INDICE

Prefazione......... pag. 9

PREFAZIONE

Supremo coronamento di cinquantanni di piaggi e ricerche dello svedese Sven Bedin è il grande Atlante dell Asia Centrale, ricco di 54 carte, nella scala di 1:1 milione, in corso di pubblicazione presso VIstituto Justus Perthes di Gotha, di cui i Petermanns Geographische Mitteilungen del gennaio di quest* anno danno un primo saggio con la carta n. 45 comprendente la regione di Urumci, teatro di gran parte di quanto è narrato in questo libro. Quest’opera, che riassume diverse centinaia di carte precedentemente pubblicate, e il ricco materiale di descrizioni, notizie e scoperte eh’essa ha a fondamento| assicurano allo Hedin un posto eminente nella storia delle scienze geografiche. Ma, fuori della cerchia dei dotti, il suo nome, più che a qualunque altra cosa, resterà legato a quello del Lop-nor, il lago il cui problema fu il problema dominante della, sua vita di esploratore e di scienziato e che la fortuna gli concesse di vedere là dove egli aveva predetto che un giorno sarebbe dovuto ritornare. Perchè il Lop-nor, che, all’estremità orientale del grande deserto di Takla-makan, a nord del Tibet, e precisar mente nella parte detta di Lop, raccoglie le acque del sistema del Tarim, è un lago errante e si sposta con lo spostarsi di quelle. Fu Sven Hedin il primo, già quarant’anni sano, a intuirlo e a dare al lago questo nome. Spiegava per tal modo il contrasto che era tra i dati delle carte cinesi e la reale ubicazione di esso fino al 1921, anno in cui, ripetendosi in senso inverso quanto era accaduto nel 350 d, C., il corso delle acque del Tarim deviò verso est e il lago venne a riformarsi nel luogo

Si parte per il Lop-nor

La domenica di Pasqua, 1° aprile del 1954, fu per noi un gran giorno, il giorno della nostra liberazione dalla prigionia nella quale eravamo trattenuti a Korla da un mese. Ma Chung-yin, il « Gran Cavallo » e le sue truppe tungane, battuti, fuggivano verso occidente, e la piccola città del Turchestan Orientale era in potere deiresercito del nord, composto di Russi Bianchi e Rossi, di Mongoli e di Cinesi, e comandato dal generale Bektieieff. Su proposta di costui, Sheng Shih-tsai, supremo governatore militare del Sinkiang, ci aveva dato ordine di ritrarci per allora verso oriente, nelle zone desertiche che circondano il Lop-nor e di non venire ad Urumci, il capoluogo, prima che fossero trascorsi due mesi, giacché la strada che conduceva colà, battuta da schiere di soldati tungani in fuga e da bande di saccheggiatori, era ancora pericolosa.

Il governatore, che del Lop-nor non doveva aver sentito parlare mai, non potè di certo aver la minima idea di quanto la sua decisione ci riuscisse gradita, e piu che ad altri a me, che tanto ardentemente avevo desiderato di rivedere quei luoghi che 2000 anni prima erano stati fiorenti, e nei quali il Lago Errante era, nel 1921, tornato, insieme con l'estremo tratto del Tarim, a rioccupare il suo antico letto.

Gli ultimi giorni di marzo non avevamo avuto un istante di riposo, occupati dalla mattina alla sera nelle più diverse bisogne. Avevamo dovuto cucire delle nuove tende leggiere, correre intorno a far provviste di farina, riso, uova, frutta, ch’era quanto in fatto di viveri si poteva trovare per i villaggi, rimettere in ordine le macchine, caricarle di tutta la benzina che ancora era possibile trovare, e infine preparare i nostri bagagli personali Tutto quel ch’era di troppo fu lasciato in una stanza sigillata nel locale che fino a quel giorno era stato la nostra prigione, e un autocarro avariato dato in consegna ai soldati che lo custodissero fino al nostro ritorno.

Come di solito accade quando si è sul punto d’iniziare una spedizione di ima qualche importanza, una quantità di piccole cose ci s’erano accumolate per l’ultimo momento. Sarti, falegnami e fabbri che aspettavano coi loro conti; gente dei villaggi che, attratta dalla fama dei lauti prezzi da noi pagati, era accorsa ad offrirci ancora ròba; acquisti non ancora fatti di

badili, picconi e brocche di rame... e cosi il tempo volava, quando l’ultima àncora potè dirsi levata, mezzogiorno era già passato. Le porte del cortile, che davan su una piccola strada, fiancheggiata da bassi e grigi muri di fango, si spalancarono I la folla dei curiosi si apri davanti alle automobili sovraccariche che si cacciarono fuori con gran frastuono in un nugolo di polvere.

La guerra aveva fatto scappare la maggior parte della popolazione, che s’era dispersa in cerca di luoghi piti tranquilli e sicuri, e i canali d’irrigazione, abbandonati a sé stessi, avevano in qualche punto straripato e inondato la strada. Con l’acqua che* schiumava intorno alle ruote, i nostri tre autocarri, schioccando e rombando, riuscirono a passare, ma la vettura ci rimase e per cavarla dal pantano bisognò ricorrere all’aiuto di alcuni contadini delle vicinanze e tirarla fuori a mezzo di un cavo.

Ci fermammo un paio di minuti nel luogo ormai famoso dove 1'11 marzo s’era combattuto. Nei tronchi dei salici si vedevano ancora i buchi delle pallottole tunganiche. Ma ormai nessun pericolo minacciava piu i fragili ponti di legno, che. cosa mirabile, resistettero senza crollare ai nostri pesantissimi carichi.

I filari di salici son finiti. Passiamo l’ultima casa colonica, dove si vedon delle donne. Segue un tratto di steppa senati alberi né cespugli, poi il nostro viaggio continua verso il sud su uno sterile gobi.

Questa fascia di deserto è breve, ben presto ci ritroviamo, in mezzo a nubi di polvere, su terreno molle lievemente ondulato e coperto di vegetazione. Passiamo parecchi canali, un paio abbastanza grandi. Un ponte cede sotto un autocarro che si rovescia, e per rimettere il colosso sulle sue quattro ruote perdiam molto tempo., Al tramonto siamo alle prime case di Scinnega, un villaggio tutto sparso, abitato ora da poche famiglie

turche. Attraverso un groviglio di piccoli coni di terreno argilloso folti di vegetazione, tra radi alberi e casali abbandonati, passando canali su ponti di legno in pessimo stato, andiamo in cerca di un posto adatto per farci il nostro 52° campo. Alla fine ci fermiamo presso un canale d’irrigazione un pò* piti grande degli altri.

