Quando, sul finire del secolo scorso, Hans Barth, corrispondente del “Berliner Tageblatt”, definì Verona «grande osteria dei popoli», lo fece con la stessa deferenza e solennità che avrebbe profuso nel magnificare la stessa città se avesse avuto trecento chiese dai tetti d’oro o cinquanta castelli di tutte le epoche. Chiese e castelli non mancavano nemmeno in riva all’Adige, ma Barth venne subito colpito al cuore e alla gola dalle illimitate prospettive di crapula che offriva una città in cui, una porta sì e una no, insegna o frasca, ci si imbatteva in una bettola col suo oste generoso e onesto, di quegli osti, per intenderci, per i quali il poeta Orazio, se ne avesse conosciuto soltanto uno, avrebbe cambiato radicalmente il giudizio sulla categoria. Agli inizi dell’Ottocento a Verona c’erano 162 osterie e, a metà del secolo, prima che l’immagine dell’ultimo soldatino austriaco diretto a nord venisse colata in piombo per nostalgiche (almeno da queste parti) collezioni, se ne contavano ancora una ogni 380 abitanti. Pare che il vino che vi si mesceva meritasse una genuflessione a ogni bicchiere e che il tanfo del legno fradicio dei tavoli delle osterie che fiatava sui vicoli oscuri istillasse più vocazioni del profumo delle nuvole d’incenso che la domenica mattina facevano tossire i venditori ambulanti e i loro clienti sul sagrato della basilica di San Zeno.
Quando nel 1866 gli austriaci se ne andarono trascinandosi dietro i loro carri e i loro tamburi, molti esercizi pubblici furono costretti a chiudere per mancanza di avventori: fino a poche ore prima, nella penombra delle osterie e delle trattorie, ogni altro dorso curvo sui tavoli apparteneva a un ufficiale o a un soldato di Cecco Beppe. Si sperava che, arrivando la guarnigione italiana a prendere il posto di quella asburgica, bastasse una semplice operazione d’incastro per far tornare i conti. E che a qualche locale troppo compromesso, come il Caffè Militare di palazzo Ottolini, in piazza Bra, ritrovo esclusivo degli ufficiali dell’imperatore, bastasse cambiargli il nome sull’insegna e rinfrescargli la tinta delle pareti per recuperarlo alla patria unita. Ma ben presto i veronesi constatarono con grave sconforto che i nuovi soldati bevevano poco, spendevano pochissimo e con i pochi soldi che avevano in tasca pagavano le puttane.
La crisi tuttavia non deve essere durata molto se, qualche anno dopo, Hans Barth trovava «a ogni secondo uscio un bettolino» e, intingendo la penna nel Recioto, scriveva: «Questa città è insieme Olimpo, Walhalla, Eden; un’osteria potente coronata da lauro, aureolata di poesia...».
I “santuari” del vino erano l’Osteria scaligera in piazza Indipendenza, la Bottiglieria al Piccolo Mondo Antico in via Scudo di Francia, la Lowenbräu in piazza Bra, l’Antica Taverna del Brigante in via del Pontiere Nuovo, l’Osteria della Luna un po’ fuori dalla porta di San Zeno, la Trattoria dell’Amalia sotto la pergola di ponte Garibaldi, il bettolino dell’Adele detta Nina in corticella San Marco, l’osteria Alla Bissa vicino al molo della Dogana Vecchia, l’Osteria alle Arche, all’ombra delle imponenti tombe aeree degli Scaligeri, il Caffè Vittorio Emanuele in piazza Bra e la Trattoria dell’Ortolàn in vicoletto Leoni.
L’Osteria della Luna, oltre che per il sublime “Valpolicella” che arrubinava i bicchieri e i nasi, era rinomata per le inquiete chiappe da giumenta di Gina, la florida figlia della ostessa, che scendeva senza sosta le scale della cantina per risalirne con bracciate di fiaschi affondati nel petto esagerato, tra le maledizioni di chi avrebbe preferito che la cantina fosse al primo piano per gustarsi il panorama da sotto. Alla Taverna del Brigante, anche dopo che gli austriaci se n’erano andati da un pezzo, si continuava a discutere del singolare caso di un certo Tano fucilato per errore dal comandante Mayer e messo a letto perché lo si credesse morto d’infarto. Dalla Nina gli avventori, in genere dopo un bel po’ di “gòti”, ballavano a turno con l’ostessa al suono di una fisarmonica col mantice liso. Quando poi la festicciola finiva e fuori s’alzava il muro di uno di quei nebbioni che d’inverno isolano Verona dal resto del mondo, qualche avventore perdeva la rotta e si consegnava senza un grido alla corrente dell’Adige: più vino aveva in corpo e più il cadavere andava lontano, roteando su se stesso nell’acqua gelida. L’Isolo di San Tomaso, formato da un ramo dell’Adige chiamato canale dell’Acqua morta, grazie alla rinomanza dei bettolini che si aprivano sulle sue viuzze grigie e umide, era diventato l’“Isolo del tesoro” cui approdava anche il poeta vernacolo Berto Barbarani che se nell’“Àdese” tuffava la sua musa, nel vino cercava di annegare la propria malinconia tenendole giù la testa il più a lungo possibile.
L’intera economia della città fino al 1866 aveva ruotato attorno alle necessità dei 18-20 mila soldati della guarnigione austriaca. I circa sessantamila abitanti, fino a quella data, erano vissuti in un’immensa fortezza che essi stessi erano stati chiamati a costruire e che continuava a richiedere manodopera per lavori di ampliamento e manutenzione. Il lezzo di sterco di cavallo di cui erano lastricate le strade percorse in continuazione da soldati e carriaggi dominava e ammazzava ogni altro odore.
