Quando, all’indomani della riunione di Salisburgo, Galeazzo Ciano tentò di portare il Duce su posizioni antitedesche, gli fece notare che l’Italia era ormai diventata il «secondo poco brillante» di Hitler.1 Tali parole riecheggiavano il giudizio espresso dal kaiser Guglielmo II sull’alleato austriaco durante la prima guerra mondiale e, sebbene fossero state dette con intento amichevole, suonarono umilianti. La frase di Ciano rispondeva peraltro alle perplessità frequentemente espresse dallo stesso Mussolini, secondo il quale l’Italia fascista aveva ripreso la stessa danza diplomatica condotta dall’Italia liberale e l’unico risultato che i suoi promiscui «giri di valzer» le avevano procurato era stato quello di fare una pessima figura. Mussolini e Ciano non erano i soli contemporanei a notare che la storia tendeva a ripetersi e ogni storico deve prestare attenzione alle conseguenze che tale tendenza comporta. Nel settembre 1939 ebbe inizio una «certa» guerra mondiale e l’Italia non vi prese parte. Nell’agosto 1914 aveva avuto inizio un’altra guerra mondiale e l’Italia era rimasta dietro le quinte fino al maggio 1915. Quando vi partecipò i nemici erano diventati la Germania e l’Austria-Ungheria, con le quali, nel luglio 1914, aveva sottoscritto la Triplice Alleanza (e la relativa serie di accordi militari). Al tempo della prima guerra mondiale l’ideologia e gli interessi economici potevano aver legato l’Italia alla Francia e all’Inghilterra, ma durante i nove mesi di campagna «interventista» sembrò che potesse allearsi ora con l’uno ora con l’altro dei due schieramenti (o anche restare completamente fuori dalla guerra).
Sarebbe stato così anche nel 1939-40? Ovviamente la risposta è negativa, ma il 10 giugno 1940 l’Italia fascista entrò in guerra per ragioni strutturali legate alla sua condizione di ultima delle grandi potenze oppure Mussolini si unì a Hitler perché ne condivideva il fanatismo ideologico e la passione per la guerra? O tutto fu deciso dagli eventi? Cause remote e cause prossime, ruolo dell’individuo e ruolo della società e della «mentalità» generale: gli interrogativi sulla partecipazione dell’Italia al secondo conflitto mondiale sono quelli classici della causalità storica.
L’entrata in guerra dell’Italia solleva importanti questioni anche in relazione alle fonti, visto il ruolo fondamentale che ha il diario di Ciano nella narrazione di tutti gli avvenimenti di questo periodo. Il genero di Mussolini dipinge un quadro assai vivido: da un lato c’è il Duce che, come scrisse un altro diarista, «vuole la guerra come un bambino vuole la luna»;2 dall’altro c’è lui, giovane Laocoonte che lotta finché può contro il suocero, resistendo all’attrazione fatale di Hitler e del nazismo. Forse questa sorta di conflitto epico riassume fedelmente la realtà, ma lo studioso deve usare molta cautela prima di lasciarsi incantare dalle parole e dalle immagini di Ciano. Nella storia del fascismo raramente il significato delle formule retoriche deve essere assunto come semplice e lineare. Senza dubbio dal settembre 1939 al giugno 1940 Mussolini e Ciano si collocarono su posizioni opposte e sostennero tesi divergenti. Eppure entrambi rappresentavano, in qualche modo, l’alter ego dell’altro e incarnavano le due facce del fascismo italiano. E, tra una dichiarazione e l’altra, entrambi temporeggiavano, tenendo d’occhio il fronte di guerra. Gli anni degli scontri verbali e reali, durante i quali Mussolini aveva cercato di conciliare il suo ruolo e la sua personalità con l’idea della rivoluzione fascista, erano importanti, ma lo era altrettanto capire chi avrebbe vinto la guerra, quando e come, con il minimo pericolo e il massimo vantaggio per l’Italia.
Nei primi giorni di non belligeranza la situazione era abbastanza chiara. L’opinione pubblica italiana apprezzava la decisione di restare fuori dal conflitto.3 Dopo una breve e precipitosa corsa alle banche,4 la Borsa ebbe un’impennata.5 Il Vaticano era soddisfatto.6 Bocchini, Bottai e Federzoni non nascondevano il loro sollievo per il fatto che Mussolini non avesse optato per la guerra.7 Lanzillo scrisse con trasporto sul fascino di un «serena neutralità».8 Farinacci, invece, si scagliò contro i «socialistoidi, democratoidi e cretinoidi» avversari dell’Asse e si oppose con forza all’idea di partecipare alla guerra contro la Germania, in una causa che definiva «dell’antifascismo internazionale, dei fuorusciti e degli ebrei». Ma persino lui era costretto ad ammettere che quella che, a ben vedere, era soltanto l’«armata dei giocattoli» italiana non consentiva di entrare subito in guerra.9 Franco e Metaxàs fecero recapitare dichiarazioni più velate, esprimendo comunque la loro approvazione per la linea di condotta italiana.10 Le stesse folle tedesche erano prive di entusiasmo. Come riferì a Ciano il cognato Massimo Magistrati, distaccato a Berlino: «È una guerra pericolosa per tutti, per scopi sostanzialmente negativi, se si fa eccezione della questione del corridoio polacco».11 Il solo Mussolini, a quanto pareva, era sui carboni ardenti, sempre suscettibile al minimo accenno di confronto con il 1914-15,12 perplesso di fronte ai tentativi di Ciano (il figlio che non fu mai) di convincerlo che la guerra sarebbe stata lunga, difficile e, alla fine, vinta dai britannici.13 Mussolini era ansioso di fare qualcosa o di mostrare che la stava facendo. Che cosa avrebbe pensato la Germania? si domandò prima di cercare di persuadere Hitler (e se stesso) che «l’atteggiamento dell’Italia, che non è un atteggiamento di neutralità, è più utile che un intervento in guerra». Se l’Italia avesse partecipato al conflitto sin dall’inizio e fosse stata immediatamente aggredita dalla potenza di fuoco dell’Inghilterra e della Francia, il male che ne sarebbe derivato «avrebbe probabilmente annullato l’effetto del successo della Germania in Polonia».14
Inoltre, nella stessa lettera, Mussolini osservò che l’Italia poteva se non altro garantire il controllo dei Balcani, prima di sottolineare che al momento egli conservava «una certa latitudine di movimento specie sul terreno politico e diplomatico che potrebbe essere di grande giovamento alla Germania stessa».15 In altre parole, Mussolini si chiedeva se la formula utilizzata a Monaco potesse essere riesumata16 anche dopo lo scoppio della guerra. Attribuendo al Führer la sua stessa mentalità e i suoi stessi metodi, continuava a pensare che Hitler avrebbe ben presto messo sul tappeto un’importante iniziativa di pace.17 Sbagliava di nuovo. Neppure il piano di Ciano relativo a un blocco balcanico neutrale fece fare dei passi avanti all’Italia,18 anche perché il ministro degli Esteri e, forse, il Duce fiutavano ancora la possibilità di un «bottino» in Croazia. Ciano pensava ingenuamente di ottenerlo con il consenso anglo-francese, nell’idea che l’Italia stesse bloccando una mossa tedesca a sudest.19 Ai gerarchi del partito Mussolini diceva che in quel momento occorreva «un realismo politico spietato. Perseguiamo i nostri interessi vitali. Nessuno si commuove di noi. È finito il tempo in cui aiutavamo tutti. Il mondo comincia da noi».20 Tuttavia, restava sempre il problema di trovare la politica migliore per l’Italia, per il fascismo e per lo stesso Duce.
A questo proposito Ciano vide nascere interessanti possibilità quando, il 30 novembre, le forze sovietiche scatenarono la «guerra d’inverno» contro la Finlandia. L’improvvisa e inopinata firma del patto Ribbentrop-Molotov continuava a creare sconcerto in Italia dove, brandendo l’arma dell’anticomunismo, Ciano poteva fare la figura del buon fascista e del buon borghese. Persino Mussolini ammise a malincuore che i tedeschi, stroncando la Polonia, stavano semplicemente lavorando per Stalin.21 Gli amici di Ciano, al golf club, ebbero subito la convinzione che la povera, piccola Finlandia fosse vittima di una barbara aggressione e anche la gioventù dorata degli studenti universitari rimase molto scossa dal destino dei finlandesi.22 Fu così che, all’inizio di dicembre, Ciano accettò l’idea di inviare in Finlandia attraverso la Germania una cinquantina di aerei italiani, tanto che si parlò di «volontari» fascisti in partenza per Helsinki.23 All’atto pratico, però, tali progetti si rivelarono sterili, benché Ciano si inchinasse solo con riluttanza al divieto tedesco di inviare aerei24 e continuasse a ricordare ai sovietici il costante impegno ideologico dell’Italia fascista contro il comunismo.25 Quasi nel tentativo di giustificare una mossa contro l’URSS (sostituta del vero nemico, la Germania nazista), Ciano chiese all’ambasciatore Augusto Rosso di sondare la politica estera di Stalin per capire quanto sarebbe durata l’amicizia con la Germania e le ragioni dell’«espansionismo» sovietico.26 In risposta Rosso fece sagge considerazioni sull’egoistico interesse nazionale dei russi che ne condizionava gli impegni ideologici.27 Ma fra le osservazioni dell’ambasciatore quella più significativa fu l’amara constatazione che, nei suoi tre anni di incarico, era la prima volta che gli venivano rivolte domande intelligenti e gli si chiedeva di partecipare attivamente alla definizione di una linea politica.28 Tra le righe si poteva leggere la sua preoccupazione per la giovane età e l’inesperienza di Ciano, e per il fatto che Mussolini non tenesse nella debita considerazione i suoi diplomatici di professione.