L’anziano di Scinnega e dei dintorni, detto in turco beh e in cinese sciang-ye, era un nobile ed aveva nome Seidul. Egli mise subito sé e la sua servitù a nostra disposizione. Aveva capito che eravamo gente per bene, d’Europa o di Cina, da non confondere affatto coi selvaggi Tungani che saccheggiavano a piacere e non pagavano mai nulla di quel che prendevano. Ci promise di procurarci tutta la farina e il riso e le uova e quante mai pecore c’era da mettere insieme nell’oasi, e bisogna dire che la sua promessa la mantenne come meglio non potevam desiderare.

Ci volle un bel po’ quella sera prima che nel nostro attendamento ogni rumore si quietasse. I nostri meccanici, Giorgio Soderbom ed Effe Hill, insieme coi due autisti mongoli Serat e Giomcia, avevan da passare la solita ispezione alle macchine e riparare qua e là qualche guasto. Un paio di carri tirati da buoi passarono scricchiolando nel colmo della notte e i gridi dei guidatori alle bestie risonavano acuti nel silenzio. Erano profughi che tornavano ai loro campi.

Il giorno seguente, Giorgio, l’ingegnere cinese C. C. Kung, il cosacco Gagarin 1 ed io facemmo in automobile un giro di ricognizione verso Kara-Kum, luogo posto a piu di 30 chilometri a sud, lungo il fiume Konce-daria. Il paese presentava il solito aspetto delle zone intermedie tra steppa e deserto. Terreno argilloso. Le ruote dei carri e gli zoccoli delle bestie e dei cavalli

l’avevano tritato in una polvere finissima che turbinava intorno alla macchina formando una impenetrabile nube. Coni d’argilla si levavano ai lati, ricoperti da una vegetazione piu o meno stenta di cannucce o tamarischi. Le prime case coloniche erano ornate di pioppi crescenti in piccoli gruppi.

Si vedeva ch’eravamo in tempo di guerra. Anche qui le case coloniche erano state abbandonate. Solo con l’aiuto di una ragguardevole ricompensa ci riuscì di vincere tutti i se e i ma di una contadinella che trovammo e convincerla a indicarci in quel labirinto di strade e stradette la via migliore per raggiungere il capoluogo, Yii-li-hsien, la Konce dei Turchi Orientali, situata sulla riva del Konce-daria2.

Vinta la sua prima riluttanza, la ragazzetto mostrò, che non aveva paure. < Venite! > gridò e si lanciò di corsa agile e leggera sui suoi piccoli piedi d’uccello. La seguimmo adagio e con prudenza. Del resto il terreno non avrebbe in nessun caso permesso d’andare piu forte. Fummo presto all’imbocco di un viale di salici. Qui la nostra piccola guida si fermò e disse che il viale menava a Konce.

A Konce, villaggio povero e in cui la guerra aveva fatto sparire anche quel poco che c’era, non sera vista mai un’automobile, e tutta la popolazione, un duecento persone circa, si trovò presto raccolta intorno agli strani ospiti.

Non fu diffìcile trovare il yamen, sede dell*amba, che è come dire il prefetto cinese di Yii-li-hsien. Per esser cosi lontana dalle grandi vie di comunicazione non era affatto una brutta sede. Era formata da piu casette di legno, del comune stile cinese, separate l’una dall’altra da piccoli cortili quadrati. Ci entrammo Kung ed io, seguiti da tutti gli abitanti del luogo, e, superata la guida di pietre levigate dell’ultimo cortile, ci trovammo davanti l’amòa in persona. Era nn oraicino magro e pallido. Dal viso non pareva affatto contento, si poteva dire ch'era spaventato. Né c'era da meravigliarsene. In tempo ai guerra, non si sa mai quel che possa accadere. Ma Kung, ch'era della sua stessa razza, lo tranquillizzò facilmente, ed egli facendo mostra di tutta la sua cortesia ci invitò ad entrare nella sua sala da ricevimento. Il volto gli s'era illuminato. Grazie al cielo non eravamo della medesima lega delle selvagge orde fungane, che già tre volte avevano, nel corso di quella guerra, saccheggiata Konce e dalle quali egli s’era salvato fuggendo nel deserto.

Non è improbabile che fosse il ricordo di quei terribili momenti a indurlo a mostrarsi cosi umile e sottomesso nei nostri riguardi. Non domandò né che cosa fossimo venuti a fare, né che intenzioni avessimo, neanche i passaporti ci chiese. Sulle prime dovette pensare che se eravamo dell’armata del nord, c'era dietro di noi il. governatore generale, e se eravamo una pattuglia di qualcuna delle bande del Gran Cavallo, quando cominciasse a far caldo sul serio, egli avrebbe dovuto cercare ancora per la quarta volta la sua salvezza nel deserto. Ma Kung lo trattò con diplomazia e non passò molto ch'egli ci promise di far tutto quello che era in suo potere per accontentarci.

Sentito che avevamo bisogno di una dozzina di barche, l'iimba fece chiamare un turco del mestiere, e questi ci assicurò che in quel momento a Konce non se ne trovava di nessun genere. Ce n'era a Ciong-kol (gran lago), a 70 li, eh'è quanto dire a 35 chilometri di distanza. Gli si desse un giorno e una notte di tempo e le barche sarebbero state a Konce insieme con gli uomini necessari e coi remi. Ci consigliò di unirle a due. a due o a tre a tre per mezzo di travi traverse e farvi un tavolato, in modo da poterci metter sopra il bagaglio. Su un ponte di tre barche si poteva trasportare fino a 1.500 gin cinesi, e cioè 9 quintali, di roba. Le travi e le assi sarebbero state sul posto a

tempo giusto. Una parte delle provvigioni si sarebbero dovute mandare eoi carri a tre giornate di viaggio piò già lungo il fiume. Quanto alle pecore non c'era da preoccuparsi, perché I pastori tenevan le loro greggi a pascolare sulle rive fino a To-menpu, che è il punto iq cui il nuovo fiume, il Kum-daria, lascia il vecchio letto del Konce-daria.

Ci alzammo per tornare all’accampamento a Se in nega; ma l’amba che era visibilmente felice d’avere in tempi cosi inquieti incontrato gente dabbene e cortese, ci pregò con molta insistenza di restare a consumare una modesta cena con lui. Poiché un rifiuto gli avrebbe fatto dispiacere promettemmo di tornare di li a una mezz'ora.

Volevamo, di fatti, prima che fosse sera, fare una ricognizione sulla riva sinistra del Konce-daria, non molto distante di li, e cercarvi un porticciolo che fosse adatto a raccoglierci le barche e di dove potessimo iniziare il nostro lungo viaggio fluviale verso il nuovo lago.