Sei armaioli, 72 fabbri ferrai, 72 sarti, 26 stallieri, 160 calzolai e due fabbriche di birra lavoravano quasi esclusivamente per la “piazzaforte”. I veronesi, salvo qualche eccezione, si dividevano in due categorie: quelli che avevano finito per stare dalla parte del nemico perché gli dava modo di riempirsi la pancia, e quelli, molto meno numerosi, che a furia di odiarlo, a furia di guardarlo in cagnesco (ma mai criticandolo apertamente o rivoltandoglisi contro in pubbliche manifestazioni), a furia di pensare a lui, insomma, avevano finito per assomigliargli. Partiti gli austriaci, arrivarono i cavalli del re d’Italia: le strade continuarono a puzzare nell’identico modo, ma la disoccupazione e la fame resero enormemente più sensibile l’olfatto della gente che per qualche anno, fino a quando la crisi non allentò la morsa, stramaledì l’unità nazionale. Da sempre vincolata alla campagna da una tenacissima tradizione, Verona non aveva quasi fabbriche e mancava di un ceto industriale che avesse il coraggio e la voglia di costruirle. Dopo che un grande zuccherificio era stato costretto a chiudere nel 1862 perché strangolato dal dazio austriaco, non rimanevano che una fabbrica di sete, una di birra, due di candele di cera, una di sapone, una di cappelli, una di campane, una segheria di marmi, due mulini per terre coloranti, nove filatoi di seta, una tintoria e tredici conciapelli. Tutto il resto era un arcipelago di decrepite bottegucce artigianali che morivano a poco a poco per mancanza di clienti. I responsabili della pubblica istruzione si illudevano di aver trovato la chiave per uscire dalla crisi promuovendo una campagna di sensibilizzazione delle famiglie che si fondava soprattutto sullo slogan: «Fate studiare i vostri figli, saranno più bravi a mungere le vacche». L’aritmetica sociale era molto semplice, soprattutto in provincia: da una parte c’erano i nobili e i borghesi arricchiti, proprietari delle terre, i signori «da le bele braghe bianche», primi fra tutti i Miniscalchi Erizzo e i Trezza; dall’altra i poveri e i disoccupati di cui si temeva l’inurbamento selvaggio nel caso si aprissero grosse fabbriche in città o si decidesse, come avvenne nel 1872, di costruire un canale industriale. In effetti le campagne si svuotarono quasi improvvisamente, ma non vi fu la paventata invasione della città da parte dei bifolchi in massa perché questi preferirono salpare con le proprie illusioni per le Americhe.
Se Verona, per almeno quindici anni dopo l’unità nazionale, restò un piccolo mondo antico escluso dal processo di industrializzazione, se restò un fondovalle ancorato al passato, la colpa fu anche dell’amore per il suo fiume. L’Adige nel suo sinuoso percorso urbano era un’insostituibile fonte di vita: una trentina di mulini ad acqua macinavano cereali e trituravano le terre coloranti estratte in Valdonega. Le spolverature di polenta e di farina che cadevano nella corrente attiravano banchi di minuscoli pesci d’argento. I carichi di legname che scendevano dal Trentino s’incrociavano con i burchi carichi di olio e di cuoi. Negli accessi al fiume, tra le case che affondavano le fondamenta nell’acqua s’intruppava una folla di lavandaie, pescatori, sabbionai e barcaioli. Le ruote idrovore raccoglievano l’acqua per irrigare gli Orti di Spagna e quelli di Campagnola che rifornivano le bancarelle di piazza delle Erbe di frutta e verdura. Con quell’acqua il cardinale Luigi Canossa, vescovo di Verona dal 1862 al 1900, benediva i fedeli con i gesti scultorei che gli derivavano dalla sua nobiltà prima che dalla sua discutibile santità. E i petali delle dalie e delle rose della processione del Corpus Domini, portati dal vento, scendevano con la corrente verso l’abbraccio dei primi campi di polenta, dopo l’ultimo ponte.
All’Adige si affacciavano al tramonto le ragazze morbinose a caccia di marito e i poeti in cerca di ispirazione. E tra i giovani c’era anche chi da un angolo nascosto, nella sua fantasia alimentata da letture avventurose, dilatava i confini del fiume domestico, fino a farlo diventare un mare tempestoso in cui i neri mulini erano navi corsare e le lenzuola stese ai balconi temerarie vele spiegate al vento.
In questo piccolo mondo solitario dove l’unica urgenza veramente sentita era quella dell’antico vivere consueto e del riscatto dalla miseria, il 21 agosto 1862, al numero 5 (già 838) di vicolo cieco Pozzo San Marco1, nacque il più celebre scrittore italiano di romanzi d’avventura, Emilio Carlo Giuseppe Maria Salgari, uno spirito inquieto che in quel mondo voleva starci a modo suo o, meglio, al modo che gli consentiva il crudele gioco delle sue depressioni ed esaltazioni. Era uno di quei predestinati all’errare randagio nei territori sconfinati della fantasia, che per lui cominciavano là dove l’Adige, gettandosi nel mare, incontrava i verdi pantani della Malesia, le tempestose acque dello Stretto di Bering, le placide lagune dei Caraibi e le navi condotte da capitani coraggiosi che continuavano a battere gli oceani con l’unica preoccupazione di fermarsi una volta l’anno per raccontare le loro avventure. Emilio Salgari nacque, secondo di tre fratelli, dal negoziante di stoffe Luigi, discendente da una stirpe veronese di bettolieri, ortolani, fornai e carrettieri, e da una veneziana, Luigia Giustina Gradara, di antica famiglia dalmata che prestò al mare alcuni dei suoi uomini migliori senza mai piangere per perduti quelli che non tornarono più.
