RUDOLPH ARNHEIM

PENSIERO VISUALE

 

Pietro e Paolo si trovano di fronte alla stessa questione: “Ora sono le 3.40 che ora sarà tra mezz’ora?” Pietro procede nel modo seguente. Ricorda che mezz’ora equivale a 30 minuti. Perciò 30 deve essere aggiunto a 40. Dato che l’ora ha solo 60 minuti, il resto che è 10 minuti passerà all’ora successiva. Questo gli fornisce la soluzione: 4.10.

Per Paolo l’ora è rappresentata dalla faccia circolare dell’orologio, e mezz’ora è metà del disco. Alle 3.40 le lancette si trovano obliquamente a quattro unità di cinque minuti a sinistra della verticale. Usando come base la lancetta, Paolo taglia il disco a metà e arriva a due unità a destra della verticale dall’altro lato. Questo gli dà la soluzione, che traduce in numeri: 4.10.

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Fig. 1

Sia Pietro che Paolo hanno risolto il problema pensando, Pietro lo ha tradotto in quantità senza riferimento ad alcuna esperienza sensoriale. Ha trattato i numeri mediante relazioni che aveva memorizzato da bambino: quaranta più trenta fa settanta; settanta meno sessanta dà dieci. Ha pensato “intellettualmente”. Paolo, d’altra parte, ha affrontato il problema attraverso un’immagine visuale conforme. Per lui un’intero è una semplice figura completa, una metà è metà di quella figura, e lo scorrere del tempo non è una crescita di quantità aritmetiche, ma un viaggio circolare nello spazio. Paolo pensa “visualmente”.

Il pensiero visuale è usato costantemente da tutti. Esso guida i pezzi sulla scacchiera e pianifica le politiche globali sulla carta geografica.

Due abili facchini spostando un pianoforte lungo una scala a chiocciola pensano visualmente in una intricata sequenza di sollevamenti, spostamenti, inclinazioni e giri. Un gatto pensa visualmente quando supera con un balzo pericoloso abilmente calcolato una difficile situazione di nicchie e bordi. Una donna di casa con un po’ di fantasia trasforma uno squallido soggiorno in una stanza per vivere mettendo le lampade al posto giusto e spostando sedie e divani. Picasso scopre la testa di una scimmia in una automobilina. Henry Moore concepisce la sua grande figura ritta per il Museo Guggenheim – nella posizione caratteristica allo scultore – ma la raddrizzava mentre la scolpiva dandogli un atteggiamento. Una profonda riflessione visuale si ha ogni volta che uno scultore tenta di unificare i vari aspetti spaziali di un’opera, o quando un pittore trova il colore per comunicare il giusto significato al posto esatto su una tela.

In questi casi gli elementi di una situazione problematica, sono cambiati, risistemati e trasformati; è spostato l’accento, nuove funzioni sono attribuite, e scoperte nuove connessioni. Tali operazioni, intraprese in modo da ottenere soluzioni, costituiscono, ciò che è noto come pensare. E tuttavia molti educatori e psicologi sono ancora riluttanti ad ammettere che i processi di pensiero percettivi sono esatti e creativi e richiedono tanta intelligenza quanto il trattamento di concetti intellettuali. Siamo vittime di una inveterata tradizione secondo la quale il pensare avviene lontano dall’esperienza percettiva. Poiché si crede che i sensi riguardino gli eventi concreti individuali, vengono usati solo per mettere insieme il materiale grezzo dell’esperienza. Ci vogliono i “più alti” poteri della mente per elaborare i dati sensoriali. Per imparare dall’esperienza la mente deve estrarre il generale dal particolare, e nel campo del generale si suppone che non sia possibile nessun altro rapporto con la percezione diretta. Berkeley nel suo “Trattato sui Principi della Conoscenza Umana” rese plausibile questa concezione a generazioni di lettori. Per esempio, l’idea astratta del corpo di animali si riferisce a “corpo senza qualsiasi particolare aspetto o figura, non essendovi alcun aspetto o figura comune a tutti gli animali, senza copertura, di peli, piume o scaglie, etc., e tuttavia non nudo: peli, piume, scaglie e nudità essendo le proprietà che distinguono particolari animali e per questa ragione omesse dall’idea astratta”.1

Se le operazioni di pensiero erano assunte senza rapporto con la percezione, quale veicolo potevano usare? L’inevitabile risposta era che l’uomo pensa soltanto in parole, e che non può esistere pensiero alcuno senza parole. Di più, un pensatore efficiente, quando può, impiega l’insieme di parole più chiaramente definito, cioè i numeri e altri segni matematici.