Malgrado le quanto mai motivate lamentele del corpo diplomatico, la più importante relazione internazionale dello Stato italiano era quella bilaterale con la Germania. A questo proposito vennero intensificati gli sforzi bellici per risolvere il problema degli abitanti di lingua tedesca dell’Alto Adige. Mussolini e il suo regime avevano parlato spesso della necessità di italianizzare quelle terre di frontiera, e potevano invocare il fatto che, già nel lontano 1866, Giuseppe Mazzini avesse stabilito lo spartiacque del Brennero come confine tra il mondo germanico e quello italiano.29 Nel 1939 si calcolava che in quella zona il 95 per cento degli impieghi pubblici fosse in mani italiane, sebbene i tedeschi costituissero il 75 per cento della popolazione.30 Su questo argomento, a parte Hitler, i nazionalisti tedeschi erano irremovibili almeno quanto i fascisti. Il presidente Hindenburg, per esempio, aveva salutato «i connazionali d’oltreconfine indissolubilmente legati a noi».31
Poco dopo l’Anschluss Göring lanciò l’idea di soddisfare l’Asse su questo punto mediante un «trasferimento di popolazione», ovvero quella che oggi viene chiamata «pulizia etnica».32 Nel maggio 1939 Himmler aveva stilato un piano per reinserire circa duecentomila sudtirolesi nel Reich nazista, descrivendolo come «un procedimento generoso, forse unico nella storia».33 In un primo tempo Mussolini fu piuttosto turbato dall’idea di espellere una parte del suo popolo, e anche i tedeschi, malgrado le sistematiche assicurazioni di Hitler che il Brennero era italiano «per sempre», si mossero lentamente.34 D’altra parte, l’idea di un trasferimento etnico da valutare «scientificamente» (una «soluzione finale» del problema tirolese) ben si addiceva alla mentalità nazista. Le vicende dei tedeschi altoatesini divennero il prototipo dei massicci spostamenti di popolazioni progettati e parzialmente attuati dai nazisti dopo l’inizio della guerra.35 Il 21 ottobre, dopo aspre contrattazioni, fu raggiunto un accordo. In un successivo plebiscito, in cui i propagandisti nazisti furono accusati di aver minacciato gli abitanti di lingua tedesca di relegarli in Albania o in Sicilia se non avessero optato per la Germania, circa 185.000 persone scelsero di essere trasferite nel Reich, mentre 82.000 vollero rimanere dov’erano.36 L’attuazione del piano non fu facile. Nel settembre 1943 solo 130.000 persone avevano effettivamente preso la cittadinanza tedesca, mentre le altre 52.000 si trovavano ancora in Italia.37
Ciano non aveva seguito questi eventi a causa della malattia, e poi della morte, di sua sorella Maria. Il 25 ottobre, però, ebbe il dispiacere di apprendere che il Duce era in preda a un altro attacco di germanofilia e si proponeva «di scrivere una lettera a Hitler per dirgli che, allo stato degli atti, l’Italia rappresenta per la Germania una riserva economica e morale, ma che in seguito potrà anche giocare un ruolo militare». Mussolini, come constatò con apprensione il genero, voleva di nuovo «fare qualche cosa», sottolineando che «l’Asse e l’alleanza esistono tuttavia e sono pienamente efficienti».38
In linea di massima, comunque, le azioni di Ciano sembravano in ascesa. Il 31 ottobre Mussolini assecondò quello che gli piaceva chiamare «il cambio della guardia», cioè il rimpasto del governo. Il gran perdente di questa manovra fu Starace, sostituito alla segreteria del partito (un ruolo che dal 1937 gli aveva garantito lo status ministeriale) da Ettore Muti, trentasettenne politico di scarsa fama.39 Ravennate, di umili origini, Muti aveva sposato la figlia di un armatore ed era diventato un notabile locale.40 Per Mussolini aveva la virtù di essere romagnolo, mentre Ciano lo considerava sufficientemente ostile alla Germania, un uomo che, come disse, «mi seguirà come un bambino».41 Starace, al quale fu affidato per un breve periodo un incarico nella MVSN,42 venne ben presto spedito altrove e lasciato a lamentarsi delle sue disgrazie in una costante, quanto priva di risposta, corrispondenza epistolare con il Duce. Quest’ultimo rifiutava categoricamente di incontrare il suo vecchio collaboratore e questi, privato del calore di quel carisma in cui più di tutti gli italiani credeva, divenne un vecchio patetico, assillato dai pochi conoscenti che gli erano rimasti e privo di uno scopo nella vita.43 Muti, a sua volta, si trovò subito in grande difficoltà nel nuovo incarico. Nel gennaio 1940 rapporti segreti rilevavano l’incapacità della propaganda del partito di creare un’adeguata coscienza politica nel popolo e la netta opposizione all’entrata in guerra da parte delle donne italiane, che con astio accumulavano olio, legumi, riso e sapone.44 Un altro rapporto rimarcava la massiccia affluenza di persone alle cerimonie religiose e l’aumentata diffusione, ovunque, della fede cattolica, dovuta alla paura della guerra e al timore di un’eventuale partecipazione italiana.45
A parte la promozione di Muti, il cambiamento più importante nel governo fu l’assegnazione del ministero della Cultura popolare ad Alessandro Pavolini, la cui ascesa l’avrebbe fatto diventare un fanatico sostenitore della rivoluzione fascista. Nel 1939, comunque, era considerato ancora tra i più scettici verso l’alleanza con la Germania46 e un appartenente alla cerchia di Ciano. La già notevole vanità del ministro degli Esteri crebbe a dismisura quando al nuovo esecutivo venne dato il nome di «Gabinetto Ciano». Il genero del Duce notò con soddisfazione che ora i postulanti in cerca di impiego cominciavano ad affollarsi davanti alla sua porta.47 Tra le novità nella compagine governativa che meritano di essere menzionate ve ne furono altre tre: la sostituzione di Guarneri con l’economista Raffaello Riccardi48 e la nomina dei generali Ubaldo Soddu49 e Francesco Pricolo50 a sottosegretari alla Guerra e all’Aeronautica. Ognuna di queste scelte era una promessa di nuovo fervore nella preparazione del conflitto.
Mussolini, in fin dei conti, si era sempre sentito frustrato per la continua esclusione dell’Italia dalla «grande vicenda».51 Bocchini si arrischiava a chiedersi ad alta voce se le smanie del Duce non fossero per caso dovute al danno psichico causatogli da un episodio giovanile di sifilide,52 ma un’errata interpretazione in chiave medica dei fatti non giovava all’analisi della situazione, che restava minacciosa. Gli osservatori italiani in Germania confessavano tranquillamente di «odiare» i tedeschi, ma erano sicuri che Hitler avrebbe vinto la guerra.53 La pace si sarebbe rivelata assai problematica poiché, a quanto riferiva l’ambasciatore Bernardo Attolico, il «terrore» instaurato dai tedeschi in Polonia era così sanguinario che ci sarebbe voluta almeno una generazione per superare la tragedia.54 Imboccare la giusta via era quindi estremamente difficoltoso. Mussolini, data la circolazione di notizie contraddittorie e allarmanti, non era l’unico membro della classe dirigente a mostrare incertezze di valutazione. Il gretto, piccolo re, per esempio, diceva a Ciano di essere un «neutralista» convinto, salvo confessare poco dopo che non gli piacevano nemmeno i francesi.55 Il sovrano non faceva altro che dare voce all’eterno problema dell’ultima delle grandi potenze: come sfruttare la crisi ricavando per l’Italia vantaggi finanziari e nessun costo?