Trovammo una piccola insenatura, dove vedemmo due carri1 dalle alte ruote che erano stati cacciati in acqua per esservi lavati, il che offriva ai cavalli, ch’eran rimasti attaccati, l'opportunità di un rinfrescante bagno. Poco piu su la riva scendeva a picco formando una specie di vallo sull’acqua profonda. Il posto ci piacque, è col nostro uomo fu stabilito che le barche ordinate si sarebbero dovute trovare attraccate colà a mezzogiorno del 4 aprile.

Come sono strane e inesplicabili le vie della vita! pensavo nel rivedere quei luoghi dove io m’ero ritrovato la prima volta nella primavera del 1896. Chi si sarebbe allora immaginato che, dopo 38 lunghi anni, ci dovevo ancora una volta tornare?

Lo spettacolo offerto dal Konce-daria era grandioso. Le Tire 4 eran tutte folte di arbusti e qua e là orlate di bosco, e un’isola a forma di lancia si celava a ridosso della sponda destra. Di barche se ne vedeva una sola, ma era mezzo sfasciata e con-

dannata, tutta piena d'acqua com'era, a disfarsi. Io non vedevo l'ora d'essere a bordo della flottiglia che avevamo ordinata, e percorrere a forza di corrente e di remi il deserto, una volta affatto privo d'acqua, verso la nostra misteriosa meta lontana, il Lago Errante.

Frattanto nel yamen era stata preparata la cena. Ci fu servito il piatto tradizionale dei turchi orientali: pasticcio di riso cotto in grasso di pecora, con uva passa, carote e cipolla; poi pilmén (agnello tritato avvolto di pasta); uova battute, pecora lessa, e cioè in gran parte i soliti pesanti piatti maomettani, ma nessuna delle leccornie della raffinata cucina cinese.

Finita la cena, ci alzammo e prendemmo congedo. Il crepuscolo era già avanti, e la notte alle porte. Giorgio assicurò che anche senza fanali poteva seguire la traccia delle ruote lasciata al nostro venire. Ma non facemmo molta strada che egli ci aveva già cacciati nel fango e come ogni sforzo per riportare l'automobile su terreno solido fu vano, dovemmo rassegnarci a andare a cercare a piedi dei contadini e a farci aiutare da loro a trar la macchina fuori e a rimetterla sulla strada giusta. Questa volta però accendemmo i fanali e di li a non molto fummo di ritorno al campo.

Anche il 3 aprile fu da noi passato a Scinnega. Quelli che dovevano fare il viaggio sul fiume: il dott. David Hummel, l'ingegnere C. C. Kung, il signor Parker C. Chen ed io, oltre due dei quattro russi e un paio dei nostri servi cinesi, raccogliemmo le nostre robe e le impaccammo. Il cuoco Chia Kwei, aveva un grandissimo da fare con la cucina portatile, le pentole, il cal-daretto, i piatti e i viveri. Fu aggiunto al servizio un turco orientale, Ibrahim, che nel 1928 era stato con Bergman. Era un abilissimo cacciatore di antilopi. Ma quando fu per lasciare la moglie i figli e i suoceri a Scinnega, ci pregò gli pagassimo in anticipo una parte del suo compenso, cosa che gli fu accordata senza difficoltà.

Tutto il bagaglio che doveva essere avviato sul fiume, compresivi i viveri necessari a quindici persone in due mesi, venne caricato verso rimbrunire su tre carri, i quali dovevano nella nottata raggiungere Konce ed esser messi sotto la custodia dell'amba nostro nuovo amico. Un quarto carro avrebbe la mattina seguente portato due tende i letti e la cucina.

Quando l’alba cominciò a rosseggiare, la carovana del fiume prese congedo da quelli che dovevano proseguire con le macchine. Questi ultimi dovevano, inoltrandosi nell'interno, portarsi a una ben nota ansa del fiume, detta Saj-ceke, dove io avevo fatto un campo nel 18%. Colà i due gruppi si sarebbero incontrati. Il giorno preciso dell'incontro non fu fissato, dati gli imprevisti che il viaggio poteva presentare e per terra e per acqua. Chi fosse arrivato primo avrebbe aspettato gli altri. Finché non eravamo troppo lontani dai luoghi abitati, il collegamento poteva e doveva essere mantenuto, ma quando i due gruppi si fossero separati per l’ultima volta, in luoghi non frequentati da nessun'anima vivente, ciascuno doveva contare su sé stesso.

Come fummo a Konce, ci recammo immediatamente a fare omaggio all’amba. Egli ci comunicò che tutto quel che noi avevamo ordinato si trovava pronto al luogo stabilito, e si fece un dovere di accompagnarci egli stesso. Il posto d’imbarco, che noi avevamo scelto, presentava ora un ben diverso aspetto. Sei canotti grandi e altrettanti piu piccoli erano ormeggiati ciascuno a un remo piantato sullo scoscendimento della riva a terrazza. Su di essa si alzava un’intera catasta di assi lunghe quanto due canotti presi pel largo, e daccanto un mucchio di travi delle medesime dimensioni.

Dieci sud, che alla lettera vuol dire « marinai », ma in realtà non erano altro che dei rematori, furon presentati dall’amba. Sadik, Hajit e Rozi venivan da Ciong-kòl; Seidul, Ha^chim e Musa Ahun, da Konce; Sajif, Aveile, Abdurahim e Osraan, da Ak-supe, un villaggio sito a un paio di giornate a valle del

fiume. Capociurma fa nominato Seidul.

I canotti che sono i) principale mezto di trasporto di tatto la regione del Tanni, a partire do poco piu giu di Jarkend per tutto il corso del fiume, vengono scavati con Tascia entro interi tronchi di pioppo. Un canotto di grandezza media è lungo circa quattro metri e stretto tanto che un uomo seduto sul fondo con le gambe tese e le mani appoggiate ai due bordi non ha spazio sufficiente per rigirarsi. Poiché il tronco nel quale l’imbarcazione è scavata è lasciato tondo com’è, [equilibrio sull’acqua è alquanto precario: basta che il peso si sposti, ed essa tende a girar su sé stessa. Ma i rematori sono altrettanto sicuri e avvezzi alla manovra quanto i nostri fluttuato» norlandesi nel guidare i tronchi che vengono avviati giti pei fiumi. Il rematore sta in piedi o in ginocchio a poppa e manovra abilissimo col suo remo dalla larga pala. Se si ha fretta, si prendono due rematori e il battello frulla via velocissimo. Ci vogliono alcuni giorni prima che uno s’abitui ai rapidi movimenti deU’imbar-cazione e impari a seguirli col corpo aiutando a mantener lequilibrio.