I Salgari, alla fine del 1200, abitavano nel castello di Salgari, a Vigo, vicino a Padova, e possedevano terre e dimore patrizie anche a Pao e Sorriva2. Ma quelli che comparvero per la prima volta a Verona quel 5 agosto 1709 in cui nacque Rosa Maria, figlia di Stefano Salgari e di Cattarina, dovevano appartenere al ramo sbagliato perché nessuno di loro figurava nei registri dell’Estimo. Se invece discendevano dal ramo giusto, era evidente che le ultime braci della loro nobiltà si erano spente da un pezzo e che il vento ne aveva disperso le ceneri. I Salgari, grazie al loro nome botanico che deriva da “salgàr” (salice, in dialetto veneto), potevano vantarsi di essere in qualche modo imparentati con la natura e, forse, in virtù di questo legame, possedevano la francescana facoltà di poter parlare, con la certezza di essere capiti, alle creature degli orti, e convincerle a crescere con straordinario rigoglio. Ma se uno di loro, Antonio, bisavolo di Emilio, che aveva ereditato dal padre il soprannome di Ortolàn, riuscì a forare la buccia della povertà e a tirare fuori la testa non fu merito né dei sedani né dei pomodori ma del vino generoso che cantava nelle sue botti e della sua, prima stentata e poi florida, attività di bettoliere. Tanto florida che il 9 settembre 1814 si trovò tra le mani tutto il denaro occorrente, 8430 lire, per acquistare dal conte Giacomo Verità due case patrizie, ai numeri 6 e 8 dell’attuale vicoletto Leoni, dove aprì un’osteria-trattoria che se non si fosse chiamata “Ortolàn” ci avrebbero pensato gli avventori a rendere inutile qualsiasi altra denominazione. “Ortolàn” si chiamò anche il vicolo, secondo l’antica consuetudine che in questa città fosse Bacco a ispirare i toponimi. E “Ortolàn”, nel 1847, quando prese in mano le redini del locale, diventò di diritto Paolo, figlio di Antonio e nonno di Emilio, che continuò a portare il nomignolo come un’onorificenza. Quindi dal 1870 al 1890, anno in cui il nome dei Salgari scomparve dall’elenco degli osti, l’osteria-trattoria passò al fratello di Paolo, Sebastiano. In questa casa rinascimentale, cui si accedeva, e si accede tuttora, attraverso un ricco portale di derivazione sanmicheliana, il 3 ottobre 1838 nacque, settimo di undici fratelli, Luigi, il padre di Emilio che, per scelta o per necessità, cambiò mestiere e andò ad aprire un negozio di stoffe vicino a Porta Borsari, a pochi passi dalla casa dove nel 1860 sarebbe andato ad abitare con Luigia Gradara, che aveva sposato il 15 agosto nella chiesa di San Pietro di Castello, a Venezia.
L’osteria-trattoria Ortolàn fu uno di quei “santuari” del vino che rimasero tali anche dopo la fine della dominazione austriaca e che vennero in parte “sconsacrati” e chiusi nei primi anni del 1900 (l’ultimo gestore della trattoria Ortolàn, che chiuse nel 1914, fu un tale Giovanni Pegnin). L’imponente portale sormontato da una testa di leone e la presenza costante sull’uscio di due camerieri impettiti conferivano al locale un’aria troppo signorile, scoraggiante per chi non aveva in tasca che pochi soldi e soprattutto per chi voleva ubriacarsi a buon mercato e battere i pugni sul tavolo. Sgavazzatori e avventurieri preferivano la Taverna del Brigante con le sue lanterne giapponesi e il suo organetto, dove era permesso tutto tranne gli spari e le bottigliate, oppure l’Osteria-caffè da Nane Gozo – una specie di mostro dalla faccia color melanzana, un braccio solo, le gambe deformate con le varici che sembravano dover scoppiare da un momento all’altro schizzando vino – dove un bicchiere costava meno che negli altri locali della città e si poteva far baldoria per quasi tutta la notte. Berto Barbarani, come tutti i poeti, amava la tranquillità e scriveva i suoi versi con un mozzicone di matita seduto a un tavolo della Trattoria dell’Amalia, mentre la sera si trasferiva al bettolino dell’Adele, vicino a casa. Quando aveva ospiti di riguardo li portava nella taverna di Vitale Sterzi, in via Scudo di Francia, dove era sicuro che non avrebbe fatto brutta figura e, per di più, avrebbe sentito declamare i propri versi da un oste erudito che componeva anche in proprio. Un altro poeta che di fronte a un bicchiere di rosso non si comportava come quei bambini che occorre afferrarli per il mento e l’orecchio per fargli inghiottire la medicina era Vittorio Betteloni, discepolo di Aleardo Aleardi, che, tuttavia, disdegnava le osterie preferendo il vino delle sue tenute di Castelrotto e Bardolino con il quale aveva conquistato il Carducci.
