Di quale politico europeo della prima metà del XX secolo potremmo dire con certezza che leggesse le opere filosofiche e letterarie dei connazionali, e inviasse poi agli autori messaggi di critica o di plauso?1 Chi, in un periodo di profonda crisi e nonostante l’evidente malessere fisico, teneva sulla scrivania le opere di Platone lette e chiosate?2 Chi dichiarava pubblicamente di amare gli alberi e chiedeva con ansia notizie sull’entità dei danni causati all’ambiente dal maltempo? Chi, dopo essere salito al potere, nel corso delle chiacchiere conviviali era affascinato dall’idea di cercare i propri predecessori intellettuali?3 Chi disse di ammirare gli storici contemporanei per la professionalità e per il rifiuto di inchinarsi alla moda,4 e pretese che la linea di condotta del suo partito fosse: «Sii indulgente coi professori»?5 Chi sembrò quasi sempre disposto a concedere un’intervista e, quando lo fece, fu particolarmente compiaciuto dalla prospettiva di discutere delle idee politiche e filosofiche? Chi lasciò oltre quarantaquattro volumi di scritti? Chi affermò, in parte a ragione, che le proprie mani non erano mai state sporcate dal denaro?6 Chi era in grado di sostenere una conversazione in tre lingue oltre alla sua?7 Chi era affettuosamente sollecito nei confronti della figlia che, sposata e incinta per la prima volta, viveva all’estero, scrivendole regolarmente e di proprio pugno8 anche solo per informarla della gioia della famiglia per le vittorie della nazionale di calcio?9

La risposta, alquanto sorprendente, a tutte queste domande è: Benito Mussolini, Duce del fascismo italiano e dittatore d’Italia dal 1922 (o 1925) al 1945 (o 1943). I primi biografi di lingua inglese e molti contemporanei conclusero che, in sostanza, Mussolini era al tempo stesso un furfante e uno sciocco. Come disse il distinto gentiluomo inglese Anthony Eden, con il pizzico di veleno che in certe occasioni anche un gentleman si concede: «Mussolini è, temo, un gangster assoluto e la sua parola non significa nulla nemmeno sotto giuramento».10 Confusione, millanteria, vanità gigionesca, crudeltà meschina: questi erano i termini associati più di frequente a Mussolini, che ne hanno fatto una figura più comica che terribile, al contrario di quanto è avvenuto per i dittatori a lui coevi, Hitler e Stalin. Questi due furono temibili tiranni totalitari. Mussolini, pur avendo annunciato in un primo tempo l’intenzione di costruire uno «Stato totalitario», si rivelò piuttosto un «Cesare di cartapesta»,11 nulla più di un buffone.12

E in effetti lo fu, potrebbero concludere i lettori. Tuttavia, nel momento in cui si accingono a sfogliare le pagine di questo libro, devo avvertirli che la lunga tradizione anglosassone di lettura critica della carriera del Duce contiene più di un piccolo pregiudizio razzista nei confronti dei «meridionali», i «mediterranei», quelli che alcuni miei conoscenti australiani continuano a chiamare «Eyetalians».a L’insistenza sui concetti di fallimento, superficialità e criminalità è stata una costante nei saggi di lingua inglese su Mussolini, quasi a sottintendere che tali manchevolezze siano una prerogativa squisitamente italiana. Il giudizio comune secondo cui il Duce era tutt’al più «un uomo politico di terz’ordine»13 sembrerebbe insinuare che in altri paesi più felici, in terre più settentrionali e anglosassoni, i governanti siano, siano stati e sempre saranno uomini (e donne) di prim’ordine.

In Italia, simili gratuite dichiarazioni di superiorità sono state recepite con un certo fastidio. Per una generazione, la sinistra italiana collegata più o meno direttamente con il Partito comunista (che conobbe una crescita ininterrotta di successi elettorali sino alla fine degli anni Settanta) ha costruito la propria identità sul «mito della Resistenza». Secondo questa lettura della storia del XX secolo, l’Italia ha vissuto gli anni dal 1922 al 1945 sotto un potere perverso. La dittatura mussoliniana, si sostiene, oppresse la grande maggioranza degli italiani, sicché la sua alleanza con il male assoluto della Germania nazista fu naturale e inevitabile. Così come lo fu il coinvolgimento nella guerra e nel genocidio. Fascismo e nazismo, Mussolini e Hitler, potevano essere spiegati con la categoria «fascismo», che mise in luce le molteplici analogie tra i due regimi e i loro capi carismatici, e a proposito della quale ci sarebbe molto da dire. Tuttavia, per la sinistra italiana tale interpretazione fu di grande utilità nella battaglia politica. Poteva contribuire a stigmatizzare la rapacità dei ricchi, il maschilismo, il fascino di rigurgiti nazionalistici, e nel contempo esaltare la classe lavoratrice, i sindacati, l’umanitarismo sociale, insomma quei gruppi, quelle istituzioni e quelle idee che il fascismo aveva osteggiato e represso.