Conseguentemente, l’educazione Occidentale ha avuto a che fare soprattutto con parole e numeri. Nelle nostre scuole, il leggere, lo scrivere e l’aritmetica sono praticati come metodi per staccare il bambino dall’esperienza sensoriale, e questo estraniamento aumenta durante gli anni delle scuole superiori e dell’università in quanto aumenta il bisogno di parole e numeri e si devono accantonare le cose dell’infanzia. Solo all’asilo e alle Scuole elementari l’educazione è basata sulla cooperazione di tutte le forze essenziali della mente umana; conseguentemente questo processo ragionevole e naturale è abbandonato in quanto ostacola l’addestramento a un determinato genere di astrazione. Alcune delle nostre istituzioni più avanzate garantiscono alle arti una posizione accademica rispettabile ponendole sullo stesso piano delle altre discipline; ma neanche queste utilizzano le capacità del pensare percettivo nello studio delle scienze sociali o naturali. Al massimo si servono di “aiuti visuali”.

Privati della loro più preziosa forza mentale da una educazione unilaterale, milioni di adulti dedicheranno il loro lavoro quotidiano esclusivamente alla carta, a parole e numeri; tratteranno con oggetti che non vedranno mai e guideranno operazioni attraverso controlli remoti e meccanici.

Forse questa privazione dei sensi era inevitabile. Forse la nostra società doveva pagare questo prezzo per i successi spettacolari delle scienze resi possibili mediante teorizzazioni con concetti senza corpo. La trasformazione di processi e valori indusse a considerare le arti come mezzi di puro godimento e abbellimento. Qualunque sia l’origine della malattia ci troviamo di fronte a una situazione in cui le arti sono ancora trattate come se fossero soprattutto ricreative e intellettualmente inferiori. Troppo spesso si pensa che gli educatori nel campo dell’arte non sono persone abbastanza intelligenti per operare in campi disciplinari “più importanti” come la matematica e la storia. L’insegnamento della danza è relegato nell’ambito dell’educazione fisica. Nella mente di molti influenti educatori, l’abilità delle mani e del corpo in tutti i campi è ancora compresa tra le arti meccaniche come nel Medioevo. Vi era un richiamo significativo nelle parole di incoraggiamento dette dal preside del Radcliff College qualche anno fa, quando “indicando la necessità di arti visuali e laboratori” egli insistette sull’importanza delle arti manuali per chi opera continuamente nel mentale.2

La concezione che riduce il lavoro dell’artista a un’attività primitiva e animalesca di registrazione dei dati sensoriali, ed assegna al più evoluto homo sapiens la capacità di pensiero, pur espressa con divertente franchezza, si trova in un discorso di I.P. Pavlov: “Intorno ai tipi umani dell’Artista e del Pensatore”. Introducendo il suo Seminario del mercoledì nel laboratorio di Fisiologia dell’Accademia Russa delle Scienze, l’ottantacinquenne padre della teoria dei riflessi condizionati, disse nel 1935:

Ora, signori, rivolgiamoci al problema seguente. Quando abbiamo analizzato i nostri malati di nervi nella Clinica Neurologica, venni alla conclusione che vi sono due neurosi specificamente umane, isteria e la psicostenia, ho messo in rapporto questa conclusione col fatto che l’uomo presenta due tipi di attività nervosa superiore, precisamente il tipo artistico, quindi analogo e vicino a quello degli animali, che pure percepiscono il mondo esterno esclusivamente sotto forma di impressioni e direttamente per mezzo di recettori; l’altro tipo intellettuale che funziona con l’aiuto del secondo sistema di segni. Così, il cervello umano è composto di cervello animale e della parte puramente umana relativa al linguaggio. È questo secondo sistema di segni che comincia a prevalere nell’uomo. Si può dire che in certe condizioni sfavorevoli, quando il sistema nervoso è indebolito questa divisione filogenetica del cervello si ripresenta; allora probabilmente un individuo userà soprattutto il primo sistema di segni mentre l’altro userà soprattutto il secondo. È questo che divide gli uomini in nature artistiche e nature astratte puramente intellettuali.3

Come se non bastasse ai sensi essere considerati inferiori nella loro funzione conoscitiva, hanno anche ottenuto una connotazione di immoralità. Per le sensazioni piacevoli della gola e del sesso, ogni apprezzamento basato su esperienze percettive venne considerato carnale, ne è la prova il significato ambiguo di parole come “sensoriale” o “sensuale” (italiano “sensuale” tedesco “sinulich”). L’indulgenza nelle arti era giudicata “peccaminosa” e lo è veramente quando la funzione delle immagini visuali è limitata solo a intrattenere e divertire i sensi.