Nelle osterie si ritrovavano i redattori dei giornali giacché sia gli osti che gli avventori erano formidabili fonti di notizie e questi ultimi tanto più erano autorevoli quanto più erano ubriachi. Nell’osteria da Nane Gozo, che in certe ore notturne, in quanto a frequentazioni, non doveva essere molto dissimile dalla locanda all’insegna dell’Ammiraglio Benbow de L’Isola del tesoro di Stevenson, un giovane redattore del quotidiano “L’Adige” venne turlupinato da tre tipi che giurarono di aver scoperto una galea saracena, quasi intatta e ricoperta di tenero muschio, tra la fitta vegetazione delle colline di Fumane, un paese a una decina di chilometri da Verona. I brandelli di vele, secondo il loro racconto, erano marci ma l’alberatura era intatta. Addirittura l’albero maestro, grazie all’umidità del luogo, aveva messo i rami e nella bella stagione diventava una bella quercia frondosa. Il redattore sapeva che nel Cinquecento i veneziani avevano trasportato via terra le loro navi sul lago di Garda per fare la guerra ai Visconti, trascinandole su e giù per monti e valli, ma la notizia di una galea saracena in un bosco di Fumane non lo convinceva. Andava però verificata. All’indomani, una gelida mattina di gennaio, partì col suo biciclo per il luogo indicato dagli avventori e, giunto alle prime case di Fumane, trovò un cartello di cartone appeso a un albero con la scritta: «Per la galea saracena sempre dritti». La notizia, quindi, era già di pubblico dominio, e magari stava per essere pubblicata dall’“Arena” e dalla “Nuova Arena”, i giornali concorrenti. Bisognava correre. Il redattore accelerò le pedalate e, superato il paese, in un punto dove la strada incominciava ad arrampicarsi trovò un altro cartello con una nuova indicazione: «Per la galea saracena salire per circa tre chilometri». Il velocipedista non sarebbe mai arrivato sin lassù senza essere disarcionato dalla fatica al primo tornante, e quindi decise di abbandonare il mezzo nascondendolo dietro un cespuglio incipriato di brina e di proseguire a piedi. Percorsi circa tre chilometri, trovò un altro cartello, stavolta appeso alle corna del teschio di una vacca: «Reliquia saracena giù per di qui e poi a destra». Altri cartelli si susseguivano. Il più ermetico, sotto il disegno di una freccia, diceva: «È là». Quando calarono le prime ombre della sera il redattore, ormai sfinito, quasi assiderato e prossimo al collasso, stava ancora girovagando per i boschi in cerca dello scafo saraceno. E finalmente quando, ormai sicuro di essere vittima di una burla, stava per rinunciare all’impresa, trovò quella che avrebbe dovuto essere una galea saracena. Sotto il cartello «Galea saracena arenatasi tanto tempo fa quando qui c’era il mare», scorse una vecchia capponaia sgangherata e bianca di sterco, con tre canne di palude di diversa altezza che avrebbero dovuto essere gli alberi della nave. Sulla più alta era stata issata una bandierina con la mezzaluna. Dentro la capponaia c’erano tre pitali ammaccati colmi di ossa di gallina. Una scritta spiegava: «Ossa di cristiani già succhiate». E ammoniva: «Chi tocca muore». Col sangue alla testa dalla rabbia, deciso a fargliela pagare a chi lo aveva corbellato a quel modo, il redattore scese la collina per recuperare il suo biciclo ma non lo trovò. Al suo posto qualcuno aveva lasciato un biglietto che tolse ogni residua forza a chi lo lesse: «Con tanti ossequi dal turco». Quando, la stessa sera, il redattore, furibondo, si fiondò all’osteria del Nane Gozo, i tre avventori che lo avevano raggirato e derubato del biciclo non c’erano. Anzi l’oste disse che l’unica volta che li aveva visti entrare nel suo locale era stata la sera prima e che non era suo costume chiedere le generalità ai clienti prima di mettergli sul tavolo il fiasco di rosso.
Il gusto per la burla a Verona era più antico delle pietre dell’Arena, l’anfiteatro romano di piazza Bra. L’allegra follia, che contagiava in diverso grado un po’ tutti, si diceva fosse figlia dell’aria frizzante e ilare che rotolava giù dal Monte Baldo soprattutto le mattine in cui la montagna sfoggiava il suo diadema di nuvole rosa e oro. C’erano giorni in cui la città sembrava un collegio senza disciplina. In via Nuova per poche lire si potevano ammirare a pagamento i più strani animali imbalsamati tra cui orche marine, vampiri africani, tapiri, boa con due teste, facoceri con tre occhi, orsi gialli. In una stanzona il sabato e la domenica veniva mostrata per una modica cifra, viva e in perfetta salute, una misteriosa “Squimese”, una donna “selvaggia ma ben costumata” che brandiva gli arnesi da caccia della sua tribù artica. Sotto i portici di piazza Bra lo svizzero Esslinger faceva esibire le sue pulci ammaestrate, “perfettamente visibili a occhio nudo”, che tiravano minuscole carrozze dorate e “attingevano acqua da un pozzo d’argento con un secchio d’oro”. Il pezzo forte dei “gabinetti” di figure di cera, fisse o in movimento, era costituito dalla Strage degli innocenti, uno spettacolo ricco di macabri particolari, secondo il gusto del tempo, e con un tale spreco di sangue che avrebbe fatto inorridire perfino Erode.