Mussolini, più ostinato degli altri, riusciva a trovare un’unica risposta al dilemma nazionale: la Germania. Con sommo disgusto di Ciano, ormai convinto che entrare in guerra a fianco di Hitler sarebbe stato «un crimine e un’idiozia», 56 all’inizio di gennaio Mussolini scrisse un lungo messaggio all’«amico» Führer. Sondandolo alla ricerca di un punto debole, esordì con una lunga digressione sull’interpretazione del patto Ribbentrop-Molotov e su come fosse stato recepito in Spagna, Inghilterra, Finlandia e altrove. Ogni ulteriore avvicinamento sovietico-nazista, lo ammonì, poteva avere «ripercussioni catastrofiche in Italia dove l’unanimità antibolscevica, specie tra le masse fasciste, è assoluta, granitica, inscindibile». In contrasto con quella che sarebbe stata la sua posizione nel 1942-43, Mussolini non si faceva scrupolo di dire a Hitler: «La soluzione del vostro Lebensraum è in Russia, e non altrove». Ricordandosi poi che una punta di antisemitismo avrebbe fatto piacere al collega, gli fece presente che il nazismo non poteva ammainare «la bandiera antisemita e antibolscevica». Approvava senza riserve l’idea di ripulire la Polonia dagli ebrei ed elogiò «il progetto di raccoglierli tutti in un grande ghetto a Lublino». Ma cosa ne pensava Hitler, domandò, di far valere un po’ di realismo nella questione polacca? Non poteva una Polonia «modesta, disarmata» essere ricostituita in modo tale da permettere il ritorno della pace? Gli Stati Uniti (altro argomento su cui il Duce si dimostrò molto incoerente nel corso degli anni) non avrebbero mai permesso «la sconfitta totale delle democrazie». Quanto ai preparativi italiani, era impossibile forzarne il ritmo, ma il Führer poteva essere certo che l’ingresso dell’Italia sarebbe avvenuto «al momento più redditizio e decisivo».57 Dopo aver presentato le proprie argomentazioni in quella che doveva essergli sembrata un’abile esposizione all’italiana, Mussolini inviò a Ciano un breve riepilogo in sei punti. La conclusione fondamentale era da considerarsi questa: «A meno che la Germania commetta altri errori irreparabili, non denunceremo l’alleanza». Era escluso che giovasse agli interessi dell’Italia passare all’altra parte. Nell’estate seguente i preparativi italiani avrebbero dovuto raggiungere un livello in grado di esercitare «un’influenza decisiva».58
Nonostante gli accenni all’impegno futuro, la realtà continuava a frustrare qualsiasi tentativo di rivendicare per l’Italia un ruolo determinante. Ciano era convinto dell’inadeguatezza militare italiana: «Le condizioni di impreparazione sono assolute».59 Badoglio invece,60 indicando una data abbastanza lontana nel futuro da risultare priva di significato, dichiarava che l’Italia poteva essere pronta nel 1942, mentre a metà gennaio persino Mussolini era disposto ad ammettere la debolezza della nazione.61 Bocchini, reso particolarmente sensibile a certi argomenti dalla sua reputazione di buona forchetta, era convinto che anche i generi alimentari di base stessero scarseggiando.62 Riccardi espresse il timore che l’Italia avrebbe quanto prima visto sparire goccia a goccia le proprie riserve di valuta estera63 e fece notare che non tutti i suoi colleghi erano stati convinti da Mussolini allorché, di fronte all’esecutivo, aveva detto che «non esistono problemi finanziari per gli Stati. Gli Stati cadono solo o sotto il peso d’una disfatta o per disgregazione morale interna». Quando Paolo Thaon di Revel, ministro delle Finanze, tentò di portare la discussione sul precedente storico della rivoluzione francese e della sua disastrosa emissione di moneta cartacea, il Duce replicò: «Una rivoluzione dev’essere intelligente. A un certo punto la rivoluzione francese non è stata intelligente». Tuttavia, con sgomento dell’ingenuo Bottai, non spiegò in cosa consisteva esattamente il metodo per finanziare lo sforzo bellico italiano.64 Per dare prova di quanto fosse grande la spavalderia fascista che lo animava, Thaon di Revel scandalizzò Ciano ventilando allegramente la possibilità per l’Italia di superare in qualsiasi momento ogni difficoltà della bilancia dei pagamenti mediante una svendita delle sue infinite e «inestimabili» opere d’arte. Per non essere superato sul terreno del cinismo, Mussolini ritenne che il ministro avesse avanzato una buona idea.65
L’opinione interna era sempre altalenante, ma il vero problema era costituito dalla Germania, dalla quale giungevano segnali molto difficili da decifrare. Che significato poteva avere il fatto che Hitler, Ribbentrop e Göring si fossero riuniti per cinque ore a discutere la lettera di Mussolini senza aver ancora trasmesso una risposta formale?66 Se, come sosteneva Attolico, Hitler era «non un Capo normale, bensì … un Capo anormale», dove avrebbe potuto portarlo il suo capriccio, specialmente ora che il suo entourage non esitava a manifestare «una riserva profonda» sull’Italia?67 E cosa stava accadendo al fronte? E se, come il re aveva ipotizzato parlando con Ciano, l’inizio della primavera avesse portato guadagni e vittorie ai tedeschi?68 E qual era la situazione a proposito del «bottino» italiano? L’Italia avrebbe dovuto ignorare le manovre del capo del regime fascista croato Ante Pavelić, le cui lusinghe facevano balenare ipotesi di vantaggi italiani nel Kosovo, l’unione completa tra la «cattolica» Croazia e l’Italia, e il conseguente blocco della penetrazione della Germania nella frontiera nordorientale italiana?69
Considerate queste e altre difficoltà da affrontare, non c’era da stupirsi che Mussolini ricominciasse a lamentare dolori di stomaco70 e a prendersela con il popolo italiano. Come disse rabbiosamente a Ciano, con parole che cercavano di dissimulare le sue evidenti carenze (e quelle del genero): «Il popolo bisogna tenerlo inquadrato e in uniforme dalla mattina alla sera. E ci vuole bastone, bastone, bastone».71
In questo difficile frangente, a fine febbraio 1940 il governo italiano ricevette la visita di Sumner Welles, rappresentante personale del presidente degli Stati Uniti Roosevelt, in «missione di pace». Welles fu accolto amichevolmente da Ciano, che commentò: «Nessun paese vorrebbe avere la Germania come vicina. L’Italia l’ha ora come vicina, e noi dobbiamo fare del nostro meglio per tirare avanti assieme».72 Mussolini era visibilmente più depresso. A Welles sembrò
quindici anni più vecchio dei suoi cinquantasei anni. Era pesante e statico anziché vivace. Si muoveva con movimenti elefantini; ogni passo appariva uno sforzo. Era pesante per la sua statura, e la sua faccia, in riposo, si afflosciava in pieghe carnose. I suoi capelli rasati cortissimi erano bianchi come la neve.73
Se si deve credere a queste parole, il Duce soffriva visibilmente per essere il capo di un’Italia non belligerante, un paese disorientato. Mussolini, a sua volta, nei propri appunti fu altrettanto caustico nei confronti di Welles e del suo presidente, ignorando il dialogo avuto con il visitatore perché – come scrisse nello stile tipico delle sue rapide sintesi – gli americani erano eternamente superficiali, mentre gli italiani valutavano le cose in profondità.
Dopo il viaggio a Roma Welles si recò nelle altre capitali europee e ritornò in Italia solo a metà marzo. Incontrò un Mussolini rimessosi fisicamente e psicologicamente,74 che parlava in modo vivace ancorché generico di un possibile recupero del Patto delle quattro potenze.75 Nel frattempo il Duce aveva ricevuto un altro ospite, Ribbentrop, odiato da Ciano – che infatti se ne andò al campo di golf – ma, almeno in questa occasione, accolto cortesemente dal capo del regime fascista. Con sollievo di Mussolini, Hitler aveva finalmente risposto alla lettera del 5 gennaio, e l’aveva fatto in modo cordiale. Il Duce apprese che il flirt della Germania con l’URSS aveva i suoi limiti, come lesse per ben tre volte, e il Führer continuava a considerare suoi veri amici Mussolini e l’Italia. In realtà nulla era cambiato: Germania e Italia erano ancora gli «Stati totalitari» gemelli che Gran Bretagna e Francia erano decise a distruggere. L’Asse continuava (la Germania avrebbe collaborato per i rifornimenti di carbone; le trattative con l’Inghilterra non erano approdate ad alcuna soluzione del problema relativo al sempre più incalzante bisogno dell’Italia di assicurarsi l’importazione delle fonti energetiche).76
Nelle lunghe riunioni del 10 e 11 marzo Ribbentrop ribadì le buone disposizioni della Germania nei confronti dell’Italia e aggiunse la notizia di un’imminente iniziativa militare. Poiché Hitler voleva incontrare il Duce quanto prima per dirgli di più, fu fissato un appuntamento per la settimana seguente nel luogo evocativo della vecchia frontiera austriaca. Sollevato dalla preoccupazione che l’alleanza con la Germania fosse finita – e che l’Italia fosse stata scalzata dall’URSS nel ruolo di partner privilegiato – Mussolini dichiarò nella seconda riunione con il ministro degli Esteri tedesco che era «praticamente impossibile per l’Italia di mantenersi al di fuori del conflitto. Al momento dato entrerà in guerra e la condurrà con la Germania e parallelamente ad essa, perché l’Italia ha anche, da parte sua, dei problemi da risolvere». L’Italia, aggiunse, «deve avere libero accesso all’oceano»; la sua doveva essere una guerra mediterranea. Il morale del Duce si era risollevato a sufficienza, tanto che commentò in modo sprezzante la «lentezza» diplomatica dei giapponesi e affermò con orgoglio che l’isola di Pantelleria, avamposto dell’Italia nello stretto di Sicilia, era «imprendibile».77 Più tardi chiamò Claretta Petacci per avere un po’ di sollievo e ammise di essere «stanchissimo; è venuto Ribbentrop», per poi aggiungere: «Ormai “il dado è tratto”». Indubbiamente compiaciuto di poter impressionare qualcuno, profetizzò che la Germania stava per vincere la guerra grazie alla sua forza, la sua preparazione militare e le sue «armi sbalorditive», il cui terribile potere si sarebbe rivelato quanto prima.78
Era questa dunque la considerazione finale sulla guerra e, ciò che è più importante, l’ultima decisione sulla «guerra parallela» dell’Italia?79 Forse sì, ma più probabilmente no. Appena Ribbentrop fu tornato oltralpe, Mussolini cadde di nuovo nello sconforto. Cos’era accaduto esattamente? (Anche il re rimase stupito da questo atteggiamento e, per la prima volta dal 1925, immaginò un possibile futuro senza il Duce.)80 Il 16 marzo Mussolini aveva ridotto la sua promessa a una «solidarietà potenziale» con i nazisti. Per il momento, dichiarò, non sarebbe entrato in guerra.81 Ma si trattava nuovamente di una decisione equivoca.