Naturalmente molti italiani disapprovavano le premesse della sinistra, non concordando affatto sulla condanna di tutti gli aspetti del passato fascista. Dalla metà degli anni Settanta la corrente che venne definita «anti-antifascismo» trovò il suo punto di riferimento in Renzo De Felice, il tenace biografo di Mussolini. Già negli anni Cinquanta Giorgio Pini e Duilio Susmel, entrambi ex fascisti, avevano dato alle stampe uno studio in quattro volumi sul Duce molto favorevole al personaggio (e che conserva tuttora una certa utilità). Ma fu De Felice a fornire una cronaca estremamente dettagliata della vita di Mussolini, in una biografia in sette volumi, per un totale di oltre 6000 pagine, pubblicati fra il 1965 e il 1997 (l’ultimo uscì postumo). Si trattava di un resoconto di scarsa utilità, dal momento che De Felice evitò quasi completamente di fare un ritratto personale del Duce e in modo analogo non intraprese pressoché alcun tentativo di indagare quelli che avrebbero potuto essere la portata e i limiti del potere di Mussolini. Invece, attenendosi a un metodo di impronta strettamente neorankista, De Felice fu l’incarnazione dello storico come «topo di biblioteca», per usare il malevolo termine staliniano. Lesse a fondo i documenti governativi, reperibili nell’Archivio centrale dello Stato a Roma, un edificio progettato per l’«Esposizione universale romana» che nel 1942 avrebbe dovuto celebrare i vent’anni del governo fascista. De Felice, non appena si capì che non era ostile al Duce, si guadagnò le simpatie dei fascisti superstiti, che gli accordarono l’accesso ai loro documenti e diari. Una volta completata la propria ricerca, De Felice si preoccupò di pubblicare anche quelle opere. Tanto nella sua prosa, ancorché tortuosa e lambiccata, quanto nei suoi sforzi editoriali, lo storico ha lasciato un’eredità importante che nessun futuro biografo di Mussolini potrà ignorare.

Come interprete del Duce, De Felice deve essere letto con grande cautela. Soprattutto negli ultimi volumi egli tentò spesso di discolparlo, e respinse con forza quella che definiva la superficialità giornalistica della «vulgata antifascista».14 Le sue conclusioni, dichiarò immodestamente, erano le uniche possibili, anche quando esprimevano giudizi enfatici, assai discutibili, sulla politica «progressista» di Mussolini e il rimpianto per il fatto che il Duce non fosse riuscito a convincere Hitler che l’epicentro della seconda guerra mondiale non sarebbe stato il fronte russo, ma il Mediterraneo. Poco prima che De Felice morisse, la sua lettura del passato era diventata acqua per il mulino di una nascente nuova destra italiana. Fu lodato dai presunti «postfascisti» di Alleanza nazionale, il partito diretto da Gianfranco Fini – il quale giunse a sostenere che Mussolini fu il più grande statista del XX secolo –, e da Silvio Berlusconi. Quest’ultimo poi, nella sua veste inquietante di magnate dei media sceso nell’agone politico, ha superato lo stesso Mussolini, che era giunto alla politica dal giornalismo. Nell’Italia odierna Berlusconi fa notizia in molti, troppi modi.

Dal mio remoto rifugio australiano osservo questi eventi con lo stesso sconforto con cui seguo la maggior parte della politica contemporanea. Tuttavia, sarebbe ingiusto da parte mia rinnegare il debito che ho nei confronti dell’opera di De Felice: le note finali tradiscono un riferimento costante alle sue pagine, per i dettagli e le informazioni. Ma i modelli che più mi hanno influenzato non sono tratti da biografie anglosassoni o italiane del Duce (né dal nuovo, lungo studio defeliciano dello storico francese Pierre Milza):15 il mio approccio a Mussolini è condizionato da una personale e più generale lettura della storia europea.