Senonché in un viaggio come quello, di circa due mesi, a bordo c’era da lavorare. Io dovevo fare una carta particolareggiata del nuovo fiume Kum-daria, e Cben aveva da misurarne il volume d'acqua, la profondità, la velocità della corrente, la larghezza eoe. Il compito di Kummel era di raccogliere piante e animali,, in ispecie uccelli, e prepararli per la conservazione. Ove a questo s'aggiunga tutto il carico che ci seguiva: viveri, tende, letti* e il resto, si può comprendere che quegli oscillanti e malsicuri mezzi di trasporto non eran l’ideale, ragion per cui li facemmo appaiare e coprire a metà da un ponte di assi. Per il mio lavoro da tavolino, ch’era stato fatto con una cassa vuota, avevo da starmene seduto sull’ultima asse del ponte coi piedi ciascuno in uno dei due canotti. Dietro avevo il mio letto fissato al ponte, e me ne servivo da spalliera. Dei due miei rematori,

Sadik stava in piedi o seduto a prua del canotto di destra» Hajit, a poppa di qnello di sinistra. Remavano quasi adira interruzione l’intiero giorno, e in generale posso dire che si avanzava piu a forza di remi che portati dalla corrente.

Chen aveva sistemato i suoi due canotti in maniera da poter fare le sue misurazioni, e con due casse sera fatti due bassi tavolini da collocarci gli strumenti. L'imbarcazione di Hummel prese ben presto l’aspetto di un laboratorio. L’ingegnere Kung, che i primi giorni fu con noi, se la passava in genere da Chen e gli faceva da aiuto.

Nella quarta imbarcazione avevan messo casa il cuoco Chia Kwei, un cinese battezzato presso una missione svedese, e il giovane cosacco Eraschin Sokolenko. Avevan con sé la cucina con tutti i suoi arnesi e una parte delle provviste. Un altro cosacco, Costantino, da Semiresciensk, che parlava turco, russo, e anche cinese e mongolo, fu preso da Hummel come assistente per la preparazione degli uccelli da imbalsamare, e si portò magnificamente.

Non è necessario dire che gl'instabili canotti, una volta appaiati e forniti di ponte, furono Timbarcazione piu sicura che si potesse desiderare. I viveri, che, data la quantità, eran di troppo peso per due canotti, furono divisi in due parti e caricati su due imbarcazioni di tre canotti ciascuna. Il numero dei canotti da noi comprati fu pertanto in tutto di quattordici, e la superba fiotta con la quale ci apprestavamo alla conquista del fiume fino al Lop-Nor, costò tutta insieme non piu di sessanta corone svedesi.

La giornata se ne andò in questi preparativi e le nostre due tende furon per quella sera piantate sulla riva. Gli uomini inviati in esplorazione per i bazar di Konce tornarono con altri 800 gin, e cioè 480 kg., di farina, che stabilimmo di far trasportare coi carri fino al villaggio di Ak-supe. Tra gli altri acquisti fatti in quel giorno c’era ancora ri so, uova, noci, corde, roba da

riaggio, e alcune travi d’una certa lunghezza. Reti e altri arnesi da pesca sarebbero stati approntati ad Ak-supe. Ma per tutto il viaggio non accadde mai che ce ne servissimo. I contadini poveri che eran venuti a Konce e i mercanti rovinati dalla guerra eran molto lieti di avere alfine trovato dei clienti che pagavano onestamente tutto quel che prendevano. Gli uomini d’equipaggio, i nostri sud, ai quali erano stati assegnati cinque dollari d’argento al mese e tutti i trattamenti, ebbero un mensile d’anticipo per le loro famiglie. AU'uItimo momento ci accorgemmo d’aver bisogno ancora d’un uomo, è un undecimo sud, Apak da Konce, fu assunto.

Solo la sera la folla di curiosi che s’era raccolta intorno sulla riva cominciò a diradare, e noi potemmo finalmente ritirarci nelle tende a riposare.

Avevamo sperato di poter partire il giorno dopo a buon'ora, ma un gran numero di piccole cose restavano ancora da fare. Si dovettero comprare delle stuoie di paglia e dei bastoni per costruire dei ripari contro il sole per Hummel, Chen e me. Poi ci fu da mettere a posto i bagagli personali che i rematori venendo s’eran trascinati dietro, e che , furono ammassati su una delle imbarcazioni a due canotti, riservata per loro. Infine Chen s'appollaiò sul ciglione della riva e si mise a distribuire biglietti di banca cinesi (35 per un dollaro d’argento) agli ultimi fornitori.

Il sole aveva già compiuto piu di metà del suo corso, quando, terminato il lavoro d’imbarco e assicurata con legami ogni cosa, il 5 aprile 1934, i rematori armati dei loro remi si disposero ai loro posti. Tutti gli abitanti della cittaduzza con l'amba in testa erano stati pazientemente ore e ore ad aspettare per assistere allo spettacolo della nostra partenza verso i misteriosi luoghi dove la corrente ci avrebbe portati e dove ancora nessun uomo s’era mai avventurato. Nessuno di costoro aveva mai visto nulla di simile, né poteva capire perché noi partissimo con tanta

scorta di viveri verso oriente e andassimo ad affrontare il deserto sulla via aperta dal nuovo fiume. Qualche mercante che con la sua carovana sera piti degli altri inoltrato da quelle parti, Bvero vagamente sentito dire che il nuovo fiume Kum-daria, che s’era formato tredici anni innanzi, continuava il suo corso fino a Tun-hwang nel Kansu. Per noi, penetrar nel deserto fin dove il fiume ci avrebbe portati, era cosa abbastanza facile, ma come avremmo fatto al ritorno, quando la corrente l’avremmo dovuta risalire? Era una domanda su cui era impossibile che il pensiero non s’arrestasse un istante. Vero è che, quanto a me, quel che piu m’importava era di arrivare a far la carta del fiume per tutta la lunghezza del suo corso. Come di poi sarebbe andata, era cosa che a preoccuparsene sì poteva anche aspettare che ne fosse venuto il momento. Avevamo le automobili, e se il terreno non ci avesse permesso di servircene, potevamo sempre, nel peggiore dei casi, rifar la via a piedi lungo il fiume, dove avremmo avuto acqua, uccelli e pesci per ogni nostro bisogno. Un lieve alone d’avventura e di gioco d’azzardo avvolgeva il nostro viaggio, ma era anche quel che lo rendeva piti attraente. Per il primo tempo la nostra via era ben determinata fra due punti di riferimento e d’appoggio; la grande avventura non sarebbe cominciata se non quando ogni nuova giornata ci avrebbe portati sempre piu lontano dall’ultimo di essi.