Il distacco dell’educazione dall’esperienza diretta promosse lo sviluppo dell’”educazione visuale”. Migliori illustrazioni nei libri di testo, film migliori, scuola attraverso la televisione, sono di grande aiuto nel dare contenuto alle parole che gli studenti devono elaborare e ricordare. Ma è giusto rilevare che l’uso di materiale visuale non produce automaticamente pensiero visuale, e questo soprattutto per due ragioni. Primo il pensare visuale porta una complessità maggiore dell’elaborazione di concetti per i quali esistono referenti concreti.

“L’educazione visuale” è ancora limitata dalla vecchia dottrina aristotelica che Dante mise in versi.

Così parlar conviensi al vostro ingegno
Perocché solo da sensato apprende
Ciò che fa poscia di intelletto degno
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Ma i sensi non sono soltanto i servi dell’intelletto o, cioè, suoi fornitori di materiale grezzo. Il pensare visuale è pensare mediante operazioni visuali. Illustrerò questo riferendomi alla pratica artistica. Fra le persone che ammettono che gli artisti pensano, si può trovare la nozione che il pensare, essendo necessariamente non-percettivo, deve precedere il farsi delle immagini, allo stesso modo in cui, possiamo dire, Rembrandt meditò sulla tristezza della condizione umana intellettualmente e in un secondo momento tradusse i risultati di questa meditazione nei suoi quadri. Concesso che i pittori non pensino solo quando dipingono, si deve ammettere che il modo più importante con cui un artista opera intorno ai problemi dell’esistenza è attraverso le immagini che inventa, giudica e costruisce. Quando una tale immagine raggiunge il suo stato finale egli percepisce in essa il risultato del suo pensare visuale. Conosce adesso quello che stava cercando di chiarire. Un’opera d’arte visuale, in altri termini, non è una illustrazione dei pensieri del suo operatore, ma piuttosto la manifestazione finale di quello stesso pensare.

Lo stesso è vero per quello che uno studente recepisce dal materiale percettivo. Ricordo la sorpresa quando tempo fa ho sentito un ufficiale canadese ricordarci che il suo paese confinava con due potenti vicini, gli Stati Uniti e la Russia. Come Europeo avevo sempre pensato alla Russia come nostra vicina a Oriente di modo che emigrando negli Stati Uniti avevo lasciato quel paese molto indietro. Realizzare il fatto che ciò che era lontano a est era piuttosto vicino a nord-ovest, diede alla mia rieducazione americana una spinta di aiuto. Questo pensiero era prodotto mediante una concreta riorganizzazione delle relazioni visuali sulla carta geografica del mondo nella mia mente.

Un’attiva elaborazione del materiale visuale, comunque, è possibile soltanto se proprietà rilevanti degli oggetti a cui si deve pensare sono rese evidenti agli occhi attraverso le immagini. E qui incontriamo una seconda deficienza dell’educazione visuale. Talvolta si dà per provato che la semplice esposizione alle immagini che rappresentano il tipo specifico di oggetti condurrà lo studente a essere colpito da un’idea, allo stesso modo in cui uno è colpito da un raffreddore. Si può fare una fotografia di una miniera di carbone, essa però trasmette poco di ciò che lo studente dovrà imparare su tale argomento. Non dobbiamo credere in una primitiva e automaticamente efficace magia della trasfusione visuale.