Quando Christopher Wheeler avanzò garbatamente l’idea che forse mi sarebbe piaciuto tentare una nuova analisi del Duce, rimasi perplesso. Non avevo mai scritto una biografia. Inoltre mi consideravo, e continuo a considerarmi, uno storico «strutturalista» o «funzionalista», abituato a esplorare le «radici sociali» della politica, piuttosto che un «intenzionalista», convinto che i «grandi uomini» siano veramente tali, i fari delle proprie epoche. Questo mio approccio dimostra che ero stato influenzato dalla letteratura degli anni Ottanta sulla Germania nazista. Per tutti coloro che insegnano storia europea del XX secolo Hitler rappresenta, almeno in Australia, una sorta di «vitalizio». Per trentacinque anni ho «contrabbandato» un po’ di storia italiana nei corsi richiesti dagli studenti, attratti dall’immagine spaventosa e insieme affascinante della Germania nazista. Grazie alla mia immersione nella storiografia tedesca sapevo ovviamente dell’esistenza di interessanti dibattiti sulla questione se Hitler fosse o non fosse un dittatore «debole», sugli eventuali limiti del suo potere, sull’originalità o la banalità delle sue idee, e su quanto la pratica del nazismo fosse imposta «dall’alto» o scaturita «dal basso». Poiché dovevo insegnare anche storia dell’Unione Sovietica (il «vitalizio» Hitler non esclude si possa beneficiare pure del «vitalizio» Stalin), mi sentii in dovere di consultare l’ottimo lavoro di Sheila Fitzpatrick16 e altre opere su temi analoghi della storia dell’URSS, in particolare sul funzionamento del suo Stato dichiaratamente totalitario nel quadro della complessità e dell’ambiguità di quella che fu la «società di tutte le Russie».

Iniziai perciò la mia ricerca ripromettendomi di collocare Mussolini nell’ambito della società cui apparteneva, mantenendo una posizione scettica sul concetto di «grande uomo» e sull’idea liberale (ma anche fascista) secondo cui ogni individuo è potenzialmente libero di seguire la propria volontà. Il «mio» Mussolini, ne ero sicuro (mentre mi sforzavo di accantonare ogni sciocca ambizione di diventare un «grande biografo»), avrebbe raccontato tanto la società dell’Italia (e delle Italie) quanto i peccatucci individuali di ogni essere umano.

Per prepararmi al mio compito diedi istintivamente un’occhiata alle recenti biografie dei più famosi uomini politici del Novecento. Due di esse mi impressionarono in special modo. La prima era il particolareggiato resoconto di Paul Preston sulla vita del generale Franco, sottile analisi del modo in cui fu esercitato il potere in Spagna durante il lungo periodo della sua dittatura. Fra i temi che annotai per il confronto con Mussolini c’era l’enfasi posta da Preston sull’«imperscrutabile pragmatismo» del Caudillo, inteso come «fuga dalla responsabilità e gusto del vago».17 Franco, mi disse Preston, non tralasciava alcun tentativo per confondere i suoi futuri storici, come dimostra «quel suo scrivere e riscrivere per tutta la vita la storia del suo tempo». Pertanto, dai suoi appunti sul passato emergono parecchi Franco. (Mi chiesi allora quanti Mussolini avrei dovuto incontrare.) Comunque, almeno secondo Preston, era esistito un vero «attore» storico: «Il potere di cui godeva … era paragonabile a quello di Hitler e maggiore di quello di Mussolini».18 Protetto dal «suo fiuto nel cogliere quasi all’istante le debolezze e l’eventuale prezzo di ciascuno», a detta di Preston, «quel potere Franco lo userà con consumata abilità per quasi quarant’anni, colpendo senza pietà i nemici e garantendosi la lealtà della coalizione nazionalista con un’astuzia e un’abilità nel cogliere le debolezze umane degne di un uomo che aveva imparato la propria lezione politica fra le tribù del Marocco».19 Era un dittatore forte, benché ciecamente crudele nel modo di trattare i nemici, e dotato di una visione del mondo ostinatamente distaccata. Sempre secondo Preston, una delle frasi più significative venne pronunciata da Franco nel 1954, quando dichiarò al pretendente Don Juan di Borbone: «Io non ho mai riposto piena fiducia in nessuno», aggiungendo che, nonostante ciò, per lui era «facile governare la Spagna».20 Ne dedussi che, per Preston, nella Spagna di Franco era davvero esistito un «grande (cattivo) uomo» che aveva serenamente e brutalmente esercitato la propria volontà.