Due ragazzi accoccolati sulla riva fan coppa delle mani e vi gustan la torbida acqua del fiume.

c Tutto pronto? » domando.

« Tutto pronto, signore!» .

« Salpa! ». Sadik, il mio rematore, a prua, affonda il remo verticale nell’acqua e ci grava sopra con tutto il corpo, mentre Hajit, a poppa, punta il suo contro la riva. Il battello ondeggia un po’, si stacca e scivola via in mezzo al fiume che Io prende subito nella sua corrente. L'isola lanceolata della riva destra scompare a tribordo. Tutta la fila delle imbarcazioni a due o a

Ire canotti segue nella nostra scia. Le capanne e le grige case rii argilla di Konce si perdon presto in una massa confusa alle nostre spalle... e con esse la folla della riva il cui silenzio era stato appena rotto da qualche isolato: « Khuda jol versun! »Dio vi guidi!

Prima giornata sul fiume

Gioia meravigliosa e superba! Nessuna parola può dire quant’ io fossi felice. Un intero mese tra le orde fungane, continuamente minacciati di morte, chiusi tra quattro mura di carcere e privi d'ogni ombra di libertà. Ed ora avevamo dinanzi a noi l'ampio selvaggio deserto, senz'altra guardia che quella dei due bonari cosacchi, pei quali quel viaggio in battello costituiva una gradita interruzione del pesante servizio di guerra. Ben presto ci saremmo lasciate alle spalle le ultime creature viventi su quella parte di terra. Tante e tante giornate della mia vita dovevano ancora trascorrere su un fiume asiatico! Di simili viaggi io conservavo incancellabili e preziosi ricordi. Nel 1899 avevo percorso in traghetto l'intero Tarim. L'anno appresso avevo esplorati in battello i sinuosi bracci del suo delta d'allora tracciandone la carta. Nel 1907 avevo fatto un breve ma indimenticabile e pittoresco viaggio sul Tsangpo o Brahmaputra superiore nel Tibet. Nove anni dopo avevo con un traghetto fatto 104 miglia svedesi (1040 km.) sull' Eufrate da Gerablus fino a Felugia, e nel 1930 ero con una giunca cinese disceso sul Luan-ho da Jehol al mare.

Ed eccomi in un nuovo idillio acquatico sopra un fiume dell’Asia. Ma questo viaggio era piu' importante dei precedenti. Doveva porre l'ultima pietra alla soluzione di quel complesso

idi problemi idrografici e geologici che son connessi col < Lago Errante>. Ed era per questo che il viaggio sul Konce-daria e sul Kum-daria, che lo continua, aveva per me assai più interesse e attrattiva che alcun altro di quanti mai ne avevo fatti.

Vivevamo sull’acqua. Era l'acqua che ci serviva da forza motrice portandoci senza mai soste sempre più presso alla nostra meta lontana. Compatta e grave fluiva nella sua gran massa verso oriente sul lento declivio del suo letto capriccioso. La via fluviale che noi ora navigavamo, costituiva restrema parte dì tutto il sistema idrografico che ha per suo tronco principale il Tarim. Quanto più ci saremmo inoltrati versò oriente, tanto più il fiume si sarebbe ristretto. A un paio di giornate di viaggio avremmo passati gli ultimi piccoli affluenti provenienti dal Tarim; li' sarebbe cominciata una serie di laghi e paludi che togliendo ciascuno al fiume la sua buona parte gli lasciano sempre meno acqua.

Dal viaggio fatto dal docente Nils Horner e da Parker C. Chen nell'inverno 1950-31, sapevamo che la credenza che il fiume giungesse fino a tre giorni di viaggio da Tun-hwang era errata. Dove il Lop-nor fosse situato e dove il Kum-daria cessasse, lo sapevamo anche. La questione da chiarire era solo se il fiume fosse navigabile fino al punto dove Horner e Chen avevan rilevato il suo delta. Questo era il grande interrogativo del viaggio di scoperta che noi iniziavamo il 5 aprile.

L'acqua grigio-verde, dalla quale ci lasciavamo portare, veniva da regioni lontane. A riempirne un bicchiere, c'era bene da smorzare la sete, ma nessuna goccia poteva rivelare in che punto della terra fosse precipitata dalle nubi, per andare poi attraverso ruscelli e fiumiciattoli a finire nel 'Tarim. Il Kasch-gar-daria, il Gez-daria e il Raskan-daria portavan acque che eran scese giù dal Pamir, dal Kara-korum e dagli eterni nevai e azzurri ghiacciai del Tibet occidentale. Il Kara-kasch e il Jorun-kasch recavano al Khotan-daria, che per un paio di

mesi si riuniva l’estate col Tarim, le acque delle rocce dei Kun-lun. Cosi i Tien-shan e 1 Khan-tengri mandavano il loro contributo al tronco principale per mezzo dell’Aksu-daria. Per una gran parte l’acqua che sciabordava e schiumava sotto | nostri canotti traeva la sua origine dai Tien-shan, dove sou le sorgenti del Khaidu-gpl, il fiume che al principio di marzo noi avevamo traversato presso la città di Kara-schahr.

Bere l’acqua del fiume, sul quale noi ora avevam da vivere per un certo tempo, non era perciò come bere quella di una fonte o di un ruscello tra i monti. Ogni sorso aveva in sé un suo complesso e mirabile mistero. V’eran dentro i tributi di tutto l’interno dell’Asia, della vera e propria Asia Centrale, di quella specie di corona formata da alcune delle più alte e selvagge montagne della terra, che chiudono per tre lati, da nord da occidente e da sud, il bacino del Tarim. Ci si fa presto l'abitudine, ma sul principio si resta un po’ smarriti al pensiero dell’enorme mondo montano, dal quale questo fiume, che s’apre pigro la sua contorta via verso oriente, trae le sue sorgenti. Si ricevono bevendo e si ricambian saluti dalle lontane alte regioni dei ghiacciai e delle nevi eterne, dove l'ovis Poli, la pecora selvatica di Marco Polo, dalle potenti corna attorcigliate, vive la sua libera vita passando con ampi salti di rupe in rupe. Si ode lo scroscio dei torrenti che portan giù l’acqua dei ghiacciai e delle nevi disciolte e sulle cui rive le antilopi orongo e i jak pascolano tranquilli, l’eco lontana dei monotoni canti dei cacciatori tibetani e gli scoppi dei loro fucili ad avancarica. Là dove il fiume è ancora giovane corrono gli asini selvatici incalzati dai lupi. Per i prati e i pascoli delle alte valli dei Tien-shan, dove i Chir-ghisi e i Mongoli hanno i loro jurt, è di quest’acqua che greggi e pastori si dissetano, di quest’acqua le cui ultime correnti portavano ora noi verso est.