Il puzzo di selvatico che proveniva dai serragli di belve della zona di San Luca e di via Valverde si spandeva per tutta la città, entrava a folate nelle case e nelle chiese, nei teatri e nei bordelli. I preti e le suore di don Mazza vi sentivano l’odore delle loro missioni sudanesi ed egiziane e si struggevano di nostalgia, ma c’erano anche coloro che, abituati al sonnolento grugare delle colombe di piazza Erbe, maledivano quell’Africa troppo vicina, e sommergevano di improperi i vari Livingstone, Stanley, Burton ma anche i Miani, i Gessi e gli Antinori che, proprio in quegli anni, con le loro esplorazioni l’avevano avvicinata ancora di più.
L’Arena ospitava spettacoli di ogni genere: vi decollavano palloni aerostatici che dopo pochi chilometri andavano a sbattere contro un campanile o si afflosciavano miseramente su un letamaio. E tra uno spettacolo e l’altro si organizzavano tombole e cuccagne: sul palo venivano issati salumi, oche gigantesche e, una volta, persino un cavallo vivo che, come riferirono le cronache, rimase tale fino al momento in cui il vincitore lo montò per portarselo a casa.
In questo piccolo mondo che continuava a vivere un carnevale senza fine e senza speranze, Emilio Salgari arrivò portando i suoi fantasmi beffardi e discoli. Nato in una notte di tempesta, si lasciò governare da tuoni e fulmini, e non riuscì mai a emanciparsi dalle torture della fantasia. A Negrar, il paese della Valpolicella dove era stato messo a balia da Maddalena Cinquetti, detta la “Maddalena dei sarti”, e dove, fanciullo e adolescente, trascorse le vacanze estive, conobbe la natura e la vita contadina. In contrada Saga, nel gennaio del 1845, si era trasferito lo zio Luigi, fratello del nonno Paolo, ma Emilio non andava dai parenti paterni. I Salgari non erano una famiglia unita. La rapida agiatezza conquistata dal patriarca Antonio con l’attività di oste e trattore non aveva portato armonia ma aveva creato tensioni e rivalità tra i figli e i nipoti.
“Salgarello”, come lo chiamavano per la sua bassa statura, era affezionato alla donna che lo aveva allevato: la chiamava zia Maddalena e zio Geppe chiamava il marito di lei, Giuseppe Righetti. Quello di Negrar era un sorridente mondo fatto di grandi corti quadrate, cani latranti alla catena, pollame, pozzi, stalle, portici con carri e aratri, grandi cucine col focolare e la lanterna a olio, arnie, filari di salici, vigne che si piegavano sotto i grossi grappoli d’uva, casette abbarbicate alle colline, notturni “filò” sulle balle di fieno, lucciole che brillavano come opali. Era un mondo molto diverso da quello dei parenti materni, dove le case affondavano le fondamenta nel mare e vi si entrava con la barca. Che zia Filomena Gradara De Rossi, una santa donna che gliele perdonava tutte, vivesse a Venezia circondata da tutta quell’acqua, dava a Salgarello un’emozione formidabile. Così come lo stregavano tutte quelle navi all’àncora sormontate da enormi alberi e le gondole nere schiaffeggiate dall’acqua. Quale dei due mondi il piccolo Emilio preferisse lo si poté subito capire da un capo d’abbigliamento con cui si presentava puntualmente a Negrar a casa di Maddalena Cinquetti e che portava con una certa affettazione: un berretto alla marinara calcato fino alle orecchie. Era evidente che nel cuore gli si era acceso un fuoco che non si sarebbe più spento.
Un compagno di giochi di Negrar, Antonio Fedrigo, più giovane di soli due anni, se lo ricorderà «vivace ed esuberante, tarchiato, robustissimo, piccolo di statura». Altri coetanei, tra cui Luigi Zannini e una sorella del Fedrigo, Delfina, testimonieranno che «la sua compagnia era un vero piacere. Quando arrivava, tutti gli correvano incontro per stare insieme con lui, perché aveva sempre delle trovate». Una delle sue trovate fu quella di dare l’assalto al “Forte Bellorio” che altro non era che una baracca di legno in cui lavorava Giobatta Bellorio, detto “Asedo” (Aceto), un falegname fastidioso e irascibile, un orso che, se fosse riuscito a mettere le mani su uno di quei monelli dispettosi che lo prendevano in giro e saltavano su e giù per le sue cataste di assi, gli avrebbe strappato le orecchie. Emilio organizzò la spedizione punitiva curandone tutti i particolari. La baracca era in fondo a una stradina quasi sommersa dai sambuchi, curvi sotto le infiorescenze di bacche nere. Era facile raggiungerla senza essere visti, strisciando di cespuglio in cespuglio. Circondata la baracca, Salgarello e i suoi compagni la tempestarono di sassate tra le grida inferocite del falegname che non osava uscire allo scoperto per non essere colpito. Quando lo fece, scardinando quasi la porta con una pedata, gli assedianti erano già scappati oltre i sambuchi. Male invece andò la spedizione contro le api selvatiche che avevano fatto il nido in una buca sul ciglio di un fosso. L’obiettivo era quello di derubarle del miele, ma quel giorno Salgarello dovette fare i conti con i loro micidiali pungiglioni e fu visto tornare in paese con una faccia così gonfia da sembrare un’anguria.