Frenato un poco nei miei presupposti e nelle mie intenzioni, mi concentrai allora sulla magnifica nuova biografia di Hitler scritta da Ian Kershaw. Trascorsi così dei piacevoli pomeriggi durante i quali potei abbandonare la fatica di elaborare la mia prosa su Mussolini per leggere il secondo volume dello studio di Kershaw, giunto in Australia verso la fine del 2000.21 La parte dell’opera che trovai più interessante fu, tuttavia, l’introduzione al primo volume. L’autore mi disse che, nel sobbarcarsi l’onere di questa biografia, era partito dalla direzione «sbagliata».22 Il suo lavoro era radicato nella storia sociale (e io sapevo, fra l’altro, che aveva scritto molto sulla storiografia). Egli apparteneva a quella scuola funzionalista o strutturalista che per un’intera generazione aveva dibattuto con gli intenzionalisti, che consideravano Hitler il massimo protagonista storico della sua epoca. Credevano nella «guerra di Hitler», nell’«olocausto di Hitler» e nella «rivoluzione di Hitler». Arrivavano addirittura a considerarlo un «Dio psicopatico».23 Per contro, Kershaw e i suoi seguaci esploravano le relazioni tra il popolo tedesco e il potere nazista ed esaminavano fino a che punto il nazismo avesse conquistato il consenso dei tedeschi.

Il retroterra intellettuale di Kershaw era per me una preoccupazione. Un’altra era il fatto che, a quanto risultava, Hitler non avesse avuto una vera vita privata (tranne quella ipotizzata dagli psicostoriografi). Il Franco di Preston era contento di avere una moglie e una figlia, giocava a golf, andava a pesca e si era arreso all’aggressione del morbo di Parkinson. Il mondo privato di Hitler invece, ammesso e non concesso che ne abbia avuto uno, era molto più difficile da penetrare. Nel caso del Führer, Kershaw lamentava che «al di là della politica egli non possedeva una sfera personale in cui ritirarsi, un’esistenza profonda che ne condizionasse i riflessi pubblici».24 In modo in apparenza contraddittorio, quando esercitava funzioni manageriali Hitler era notoriamente instabile, saltuario nella presenza in ufficio, compiaciuto del proprio «temperamento artistico» e della propria devozione allo stile di vita bohémien. Può avere creduto o meno che la Germania fosse facile da governare, ma molto spesso dava l’impressione di non prendersi neppure la pena di farlo.

Nella Germania nazista il potere era concentrato nella persona del Führer. Era un fatto innegabile ma, secondo Kershaw, «questo potere derivò solo in parte da lui. In misura più rilevante, esso fu un prodotto sociale, creazione di speranze e motivazioni collettive conferitagli dai suoi seguaci». «Una storia di Hitler» continuava Kershaw «deve essere pertanto una storia del suo potere: come vi pervenne, quali furono le sue caratteristiche, in che modo lo esercitò, come riuscì a espanderlo fino a infrangere ogni barriera istituzionale, perché la resistenza a esso fu così debole.»25 Nell’affrontare tali quesiti Kershaw concludeva che le idee weberiane sul carisma fornivano lo strumento concettuale migliore, ma ammoniva che lo storico dev’essere sintonizzato con la società tedesca quanto con lo stesso Hitler.26 Per Kershaw, le frasi chiave in tutta la storia del regime nazista erano quelle coniate da Werner Willikens, burocrate prussiano esperto di agricoltura che, a differenza del Führer, avremmo probabilmente potuto trovare seduto alla propria scrivania. Nel febbraio 1934 egli scrisse: «Chiunque abbia avuto l’opportunità di notarlo sa che per il Führer è molto difficile ordinare dall’alto tutto ciò che intende sia prima o poi effettuato. Viceversa, finora il lavoro migliore è stato compiuto da quanti, ciascuno al proprio posto nella nuova Germania, lavorano, per così dire, incontro al Führer». E aggiunse: «È tuttavia dovere di ogni singolo individuo cercare nel proprio lavoro di andare “incontro” al Führer».27 In questo c’era, quindi, quella che Kershaw vedeva come una nuova specie di potere,28 sotto la cui influenza i tedeschi cercavano di farsi interpreti della Parola prima ancora che venisse pronunciata. E agivano in un clima di confusione, fraintendimento, tornaconto personale e fanatismo. La Germania nazista era «uno Stato moderno e altamente avanzato privo di un organismo centrale di coordinamento e con un capo di governo [carismatico] fondamentalmente carente di contatti con l’organizzazione statale».29