Per tutte le contrade, dove le sorgenti di questo fiume cantano le loro interminabili canzoni, io ero passato con le mie

carovane di cavalli, di jak o di cammelli, e 44 anni eran già trascorsi dal tempo in cui io le avevo per la prima volta conosciute. Non era strano perciò che a me questo viaggio desse come il sentimento di un ritorno, e che io guardassi ai mulinelli alternantisi in silenziosa danza sulla superficie uguale del fiume, come a vecchi amici. Era come se io mi sentissi tra cose familiari e note.

Ah, si, voi venite dai ghiacciai del Muz-Tagh, dal Taghdum-basch-Pamir, dalle terribili montagne di dove io neirinverno tra il 1907 e il 1908 cominciai la marcia della morte attraverso il Tibet verso la città claustrale di Taschi-lunpol Ricordate come voi infuriavate schiumeggiando e rombando attorno al mio piccolo e bianco Ladaki che mi portava attraverso i vostri freddissimi alvei ghiaiosi?

Il corso del Tarim, come quello della maggior parte dei fiumi del deserto, somiglia al corso della vita umana nei suoi diversi stadi. Nella sua fanciullezza è un rivolo che ciancia alle piu grandi altezze tra muschi e licheni; tocca la gioventù: eccolo fragoroso e balzante torrente, che con forza irresistibile s’apre il suo letto tra le più aspre rocce; giunto al culmine della sua virilità, lascia i grandi ostacoli montani e raccogliendo la sua tonante potenza fluisce più assennato e più lento in regioni più piane. Il fiume invecchia. Il suo corso si fa sempre più tardo e più quieto. La forza ch’egli ha accumolata durante la sua vita, già trascorsa, non s’accresce più, declina. Come l’uomo egli ha già il suo meriggio. Non combatte più, s’abbandona e vegeta, perde ogni giorno del suo volume, fino a che muore dilagando nella tomba che l’attende, la tomba del Lop-nor, del « Lago Errante ».

E tuttavia noi saremmo presto giunti al luogo dove avremmo potuto constatare coi nostri occhi che il Tarim, neanche nella sua parte inferiore, era stato mai cosi' indebolito dall’età e dalle fatiche da non aver la forza di compiere ancora qualche grande

gesto. Al luogo, intendo, dove nel 1921 esso, malgrado la H apparente debolezza senile e la sua tranquilla pacifkità, era riuscito a rompere i suoi ceppi secolari per andare a cercarsi una nuova via. Ed era per le poco profonde ma continue anse di questo fiume che noi ci trovavamo a navigare verso est-sud-est.

Per ogni ansa le rive a terrazza sono, dalla parte concava, fortemente erose e generalmente a picco, alte da uno a due metri, mentre la parte opposta scende con dolce pendio ed è comunemente orlata di mota. Pioppi in gruppi radi o isolati si levano sull’una e sull’altra sponda. Non è l’alto pioppo a piramide, ma il populus diversifolia dalla corona bassa e rotonda che predomina in tutto il Turchestan Orientale. Cespugli spinosi, tamarischi e cannucce prosperano ai loro piedi, e tra essi appare di tanto in tanto un pastore con la sua greggia di pecore o di capre.

Ecco là sulla riva sinistra una satma, una capanna del tipo piu' primitivo, fatta di bastoni, di rami, frasche e fasci di canne. Ivi un pastore ha il suo ricovero per la notte, mentre la greggia è raccolta in un chiuso. Un piccolo canale di fronte conduce a un vicino laghetto, uno dei tanti parassiti del fiume che lungo tutto il suo corso ne succhiano la forza vitale. Nel periodo delle piene il canale è addirittura un piccolo fiume, che si riversa nel bacino poco profondo del suo lago. La forte incessante evaporazione fanno dell’uno e dell’altro una specie di pompa naturale.

Scivoliamo quieti e senza intoppi sulla corrente. Non c’è vento. L’acqua è a volte liscia e lucida come uno specchio. Le immagini dei nostri pittoreschi canotti vi si riflettono nette e precise.

Un paio delle nostre imbarcazioni son davanti a noi, un paio di dietro. L’ordine della fila muta continuamente: ora siamo in testa, ora in coda. I rematóri cantano. Le loro monotone e malinconiche canzoni aiutano a remare. Un rematore che canti

non si stanca, o almeno, non avverte d'essere stanco se non quando smette di cantare. Il canto comincia col primo colpo di remo e il tonfo della pala nell'acqua fa da accompagnamento. A volte, quando i canotti si ritrovano in gruppo, i rematori attaccano all'unisono o passano a una specie di canto alterno, chiuso in fine da un ritornello intonato da tutti. Il repertorio non è grande, le medesime canzoni ritornano ogni giorno ed echeggian sul fiume dall'alba al tramonto. Le abbiamo già imparate quasi a memoria, ma non ci si stanca e si capisce cbe senza canto non si rema.

Un'asse messa per traverso mi fa da sedile; dinnanzi ho una cassa cbe mi fa da tavolino, e sopra v'è spiegata la carta n. 1. La bussola, l’orologio e una matita sono i miei strumenti più importanti. Molto di rado mi riesce di tracciare un rilievo in cinque minuti, perché in genere non ne passan due che già abbiam cambiato di direzione. Questo mi costringe a lavorare in fretta e non mi dà un attimo di sosta, ed è assai se, ove la rotta per qualche minuto non muti, mi riesce di prendere un appunto nel mio giornale.

Ugualmente occupato è Chen, che non cessa mai di misurare la velocità della corrente e quella che i canotti raggiungono con 1’aiuto dei remi. I remi han più importanza della corrente. La somma dei due valori dà la distanza percorsa. Tra i compiti di Chen v'è anche quello di misurare spesso la profondità e qua e là la larghezza del fiume.

Hummel ha il suo laboratorio su una delle imbarcazioni a tre canotti, ed è continuamente in attività dietro le sue piante, i suoi insetti e i suoi uccelli. Ben presto lo perdiamo di vista.

Il sole è poco alto sull'orizzohte e i suoi raggi colorano di rosa i cespugli, i tronchi e le terrazze delle rive.

Eran circa le sei quand'ecco che il mio primo rematore, Sadik, improvvisamente gridò: < Or deh, helldil ».