In un programma televisivo per insegnare la fisica nelle scuole elementari, ho visto una dimostrazione di come si può far bollire del cibo in una pentola mediante energia solare. Vedere questo esperimento avrebbe potuto essere utile ai bambini, ma le superfici inclinate di metallo, che raccoglievano i raggi di calore, erano quasi completamente irriconoscibili a causa del riverbero abbagliante del sole sulle superfici lucide. Inoltre il percorso dei raggi, il loro riflesso e trasmissione e la loro effettiva relazione con la pentola erano descritti in parole ma non resi visibili. In altri programmi per le scuole ho visto cortometraggi su fattorie, paesaggi e strade di città che erano poco più di sgorbi vagamente suggestivi di materia grigia. Ho visto oggetti presentati su fondali disegnati in modo distraente o di scorcio e sovrapposti in modo tale da renderli indecifrabili. Qualche volta la sequenza logica di una presentazione esisteva solo nel commento parlato e qualche volta un insieme di relazioni era visibile sullo schermo ma il soggetto ne richiedeva uno del tutto diverso.

In altre occasioni ho visto programmi eccellenti. Evidentemente i loro registi sapevano che percepire un oggetto non è semplicemente ingoiare la sua immagine ma diventare coscienti di alcune sue proprietà. Ad esempio, per percepire un giroscopio bisogna essere capaci di vedere – non tanto desumere o supporre – che l’oggetto entro l’anello metallico ha la forma di una ruota, che la ruota gira liberamente attorno a un asse, che le estremità a punta dell’asse sono inserite nell’anello, etc. Queste proprietà e relazioni devono essere descritte nello schermo attraverso opportune figure, realizzate mediante luce ed ombra, e le figure devono essere spazialmente orientate in modo da non presentarsi distorte a chi le guarda. Le sovrapposizioni devono essere rese chiare per mezzo del contorno e del contrasto. Figura e sfondo devono essere nettamente distinti. In altre parole, nessuna informazione intorno al soggetto, sarà trasmessa direttamente all’osservatore se non si presenta in una figura leggibile. Disegni e pitture che sono esplicite traduzioni di oggetti in figure visuali, spesso rendono l’interpretazione più esatta che le figure approssimate e in parte accidentali della fotografia.

Vedere le proprietà di una cosa è concepirla come un caso di applicazione di certi caratteri generali. Vedere una cosa rotonda è vedere la rotondità in essa. Cioè ogni percezione consiste nell’afferrare caratteri astratti. È in contrasto questa affermazione con quella di Berkeley quando sosteneva che nessuna idea astratta può essere percepita? Lo è non lo è. Ciò che Berkeley deduceva dalla sua osservazione non era che le idee astratte sono prive di contenuto percettivo, ma che non esistevano affatto poiché non potevano essere percepite.

Ora, se vogliamo dare un significato alle nostre parole – diceva – e parlare solo di ciò che possiamo concepire, credo che ammetteremo che un’idea, che considerata in se stessa è particolare, diventa generale quando facciamo in modo che rappresenti o significhi tutte le altre idee particolari dello stesso genere.5

Non possiamo seguire Bishop quando insinua che la percezione è l’assorbimento meccanico di particolari, né possiamo limitare il termine “astratto” a ciò che è privo di qualità sensoriali. Ma tutte le immagini e i quadri operano in realtà come egli dice: rappresentano tipi di cose per mezzo di esemplari concreti individuali. Come può avvenire questo fatto? Berkeley pensava ad esempio, che un particolare triangolo può significare tutti i triangoli perché selezioniamo le proprietà comuni e trascuriamo il resto. Tuttavia, per quanto riguarda la percezione spontanea, recenti osservazioni psicologiche sembrano confermare l’asserto che il vedere consiste innanzitutto nell’afferrare caratteri astratti come “triangolarità”, mentre le differenze individuali sono riconosciute solo secondariamente.

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Figg. 2a – 2b

Ora siamo pronti a suggerire che il senso della vista opera attraverso la formazione di concetti visuali, cioè attraverso (schemi figurali) patterns figurativi che sono adattati all’apparizione di oggetti nell’ambiente. Questi concetti visuali hanno i loro equivalenti nel disegno e nella pittura. Si manifestano più chiaramente nei primi stadi dello sviluppo mentale, quando sono ancora semplici. La figura 2 riproduce disegni di un bambino americano di 6 anni, che usa la figura del cuore per rappresentare le mani, il naso, il ciondolo, la parte alta di un vestito, ecc. Il cuore è una forma semplice veramente convenzionale, ma l’uso che ne attribuisce questo bambino è piuttosto originale. Ha scoperto una figura che si adatta al suo proprio senso della forma come all’apparizione di cose in questo mondo. La natura dei nasi, delle mani, ecc. è compresa visualmente attraverso ciò che il logico avrebbe chiamato la loro inclusione sotto il concetto del cuore. Tale inclusione rende le variabili apparizioni dell’ambiente circostante afferrabili. Prendono forma, incominciano ad avere un senso. A dire il vero, i disegni semplici hanno poca rassomiglianza realistica con gli oggetti che rappresentano.