Dall’opera di Kershaw emerge una serie di domande applicabili a Mussolini. Chiaramente il Duce non era una copia del Führer. Aveva, come Franco, una vita privata, una moglie e cinque figli legittimi, numerose amanti (quattordici alla volta, stando al suo resoconto), una carriera di successo prima del 1914 – non ancora trentenne era già direttore del quotidiano socialista «Avanti!» – ed era afflitto da alcune malattie, soprattutto a mano a mano che invecchiava e i suoi capelli incanutivano. Come primo ministro fu per la maggior parte del tempo un capo diligente che sedeva regolarmente alla sua scrivania, leggeva con attenzione i giornali che gli mettevano sul tavolo e accettava le formalità della sua carica (la più paradossale, una visita due volte la settimana al palazzo reale per consultare Vittorio Emanuele III, il monarca che, nel corso di tutta la dittatura fascista, continuò a essere il capo dello Stato). Numerosi episodi confermano come Mussolini sapesse manipolare gli uomini (e le donne). Il suo potere fu assecondato da un entourage abbastanza fedele e perlopiù costante, tenuto in riga da un misto di minacce e di lusinghe, disposto a lasciarsi regolarmente strapazzare, ma anche gratificato dalla possibilità di beneficiare del diffuso fenomeno della corruzione e dell’endemica guerra intestina tra dirigenti che fu l’equivalente italiano del «darwinismo istituzionale» individuato dagli storici nella Germania nazista. In altre parole, fu chiaro che Mussolini era profondamente desideroso di governare e di essere visto governare.

Tuttavia, quando diventò primo ministro nel 1922 e dittatore nel 1925, le analogie con Hitler divennero evidenti. Malgrado i suoi aspetti burocratici, gran parte dell’attività governativa di Mussolini fu caratterizzata da quel carisma che già lo aveva contraddistinto prima del 1914. Perché? Mussolini irradiava naturalmente l’idea del leader? L’aveva scritto in fronte? O erano stati altri a forgiare il suo carattere di Duce? Il carisma mutò con il passare degli anni? Se fu intaccato al tempo dei disordini del 1921 e 1924 per poi svanire durante i disastri della seconda guerra mondiale, come e perché avvennero queste fluttuazioni? Ci fu un altro Mussolini, più intimo e umano, distinto in qualche modo dal Duce carismatico? E poi, funzionava in Italia un governo carismatico? Rivoluzionò la società? (Parecchi storici del fascismo mi hanno assicurato che il potere di Mussolini aveva reso gli italiani degli autentici militanti, sempre pronti a marciare come veri soldati fascisti.) Gli italiani credettero davvero, dal primo all’ultimo uomo, dalla prima all’ultima donna, nel loro Duce? Ovviamente, ogni libro pubblicato sotto il regime confermava che la rivoluzione era reale e che gli italiani erano stati drasticamente modernizzati grazie alla fortuna di avere un capo come Mussolini. Anch’essi, a loro volta, «lavorarono incontro» al Duce? Gli italiani e il loro dittatore furono ciò che la politica coeva nel nuovo millennio andava etichettando come «fondamentalisti»? Ciò che accadde nell’Italia di Mussolini fu una copia di quello che, secondo Kershaw, stava avvenendo nella Germania nazista?