Il 18 marzo, mentre a Roma era già primavera, il Duce si recò alla frontiera del Brennero dove invece nevicava. Arrivò anche il Führer, il quale, come ormai stava diventando sua abitudine, prese a monopolizzare la conversazione. La Germania avrebbe vinto la guerra, questo era certo. «Le sorti della Germania e dell’Italia sono indissolubilmente legate» aggiunse. Il patto con l’URSS era stato soltanto una manovra di tattica politica, e comunque l’Unione sovietica stava evolvendo in «una specie di nazionalismo slavo-moscovita, allontanandosi dal bolscevismo ebreo-internazionale». A Mussolini non rimase altro da fare se non annuire per dichiararsi d’accordo e affermare di essere stato il primo a voler trattare con l’URSS sulla base del puro realismo.82 Secondo Ciano, il Duce ammise anche di subire «il fascino» del leader nazista.83 Tuttavia tornò a Roma senza aver preso alcun impegno definitivo. Il 31 marzo disse a Ciano, al re e ai suoi capi militari che la situazione attuale era «di estrema fluidità». Rischiando ancora una volta di sbagliare, espresse i propri dubbi sulla fattibilità attuale dell’offensiva tedesca. Se l’Italia non voleva finire come la Svizzera sarebbe dovuta entrare in guerra, e la logica suggeriva ancora di farlo dalla parte dei nazisti perché, passando a un’altra alleanza, avrebbe attirato su di sé un attacco tedesco a cui difficilmente avrebbe potuto resistere da sola. Ciò che l’Italia voleva veramente, concluse Mussolini allo stesso modo dei politici liberali di prima del 1922 e di ogni politico italiano da Cavour in poi, era entrare in una guerra breve e rendere decisiva la propria partecipazione.84
Con l’inizio della primavera la nebbia della guerra cominciò ad alzarsi anche nelle regioni del Nord Europa. Il 1° marzo Hitler aveva dato l’ordine di preparare l’invasione della Norvegia e il 9 aprile fu lanciato l’attacco. Nelle settimane seguenti gli sbarchi britannici in diversi porti del Mare del Nord norvegese si rivelarono infruttuosi. Rincuorato dalle facili vittorie, Hitler scrisse subito al collega italiano per salutare il «grande successo della nostra Causa».85 La prima reazione di Mussolini alla notizia fu di irritazione, tanto da dare nuovamente l’impressione di un suo scarso impegno verso la causa del «fascismo universale» (anche se, all’inizio di aprile, egli fece un altro tentativo di coordinare la sua politica con quella di Franco).86 Anziché sprecare del tempo a congratularsi con i nazisti, il Duce preferì parlare del cambiamento che stava in quel momento riscontrando nell’opinione pubblica italiana. La gente «è puttana e va col maschio che vince».87 Quando tradusse il concetto in una lettera di risposta al Führer, la condizione dell’opinione pubblica nazionale venne resa con «fedele Stimmung [stato d’animo] ostile agli Alleati»88 e all’inizio di maggio il nipote di Mussolini, Vito, e altri radicali di Milano trasmisero il messaggio che erano pronti «a fare tabula rasa di tutto quello che si chiama società civile per per dare armi et ala alla vostra vittoria».89
Senza alcun dubbio i trionfi tedeschi esercitavano un certo effetto sugli italiani di ogni classe sociale o idea politica. Benché Carlo Favagrossa, che il 23 maggio sarebbe stato nominato sottosegretario alle Fabbricazioni di guerra (e rispondeva direttamente al Duce), avvertisse che l’Italia non aveva fatto alcun serio preparativo se non per la più breve delle campagne,90 i ministri responsabili delle Finanze erano ormai passati al seguito dei tedeschi, come aveva fatto Muti.91 Mussolini non si scompose e il 22 aprile dichiarò che l’Italia poteva entrare in guerra nel «1941»92 e, tre giorni dopo, che il fascismo avrebbe partecipato al conflitto, ma solo quando avesse avuto «una quasi matematica certezza di vincerlo».93 Nella sua perdurante ostilità alla Germania Ciano cominciava a essere sempre più solo. Al sicuro tra i suoi amici del golf club, poteva azzardare a chiedersi quale circostanza avrebbe potuto implicare l’arresto del suocero,94 e il 17 aprile scandalizzò Bottai affermando che Mussolini era solo un piccolo uomo, specie se paragonato a Hitler. Bottai annotò nel proprio diario, in frasi mutuate da un libro scolastico di religione (e forse destinate a giungere in seguito fino al Duce):
Taccio. Non oso confessare la mia intima pena. La nostra generazione è tutta in Mussolini: è Mussolini. Non si tratta di misurare lui fuori di noi: ma lui in noi; e noi stessi in lui.95
Mentre Bottai si aggrappava ingenuamente all’ideologia fascista o a un qualche tipo di fede, gli eventi spingevano il paese a prendere una decisione. Dopo la rapida occupazione nazista della Norvegia, tanto il re quanto Badoglio decisero di considerare la situazione «senza alcun partito preso antigermanico»,96 mentre la loro residua prudenza venne sbaragliata da ulteriori cambiamenti della situazione sul fronte di guerra. Il 10 maggio le armate tedesche dilagarono nei Paesi Bassi e in Francia, e Hitler informò dell’avanzata il suo collega italiano con parole degne di Cesare: «Ho attraversato il Rubicone».97 Adesso l’intervento italiano diventava pressoché ineluttabile, ma Mussolini era ancora incerto. Il 10 maggio pensava che i tedeschi avessero già vinto, l’11 che forse, per l’Italia, era meglio aspettare.98 Davanti a Ciano poteva anche concedersi una divagazione, definendo il papato come «il cancro che rode la nostra vita nazionale». Tutto ciò che avrebbe dovuto fare, disse in una delle sue studiate esplosioni di ferocia retorica, era convocare gli uomini delle «sette città» della sua Romagna, e il re e il papa sarebbero stati cacciati insieme e per sempre.99 Dopo quella tirata estemporanea, conclusa peraltro senza precisare se sarebbe stata seguita dall’azione, il 17 maggio Mussolini, a proposito della guerra, ribadì il bisogno di calma (e, per il momento, di inazione).100 Eppure, soltanto ventiquattr’ore prima aveva tenuto un discorso sulle sorti dell’Italia, destinata al ruolo di «nazione di second’ordine» qualora non avesse preso parte al conflitto.101
In ogni caso le possibilità di scelta per gli italiani si stavano esaurendo. Come per cancellare il suo recente passato, Ciano si ritirò in quello che considerava il suo feudo privato in Albania,102 dove fu accolto dalle grida «Duce!», «Ciano!» (che, osservò maliziosamente Bottai, egli interpretò come «Duce Ciano!»).103 Da qualche parte, nei circoli di potere dell’Italia fascista, si stava prendendo una decisione. Il 29 maggio Mussolini incontrò Badoglio e altri esponenti dei vertici militari, dopo aver informato privatamente il capo di stato maggiore di essere certo che la guerra sarebbe finita entro settembre e avergli detto: «Io ho bisogno di qualche migliaio di morti per sedermi al tavolo della pace quale belligerante».104 Nel più formale ambiente dell’assemblea, il Duce si appellò all’animo del re, sostenendo che l’Italia non poteva restare fuori del conflitto. Organizzando i propri pensieri secondo un ordine inconsciamente significativo, Mussolini sottolineò il fatto «che non possiamo assolutamente evitare la guerra. Che non possiamo farla con gli alleati. Che non possiamo farla che con la Germania», un paese dotato di un’immensa forza terrestre e aerea che non poteva essere contrastata nemmeno dagli Stati Uniti. Quanto all’esercito italiano, forse la sua preparazione non era ideale ma poteva risultare utile. La guerra avrebbe avuto inizio «su tutte le frontiere» il 5 giugno.105
Il giorno seguente la notizia fu trasmessa a Hitler e Mussolini annunciò con enfasi: «Il Comando di tutte le forze armate sarà assunto da me».106 Badoglio e Favagrossa continuavano a nutrire dubbi sull’opportunità di partecipare a qualsiasi conflitto degno di questo nome107 e, con l’approvazione tedesca, la data dell’entrata in guerra fu ritardata di qualche giorno. Finalmente, nel tardo pomeriggio del 10 giugno, Mussolini parlò dal balcone di palazzo Venezia alla folla riunita in fretta e furia (l’ordine che autorizzava la manifestazione era stato impartito solo il giorno prima).108 «Il Destino», proclamò il Duce, aveva decretato la guerra. «Scendiamo in campo contro le democrazie plutocratiche e reazionarie dell’Occidente, che, in ogni tempo, hanno ostacolato la marcia, e spesso insidiato l’esistenza medesima, del popolo italiano.» «La nostra coscienza» disse «è assolutamente tranquilla.» «L’onore, gli interessi, l’avvenire» non potevano essere ignorati. Intrecciando alcune metafore spiegò: «Noi vogliamo spezzare le catene di ordine territoriale e militare che ci soffocano nel nostro mare, poiché un popolo di quarantacinque milioni di anime non è veramente libero se non ha libero l’accesso all’Oceano». Tuttavia, aggiunse combinando la retorica del fascismo e del nazionalismo,
questa lotta gigantesca non è che una fase dello sviluppo logico della nostra rivoluzione; è la lotta dei popoli poveri e numerosi di braccia contro gli affamatori che detengono ferocemente il monopolio di tutte le ricchezze e di tutto l’oro della terra; è la lotta dei popoli fecondi e giovani contro i popoli isteriliti e volgenti al tramonto; è la lotta tra due secoli e due idee.109
Dalla Spagna Franco espresse la propria cordiale approvazione, insieme alla promessa che avrebbe modificato subito in «non belligeranza» la posizione del suo paese, il che lasciava implicitamente intendere che, anche per la Spagna, questo sarebbe stato il primo passo verso la scelta di schierarsi sul fronte (vittorioso) dell’Asse.110 Ciano annotò sul diario la propria commossa reazione a questa svolta degli eventi: «Io sono triste: molto triste. L’avventura comincia. Che Dio assista l’Italia».111 Con raffinata sensibilità, un ex diplomatico liberale e nazionalista scrisse: «Strano a dirsi, la sensazione generale è di sollievo. Il penoso periodo di incertezza è finito. Il dado è tratto per il meglio o per il peggio».112 O forse il presagio più significativo era costituito dalla circostanza che il 10 giugno 1940 ricorreva il sedicesimo anniversario dell’assassinio di Giacomo Matteotti? Quando Mussolini decise di partecipare a una guerra così rischiosa, le sue mani erano ancora sporche del sangue di quel celebre delitto. E quel sangue era destinato a chiamare altro sangue.