Ma piuttosto che eliminarli per il loro carattere primitivo, dobbiamo ammirare l’ingenuità della giovane mente nel trovare rassomiglianze fondamentali fra cose che, riferite agli standards di un esame meccanico, sono così dissimili.

Applicando lo stesso concetto a cose diverse il bambino pone la base per categorie visuali di un ordine superiore, capace di indicare analogie fra oggetti che hanno qualche cosa in comune anche se altrimenti differiscono. Comincia a formarsi la grande trama delle relazioni.

Devo qui fare riferimento ancora una volta al credo – comune ai filosofi, che sono uomini di parole – che i concetti possono essere prodotti solo per mezzo di parole. Questo assunto ha portato al trionfo della cecità del nostro tempo, ma sembra risalire al diciottesimo secolo. Ernst Cassirer in Linguaggio e Mito, ci assicura che

ogni cognizione teorica ha inizio da una parola già preformata attraverso il linguaggio poiché è il processo del nominare che trasforma il mondo delle impressioni sensibili in un mondo di idee e significati.6

Egli illustra questa concezione del pensare fondata sulla parola-matrice, con una citazione dal saggio di J.G. Herder sulle origini del linguaggio. Herder descrive come l’uomo primitivo di fronte a un agnello “bianco, morbido, lanoso” cerca nell’esercizio cosciente della sua mente una caratteristica per questo animale. Improvvisamente l’agnello bela, e l’uomo “ha trovato la caratteristica. Questo belare, che gli fa l’impressione più profonda, che si stacca da tutte le altre qualità afferrabili dalla vista e dal tatto, è qualcosa che balza fuori, penetra profondamente nella coscienza, vi rimane – Ah tu sei l’essere che bela!”.7 Questa teoria implica non soltanto l’assunzione che i suoni provochino le parole; afferma anche che il suono soltanto può attivare la capacità di formazione dei concetti e che il solo possibile veicolo dei concetti è la parola.

Ciò che mi piacerebbe chiamare il Mito dell’Agnello Belante ha ormai raggiunto il grado di un fatto incontestabile. Ma per confutare l’assunzione, mi sembra sufficiente rivolgere l’attenzione a cani, gatti, scimmie e ai nostri stessi bambini che non parlano, che dimostrano attraverso il loro comportamento di vivere in un mondo di entità costanti. In effetti le parole sono soltanto delle etichette, e non può esistere nessuna classificazione prima che i significati abbiano fornito definiti tipi di oggetti. Han Jones ha messo in rilievo che

l’oggettività emerge fondamentalmente dalla vista”, poiché “solo la simultaneità dell’immagine permette all’osservatore di confrontare e mettere in relazione: non solo presenta molte cose in una volta, ma le presenta secondo la loro reciproca proporzione… Anche l’oggetto visuale è staccato e distante. Ci lascia soli mentre il tatto e il suono esercitano un influsso diretto.

Il risultato è il concetto di oggettività, della cosa com’è in se stessa distinta da quella dei miei sensi, e da questa distinzione sorge tutta l’idea di TEORIA e di verità teorica.8

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Fig. 3

Negare che i nostri concetti derivano dalle parole, non significa ignorare l’influenza delle parole sulla percezione e rappresentazione pittorica. Nella figura 3 un altro bambino di 6 anni indica “la fronte” per mezzo di un rettangolo. Questa è un’insolita delimitazione di una parte di una faccia che non è né visualmente né funzionalmente determinata come lo sono gli occhi, la bocca o il naso e che comunemente non è quindi disegnato come unità autonoma. Probabilmente la nozione verbale della fronte, presa dal discorso degli adulti, suggerisce al bambino che vi è qui una indispensabile parte del sistema facciale al quale si deve dare il dovuto in un inventario visuale. Tuttavia un tale esempio è così chiaramente eccezionale che ci aiuta a comprendere, per contrasto, la natura completamente differente e l’origine di concetti veramente visuali.