Molti argomenti alimentavano il mio scetticismo su questa semplicistica interpretazione di una «rivoluzione» fascista condotta secondo la volontà di un Duce carismatico. I miei primi studi riguardavano la storia dell’Italia liberale, perciò sulla retorica e sui comportamenti di quella società – soprattutto da parte della nuova generazione legata all’Associazione nazionalista (fondata nel 1910) – ne sapevo abbastanza da rimanere turbato quando mi parlarono dell’originalità della politica estera e coloniale fascista e dei conseguenti futili discorsi sulla «nuova Roma» e sul suo mare nostrum. Mi risultava difficile credere che Mussolini fosse stato veramente «originale», almeno in politica estera.

Poi c’era il problema della «particolare» partecipazione dell’Italia alla seconda guerra mondiale. In merito a questo conflitto, non mi avevano convinto le argomentazioni revisionistiche di De Felice e di alcuni suoi ammiratori di lingua inglese, che si opponevano alla conclusione ufficiale secondo cui la guerra fascista era stata un disastro. Piuttosto ritenevo che, alla «verifica» di un secondo conflitto, il regime di Mussolini si fosse comportato peggio del suo predecessore liberale. L’Italia liberale non fu certo un modello di conciliazione fra Stato e società, eppure il modo in cui dal 1915 al 1918 fu combattuta e vinta quella dura guerra si rivelò impraticabile dopo il 1940, con grande imbarazzo di Mussolini che era letteralmente ossessionato dal paragone. Alla luce di tale confronto, infatti, risultava difficile negare che le parole di Mussolini su uno Stato autenticamente «totalitario» e sul suo popolo «rivoluzionato» fossero pura retorica, almeno dopo quell’anno.

Gli atteggiamenti e il comportamento del Duce e della maggior parte dei suoi reggicoda furono stupefacenti anche sotto un altro aspetto. Persino la più modesta conoscenza della personalità di Mussolini, del suo cinismo, della superficialità della sua ipotesi darwiniana secondo cui non esisterebbe la cosiddetta «società», della sua misantropia, del suo desiderio-timore di essere lasciato solo, della sua eterna, caustica condanna di tutto ciò che vedeva intorno a sé, della sua millantata brutalità, dimostra come egli non fosse un uomo capace di credere ciecamente. Qualunque altra cosa sia stato, Mussolini non fu di sicuro un Hitler spinto ad agire in un determinato modo, e in quello soltanto, da un credo. E che dire del suo entourage? Galeazzo Ciano, suo genero e – per un certo periodo – suo potenziale delfino, può essere definito un fascista fanatico, lui che andava al campo di golf per la dose quotidiana di pettegolezzi e amenità? Ciano somigliava di più al tipico playboy borghese (o, per usare un termine moderno, a uno yuppie), le cui adamantine frasi fasciste non potevano essere prese sul serio. E che dire dei «duri», di Roberto Farinacci o della stessa perseverante moglie del Duce, Rachele: erano veramente fascisti? Ancora una volta, il sì e il no sembrano entrambi risposte possibili. Di certo il Duce, sotto alcuni aspetti, era condizionato da queste persone, dal loro rancoroso desiderio che l’ordine sociale venisse rovesciato. Loro due (e Nicola Bombacci, l’ex comunista ed ex anarchico che fu vicinissimo al Duce tra il 1943 e il 1945) convinsero «a metà» Mussolini che, malgrado la sua uscita dal Partito socialista nel 1914, aveva ugualmente mantenuto una forma di contatto con il «popolo vero». L’espressione «a metà» è importante in questa affermazione. Farinacci e Rachele controbilanciavano Ciano, il re e il resto dell’élite, ma la loro goffaggine e ignoranza, l’incontenibile propensione alla violenza verbale (e il modo così personale di interpretare la corruzione) li rendevano inadatti a ricoprire qualsiasi carica pubblica nel mondo di compromessi e di mediazioni che Mussolini considerava elementi costitutivi della «politica».

Fu un’inadeguatezza significativa da parte loro. Mussolini ammetteva ogni tanto che poteva non capire l’economia, non essere veramente in contatto con la società, non comprendere appieno la cultura, tuttavia asseriva sempre di essere un maestro della «politica». Per acquisire tale raffinata abilità aveva dovuto accantonare il materialismo originario e superare la fase in cui era stato soltanto un altro Farinacci. A volte, com’era ovvio, agiva direttamente e caparbiamente di sua iniziativa (fu lui a insistere, per esempio, per la conquista dell’Etiopia, a dispetto dei molti consigli contrari; dieci anni prima era stato altrettanto caparbio nel perseguire l’obiettivo di rivalutare la lira sul mercato monetario internazionale). Però, molto più spesso, manipolava, tergiversava e «progettava» (sempre nell’ambito di scadenze elastiche), osservando gli eventi alla ricerca di vantaggi «tattici» a breve termine. Il vocabolo «totalitario» sembrava, e sembra, inadeguato a descrivere le sfumature di un simile comportamento.