Sei mesi dopo l’entrata dell’Italia in guerra, il primo ministro britannico Churchill dichiarò, per motivi palesemente tattici, che la responsabilità della scelta italiana gravava su «un uomo solo». Questa frase ha risuonato in tutta la storiografia, soprattutto perché far ricadere la «colpa» su Mussolini è convenuto all’interesse personale e ideologico di una schiera di storici (le cui interpretazioni sono peraltro confortate dalle pagine del diario di Ciano). Poiché lo sforzo bellico italiano ebbe ben presto un esito disastroso – culminato l’8 settembre 1943 nell’imbarazzante e cinico «si salvi chi può» della vecchia classe dirigente, allorché Badoglio e Vittorio Emanuele abborracciarono un tentativo di cambiare cavallo –, vi erano motivi a sufficienza perché gli italiani finissero per scaricare sul Duce ogni responsabilità. Tanto che è veramente difficile trovare un solo storico italiano che non faccia propria la posizione «intenzionalista», secondo la quale il ruolo del «grande uomo» fu assolutamente decisivo. Il revisionista De Felice, per esempio, ammise che «un uomo solo» aveva portato l’Italia in guerra benché, a suo giudizio, la motivazione di Mussolini fosse almeno in parte quella – apprezzabile – del sospetto nei confronti della Germania nazista e del desiderio di limitarne in qualche modo l’egemonia.113
Tuttavia, non mancano i motivi per dubitare che il potere fosse totalmente ed esclusivamente nelle mani di Mussolini, come ho cercato di mostrare descrivendo le continue deviazioni nella sua linea politica durante il periodo della non belligeranza. Malgrado lo scetticismo espresso a parole sulla possibilità di mantenere la pace, occorre dire che egli non entrò in guerra finché questa non sembrò ormai vinta dal temibile alleato tedesco. Da un punto di vista puramente «matematico» (per usare un termine caro a Mussolini), l’Italia fascista agì con maggiore prudenza di quanto avesse fatto l’Italia liberale nel 1914-15, e ci si può chiedere se qualche altro statista italiano, convinto che l’Italia fosse, o fosse destinata a essere, una grande potenza, avrebbe aspettato più a lungo di Mussolini. Ora, è vero che la storia fatta con i se è difficile da confutare, ma la domanda ha una sua validità, anche perché vi sono prove evidenti che, durante le settimane in cui la Francia venne occupata, altre personalità italiane, più o meno importanti,114 iniziarono a mettere da parte i loro dubbi sull’entrata in guerra e a dissimulare la loro antipatia per la Germania nazista. Nel giugno 1940 persino la Chiesa cattolica si riconciliò con l’idea di una breve partecipazione italiana a una guerra vittoriosa.115 In altre parole, sembra lecito ritenere che, nelle circostanze particolari di metà giugno 1940 Mussolini abbia preso una «decisione» quasi unanimemente condivisa.
È invece incontestabile il fatto che l’entrata in guerra si dimostrò con stupefacente rapidità un errore. Anche la «verifica» fornita dalla seconda guerra mondiale italiana, relativamente periferica e non particolarmente impegnativa, confermò i limiti del fascismo e la superficialità della pretesa rivoluzione mussoliniana, proprio come rese manifesta la fatuità delle ambizioni di «grandezza» internazionale nutrite dai ceti colti italiani sin dal Risorgimento. Del resto, la guerra mise drammaticamente in luce la vacuità delle convinzioni politiche e ideologiche anche di altre nazioni: la Francia caduta e la Polonia devastata furono i primi esempi. Ma nessun paese mostrò un divario così profondo fra ambizioni e risultati concreti quanto l’Italia fascista. Ed è per questo «fallimento» che al Duce Benito Mussolini tocca gran parte del biasimo della storia.
Ancora una volta, però, la storia deve essere letta con attenzione. Qualunque sia la loro matrice ideologica, molti resoconti degli insuccessi militari, sociali e culturali italiani nel periodo bellico si collocano nel contesto di un curioso confronto tra l’Italia e i «migliori» protagonisti del conflitto. Le tre nazioni che si comportarono più «eroicamente» furono, tra gli sconfitti, la Germania nazista e il Giappone imperiale, e, tra i vincitori, l’Unione Sovietica staliniana.116 Si può legittimamente sostenere, senza tema di smentita, il diritto della storia di giudicare l’incapacità della nazione italiana, o della rivoluzione fascista, o di Mussolini, di eguagliare questi tre Stati? Anche se il solo pensarlo farà inorridire gli storici militari, forse per una nazione perdere una guerra non è sempre la cosa peggiore che le possa capitare.
In Italia i segni premonitori delle future sconfitte furono immediatamente visibili. Nel Mediterraneo la nave britannica Decoy, informata delle manovre navali del nemico dai servizi segreti che da mesi ne leggevano i messaggi cifrati, attaccò un sommergibile italiano due ore prima che fosse consegnata ufficialmente la dichiarazione di guerra.117 Dall’11 giugno l’aviazione alleata iniziò a bombardare città del Nord come Torino e Genova, assestando un duro colpo al morale della popolazione che constatava l’assoluta inadeguatezza delle difese antiaeree, peraltro denunciata da Favagrossa già prima dell’inizio della guerra.118 L’opinione pubblica ebbe soltanto brevi momenti di gioia in concomitanza con la diffusione di voci sulla pace imminente.119 Le forze armate italiane avanzarono con riluttanza, e tardivamente, oltre il confine francese e, alle prime serie difficoltà, segnarono il passo.120 Il 28 giugno Italo Balbo, abbattuto per errore dai suoi uomini mentre sorvolava Tobruk, in Libia, fu la prima vittima illustre della guerra italiana.121 Pochi mesi dopo Mussolini dichiarò che il suo vecchio camerata aveva una quantità di «difetti esuberanti» ed era caduto nelle mani di una banda «di profittatori e di imbecilli vanesi», riducendo così il ras di Ferrara alla stregua di uno dei tanti «ex amici» ben presto dimenticati.122
Dietro gli eventi e le modalità operative dei primi mesi della guerra italiana si celava il macroscopico fallimento fascista nella modernizzazione delle strutture dell’esercito e della società. Malgrado gli avventati discorsi del Duce sugli «otto milioni di baionette» e su un popolo completamente militarizzato, il corpo ufficiali dell’esercito era rimasto una casta separata. Gli ufficiali erano senza dubbio fedeli a se stessi e, forse, all’istituto della monarchia, ma il resto del paese era una sorta di pianeta sconosciuto. La loro cultura era molto lontana da quella dei soldati, i quali, data la sopravvivenza dei dialetti come strumento privilegiato di comunicazione per la stragrande maggioranza degli italiani, spesso parlavano lingue diverse.123 La differenza di ceto era quindi assai evidente, anche perché la maggior parte degli studenti universitari, prevalentemente di estrazione borghese, era esonerata dal servizio militare.124 Del resto, i criteri della chiamata alle armi erano elastici anche per altri gruppi sociali, sicché molti italiani, approfittando di amicizie e raccomandazioni, trovarono il modo di eluderla.125 Ancora nel settembre 1940 gli uffici del ministero della Guerra chiudevano a mezzogiorno per consentire ai funzionari di fare la pennichella. In quello stesso mese centinaia di migliaia di coscritti contadini vennero smobilitati affinché potessero dedicarsi ai lavori agricoli.126 La persistenza di una mentalità agraria può in qualche modo spiegare perché l’esercito italiano rifiutò ostinatamente di diventare «mobile» in senso moderno. Per motivi diversi, ufficiali e soldati preferivano i cavalli o i muli agli autocarri.