A Negrar non c’era il mare, ma di acqua giù per i fossi ne correva in abbondanza, soprattutto dopo un violento temporale estivo. Un giorno il torrente che lambiva il paese, e le cui acque diafane per lunghi mesi saltellavano su un letto di pietre levigate, si ingrossò al punto da far temere un’inondazione. L’acqua, diventata limacciosa, schiumava e rugghiava dentro gli argini che qua e là cominciavano a sbriciolarsi consegnando alla corrente ciuffi d’erba, cespugli e alberelli. Salgarello, osservandola, ebbe un solo, trionfante pensiero: costruire una zattera e navigare. Inchiodò quattro assi, con un’altra asse si fabbricò un remo e tentò l’avventura. Inutili furono le grida d’allarme di chi vide quel ragazzino dalla testa grossa infilata in un berretto alla marinara lottare con la corrente che lo sballottava senza pietà e tentava di schiodargli la zattera da sotto i piedi.
A gambe larghe, pagaiando con forza come se assestasse fendenti, il piccolo e incosciente “capitano” fu visto, nel riverbero del sole, sparire dietro la prima ansa, saltellando e piroettando con la sua zattera. Nessuno ragionevolmente pensò che sarebbe arrivato al mare, dopo essersi immesso col suo legno ribaldo nell’Adige. E infatti un berretto alla marinara che scendeva solitario con la corrente costituì pochi minuti dopo per i compagni, che attendevano l’eroe a valle, la prova irrefutabile del naufragio. Delfina Fedrigo pensava già che lo avrebbero ripescato morto, incagliato chissà dove, con la bocca piena di fango, ma con poche bracciate Salgarello, già esperto di nuoto, aveva guadagnato la riva e vi si era issato con un sorrisino e due occhi birbi che facevano presagire un nuovo tentativo. Il giorno dopo, infatti, rotolò fino al torrente una brenta da bucato. Vi si acciambellò dentro e si abbandonò alla corrente. Finì arenato dopo pochi metri con l’acqua melmosa che gli arrivava al petto e la nuova avventura finì. Nonostante il doppio naufragio, Salgarello si esaltò per la coraggiosa impresa che, nella sua fantasia, equivaleva a una specie di battesimo del mare e che l’aveva fatto crescere di qualche altra spanna nella considerazione dei suoi compagni di giochi. Tra questi c’era anche Maria Caprini, di tre anni più piccola di lui, che nel 1880, quando aveva appena quindici anni, con altre suorine veronesi avrebbe seguito monsignor Daniele Comboni in Sudan e sarebbe stata fatta prigioniera dai ribelli del Mahdi con tutte le sue compagne e alcuni missionari. «Mi ricordo che quando seppi che partiva per il Sudan – scriverà Salgari sul giornale “L’Arena” nell’agosto 1885 – dissi a sua madre che i sudanesi una volta o l’altra l’avrebbero fatta prigioniera. Scherzavo un po’ ma lo scherzo è diventato profezia».
Nel 1890 suor Maria Caprini, dopo una lunghissima prigionia, lasciò l’Africa e tornò a casa a riabbracciare i familiari. E Salgari scrisse: «Fu una delle ultime a sfuggire ai tormenti delle feroci orde sudanesi. Un giorno il Mahdi, esasperato perché non voleva abbracciare la sua religione, in pieno mezzogiorno, alla presenza di tutte le truppe, l’aveva tratta dalla capanna per decapitarla. Fortunatamente poco dopo cambiò parere rimandandola nella sua prigione quasi ignuda».
Un conto è naufragare in un fosso in piena e uscirne col marchio del coraggio stampato in fronte, e un conto è naufragare miseramente tra i libri e i quaderni di scuola dove il fallimento viene sancito burocraticamente e dove i muscoli, l’ardimento e il fuoco dell’avventura che brucia dentro non servono a migliorare le votazioni. Salgarello patì l’umiliazione della bocciatura nel 1875, quando si presentò come privatista alla sessione autunnale di esami della Scuola tecnica regia di Verona. Rispose a tutte le domande. Sapeva tutto su Garibaldi, marinaio e guerrigliero nella Repubblica del Montevideo e a Rio Grande do Sul e le cui leggendarie imprese di «corsaro e filibustiere» avevano ispirato Alexandre Dumas; superò la prova di storia e geografia con 6 in scritto e 7 in orale. Conquistò un fulgido 9 in italiano orale, peraltro ridimensionato da un 5 nello scritto, ma il resto fu un disastro. I brigantini con le vele al vento che lo studente era solito schizzare sui quaderni non lo soccorsero in disegno, dove si arenò sul 5. Lo stesso voto prese in matematica, francese scritto (6 in orale) e calligrafia. L’anno seguente i genitori lo iscrissero alla Scuola tecnica comunale. Fu bocciato dopo essere stato rimandato a settembre in francese e matematica. Evidentemente era più facile espugnare il “Forte Bellorio” che stare sui libri. Finalmente al terzo tentativo Salgarello la spuntò con la media del 7, ma l’anno seguente, in seconda, dopo che la famiglia, in difficoltà economiche, si era trasferita in un modesto appartamento al numero 22 di Regaste Redentore, gettò la spugna prima degli esami, nonostante avesse avuto due sole insufficienze (4 in francese orale compensato da un 6 nello scritto; 5 in matematica orale controbilanciato da un 6 nello scritto) e avesse conseguito uno stellare 8 in italiano scritto (7 in orale).
