l’altro giorno al mio lavoro della Loggia: così dissi addio a tutti, e ringraziato la donna mi parti’. Io non fui discosto tre miglia che e’ mi pareva che lo stomaco mi ardessi, e mi sentivo travagliato di sorte 9, che e’ mi pareva mill’anni di arrivare al mio podere di Trespiano. Come a Dio piacque arrivai di notte, con gran fatica, e subito detti ordine di andarmene a riposare. La notte io non mi potetti mai riposare, e di più mi si mosse ’l corpo10, il quale mi sforzò parecchi volte a ’ndare al destro11, tanto che, essendosi fatto dì chiaro, io sentendomi ardere il sesso 12, volsi vedere che cosa la fussi: trovai là pezza molto sanguinosa. Subito io mi inmaginai di aver mangiato qualche cosa velenosa, e più e più volte mi andavo esaminando da me stesso, che cosa la potessi essere stata; e mi tornò in memoria quei piatti e scodelle e scodellini, datimi differenziati 13dagli altri, la detta moglie dello Sbietta; e perché quel mal prete, fratello del detto Sbietta, ed essendosi tanto affaticato in farmi tanto onore, e poi non volere restare a cena con esso noi; e ancora mi tornò in memoria l’aver detto il detto prete come il suo Sbietta aveva fatto un sì bel colpo con l’aver venduto un podere a un vecchio a vita, il quale non passerebbe mai l’anno: ché tal parole me l’aveva ridette quell’uomo dabbene di Giovanni Sardella. Di modo che io mi risolsi che eglino m’avessino dato in uno scodellino di salsa, la quale si era fatta molto bene e molto piacevole da mangiare, una presa di silimato 14, perché il silimato fa tutti quei mali che io mi vedevo d’avere; ma perché io uso di mangiare poche salse o savori 15 colle carne, altro che ’l sale, inperò e’ mi venne mangiato dua bocconcini di quella salsa, per essere così buona alla bocca. E mi andavo ricordando come molte volte la detta moglie dello Sbietta mi sollicitava con diversi modi, dicendomi che io mangiassi quella salsa: di modo che io conobbi per certissimo che con quella detta salsa eglino mi avevano dato quel poco del silimato.

 

CV. Trovandomi in quel modo afflitto, a ogni modo andavo a lavorare alla ditta Loggia il mio gigante: tanto che in pochi giorni appresso il gran male mi sopra fecie1 tanto che ei mi fermò 2 nel letto. Subito che la Duchessa sentì che io ero ammalato, la fecie dare la opera del disgraziato marmo libera a Bartolomeo dell’Ammannato, il quale mi mandò a dire per messer...3 che io facessi quel che io volessi del mio cominciato modello, perché lui si aveva guadagnato il marmo. Questo messer... si era uno degli innamorati della moglie del detto Bartolomeo Ammannato; e perché gli era il più favorito come gentile e discreto, questo detto Ammannato gli dava tutte le sue comodità 4, delle quali ci sarebbe da dire di gran cose. Inper ò io non voglio fare come il Bandinello, suo maestro, che con i ragionamenti uscì dell’arte5: basta che io dissi io me l’ero sempre indovinato; e che dicessi a Bartolomeo che si affaticassi, acciò che ei dimostrassi di saper buon grado 6 alla fortuna di quel tanto favore, che così immeritamente la gli aveva fatto. Così malcontento mi stavo in letto, e mi facevo medicare da quello eccellentissimo uomo di maestro Francesco da Monte Varchi, fisico 7, e insieme seco mi medicava di cerusìa maestro Raffaello de’ Pilli: perché quel silimato mi aveva di sorte arso il budello del sesso 8, che io non ritenevo punto lo sterco. E perché il detto maestro Francesco, conosciuto che il veleno aveva fatto tutto il male che e’ poteva, perché e’ non era stato tanto che gli avessi sopra fatta la virtù della valida natura, che lui trovava in me, inperò mi disse un giorno: "Benvenuto, ringrazia Iddio, perché tu hai vinto; e non dubitare che io ti voglio guarire, per far dispetto ai ribaldi che t’hanno voluto far male". Allora maestro Raffaellino disse: "Questa sarà una delle più belle e delle più difficil cure, che mai ci sia stato notizia: sappi, Benvenuto, che tu hai mangiato un boccone di silimato". A queste parole maestro Francesco gli dette in su la vocie e disse: "Forse fu egli qualche bruco velenoso". Io dissi che certissimo sapevo che veleno gli era e chi me l’aveva dato; e qui ogniuno di noi tacietté. Eglino mi attesono a medicare più di sei mesi interi; e più di uno anno stetti, innanzi che io mi potessi prevalere 9 della vita mia.