Anche l’aviazione, che in molti paesi era considerata l’arma maggiormente in sintonia con la tecnologia moderna, conservava in Italia un aspetto artigianale. Non si può certo dire che fosse un settore dove regnasse la precisione matematica, data la nota tendenza degli ufficiali a moltiplicare per dieci il numero degli aerei disponibili, finché nel 1939 ne venne alla luce la reale carenza. Una volta iniziata la guerra, poi, gli standard produttivi si mantennero su livelli irrisori. Nel 1942 le officine statunitensi sfornavano in una settimana più velivoli di quanti ne costruisse in un anno l’industria aeronautica italiana, un dato che sanciva l’esito della battaglia fra le due aviazioni.127
Al confronto la marina poteva sembrare efficiente, ma i pesanti attacchi aerei su tre navi da battaglia a Taranto nel novembre 1940 e la perdita di tre corazzate e due cacciatorpediniere all’ormeggio a capo Matapan nel marzo 1941 persuasero il comando navale a usare molta prudenza. Da quel momento le navi italiane evitarono accuratamente ogni scontro impegnativo con le forze britanniche e alleate.128 Infine, non era mai stato effettuato alcun tentativo di coordinare le varie forze – i comandanti della marina consideravano le portaerei una stravaganza alla moda – e Mussolini si era sempre dimostrato gelosamente ostile a ogni minimo accenno di discussioni che rischiassero di scavalcarlo. Anche in guerra la struttura del comando continuò a essere frammentata, mentre il Duce interveniva solo saltuariamente, quel tanto che bastava a convincerlo di essere veramente lui il capo supremo. Graziani, che aveva il comando delle forze stanziate in Africa settentrionale, ricordava di essere stato ricevuto da Mussolini con «uno di quei mezzi sorrisi coi quali pareva volesse dire tante cose», ma alla fine dell’incontro se ne era andato senza aver ricevuto alcuna indicazione sulla linea da seguire.129 Nel suo diario Bottai descrive il Duce come il comandante di una guerra la cui gestione diventava sempre più «approssimativa»; egli è «l’uomo del titolo su otto colonne» che, irritato dalle discussioni, «lascia che le cose corrano per la loro china».130 Nel frattempo i comandi militari litigavano e tramavano l’uno alle spalle dell’altro, unicamente preoccupati di non perdere terreno nell’incessante corsa a promozioni e riconoscimenti. Nel dicembre 1941 un rapporto denunciava che «tutta la vita nazionale è dominata da egoismi personali»,131 e certamente questo era vero per coloro che avrebbero dovuto organizzare lo sforzo bellico nazionale. Mussolini, incapace di elaborare uno schema di priorità militari ed economiche, indeciso sul modo di coordinare i settori militare e industriale, in perenne ritardo nella produzione (anche di armi chimiche),132 passava il suo tempo prendendo lezioni di lingue e predisponendosi a tradurre in tedesco i Promessi sposi.133 Sperava forse che una maggior padronanza della lingua gli avrebbe consentito di interrompere con più efficacia il loquace Führer nei futuri incontri al vertice?
Il modo in cui Mussolini gestì il comando militare non contribuì minimamente a risolvere i problemi della nazione. Di norma egli convocava i suoi comandanti tutti insieme, per poi passare a un rapido esame della situazione bellica. La riunione poteva concludersi con alcuni suggerimenti per migliorare la posizione dell’Italia, per esempio decidendo di incrementare la produzione di aerei fino a 500 unità al mese, ma senza mai specificare come e con la tipica imprecisione matematica che da tempo caratterizzava la retorica del Duce (la matematica non era mai stata il suo forte neppure a scuola).134
Spronato saltuariamente dal dittatore, il fronte interno si dimostrò altrettanto incapace di adattarsi alla guerra totale. All’inizio del 1941 gli operai, pur confermando la loro ammirazione per Mussolini, erano convinti che «la guerra era un affare privato del fascismo», una categoria nella quale non si consideravano inclusi.135 Nell’autunno 1940 decine di migliaia di italiani erano ancora disoccupati, anche in città industriali come Genova, Milano e Bologna, malgrado la vantata adozione di un’economia di guerra.136 Gli approvvigionamenti di derrate alimentari erano scarsi e precari, al punto che tra il 1941 e il 1943 la quota assegnata a ogni famiglia era pari a quella della Polonia occupata dai tedeschi.137 Il funzionario incaricato da Mussolini, subito dopo il giugno 1940, di organizzare il razionamento ricorda di aver dovuto in primo luogo trovarsi uno spazio in ufficio, continuamente ostacolato dalla pedanteria dei burocrati.138 Il prefetto Benigni riferì che nel marzo 1941 anche nell’agiata Venezia le classi più povere erano prive di prodotti alimentari di prima necessità, come il pane, la pasta e l’olio.139 L’ardore bellico continuava a scarseggiare. La produzione di acciaio precipitò al di sotto della soglia del fabbisogno di una vera grande potenza, tanto che uno storico la definì «risibile».140 Unica tra i paesi belligeranti, l’Italia non riuscì ad aumentare, negli anni 1940-42, il prodotto interno lordo, dopodiché la produzione crollò.141 Nel gennaio 1941 i tedeschi calcolarono che l’industria italiana lavorasse solo al 25 per cento della sua già limitata capacità.142 L’armamento dei soldati era antiquato e mal progettato e per tutta la durata della guerra l’industria bellica non riuscì a produrre alcun tipo di carro armato.143
Insomma, come riconobbe durante i primi mesi di guerra anche l’abitualmente ingenuo Bottai, tutto era dominato dalla «solita improvvisazione e impreparazione».144 Lo stesso Mussolini era prigioniero del proprio mito e della convinzione che ogni più piccola questione dovesse essere sottoposta al suo giudizio. Almeno fino all’ottobre 1940 egli si aggrappò all’illusione della guerra breve, lasciando che i suoi funzionari progettassero tranquillamente le loro attività del dopoguerra anziché concentrarsi sui travagli che affliggevano l’Italia e il regime fascista.145 Di fronte al terribile disordine che rendeva praticamente impossibile ogni pianificazione, l’unica reazione del Duce, a detta di Bottai, era la seguente: «Se le cose vanno bene, il merito è suo; se vanno male, la colpa è degli altri». Era questo, conclude Bottai, il vero significato del motto MUSSOLINI HA SEMPRE RAGIONE.146 Un soldato riassunse il concetto in modo ancor più sintetico: lo sforzo bellico italiano era pura e semplice «anarchia».147 A quanto pareva, si trattava di una dittatura così debole che, alla prima prova di guerra, mostrava di non avere una guida.
I borbottii sul malcontento e le «pugnalate alla schiena» divennero così insistenti che si decise di organizzare un’esibizione sportiva per dimostrare che il Duce era in uno stato di forma strepitosa, una così perfetta personificazione virile della «razza» italica che poteva permettersi di sudare in pubblico. L’evento, però, non ebbe il successo sperato, malgrado la presenza di ben ventitré corrispondenti esteri riuniti nei giardini di villa Torlonia. Dapprima Mussolini, in canottiera sportiva e a braccia nude, si esibì in groppa al suo cavallo superando una serie di ostacoli. Per accrescere la meraviglia dei presenti, il maestro di scherma ed equitazione li dilettò con il racconto della passione del Duce per la pasta condita con burro, aglio e formaggio e di quanto gli piacessero i broccoli e le zucchine.148 Poi fu il momento del tennis. Un osservatore americano ricordava:
Il dittatore, con addosso una camicia beige a mezze maniche e pantaloni corti che lasciavano scoperta sulla coscia la cicatrice della ferita subita durante la prima guerra mondiale, si cimentò in una partita di doppio. Serviva dal basso come un principiante e infrangeva tutte le regole del tennis e della tradizione, facendo almeno due passi oltre la linea di servizio. Anche così, i due atleti che giocavano contro di lui – Mario Belardinelli, miglior tennista professionista di Roma, ed Eraldo Monzeglio, ex giocatore della nazionale di calcio – sembravano in difficoltà nel ribattere quelle prime palle innocue. Dalle loro risposte usciva una pallina che fluttuava alta e lenta, tanto che anche uno zoppo con il braccio rotto avrebbe potuto colpirla. Il Duce si esibì in pallonetti e schiacciate e sorrise, felice del suo trionfo.
In ogni caso venne giocato qualche game e si segnarono i punti. I giornalisti notarono che Mussolini e il suo compagno di doppio, Lucio Savorgnan, avevano perso tutti i tre giochi a cui avevano assistito. Rimasero perciò di stucco quando Alessandro Pavolini in persona comunicò che il punteggio finale del set era stato 7-5 a favore del Duce.149
Ma nessuna propaganda poteva nascondere la vera catastrofe del regime, quella militare. Il 28 ottobre 1940, dopo due settimane di preparazione,150 le forze armate italiane tentarono di scatenare una guerra lampo sul modello tedesco contro la Grecia, usando come trampolino le basi in Albania. Il risultato fu disastroso. L’ordine impartito il 10 novembre da Mussolini di radere al suolo tutte le città greche con una popolazione superiore ai 10.000 abitanti151 non fu tanto l’ennesimo esempio della sua dissennata ferocia, quanto una dimostrazione di crescente impotenza. Non solo Atene non cadde nel giro di pochi giorni, come Mussolini e gli esponenti di spicco del regime avevano previsto, ma le forze greche contrattaccarono prontamente, varcando il confine albanese e minacciando di ricacciare in mare gli italiani. Un ufficiale ispettore, inviato a rilevare le carenze dell’esercito, descrisse uniformi che si disfacevano sotto la pioggia, la totale assenza di supporto meccanico, medico e logistico, e il crollo del morale tanto degli ufficiali quanto della truppa.152 Nel dicembre 1940 si notò che, in patria, le immagini del Duce nei cinegiornali venivano accolte da un critico silenzio.153 Dopo sei settimane di quella che sarebbe dovuta essere una marcia trionfale, sembrava che l’Italia fosse una potenza più debole della piccola Grecia e che la dittatura di Mussolini non potesse tener testa allo sgangherato e reazionario regime del generale Metaxàs.