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Fig. 4

Due semplici esempi di come il pensiero visuale chiarifica le relazioni funzionali attraverso ordinamenti spaziali sono offerti nelle figg. 4 e 5, disegni con matite colorate eseguiti da bambini dai sei ai sette anni. Un venditore di palloncini nel suo habitat naturale è una visione complessa e confusa. Colpito da tutti i lati dalla sua turbolenta mercanzia, percorre la strada attraverso folle; muovendo le membra quando si china verso un bambino, stacca un pallone, prende il denaro, etc. Nella fig. 4 tutti questi accidenti sono eliminati. Il disegno testimonia la comprensione dell’essenza in termini di spazio visuale. La figura principale è situata nel centro, su di un terreno vuoto, indisturbato. L’uguale ruolo di tutti i palloni è espresso nel loro raggrupparsi simmetrico attorno alle mani del venditore. Parlando logicamente, i palloni sono omotipici – “hanno lo stesso logico posto, ruolo, funzione nell’insieme”.9 Un sistema di raggi li collega alla mano che sostiene, che controlla. Niente di tutto questo è stato percepito nel senso meccanico della parola. Il bambino piuttosto è giunto ad una comprensione visuale attraverso l’attivo esame e organizzazione dei fattori salienti che ha ricavato da una sistemazione confusa. Analogicamente, nella fig. 5 una situazione sociale viene definita dalla chiarificazione della sua immagine visuale. Il bambino irrequieto, quale carattere principale, occupa il centro dell’immagine altrettanto come il tavolo da pranzo ed è correttamente incorniciato dalle sedie ed illuminato dalle candele. I due genitori sono omotipici e perciò sistemati simmetricamente. Seduti ai margini e più piccoli testimoniano la loro posizione subalterna nel gruppo come due santi che fiancheggiano la Vergine nella pittura di un altare. E la differenza fondamentale nell’iniziativa viene comunicata dalla faccia gioiosamente sollevata della figlia in contrasto con la scoraggiante passività degli adulti.

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Fig. 5

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Fig. 6

Molti processi di pensiero, familiari per il ragionamento intellettuale, non sono monopolio dell’intelletto. Accadono anche nel pensiero visuale. In effetti è probabile che essi abbiano origine nel campo percettivo e che vengano tradotti in operazioni intellettuali più tardi. Come esempio sceglierò losviluppo del concetto di interazione. Fra le nozioni fondamentali che ogni essere umano deve acquisire è il processo per cui entità fisiche e mentali si modificano a vicenda. Al livello più semplice di pensiero, oggetti o persone sono concepite come autonome, isolate, immutabili e chiuse. Nei primi disegni dei bambini singoli elementi galleggiano nello spazio, disancorati e senza relazione. A uno stadio ulteriore, si tengono compagnia uno con l’altro in una sistemazione spaziale comune, come per esempio nel ritratto di famiglia eseguito da un bambino giapponese di 3 anni e mezzo. Ritrae se stesso tra il suo papà e la sua mamma. Vi è coesistenza ma apparentemente nessuna interazione. Dopo aver imparato a rappresentare il punto di vista di profilo, un bambino più grande sarà capace di mostrare il rapporto, tra figure isolate.

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Fig. 7

Il vero problema dell’interazione, tuttavia, sorge solo quando le entità si impegnano fisicamente una con l’altra in modo tale che ciascuna modifica l’apparenza visuale dell’altra. Un esempio illuminante è il problema di come dipingere il cavalcare. Nella fig. 7 ho schematicamente illustrato vari stadi della soluzione di questo problema. Due entità, uomo e cavallo, si implicano a vicenda; ma come li influenza esattamente tale interazione? Al livello più elementare di pensiero, l’interazione è concepita come semplice contiguità. Uomo e cavallo confinano uno con l’altro, (a) Si toccano, ma la loro integrità non è indebolita. Un secondo stadio (b) va oltre il semplice buon vicinato. Le due entità si incrociano, ma sebbene si sovrappongano nello spazio non riconoscono ancora la presenza dell’altro attraverso qualche modificazione della loro propria forma. Hanno l’aspetto che avrebbero se fossero soli. Più tardi, tuttavia, (e) il cavaliere perde una delle sue gambe; cioè il bambino ha riconosciuto che le cose si trasformano a vicenda quando s’incontrano. L’influenza reciproca conduce alla modificazione e l’integrità deve fare delle concessioni. Non è necessario che qui analizzi l’importanza fondamentale di questa intuizione. Sviluppi paralleli del pensiero accadono nelle scienze naturali come nelle relazioni sociali.