 

CVI. In questo tempo il Duca se n’andò a fare l’entrata a Siena 1, e l’Ammannato era ito certi mesi innanzi a fare gli archi trionfali. Un figliuolo bastardo, che aveva l’Ammannato, si era restato nella Loggia, e mi aveva levato certe tende che erano in sul mio modello del Nettunno, che per non essere finito io lo tenevo coperto. Subito io mi andai a dolere al signior don Francesco, figliuolo del Duca, il quale mostrava di volermi bene, e gli dissi come e’ mi avevano scoperto la mia figura, la quale era inprefetta 2: ché se la fussi stata finita, io non me ne sarei curato. A questo mi rispose il detto Principe, alquanto minacciando col capo, e disse: "Benvenuto, non ve ne curate che la stia scoperta, perché e’ fanno tanto più contra di loro; e se pure voi vi contentate che io ve la faccia coprire, subito la farò coprire". E con queste parole sua Eccellenzia illustrissima aggiunse molte altre in mio gran favore, alla presenza di molti Signiori. Allora io gli dissi che lo pregavo sua Eccellenzia mi dessi comodità che io lo potessi finire, perché ne volevo fare un presente insieme con il piccol modellino a sua Eccellenzia. Ei mi rispose che volentieri accettava l’uno e l’altro, e che mi farebbe dare tutte comodità che io domanderei. Così io mi pasce’ di questo poco del favore, che mi fu causa di salute della vita mia: perché essendomi venuti tanti smisurati mali e dispiaceri a un tratto, io mi vedevo mancare 3; per quel poco del favore mi confortai con qualche speranza di vita.

 

CVII. Essendo di già passato l’anno che io avevo il podere della Fonte dallo Sbietta, e oltra tutti i dispiaceri fattimi e di veleni e d’altre loro ruberie, veduto che ’l detto podere non mi fruttava alla metà di quello che loro me lo avevano offerto1,e ne avevo, oltre a i contratti, una scritta di mano dello Sbietta, il quale mi si ubbrigava con testimoni a mantenermi le dette entrate, io me n’andai a’ signior Consiglieri: ché in quel tempo viveva messer Alfonso Quistello ed era fiscale, e si ragunava con i signiori Consiglieri; e de’ Consiglieri si era Averardo Serristori e Federigo de’ Ricci: io non mi ricordo del nome di tutti: ancora n’era uno degli Alessandri: basta che gli era2 una sorte di uomini di gran conto. Ora avendo conte a le mie ragioni al magistrato, tutti a una vocie volevano che ’l detto Sbietta mi rendessi li mia dinari, salvo che Federigo de’ Ricci, il quale si serviva in quel tempo del detto Sbietta: di sorte che tutti si condolsono 4 meco che Federigo de’ Ricci teneva 5 che loro non me la spedivan6; e infra gli altri Averardo Serristori con tutti gli altri; ben che lui faceva un rimore strasordinario 7, e ’l simile quello degli Alessandri: che avendo il detto Federigo tanto trattenuto la cosa che ’l magistrato aveva finito l’uffizio 8, mi trovò il detto gentiluomo una mattina, di poi che gli erano usciti in su la piazza della Nunziata, e senza un rispetto al mondo 9 con alta vocie disse: "Federigo de’ Ricci ha tanto potuto più di tutti noi altri, che tu se’ stato assassinato10 contro la voglia nostra". Io non voglio dire altro sopra di questo, perché troppo si offenderebbe chi ha la suprema potestà del governo: basta che io fui assassinato a posta 11 di un cittadino ricco, solo perché e’ si serviva di quel pecoraio 12.