Ordeh in turco orientale significa « anitra selvatica »•

kelldi, « è venuta ». Occupato come ero con la mia carta, il mio primo pensiero fu che Sadik mi volesse far vedere la prima anitra selvatica che incontravamo a due ore da Konce. Ma quando egli m'indicò due uomini a cavallo che sulla riva sinistra si erano arrestati e facevan cenno di volere parlare con noi, capii che uno dei due, un vecchio con la barba bianca, era il mio antico servitore Ordek, « Anitra selvatica », che era venuto per vedere ancora una volta nella sua vita, dopo più che trent'anni, il suo padrone d'un tempo.

Diedi subito ordine di dirigere sulla riva. Tagliammo il fiume di traverso e andammo a prender terra presso il punto dove i due uomini, smontati da cavallo, stavano ad aspettarci. Il vecchio si calò giù per la terrazza appena alta due metri e sali a bordo. Con le lacrime agli occhi mi venne incontro tendendomi le sue mani indurite e incallite dal lavoro e dagli anni. Era proprio lui Ordek in persona. Era magro pieno di rughe e in* fossato, la fronte era segnata da profondi solchi, il volto abbronzato dal sole, la barba e i mustacchi gli scendevano in ciocche arruffate fin sul petto. In testa portava un berretto di pelliccia consunto, indosso una ciapan del tipo comune, quella specie di casacca usata dai Turchi Orientali, senza più colore e logora, stretta alla vita da una cintura di cuoio. Si vedeva che i suoi stivali quasi interamente consumati erano stati portati per anni è avevano stampato innumerevoli orme per deserti e steppe e boscaglie.

< Benvenuto Ordek! Come te la sei passata da che c’incontrammo l'ultima volta? ».

« Dio mi ha protetto, Signore, fin da quando io fui al vostro servizio. La fame non l’ho patita, ma è già un pezzo che avevo perduto la speranza di avervi più a rivedere ».

« E come hai fatto a sapere che proprio oggi io sarei passato sul fiume? ».

« Oh, non è ancora un mese da quando nella mia capanna

di Jaitghi-koJ mi giunse la voce che voi eravate di nuovo a Korla, e da allora non mi son dato più pace fino a questo momento che v’ho ritrovato. Quando, trentadue anni or sono, ci separammo a Kaschgar, voi prometteste di tornare un giorno a rivederci. E noi v’aspettammo, v’aspettammo, ma non venivate mai. Tanti ne son morti dei vostri servi d'allora, ma tanti vivono ancora. Ed io sono felice che il mio voto si sia finalmente compiuto ».

Ordek era entrato al mio servizio nel novembre del 1899. Io scendevo allora con un traghetto la maestosa corrente del Tarim, e di li a poco rimasi prigioniero dei ghiacci. Egli era stato anche uno dei quattro uomini che m’avevano accompagnato attraverso il deserto di Takla-makan, tra Janghi-kol e Tatran, presso il Cércen-daria. La notte di Capodanno del 1900 egli era con me e coi suoi tre compagni seduto accanto a un piccolo fuoco nel cuore del gran deserto.

Nel marzo del 1900 m’aveva seguito nell’importante esplorazione ch’io avevo intrapresa del letto, a quel tempo da 1600 anni secco, del Kum-daria. Né gli era mancata la sua parte d’onore nella scoperta delle rovine di Lou-lan da noi fatta il 28 di quello stesso mese. Giacché, inviato, con uno dei due cosacchi che m’accompagnavano, a condurre i cammelli per la via più comoda, era stato lui uno dei due che primi avevano scoperto delle case di legno fra le più antiche costruite da mano d’uomo. E li, dopo il primo scavo sommario che vi facemmo, egli aveva dimenticato, partendo, l’unico badile che noi possedevamo, e perciò gli era toccato di tornare dal nostro prossimo accampamento a riprenderlo. Durante la notte era scoppiata una bufera ed egli, benché le tracce da noi lasciate fossero completamente scomparse, aveva continuato imperterrito il suo cammino ed aveva avuto tanta fortuna da andare a finire tra le rovine d’un tempio, dal quale aveva preso con sé un paio di belle sculture in legno, che ora fan parte

so

delle collezioni dell’Asia Orientale a Stoccolma. Con tutto questo non aveva pensato a ritornare se non dopo aver raggiunto la meta e recuperato il badile. E noi dopo due giorni ce lo vedemmo, con nostra grande gioia, ricomparir davanti, quando ormai avevamo perduto ogni speranza di rivederlo.

La scoperta ch’egli aveva fatta del tempio, m’aveva allora indotto a cambiare tutto il mio piano di viaggio. Era roba della più grande importanza storica che si trattava di ricondurre alla luce, e però avevo deciso di tornare all’antica città del deserto nella prossima primavera.

Quando nell’estate del 1901, travestito da mongolo e accompagnato dal cosacco burjatico Schagdur e dal monaco mongolo Schereb Lama, ero partito da Karaschahr, nel Tibet settentrionale, per fare una puntata verso Lhasa, avevo preso con me Ordek per aver chi la notte stesse a guardia dei cavalli e dei muli, e poter dormire almeno un paio di volte tranquillo in un paese affatto disabitato com’era quello.

Eravamo andati avanti due giorni senza veder traccia d’uomo, e ci eravam messi tranquilli a dormire anche la seconda sera. Ma ecco che verso mezzanotte Ordek caccia la testa per l’apertura della mia tenda e fuor di sé dal terrore grida con quanto fiato ha in corpo: Bir adam kelldi, « un uomo è venuto! ». Ci precipitammo fuori armati di fucili e pistole e li scaricammo dietro a un paio di predoni che avevan rubato i due nostri migliori cavalli. La mattina dopo, Ordek aveva dovuto prender solo e a piedi la via per la nostra base di partenza, dove giunse il giorno dopo in uno stato da far pietà, in tal furore l’avevano messo le ombre che aveva viste la notte e che aveva scambiate per predoni che volessero fargli la pelle.

L’ultima volta che io avevo visto l’onestissimo Ordek, la fedelissima « Anitra selvatica », che aveva avuto una parie cosi importante in un periodo della mia vita ormai da tanto tempo trascorso, era stato il 29 dicembre 1906.

Quando, passato il primo momento, avevo capito che il mio rematore Sadik col suo Ordek kelldi non intendeva affatto parlare di una comune anitra selvatica, ma che in realtà si trattava del mio vecchio compagno di viaggio e fedele servitore, ero stato colpito dalla somiglianza che quel breve annuncio, Ordek kelldi, aveva con quell'altro ben sinistro, Bir adam kelldi, immediatamente tornatomi «alla memoria, che Ordek mi aveva dato nel Tibet quella lontana notte che le raffiche del vento passavan lamentose tra le tende e nubi di tempesta correvano come minacciosi draghi sotto la luna. Quelle parole potevano fare al caso anche ora. Bir adam, « un uomo » era allora un predone, che la banda aveva mandato avanti in un burrone per spaventare e mettere in fuga i cavalli nella direzione voluta. Ora, dopo trentatre anni, l'uomo che era venuto non era altri che il mio buon Ordek. Ma, cosi vecchio com’era, che cosa si poteva ormai piu cavare da quell'incontro tardivo?