Un altro aspetto dello stesso processo può essere studiato nella graduale padronanza del problema di un corpo umano seduto su una sedia (fig. 7). Questo è un compito difficile anche fisicamente come sanno tutti quelli che hanno osservato un bambino mentre tenta di affrontare una sedia. Anche qui il primo stadio dei disegni presenta il rapporto fra la persona e la sedia come semplice contiguità (a) e al livello seguente la figura umana incrocia semplicemente la sedia, intatta e immutata (b). Al livello più maturo il bambino ha imparato che è necessaria una modificazione perché gli oggetti si adattino uno all’altro. Il bambino riconosce la mobilità delle giunture (c), Concepisce le relazioni variabili fra le parti di una composizione; o piega la parte oblunga del corpo (d) indicando che la forma (la natura, il carattere) di una data unità non è più considerata immutabile ma può trasformarsi in risposta ai requisiti del contesto.

Ancora ci stiamo occupando di un aspetto generale dello sviluppo del pensiero, come si può mostrare attraverso un richiamo al linguaggio. Nei linguaggi con una struttura grammaticale relativamente semplice, come l’inglese o il cinese la frase è costituita da unità verbali inalterabili, la cui funzione nell’insieme e le relazioni col contesto sono espresse solo o principalmente dalla combinazione e dalla sequenza. In linguaggi strutturalmente più complessi, come il latino o il tedesco, il ruolo della parola nel contesto è espresso da una modificazione della parola stessa: in effetti i termini “inflessione” e “declinazione” derivano etimologicamente da “piegatura”, rivelando in tal modo la loro origine percettiva.10

Ciò che ho mostrato per il concetto di interazione può essere reso altrettanto evidente per altre operazioni del pensiero. Il pensare ha origine nella sfera della percezione e incominciamo a sospettare che gran parte dello sforzo creativo della mente in ogni campo e a qualsiasi livello consiste in operazioni percettive. In una famosa lettera a Jacques Hadamard, Albert Einstein disse:

Le parole o la lingua come sono scritte o parlate, non sembrano avere alcun ruolo nel meccanismo del mio pensiero. Le entità fisiche che sembrano servire come elementi nel pensiero sono certi segni e immagini più o meno chiare che possono essere volontariamente riprodotti e combinati.

E più avanti:

Gli elementi sopra menzionati sono, nel mio caso, alcuni di tipo visuale e altri muscolari. Le parole convenzionali o altri segni devono essere ricercati laboriosamente solo in un secondo momento, quando il menzionato gioco associativo è stabilito sufficientemente e può essere riprodotto a volontà.11

Se il procedimento di Einstein è rappresentativo del pensiero produttivo forse soffochiamo sistematicamente la potenzialità della nostra mente forzando la nostra gioventù a pensare principalmente con segni verbali e numerici.

È evidente che non sto parlando solo di “educazione artistica”. Si dà all’arte, come la più importante isola di visione creativa, una eccessiva importanza nella nostra civiltà. Ciò che accade nella scuola, nello studio, nelle gallerie d’arte e nei musei importa relativamente poco ed è poco efficace finché l’arte vive come un estraneo in un sistema sociale che soffre di analfabetismo sensoriale. L’arte può avere un senso soltanto come suprema manifestazione di una cultura pervasa completamente dal pensiero creativo visuale.