 

CVIII. Trovandosi il Duca a Livorno, io lo andai a trovare, solo per chiedergli licenzia1. Sentendomi ritornare le mie forze, e veduto che io non ero adoperato a nulla, e’ m’incresceva di far tanto gran torto alli mia studii2: di modo che resolutomi me n’andai a Livorno, e trova’vi3il Duca che mi fece gratissima accoglienza. E perché io vi stetti parecchi giorni, ogni giorno io cavalcavo con sua Eccellenzia, e avevo molto agio a poter dire tutto quello che io volevo, perché il Duca usciva fuor di Livorno e andava quattro miglia rasente ’l mare, dove egli faceva fare un poco di fortezza4; e per non essere molestato da troppe persone, e’ gli aveva piacere che io ragionassi seco: di modo che un giorno, vedendomi fare certi favori molto notabili, io entrai con proposito a ragionare dello Sbietta, cioè di Piermaria d’Anterigoli, e dissi: "Signiore, io voglio contare a vostra Eccellenzia illustrissima un caso maraviglioso, per il quale vostra Eccellenzia saprà la causa che mi inpedì a non potere finire il mio Nettunno di terra, che io lavoravo nella Loggia. Sappi vostra Eccellenzia illustrissima come io avevo comperato un podere a vita mia dallo Sbietta". Basta che io dissi il tutto minutamente, non macchiando mai la verità con il falso. Ora quando io fui al veleno, io dissi che se io fussi stato mai grato servitore nel cospetto di sua Eccellenzia illustrissima che quella doverrebbe, in cambio di punire lo Sbietta o quegli che mi dettono il veleno, dar loro qualche cosa di buono 5: perché il veleno non fu tanto che egli mi ammazzassi; ma sì bene ei fu appunto tanto a purgarmi di una mortifera vischiosità6, che io avevo dentro nello stomaco e negli intestini: "Il quale ha operato di modo che dove 7, standomi come io mi trovavo, potevo vivere tre o quattro anni, e 8 questo modo di medicina ha fatto di sorte 9 che io credo d’aver guadagniato vita per più di venti anni; e per questo con maggior voglia che mai più ringrazio Iddio; e però è vero quel che alcune volte io ho inteso dire da certi, che dicono: ‘Iddio ci mandi mal, che ben ci metta’". Il Duca mi stette a udire più di dua miglia di viaggio, sempre con grande attenzione; solo disse: "O male persone!" Io conclusi che ero loro ubbrigato ed entrai in altri piacevoli ragionamenti. Appostai10 un giorno a proposito, e trovandolo piacevole a mio modo, io pregai sua Eccellenzia illustrissima che mi dessi buona licenzia, acci ò che io non gittassi via qualche anno acché 11 io ero ancor buono a far qualche cosa, e che di quello che io restavo d’avere ancora del mio Perseo, sua Eccellenzia illustrissima me lo dessi quando a quella 12 piaceva. E con questo ragionamento io mi distesi con molte lunghe cerimonie a ringraziare sua Eccellenzia illustrissima, la quale non mi rispose nulla al mondo, anzi mi parve che e’ dimostrassi di averlo aùto per male. L’altro giorno seguente messer Bartolomeo Concino, segretario del Duca, de’ primi, mi trovò, e mezzo in braveria 13, mi disse: "Dicie il Duca che se tu vòi licenzia, egli te la darà; ma se tu vuoi lavorare, che ti metterà in opera: che tanto potessi voi fare, quanto sua Eccellenzia vi darà da fare14!" Io gli risposi che non desideravo altro che aver da lavorare, e maggiormente da sua Eccellenzia illustrissima più che da tutto il resto degli uomini del mondo, e fussino papa o inperatori o re: più volentieri io servirei sua Eccellenzia illustrissima per un soldo che ogni altri per un ducato. Allora ei mi disse: "Se tu se’ di cotesto pensiero, voi siate 15 d’accordo senza dire altro: sì che ritòrnatene a Firenze e sta di buona voglia, perché il Duca ti vuol bene". Così io mi ritornai a Firenze.