L’altro cavaliere, che in compagnia di Ordek era venuto a tagliarci la via sul Konce-daria, era suo figlio, Sadik. Perché Ordek s'era sposato qualche anno dopo che noi c’eravamo lasciati. E tanto lui che suo figlio avevano ora le loro capanne di canne a Ciara, presso Janghi-kòl, e vivevan di pesce, anitre, oche selvatiche e uova. Il loro territorio era stato saccheggiato già un paio di volte, nella guerra in corso, dai Tungani che avevan loro portato via due cavalli e parecchie pecore.

Era a Janghi-kòl ch’io avevo avuto il mio campo-base nell’inverno 1899-1900. Il Tarmi, nei cui ghiacci il mio traghetto era rimasto bloccato, era allora un potente fiume che raccoglieva in sé tutte le acque del Turchestan Orientale, fatta eccezione del Konce-daria, che aveva il suo proprio corso e solo molto piu giu si univa al fiume principale. Di tanta ricchezza non rimanevano ora che poche tracce d'acqua in via anch’esse di scomparire, e di cui neanche una goccia arrivava al lago di Kara-koschun, sul quale io nel 1896, nel 1900 e nel ’901 avevo fatto lunghi viaggi in canotto. Tutta la regione, dove quel lago, scoperto tra il 1876 e il *77 da Prachevalskij, aveva avuto il suo alveo, stava allora per trasformarsi in deserto. Le acque avevan deviato nel 1921 piti a nord, ed era questo nuovo lago, lo storico lago di Lop-nor, risorto dopo un millennio e mezzo, che costituiva la meta del nostro viaggio. Una guida piti sicura del fiume, le cui acque noi scendevamo inoltrandoci sempre piti verso est, non l’avremmo potuta desiderare.

Ma ora non potevamo piti trattenerci. 11 sole era già per spegnersi tra i pioppi ad occidente. Il crepuscolo avrebbe presto steso il suo velo sul fiume e i sondaggi tra tutte quelle anse sarebbero diventati difficili. Ordek s’arrampicò sulla terrazza della riva, risali sulla sua logora sella e parti di galoppo, insieme con suo figlio, per precedermi. Doveva cercare un posto dove ci fosse legna da ardere e preparare tra gli alberi un’area abbastanza grande per le nostre tende.

Il fiume correva, in questo tratto, quasi in linea retta verso sud-est, si che l'ultimo barlume di giorno non sera spento quando noi giungemmo al luogo dove i due cavalieri avevan legato i loro due cavalli, e armati di ramaglie stavano a spazzare e a ripulire un tratto di terreno proprio all’orlo della riva. A contar da Kwei-hwa, per Etsin-gol, Hami, Turfan, Karaschar, Korla e Yu-li-hsien (Konce), questo era il 54° campo. Quel tratto di boscaglia si chiamava Uzun-bulung, che vuol dire: c La lunga ansa ».

Tra gridi e batter di remi le nostre imbarcazioni furono spinte a terra ed allineate in lunga fila sulla riva. Era questo il primo bivacco nella steppa, ma gli uomini mostrarono immediatamente di conoscere le loro parti trasportando in un batter d’occhio tende, casse e cucina a terra. Mentre il cuoco Chia-Kwei metteva su la nostra semplice cucina all’aria aperta, Ordek e suo figlio raccoglievano frasche da fare il fuoco, e un paio di rematori attingevano acqua dal fiume.

La tenda in cui Hammel, Chen, Kung ed io dovevamo passar la notte, fu presto ammobiliata con i nostri quattro sacelli a pelo e le cassette personali. Tra i radi pioppi, i tamarischi e i cespugli si scorgeva per l’apertura della tenda il fiume, ma ben presto la tenebra lo avvolse. Non ci fu da aspettar molto perché il fuoco scoppiettasse nel fornello e l’acqua per il tè si mettesse a bollire. Chia-Kwei e i cosacchi avevano la loro tenda, i rematori preferivano dormire intorno al fuoco all'aperto.

Dopo un mese di ansie trascorso in Korla tra le baionette dei soldati, ci si sentiva pervasi di piacere e commossi a ritrovarsi di nuovo nella libertà-della natura fatta da Dio e,a guardare il fuoco fiammeggiare nelle tenebre della notte. II primo foglio di rilievi topografici che io avevo fatto durante la giornata mi appariva pieno di promesse, ed io esultavo al pensiero di essere finalmente sulla via di quel capriccioso lago vagante, che solo un europeo aveva fino allora potuto vedere, il docente Nils Homèr, che, nell’inverno tra il 1930 e il *31, v’era andato, in compagnia di Parker C. Chen, da oriente, attraversando il deserto, e ne aveva fatto un’accuratissima carta.

Il caldo primaverile non era stato in quella prima giornata particolarmente grave e lievi brezze passavan di quando in quando fresche sul fiume e sulle circostanti boscaglie. Ma verso sera s’era cominciato ad aver freddo a star seduti a disegnare. La notte, la temperatura discese fino a —0,8°. I sacchi a pelo di pelle di pecora ci parvero una delizia, e quando la prima bacinella di ferro colma di brace fu portata nella tenda, un dolce tepore si diffuse intorno e penetrò a sciogliere le nostre membra irrigidite.

Dopo la cena che consistè in zuppa di verdura, pane, burro e formaggio, polpette di carne con patate, caffè e cognac, Ordek venne a farmi visita e si trattenne con me per ore a raccontarmi della sua vita. Rivivemmo le emozionanti giornate trascorse insieme nel deserto quando scoprimmo Lou-lan, ed Ordek poteva

ancora ricordare i minimi particolari di quella Sua famosa corsa di due giorni per ripigliare il badile dimenticato.

Alla fine, la brace cominciò ad annerirsi e il nostro piccolo campo di Uzun-bulung fu completamente immerso nel silenzio.

1

11 comandante in capo dell’armata del nord ci aveva fornito una scorta di qnattro cosacchi russi.

2

Konci o Ktìnci significa « conciapelli >. La pronunzia del nome del fiume è tra Konce e Kónce-daria. Daria significa «fiume», e si scrive anche darya.