Tuttavia, dato che le belle arti sono la sintesi del pensiero visuale, l’educazione artistica deve servire soprattutto a dimostrare questa capacità della mente. Fino a che punto riesce in questo scopo? Ciò che ho detto e mostrato indica che il pensiero visuale mira alla chiarezza ottenuta attraverso un ordine significativo. Durante un tale processo di pensiero, viene ristrutturata, organizzata, semplificata una situazione confusa e incoerente di relazioni incerte, finché la mente viene ricompensata del suo lavoro da un’immagine che rende visibile il significato. Per realizzare questo compito, l’immagine deve fare propri due requisiti: tutti i suoi elementi devono adattarsi ad una totalità integrale, e la totalità così prodotta deve includere il senso intenzionato. Non posso accennare che ad alcuni dei fattori che ostacolano tale realizzazione. L’imitazione meccanica di modelli preclude l’organizzazione della forma. Ai nostri tempi le audaci forme e colori dell’arte moderna hanno sostituito le copie in gesso del passato, ma l’imitazione distrugge il pensiero visuale con qualsiasi modello. Le figure 8 e 9, che rappresentano tutte e due una “faccia” sono state fatte da studenti giapponesi, rispettivamente di 13 e 14 anni. La figura 8 chiaramente non è la presentazione di un viso umano per mezzo della forma pittorica, ma un gioco inutile di elementi di pittura moderna. La scelta e la combinazione delle forme – e anche dei colori – sono quasi completamente arbitrari, e il risultato è il caos. La figura 9 anche se non è certamente un lavoro di prim’ordine, è chiaramente ispirata dal suo soggetto, la faccia umana. C’è un tentativo di capire l’azione reciproca dei volumi che sostengono l’espressione dell’insieme, l’unità fisica del modello ha impresso una certa misura di unità percettiva al disegno.

L’argomento della dimostrazione non è che la prima immagine e più “moderna” dell’altra, ma che non è guidata dall’oggetto che si propone di rappresentare – come, per esempio, lo sono gran parte delle “faccie” di Picasso, indipendentemente dalla loro analogia col modello – e che le relazioni fra le forme sono così accidentali e frammentarie che l’occhio non può leggerle.

Un disorientamento altrettanto grave dall’obiettivo fondamentale distingue la figura 10 dalla figura 11. Entrambe erano eseguite da giapponesi della sesta classe, il primo nella scuola pubblica di una piccola città a Okinawa, il secondo a Tokyo. La figura 10, votata con il grado A dal fiero insegnante d’arte, risulta dalla volontaria disintegrazione di elementi derivanti dalle figure di una favola. La riproduzione in bianco e nero dà solo un’idea della spaventosa confusione creata da un bambino privo di aiuto, ma probabilmente divertito sotto l’incitamento di un buon maestro, al quale non è stato detto dai suoi professori occidentali o di cultura occidentale che la scomposizione deriva il suo valore dalla ricostruzione, che la libertà senza ordine è sterile, e che l’energia realizzata dalla spontaneità deve essere fruttuosamente impiegata.

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Fig. 8

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Fig. 9

La figura 11 d’altra parte, mostra un controllo notevolmente sicuro e sottile di un tema complesso. Questo è il risultato di un ragazzo al quale è stato insegnato, attraverso la partecipazione, che la complessità è una sfida al senso dell’ordine. Sarà egli immune dalla suggestione di coloro che gli diranno, in arte o altrove nella vita, che la giusta reazione al caos è di aggiungervi un po’ del proprio caos? O possiamo sperare che l’esilarante esperienza della chiarificazione cui è pervenuto mediante la devota disciplina del suo occhio e della sua mano, aiuterà a promuovere in lui il coraggio dell’esploratore, la simpatia dell’aiutante, l’immaginazione dell’inventore e la razionalità del costruttore?

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Fig. 10

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Fig. 11

1George Berkeley, A treatise concerning the principles of human knowledge, Introduction, IX.

2Harvard Crimson (February 6, 1957).

3I.P. Paviov, Experimental psychology and other essays, New York (1957), p. 589 ff.

4Dante Alighieri, Paradiso IV, 40-42.

5Berkeley, op. cit., Introduction, XII.

6Ernst Cassirer, Language and Myth, New York (1946). Cap. 3, p. 28.

7Johann Gottfried von Herder, Ueber Den Ursprung Der Sprache, Berlin (1770), Parte I, sezione 2.

8Hans Jonas, “The Nobility of Sight, a Study in the Phenomenology of the Senses”, in Philosophy and Phenomenological Research (1954). Vol. 14, pp. 507-519. Confronta anche dello stesso autore “Homo Pictore und die Differentia des Menschen”, in Zeitschrift Fur Philosophische Forschung, Meisenheim (1961). Vol. 15, pp. 161-176.

9Max Wertheimer, Productive Thinking, New York (1959), p. 93.

10Confronta i termini grammaticali tedeschi “Biegung” e “Beugung”.

11Jacques Hadamard, The Psychology of Invention in the Mathematical Field, Princeton (1945), appendice II.