Altrettanto problematico era il concetto defeliciano di un fascismo dotato di due anime opposte, il radicale «movimento fascista» e il conservatore «regime fascista». Ciano poteva essere stato in cuor suo solo un giovane conservatore europeo e Farinacci poteva aver desiderato di bruciare i palazzi, eppure il fatto che Mussolini mantenesse un rapporto con entrambi lascia intendere che la sua visione del fascismo non coincidesse né con la moderazione né con la rivoluzione incarnate da quei due personaggi, ma comprendesse entrambe, malgrado la loro evidente contraddizione. Mussolini, nel suo anteporre la tattica alla strategia, nella sua predilezione per la semplice «politica», aveva preferito non scegliere tra questa o quella definizione «finale» del fascismo (o della sua persona). Ma la questione fondamentale è che Mussolini e il suo regime furono, e dovevano essere, al tempo stesso conservatori e radicali. Il pericolo insito nell’alleanza con la Germania, latente prima del 1939 e divenuto evidente dopo l’ottobre 1940, consisteva proprio nel fatto che essa imponeva una definizione chiara del fascismo, una strategia globale, non un insieme di tattiche; una risposta, non una gamma di politiche. Il modello mussoliniano aveva dato un certo contributo all’ascesa al potere del nazismo ma, nella gestione dello Stato e come vicino di casa, il nazismo era troppo potente, troppo esigente, al tempo stesso troppo simile e troppo diverso. Il fascismo, come entità indipendente, non poteva reggere il confronto.

Da queste considerazioni, dunque, nascevano i maggiori dubbi su certe affermazioni relative all’Italia di Mussolini. L’impulso decisivo al mio scetticismo, però, derivò non tanto dagli eventi storici, quanto dalla mia conoscenza dell’Italia repubblicana, acquisita nei viaggi annuali che, dal 1967 in poi, ebbi la fortuna di compiere e dai miei incontri con italiani immigrati in Australia. Soprattutto in questi ultimi colsi spesso un residuo di ammirazione per Mussolini (un fatto interessante, che meritava di essere analizzato), che mi fece capire quanto varia e ambigua fosse, dietro la facciata, la realtà di ogni «Italia australiana». Qui erano ben visibili le diverse «Italie», non solo la nazione ufficiale rappresentata dagli sfortunati, per così dire, funzionari statali inviati nel nuovo mondo, o dalle autorità locali della Chiesa cattolica. E qui era anche ben visibile la «famiglia», con tutto il suo potere e le sue contraddizioni.

Questi miei conoscenti italiani, sopravvissuti alla dittatura e alla guerra, erano persone che conservavano la propria peculiarità; in modo un po’ sentimentale, potrei definirli esseri umani meno sensibili alle ricorrenti invocazioni all’omogeneità in «una sola Australia» di quanto lo fossero molti miei connazionali. Non erano forse così, durante il fascismo, i popoli delle Italie? Non era lo stesso Mussolini un uomo che incarnava la sua regione e la sua famiglia non meno di quanto rispecchiasse la sua nazione e la sua ideologia? Ero, ovviamente, disposto ad ammettere che nell’Italia tra le due guerre si fossero verificati alcuni processi di modernizzazione e di omogeneizzazione. In fondo stava accadendo la stessa cosa in tutti gli altri paesi. Però, mi chiedevo, in quale misura gli italiani che hanno conosciuto il fascismo hanno cercato di manipolarlo a proprio vantaggio, di concepirlo a modo loro? Erano veramente un popolo che aveva tentato di «lavorare incontro al suo Duce?». De Felice e altri avevano affermato che era esistita in Italia una forma di consenso, almeno fino all’insuccesso dell’occupazione della Grecia nell’ottobre 1940. L’accettazione di Mussolini e della sua immagine significava che gli italiani cercavano di fare il suo volere ancor prima di sapere in cosa consistesse, come secondo Kershaw avvenne nel caso di Hitler e della Germania? Forse, ogni tanto. Eppure mi pareva che molto spesso Mussolini, il «detentore del potere», cercasse il consenso degli italiani. Anche quando si scagliava contro la debolezza del genere umano (e, per associazione, condannava la propria debolezza e la propria colpa) o sognava di uccidere «quattro milioni di schiavi italiani»,30 si sforzava di essere popolare e accomodante. Era al tempo stesso un dittatore fascista carismatico e un politicante cinico e opportunista, che scrutava nell’oscurità del futuro per trovare un presente accettabile, angosciato dall’idea di apparire un fallito e convinto di riuscire a farcela.