 

CIX. Subito che io fui a Firenze, e’ mi venne a trovare un certo uomo chiamato Raffaellone Scheggia, tessitore di drappi d’oro, il quale mi disse così: "Benvenuto mio, io vi voglio mettere d’accordo con Piermaria Sbietta"; al quale io dissi che e’ non ci poteva mettere d’accordo altri che li signiori Consiglieri, e che in questa mana 1 di Consiglieri lo Sbietta non v’arà2un Federigo de’ Ricci, che per un presente di dua cavretti grassi, sanza curarsi di Dio né de l’onor suo, voglia tenere una così scellerata pugnia 3 e fare un tanto brutto torto alla santa ragione. Avendo detto queste parole, insieme con molte altre, questo Raffaello sempre amorevolmente mi diceva che gli era molto meglio un tordo, il poterselo 4 mangiare in pacie, che non era un grassissimo cappone, se bene un sia certo d’averlo, e averlo in tanta guerra; e mi diceva che il modo 5 delle liti alcune volte se ne vanno tanto in lunga, che quel tempo io arei fatto meglio a spenderlo in qualche bella opera, per la quale io ne acquisterei molto maggiore onore e molto maggiore utile. Io, che conoscievo che lui diceva il vero, cominciai a prestare orecchi alle sue parole: di modo che in breve egli ci accordò in questo modo: che lo Sbietta pigliassi il detto podere da me a fitto per settanta scudi d’oro in oro l’anno, per tutto ’l tempo durante la vita mia naturale. Quando noi fummo a farne il contratto 6, il quale ne fu rogato ser 7 Giovanni di ser Matteo da Falgano, lo Sbietta disse che in quel modo che noi avevamo ragionato, inportava la maggior gabella; e che egli non mancherebbe: "e però gli è bene che noi facciamo questo affitto di cinque anni in cinque anni"; e che mi manterrebbe la sua fede, senza rinovare mai più altre lite. E così mi promesse quel ribaldo di quel suo fratello prete; e in quel modo detto, de’ cinque anni, se ne fecie contratto.

 

CX. Volendo entrare in altro ragionamento, e lasciare per un pezzo il favellar di questa smisurata ribalderia, sono necessitato in prima dire ’l seguito dei cinque anni dell’affitto, passato il quale, non volendo quei dua ribaldi mantenermi nessuna delle promesse fattemi, anzi mi volevano rendere il mio podere e nollo volevano più tenere a fitto. Per la qual cosa io mi cominciai a dolere, e loro mi squadernavano addosso il contratto: di modo che per via della loro mala fede io non mi potevo aiutare. Veduto questo, io dissi loro come il Duca e ’l Principe 1 di Firenze non sopporterebbono che nelle lor città e’ si assassinassi gli uomini così bruttamente. Or questo spavento fu di tanto valore, che e’ mi rimissono addosso quel medesimo Raffaello Scheggia che fecie quel primo accordo; e loro dicievano che no me ne volevano dare li 70 scudi d’oro in oro, come ei mi avevano dato de’ cinque anni passati: a’ quali io rispondevo che io non ne volevo niente manco. Il detto Raffaello mi venne a trovare, e mi disse: "Benvenuto mio, voi sapete che io sono per la parte vostra: ora loro l’hanno tutto rimisso in me2"; e me lo mostrò scritto di lor mano. Io, che non sapevo che il detto fussi lor parente istretto, me ne parve star benissimo, e così io mi rimissi innel detto in tutto e per tutto. Questo galante uomo ne venne una sera a mezza ora di notte 3, ed era del mese di agosto, e con tante suo’ parole egli mi sforzò a far rogare il contratto, solo perché egli conoscieva che se e’ si fussi indugiato alla mattina, quello inganno che lui mi voleva fare non gli sarebbe riuscito. Così e’ si fecie il contratto, che e’ mi dovessi dare sessantacinque scudi di moneta l’anno di fitto, in dua paghe ogni anno, durante tutta la mia vita naturale. E con tutto che io mi scotessi 4, e per nulla non volevo star paziente 5, il detto mostrava lo scritto di mia mano, con il quale moveva ognuno a darmi ’l torto; e il detto dicieva che l’aveva fatto tutto per il mio bene e che era per la parte mia; e non sapendo né il notaro né gli altri come gli era lor parente, tutti mi davano il torto: per la qual cosa io cedetti in buon’ora, e mi ingegnier ò di vivere il più che mi sia possibile. Appresso a questo io feci un altro errore del 6 mese di dicembre 1566 seguente. Comperai mezzo il podere del Poggio da loro, cioè dallo Sbietta, per dugiento scudi di moneta, il quale confina con quel primo mio della Fonte, con riservo 7 di tre anni, e lo detti loro a fitto. Feci per far bene. Troppo bisognierebbe che lungamente io mi dilungassi con lo scrivere, volendo dire le gran crudelità che e’ m’hanno fatto: la voglio rimettere in tutto e per tutto in Dio, qual m’ha sempre difeso da quegli che mi hanno voluto far male,