Non era un caso se il ragazzo andava bene solo in italiano, storia e geografia. Leggeva molto, soprattutto i romanzi di Jules Verne, Thomas Mayne-Reid, Gustave Aimard e Louis Boussenard; passava intere giornate alla Biblioteca Civica con le guance in fiamme per l’emozione sopra stupendi atlanti acquerellati e fantastiche illustrazioni come quelle di Riou e Neuville. Ma aveva anche due insegnanti eccezionali e un po’ eccentrici che uscivano dagli schemi retrivi dei programmi didattici ufficiali, l’abate Pietro Caliari e il marchese Giuseppe Arturo Belcredi. A quattordici anni, imitando i suoi autori preferiti, Salgari aveva già scritto i suoi primi, ingenui racconti. Gustave Aimard e il capitano Thomas Mayne-Reid erano diventati scrittori dopo mille straordinarie avventure. Lui aveva alle spalle soltanto un naufragio in un fosso, ma aveva davanti tutto il tempo che voleva per solcare i mari. La sua fantasia e la sua incontenibile passione per l’avventura e per tutto ciò che essa rappresentava trovarono nuovo alimento nelle lezioni di Caliari e Belcredi. L’abate Caliari era un prete di esuberanza moschettiera, pieno di vitalità e di buon umore. Si adornava di una lunga zazzera non sempre perfettamente curata e stabaccava come un vecchio garibaldino. Aveva scelto di governare le anime senza dover alzare le ginocchia per salire sul pulpito al quale preferiva il suo piccolo scrittoio ingombro di carte. Sfornava libri con buona costanza, era corrispondente per la conservazione dei monumenti della Valpantena, la sua valle, e, nominato, nel 1900, presidente della Società letteraria, aprì l’istituzione anche alle donne. L’altro insegnante di Salgari, Giuseppe Arturo Belcredi, di marchionale famiglia pavese, era poeta, giornalista di fede mazziniana (all’apostolo del Risorgimento italiano aveva dedicato una canzone in morte) e fanatico alpinista.
Pietro Caliari nell’agosto 1883 pubblicò Angiolina, un romanzo storico di stampo manzoniano. È la drammatica storia, ambientata nella Valpantena del XVII secolo, di una fanciulla rapita dal conte Provolo, un don Rodrigo veneto che, per portare a compimento la sua efferata impresa, si servì di una banda di feroci banditi (“buli”) e che per il suo delitto pagò consegnando la testa al boia. Nella nota introduttiva l’autore avverte:
Questo racconto fu da me condotto a termine da quasi dieci anni ma [...] fu abbandonato in un canto del mio scrittoio [...] Non l’avrei tolto di là per ragione alcuna; senonché, il signor Salgari Emilio, un giovane egregio quanto modesto, che fu già mio allievo, essendo venuto a mostrarmi un suo romanzo inedito intitolato La scimitarra di Khien Lung3, mi fece rifrullar in capo qualche postuma velleità e mutar divisamento, consigliandomi a levare il manoscritto da quella specie d’oblio temporaneo, senza forse badare che potrebbe esser tuffato in un oblio eterno. Fatto sta che egli mi ha incoraggiato, mi ha dato validissimo aiuto materiale e morale, e su per giù, con un mese di lavoro, mi ha fatto pervenire all’ultima pagina. E gli è per questo che prego il benigno lettore [...] a darne merito al signor Salgari Emilio, del quale io pronostico un bell’avvenire letterario, avendo egli fin da quest’ora (e conta appena ventun’anni) ammannito per il pubblico parecchi romanzi assai interessanti.
Salgari, però, si sentì un po’ defraudato da quella nota introduttiva e se ne lamentò con l’amico conte Vittorio Cavazzocca Mazzanti. «Ma quale aiuto morale e materiale!» disse seccato. «Io quel romanzo gliel’ho quasi rifatto!» Cavazzocca Mazzanti ne riferì in una lettera al comandante Umberto Bertuccioli4 scritta da Lazise, dove risiedeva, il 14 agosto 1924.
Salgari era stato pregato dall’abate Pietro Caliari, già suo professore di italiano, in quell’anno che frequentò la Scuola tecnica, di correggergli un romanzo, Angiolina. Nella prima edizione vi è una prefazione che ricorda l’aiuto del Salgari, ma Emilio si lagnava con me, che aveva detto poco di lui il Caliari. Pare che il Salgari abbia dovuto rifare in gran parte il romanzo; quindi si può ammettere che Emilio sia stato collaboratore all’autore di Angiolina.
È ragionevole tuttavia pensare che l’intervento “materiale” del giovane Emilio non possa essere consistito nella correzione stilistica del manoscritto del suo ex insegnante, che in questo campo non aveva certo bisogno di consigli e che stava, tra l’altro, preparando la pubblicazione di un libro di testo per l’insegnamento dell’italiano, L’arte della parola nell’Italia contemporanea. Precetti ed esempi. Salgari può aver suggerito qualche taglio e può aver vivacizzato con qualche sua invenzione qualche passo, può aver trascritto qualche pagina che era andata parzialmente rovinata quando, durante l’alluvione dell’Adige del 1882, il manoscritto – come si legge nella nota introduttiva di Caliari – «sostenne l’impeto delle acque torbidicce dell’Adige, che, senza mio speciale permesso, invasero il mio povero studiolo e lo minacciarono di totale rovina».