Nei mesi precedenti la Grecia era stata, per gli italiani, un obiettivo controverso.154 Mancando ancora una volta la spinta etnica e razziale che aveva lastricato la strada delle avanzate naziste, l’Italia non poteva vantare sulla Grecia alcuna pretesa di tipo irredentistico (a differenza dei suoi tirapiedi albanesi). Al contrario, il fatto che in Puglia e in Calabria numerose persone parlassero il «grico» (un dialetto neogreco) avrebbe potuto fare dell’Italia un bersaglio per la «Grande Idea» nazionalistica ellenica, se solo il governo greco fosse stato abbastanza ardito. Alla base dell’attacco alla Grecia c’era il fatto che, in agosto, i tedeschi avevano costretto l’Italia a rinunciare a qualsiasi pretesa sulla Iugoslavia155 poiché i politici francesi di Vichy avevano avuto buon gioco nel convincere i loro conquistatori a non concedere troppo agli avidi italiani (l’acquisizione della Savoia, di Nizza, della Corsica, di Tunisi e Gibuti continuava a essere una chimera),156 e perché, almeno secondo De Felice, la consultazione degli àuguri fatta da Mussolini lo aveva convinto che il grande conflitto era ormai prossimo alla fine.157
Senza dubbio l’idea di una «guerra parallela» nel Mediterraneo non era mai stata nulla più che un’ipotesi. Solo nove giorni dopo l’entrata in guerra dell’Italia, Ribbentrop riferì a Ciano la ferma convinzione di Hitler che «l’esistenza dell’Impero britannico quale elemento di stabilità e di ordine sociale nel mondo è di grande utilità. Allo stato degli atti sarebbe impossibile sostituirlo con un’altra organizzazione analoga».158 Similmente i tedeschi manifestarono scarso interesse per quelli che tutti, tranne De Felice, hanno considerato gli inverosimili piani italiani di conquistare alla causa dell’Asse l’Iraq e altre parti del mondo arabo.159 La conciliazione degli scopi tedeschi con quelli italiani, sempre che questi ultimi fossero completamente delineati, continuava ad apparire improbabile. Mussolini, che aveva esordito dichiarando che l’Italia avrebbe attaccato su «cinque» fronti, con l’aggressione alla Grecia sembrava ansioso di aumentarne il numero,160 ma la moltiplicazione degli sforzi nascondeva soltanto la frammentarietà dei progetti. I militari italiani andavano di qua e di là, ma nessuno, nemmeno il Duce, sapeva perché.
Fu così che il 15 ottobre venne presa ufficialmente la decisione di attaccare la Grecia.161 La spinta all’azione venne data da un improvviso dispaccio tedesco relativo a una missione in Romania, che Mussolini considerava in tutto e per tutto un’occupazione. «Hitler mi mette sempre di fronte al fatto compiuto. Questa volta lo ripago della stessa moneta: saprà dai giornali che ho occupato la Grecia. Così l’equilibrio verrà ristabilito.»162
Alla sconfitta in Grecia ne seguirono altre. In Libia, dalla fine di ottobre, le armate agli ordini del generale Graziani, che pur timidamente aveva ignorato i sempre più frequenti incitamenti di Mussolini a contrattaccare, vennero respinte dai britannici (fu allora che Eden osservò sarcasticamente che «mai tanto era stato ceduto da tanti a tanto pochi»).163 Le forze dell’Asse in Libia si ripresero solo nel febbraio 1941, quando ai reparti italiani si unirono quelli tedeschi agli ordini del generale Erwin Rommel. A una celebratissima conquista della Somalia britannica164 fecero subito seguito le sconfitte imperiali.165 Nell’aprile 1941 Addis Abeba era di nuovo nelle mani dell’imperatore Hailé Selassié. La prova della superficialità, e forse dell’indulgenza, dei cinque effimeri anni di dominio fascista in Etiopia è data dal fatto che gli italiani uccisi per vendetta furono solo 56.166 L’Impero dell’Africa orientale, glorificato nel 1936 con tanto euforico entusiasmo dalla stragrande maggioranza degli italiani, era crollato quasi senza un lamento.
Questi rovesci provocarono alcuni licenziamenti. All’inizio di dicembre, dopo una lunga campagna durata quasi un mese e iniziata da Farinacci – il quale aveva scritto che la gente manifestava stupore per i fatti di Grecia e che nell’URSS, in simili condizioni, una schiera di generali sarebbe stata fucilata immediatamente –,167 Badoglio fu costretto a dimettersi da capo di stato maggiore generale e venne rilevato da Ugo Cavallero, un altro ufficiale di carriera.168 Questi annotò nel suo diario, pubblicato postumo, che il 1° dicembre Mussolini lo aveva incaricato di costituire uno stato maggiore basato sulla «collaborazione fattiva» anziché sull’«assenteismo musulmano», com’era avvenuto sotto il suo predecessore. Per garantire che fosse sempre all’altezza della situazione, il Duce promise di incontrarlo ogni giorno.169 La stessa cosa l’aveva detta a Badoglio, il quale capì come il commento militare del Duce volesse essere «generale» anziché specifico.170 Ma i bene informati tra i militari già brontolavano perché Mussolini passava «ogni pomeriggio» con Claretta Petacci e spesso era impossibile comunicare con lui.171
Sul fronte interno vi erano già stati dei cambiamenti, quali l’esonero di Muti il 30 ottobre. Secondo i verbali della polizia, il segretario del partito aveva incoraggiato la «smobilitazione» del PNF con la motivazione che, dopo diciannove anni, l’identità fascista e quella italiana dovevano ormai diventare un tutt’uno inscindibile.172 Analogamente, su «Critica Fascista» Bottai aveva affermato che la guerra doveva diventare «un modo di essere dell’intera nazione, in tutti i suoi aspetti e in tutti i suoi settori e organismi», ma subito dopo si era contraddetto dichiarando che combattere era «un atto religioso», che doveva essere pervaso dalla «potenza mistica della nostra fede».173 Pur esprimendosi in modo meno lambiccato, anche Mussolini non credette mai nell’identificazione tra partito e popolo; uno degli insuccessi più evidenti dello sforzo bellico del regime fu proprio l’incapacità di riuscire a fondere nella testa delle persone il concetto di nazione italiana e l’ideologia del fascismo. Certamente, nell’autunno del 1940 erano ancora numerose le voci sull’endemica corruzione del sistema. Allo stesso Mussolini fu riferita la battuta che il modo migliore per aiutare Hitler a conquistare l’Inghilterra sarebbe stato l’invio di «una dozzina di gerarchi» perché, assetati com’erano, avrebbero potuto prosciugare la Manica.174 Era evidente che il sostituto di Muti avrebbe avuto molto da fare. Ma, all’atto pratico, il nuovo segretario Adelchi Serena, ex podestà dell’Aquila ed ex ministro dei Lavori pubblici, si dimostrò soltanto uno scialbo burocrate. Pur essendo un amministratore competente, l’anno successivo non fece granché per contrastare la crisi del partito.
Indubbiamente, per quel che può valere, il numero delle tessere era andato crescendo (nel 1942 gli iscritti erano 4.770.000),175 ma soltanto un anno prima De Bono aveva definito il PNF come «il più grande nemico dell’Italia»,176 e persino Mussolini tentò di prendere le distanze dalle carenze più macroscopiche. Nel gennaio 1941 annunciò la mobilitazione dei suoi ministri sul fronte albanese, provocando, come scrisse Ciano, il malcontento nell’anticamera di palazzo Venezia.177 Al punto che persino l’ingenua fiducia di Bottai nel suo leader «sovrumano» si sgretolò: «Una solitudine paurosa. Qualche cosa, che da più di vent’anni mi batteva nel cuore s’arresta di colpo: un Amore, una fedeltà, una dedizione. Ora, sono solo, senza il mio Capo».178
Lo stesso Mussolini attraversava una profonda crisi psicologica. A Cavallero disse che «data la situazione tragica … non rimane che rimettere il tutto nelle mani del Führer perché nulla noi possiamo fare».179 Ai colleghi non sfuggirono il suo pallore e i segni dell’insonnia;180 in lui vedevano un capo il cui fisico, ormai invecchiato, stava cedendo sotto il peso della sua stessa carica e le prove inconfutabili del fallimento. Nel 1941 il potere di Mussolini, al pari del fascismo e della «grande potenza» Italia, si stava dissolvendo, in un processo che, da allora in poi, avrebbe avuto momenti di pausa ma non sarebbe mai stato invertito. Il gioco, adesso, veniva condotto da altri. Il Duce, che continuava a confessare la propria ignoranza dei processi economici e la convinzione che i militari conoscessero meglio di lui il loro ambiente,181 riponeva ogni speranza nel fatto che, un giorno, sarebbe tornata nuovamente utile la sua esperienza delle cose «politiche». Ma in quel momento era impossibile, per lui e per i suoi collaboratori, sapere esattamente in che modo avrebbe potuto trovare uno spazio di manovra.
Ciononostante, il 1941 fu per molti versi l’anno del trionfo dell’Asse, il periodo in cui l’alleanza capeggiata da Hitler fu più vicina a vincere la seconda guerra mondiale. In marzo-aprile le sue forze congiunte avanzarono di nuovo verso il confine tra la Libia e l’Egitto e assediarono Tobruk (che capitolò nel giugno 1942), in una campagna che le vide vittoriose fino alla battaglia di El Alamein, nell’ottobre-novembre 1942. In aprile-maggio le armate naziste dilagarono in Iugoslavia e in Grecia; in giugno sbaragliarono le ultime difese britanniche a Creta. Già in aprile, Ante Pavelić era salito al potere a Zagabria e, sulla scia dell’avanzata tedesca, gli italiani si assicurarono un importante ruolo amministrativo in Slovenia (dove la provincia di «Lubiana» fu annessa all’Italia, nonostante un censimento del luglio 1941 che stimava la popolazione costituita dal 93,8 per cento di sloveni e dallo 0,1 per cento di italiani, ovvero 458 persone),182 in Croazia, in Montenegro e in Grecia. Il 22 giugno i nazisti iniziarono l’operazione Barbarossa contro l’URSS; Mussolini fu svegliato nella sua villa di Riccione alle prime ore del mattino e informato della decisione del Führer.183 Vittoria dopo vittoria, i nazisti giunsero alle porte di Leningrado e di Mosca prima che l’inverno li fermasse. Il 7 dicembre il conflitto si estese al Pacifico, quando i giapponesi aggredirono gli Stati Uniti a Pearl Harbor e, poco dopo, strapparono Singapore ai difensori britannici, riuscendo quasi a distruggere gli imperi di Gran Bretagna, Francia e Olanda nell’area asiatica del Pacifico.