 

CXI. Avendo del tutto finito il mio Crocifisso di marmo 1, ei mi parve che dirizzandolo e mettendolo levato 2 da terra alquante braccia, che e’ dovessi mostrare 3 molto meglio che il tenerlo in terra; e con tutto che e’ mostrassi bene, dirizzato che io l’ebbi e’ mostrò assai meglio, a tale che io me ne sattisfacievo assai; e così io lo cominciai a mostrare a chi lo voleva vedere. Come Iddio volse, e’ fu detto al Duca e alla Duchessa: di sorte che venuti che e’ furno da Pisa, un giorno innaspettatamente tutt’a dua loro Eccellenzie illustrissime con tutta la nobiltà della lor Corte, vennero a casa mia solo per vedere il detto Crocifisso: il quale piacque tanto che il Duca e la Duchessa non cessavano di darmi lode infinite; e così conseguentemente tutti quei Signiori e gentili uomini che erano alla presenza. Ora quando io viddi ch’e’ s’erano molto sattisfatti, così piacevolmente cominciai a ringraziargli, dicendo loro che l’avermi levato la fatica del marmo del Nettunno si era stato la propia causa 4 dell’avermi fatto condurre una cotale opera, nella quale non si era mai messo nessuno altro innanzi a me; e se bene io avevo durato la maggior fatica che io mai durassi al mondo, e’ mi pareva averla bene spesa, e maggiormente poi che loro Eccellenzie illustrissime tanto me la lodavano; e per non poter mai credere di trovare chi più vi potessi esser degnio di loro Eccellenzie illustrissime, volentieri io ne facevo loro un presente: solo gli pregavo che prima che e’ se ne andassino, si degniassino di venire innel mio terreno di casa 5. A queste mie parole piacevolmente subito rizzatisi. si partirno di bottega, ed entrati in casa viddono il mio modelletto del Nettuno e della fonte, il quale nollo aveva mai veduto prima che allora la Duchessa. E’ potette tanto negli occhi della Duchessa, che subito la levò un romore di maraviglia innistimabile; e voltasi al Duca disse: "Per vita mia6, che io non pensavo delle dieci parte una 7 di tanta bellezza". A queste parole più volte il Duca le diceva: "O non ve lo dicevo io?" E così infra di loro con mio grande onore ne ragionorno un gran pezzo; dipoi la Duchessa mi chiamò a sé, e dipoi molte lodi datemi in modo di scusarsi, ché innel comento di esse parole mostrava quasi di chieder perdono, dipoi mi disse che voleva che io mi cavassi 8 un marmo a mio modo, e voleva che io la mettessi in opera. A quelle benignie parole io dissi che se loro Eccellenzie illustrissime mi davano le comodità, che volentieri per loro amore mi metterei a una cotal faticosa inpresa. A questo subito rispose il Duca e disse: "Benvenuto, e’ ti sarà date tutte le comodità che tu saprai dimandare, e di più quello che io ti darò da per me9, le qual saranno di più valore da gran lunga"; e con queste piacevol parole e’ si partirno, e me lasciorno assai contento.