Ciononostante fallì, quasi in ogni senso della parola. L’adagio tout comprendre, tout pardonner è ingannevole, e io continuo a essere un biografo antifascista. Il «mio» Mussolini non deve essere celebrato come fascista, come dittatore, come signore della guerra o come uomo. Questo Cesare redivivo non merita i trionfi dell’antica Roma. Fu crudele (ma non il più crudele). Non modernizzò veramente l’Italia (il che non è di per sé un gran male). Il suo fascismo non aprì in alcun senso rilevante una terza via verso il futuro, tra il capitalismo liberale e il socialismo di Stato. Può aver adottato il termine «totalitario», ma la sua Italia non scattava sull’attenti al comando, né accantonava le antiche convinzioni sull’utilità e l’onnipresenza dei protettori, delle clientele e della famiglia. I suoi tardivi sforzi verso l’autarchia, o nazionalismo economico, fallirono per diversi motivi, tra cui il fatto che l’Italia turistica, emigrante e cattolica non avrebbe mai rinunciato completamente al cosmopolitismo. Il suo impero africano appartiene al modello antiquato, fatiscente e costoso ereditato dal XIX secolo, molto diverso dall’impero razziale che Hitler e i nazisti credevano di essere destinati a costruire nell’Est, sulle ceneri dell’ebraismo sovietico ed europeo. Il razzismo personale di Mussolini era reale, ma fu incostante, discontinuo, «antiscientifico», e non ebbe mai il rigore che avrebbe fatto del Duce una buona recluta delle SS.

In linea di massima, dunque, Mussolini non dettò legge, fu piuttosto trascinato da un destino che ebbe inizio in provincia, tra ambizioni e speranze, che continuò con il ruolo di «primo della classe» di periferia, che lo condusse a una gloria accecante ma effimera e che si concluse con una morte meritata e squallida. Malaparte può aver esagerato, negando la complicità sua e degli intellettuali suoi colleghi, quando definì il Duce un «grande imbecille», ma aveva ragione quando affermava che, sotto molti aspetti, Mussolini era rappresentativo della società italiana dopo la (dis)unificazione a opera del Risorgimento. Come uomo e «pensatore» fascista, Mussolini fu adamantino nel dichiarare di possedere il potere assoluto, ma in questa affermazione, come in molte altre questioni, era in errore.

Una raccomandazione: il capitolo I di questo libro comincia con la narrazione degli eventi del gennaio 1944 e di qui continua verso la (apparente) conclusione, la morte del Duce nell’aprile 1945. I lettori che preferiscono nelle biografie la sequenzialità temporale inizino direttamente dal II capitolo. Dovrebbero farlo però con la consapevolezza che, in questo caso, il biografo non crede né all’assoluto libero arbitrio né all’assoluto determinismo. Una delle pecche più vistose delle biografie è il presupposto, troppo facilmente accettato, che il personaggio descritto fosse da sempre destinato alla fine che ha fatto. La realtà è, ovviamente, diversa. Inoltre, nei primi capitoli mi soffermo ogni tanto a interrogarmi, secondo le modalità di una storia virtuale, su un Duce finora ricostruito solo parzialmente. I momenti in cui la storia può compiere o non compiere una svolta esistono nella vita di tutti noi, e di certo vi furono anche in quella, non priva di imperfezioni, di Benito Mussolini. Può essere stato il dittatore d’Italia per una generazione, ma non costruì da solo la sua carriera (e non ne ricavò molta soddisfazione personale).

(2002)

a Termine derisorio costituito dalla storpiatura della pronuncia della parola Italians, con cui durante la seconda guerra mondiale i soldati americani chiamavano gli italiani.