In questo gigantesco conflitto globale Mussolini poté incassare solo qualche sporadico e insignificante successo, anche se fino al luglio 1943 il numero di vittime italiane fu limitato a 205.000 militari e 25.000 civili, in pratica un terzo dei 650.000 caduti durante la prima guerra mondiale, e non si avvicinò neppure lontanamente a quello lamentato da URSS, Iugoslavia, Polonia, Germania, Cina e Giappone (e dagli ebrei d’Europa).184 Può anche darsi che, di tanto in tanto, qualcosa del carisma del Duce tornasse a rivivere nel gruppo dirigente fascista o nel popolo italiano,185 tuttavia la disfatta in Grecia e l’evidente fallimento nella riorganizzazione dello sforzo bellico fascista aveva finito per convincere la stragrande maggioranza degli italiani, e forse lo stesso Mussolini, che la loro nazione e la loro «rivoluzione» non potevano più aspirare all’unicità e alla grandezza ma soltanto, nel migliore dei casi, fungere da (indegni) secondi dei nazisti.
Gli stranieri concordavano. La relativa «fiacchezza» della guerra condotta dall’Italia fascista non aiutò certo a mitigare il disprezzo che i tedeschi nutrivano per gli italiani. In giugno Goebbels commentò con disgusto: «Abbiamo i peggiori alleati che si possano immaginare»186 e aggiunse di ritenere che «gli italiani, oggi, siano le persone più odiate di tutta l’Europa».187 In un primo tempo i generali chiesero al Duce di dissuadere i tedeschi dal trattarli come semplici ausiliari,188 ma ben presto rinunciarono a ogni idea di indipendenza e, sulla maggior parte dei fronti, servirono gli alleati con la ribelle scontrosità di una recluta. Per reazione i comandanti tedeschi liquidarono gli italiani come «svogliati», simili a una «massa di … bambini», «facili da accontentare con caffè, sigarette e donne». I nazisti furono ben felici di abbandonare i loro derelitti alleati non appena si intravide il pericolo, specialmente sul fronte orientale.189 Persino il filoitaliano Hitler divenne dubbioso e, nel novembre 1940, dichiarò che «Mussolini è l’unico grand’uomo che [gli italiani] hanno».190 All’inizio del mese successivo convenne con Goebbels sul fatto che gli italiani fossero «uno zimbello» e aggiunse, con sorprendente disagio: «Ma adesso non possono esistere più dubbi su chi debba guidare l’Europa, se Hitler o Mussolini».191 Allora e in seguito i due dittatori continuarono a corrispondere regolarmente e si incontrarono numerose volte, anche se era sempre Hitler, in tali circostanze, ad assumere una posizione dominante,192 un atteggiamento che non aveva certo alcun motivo di abbandonare. Tutto ciò che Mussolini poteva fare era esprimere di quando in quando a qualche deferente ascoltatore italiano astiosi commenti sull’«inevitabile» conflitto finale tra Italia e Germania, per esempio sulla questione dell’Alto Adige, prima di cedere alla paura che, anche in quella battaglia, gli italiani fossero destinati ad arrendersi.193
L’incomprensione reciproca era evidente anche nei rapporti tra le forze italiane e i loro criminali «amici» croati, malgrado gli occasionali sforzi di Pavelić di ingraziarsi Roma con discorsi sul trionfo della «politica mussoliniana».194 Aimone di Savoia, designato a diventare re della nuova Croazia con il nome di Tomislav II e liquidato da Mussolini come «un autentico semi-deficiente»,195 fu indotto a rinunciare alla pubblica incoronazione a Zagabria dalle notizie delle «incomprensibili» atrocità degli ustascia.196 Aimone fu abbastanza intelligente da restare in Italia, guadagnandosi il fascinoso titolo di «Re che non fu mai».197 Gli eventi nei Balcani rafforzarono il pessimismo di Mussolini nei confronti del genere umano. Ogni singolo abitante dell’ex Iugoslavia, disse a Cavallero nel marzo 1942, deve essere considerato un nemico.198 Comunicò a Ciano di aver ordinato che per rappresaglia fossero fucilati due iugoslavi per ogni italiano ferito e venti per ogni italiano ucciso ma, con disarmante schiettezza, il genero annotò: «Non lo farà».199 In realtà egli fece e disfece. Il comportamento tenuto dagli italiani nelle zone occupate della Iugoslavia non può certo dirsi mite. Il generale Roatta fu accusato di crimini di guerra e decine di migliaia di «slavi», una cifra considerevole, morirono in veri e propri massacri insieme a donne e bambini, mentre interi villaggi vennero rasi al suolo. Proprio come dieci anni prima in Libia, gli autori delle stragi agirono in qualità di membri del Regio esercito e non come esecutori degli ordini del loro Duce. La responsabilità di Mussolini stava più nella consueta convalida della violenza e della brutalità piuttosto che in precise disposizioni da lui diramate.
I rapporti amichevoli con la Spagna – in base ai quali nell’estate del 1940 Franco era stato sul punto di entrare in guerra, malgrado le disastrose condizioni del paese e il fatto che le sue truppe stavano ancora sparando ai nemici repubblicani – cominciarono a incrinarsi. L’attacco italiano alla Grecia coincise con l’incontro tra il Caudillo e Hitler a Hendaye, dove il Führer si convinse di quanto fosse improbabile che gli spagnoli entrassero in guerra.200 Una successiva visita in Italia di Franco e del suo ministro degli Esteri Ramón Serrano Suñer nel febbraio 1941 non diede risultati: Mussolini parve imbarazzato nel tentativo di spiegare le sconfitte militari italiane, mentre Franco parlò di un recente cattivo raccolto e della povertà della Spagna.201
A partire dal giugno 1941 la guerra «vera» fu combattuta sul fronte orientale tra i tedeschi e i sovietici. Nella lettera in cui lo informava della sua intenzione di attaccare l’URSS, Hitler aveva scritto a Mussolini: «Sento il mio spirito nuovamente libero», in riferimento al passo che i tedeschi stavano per compiere.202 Finalmente aveva la guerra che aveva sempre voluto. La risposta di Mussolini fu apparentemente altrettanto entusiastica. La campagna anticomunista era gradita a molti in Italia – per esempio alla Chiesa –203 e l’ideologia del fascismo avrebbe potuto risorgere. Gli americani erano una seccatura, ma non potevano arrestare la crociata. «La Stimmung del popolo italiano è ottima» concluse. Gli italiani erano pronti a marciare a fianco dei loro alleati tedeschi «sino in fondo». Quelle frasi, però, celavano un’ombra di dubbio. Un conflitto contro l’URSS equivaleva a «una guerra contro lo spazio», ammonì il Duce. Indubbiamente gli aerei e i carri armati tedeschi potevano avere la meglio sulla vastità della Russia, si affrettò ad aggiungere. Dunque non c’era motivo di preoccuparsi.204 O forse sì? Certamente, quando nel novembre 1941 provò ad accennare che la vittoria finale era legata all’esito delle battaglie contro l’Inghilterra sul confine egiziano,205 da Berlino non ricevette la risposta che si aspettava. Né l’interesse nazionale italiano né l’ideologia fascista italiana – dopo l’invasione dell’URSS Mussolini aveva ribadito che, una volta assicurata la vittoria, avrebbe realizzato una «vera» rivoluzione –206 contavano molto al confronto con la titanica battaglia ideologica che si stava combattendo a Est.
In questa atmosfera sempre più irreale è facile capire perché venisse salutata con gioia l’azione giapponese che spinse gli americani a entrare in guerra.207 Con la sua storia di emigrazione, l’Italia aveva più elementi di altri per valutare la potenza economica degli USA. Mentre Hitler era un piccolo borghese della provincia tedesca il cui universo mentale non poteva allargarsi a contenere il vasto mondo, il «professor Mussolini» aveva un tempo aspirato a un sapere universale. Ma tutto questo non aveva più importanza quando l’Italia dichiarò guerra al governo e al popolo americani.208 Nel maggio 1941 Mussolini aveva rabbiosamente bocciato Roosevelt come statista. Disse a suo genero che «nella storia non si è mai visto un popolo retto da un paralitico. Si sono avuti Re calvi, Re grossi, Re belli e magari stupidi, ma mai Re che per andare al gabinetto, al bagno, o a tavola avessero bisogno d’essere retti da altri uomini».209 Fu uno dei suoi tipici sfoghi di brutalità. Eppure, alla fine del 1941 il Duce permise che la fragile e divisa società italiana, e la sua sottosviluppata economia, venissero schierate contro gli Stati Uniti e l’URSS. In una battaglia così impari Benito Mussolini avrebbe imparato il significato (e i costi) della parola «paralisi». E a pagare il prezzo di questo processo di apprendimento sarebbe stata l’Italia.