 

CXII. Essendo passato di molte settimane, e di me non si ragionava: di modo che, veduto che e’ non si dava ordine di far nulla, io stavo mezzo disperato. In questo tempo 1 la regina di Francia 2 mandò messer Baccio del Bene al nostro Duca a richiederlo di danari in presto 3; e ’l Duca benigniamente ne lo servì, che così si disse; e perché messer Baccio del Bene e io eramo molto domestichi amici, riconosciutici 4 in Firenze, molto ci vedemmo volentieri: di modo che ’l detto mi raccontava tutti quei gran favori che gli faceva sua Eccellenzia illustrissima; e innel ragionare e’ mi domandò come io avevo grande opere alle mane. Per la qual cosa io gli dissi, come era seguìto, tutto ’l caso del gran Nettunno e della fonte, e il gran torto che mi aveva fatto la Duchessa. A queste parole e’ mi disse da parte della Regina come sua Maestà aveva grandissimo desiderio di finire il sipulcro del re Arrigo 5 suo marito, e che Daniello da Volterra 6 aveva intrapreso a fare un gran cavallo di bronzo, e che gli era trapassato 7 il tempo di quello che lui l’aveva promesso, e che al detto sipulcro vi andava di grandissimi ornamenti: sì che se io volevo tornarmi in Francia innel mio castello, ella mi farebbe dare tutte le comodità che io saprei adomandare, pur che io avessi voglia di servirla. Io dissi al detto messer Baccio che mi chiedessi al mio Duca; ché essendone contento sua Eccellenzia illustrissima, io volentieri mi ritornerei in Francia. Messer Baccio lietamente disse: "Noi ce ne torneremmo insieme"; e la misse8 per fatta. Così il giorno dipoi, parlando il detto cone ’l Duca, venne in proposito il ragionar di me: di modo che e’ disse al Duca che se e’ fussi con sua buona grazia, la Regina si servirebbe di me. A questo subito il Duca rispose e disse: "Benvenuto è quel valente uomo che sa il mondo, ma ora lui non vuole più lavorare"; ed entrati9 in altri ragionamenti. L’altro giorno io andai a trovare il detto messer Baccio, il quale mi ridisse il tutto. A questo io, che non potetti stare più alle mosse 10, dissi: "Oh se dappoi che sua Eccellenzia illustrissima non mi dando da fare, e io da per me ho fatto una delle più difficile opere che mai per 11 altri fussi fatta al mondo, e mi costa più di dugento scudi, che gli ho spesi della mia povertà; oh che arei io fatto, se sua Eccellenzia illustrissima m’avessi messo in opera! Io vi dico veramente che e’ m’è fatto un gran torto". Il buono gentile uomo ridisse al Duca tutto quello che io avevo risposto. Il Duca gli disse che si motteggiava 12 e che mi voleva per sé: di modo che io stuzzicai 13 parecchi volte di andarmi con Dio. La Regina non ne voleva più ragionare per non fare dispiacere al Duca, e così mi restai assai ben malcontento.

 

CXIII. In questo tempo 1 il Duca se n’andò, con tutta la sua Corte e con tutti i sua figliuoli, dal Principe in fuori 2, il quale era in Ispagnia; andorno per le maremme di Siena; e per quel viaggio si condusse a Pisa. Prese il veleno di quella cattiva aria il Cardinale 3 prima degli altri 4: così dipoi pochi giorni l’assalì una febbre pestilenziale e in breve l’ammazzò 5. Questo era l’occhio diritto 6 del Duca: questo si era bello e buono, e ne fu grandissimo danno. Io lasciai passare parecchi giorni, tanto che io pensai che fussi rasciutte le lacrime: dappoi me n’andai a Pisa 7.