C’è poco, in verità, di Salgari nell’Angiolina. Ma quel poco sembra sgorgato dalla stessa fonte cui si sarebbero abbeverati gli eroi della sua epica. Come quell’«arsenale completo di armi antiche da rammentare quelle dei barberi d’Algeria». Come quel temporale durante il quale «un lampo fendeva in due, pari a una gran scimitarra di fuoco, le vaporose masse... e i fischi dell’aria si cangiavano in ruggiti senza fine, che parevano emessi da una legione di belve»5. Come la metamorfosi del conte Provolo che, braccato dai soldati, spronava all’attacco i suoi bravi «cangiato in tigre» (un Sandokan veneto dalla parte dei cattivi?). Come il paragone tra i galli che «si bezzicavano dall’alto dei covoni simili a due giornalisti in diatriba»6. Una delle scene finali, quella del conte che, davanti al boia, implora disperato il perdono e l’aiuto di Angiolina («Ti farò felice... sarò tuo schiavo...») si nutre dei succhi del “melodramma” salgariano. Ma oltre a qualche altro particolare, come la citazione di Jules Verne, e a qualche imprecazione meteorologica come «per mille saette» o «per mille tuoni», non c’è nient’altro nel romanzo di Caliari che possa far pensare a un rifacimento del testo da parte dell’ex allievo. Davvero poche gocce del grande fiume cinese Si-Kiang, la cui descrizione apre La scimitarra di Kien Lung, confluirono nei torrenti della Valpantena.
Invece Salgari trasse dall’abate il gusto per una certa opulenza descrittiva e per le lunghe e quasi maniacali elencazioni geografiche, antropologiche, zoologiche, botaniche e mineralogiche. Specialista in maratone tassonomiche era anche il marchese Giuseppe Arturo Belcredi che nei versi di Orresco referens (“orresco”, senza l’“h” davanti), contenuti nella raccolta poetica Terra marique, scandaglia con la fantasia il fondo degli oceani nominando esemplari di flora e di fauna in molti casi sconosciuti. Nei tenebrosi abissi si inseguono tubipore, cariofille, dactiloferi, spari-sinagri, bònidi e pelagie panòpire. Tale è la baraonda che lo stesso «vecchio Nettun sotto la coltrice / il volto asconde, e cela scettro e clamide». Le rime marine di Belcredi piacquero sicuramente al giovane Salgari. Ma non al poeta Vittorio Betteloni che, inviperito perché il marchese aveva osato criticare i suoi Nuovi versi, gli rispose che con Terra marique – e si riferiva in particolare alla parte intitolata Orresco referens – sprofondava «nel letamaio a far concorrenza a un animale che non nomino perché non serve». Il poemetto del «poetonzolo idealista» Belcredi, secondo il Betteloni, conteneva «più bestialità che parole». Ed è da escludere che le quotazioni del marchese siano risalite nella considerazione dell’autore dei Nuovi versi dopo la pubblicazione dell’ultima raccolta poetica dal chilometrico titolo Il cervo ferito innalza i suoi gridi e il cerbiatto illeso saltelli a sua posta.
Belcredi aveva la straordinaria capacità di orrescere sia negli abissi marini che sulle cime dei monti. Durante una gita sulle montagne veronesi si fermò a osservare una mandria di vacche che pascolavano tra i cardi selvatici. «Pareva una fantasmagoria, una ridda di demoni cornuti, un convegno di streghe quadrupedanti» scriverà in un articolo sulla “Nuova Arena”. Niente di più facile che, quando raccontava in classe all’Istituto tecnico le sue “avventure”, il marchese caricasse le tinte in modo tale da lasciare a bocca aperta l’impressionabile studente Salgari.
Più pacate erano invece le poesie di Adolfo Gemma, un altro professore veronese, ex garibaldino, insegnante di lettere italiane nella Regia scuola nautica di Chioggia. Le sue liriche inneggiavano alla natura e alla classicità greca, e alla sua morte, nel 1893, il giornale “L’Arena” le definirà “imperiture”. Gemma pubblicò, tra l’altro, un poemetto intitolato Sui mari e un volumetto sull’India, argomento di estrema suggestione per Salgari che nei misteri di quel paese avrebbe intinto più volte la penna. Che lo scrittore nella sua scalcinata biblioteca conservasse alcuni libri di Adolfo Gemma, annotati di suo pugno dietro il frontespizio con grafia minuta e spesso incomprensibile, significa che li aveva letti con attenzione e che in qualche modo questi avevano contribuito alla sua fabbrica dei sogni.
Emilio era ancora un alunno delle Scuole tecniche quando in corso Porta Borsari naufragò negli occhi di una inglesina «i cui capelli biondi» annoterà su un quadernetto «scendevano sulle sue spalle come un dorato manto». Salgarello aveva forse in testa il berretto alla marinara e faceva un po’ lo spavaldo. L’inglesina lo folgorò con rapidi sguardi a intermittenza. Il seno rotondetto era una doppia pesca non ancora matura. Salgarello anticipò Tremal-Naik, il cacciatore di serpenti delle Sunderbunds che, nella giungla nera, in mezzo a una macchia di mussenda dalle foglie sanguigne, vide Ada «una donna bella, raggiante, superba» e se ne innamorò di un amore fulmineo. Ada era prigioniera dei thugs ma l’inglesina non doveva sentirsi molto meglio: le camminava a fianco un’istitutrice con quattro braccia come la dea Kalì la quale, accortasi che un marinaretto si stava sdilinquendo nella scia della fanciulla, tentò di sottrargliela alla vista spingendola in uno dei tanti vicoli che, come i denti di un pettine, si dipartono da corso Porta Borsari. Salgarello probabilmente non restò immobile come Tremal-Naik «colle braccia tese innanzi, trasognato» ma seguì col suo incedere un po’ trasandato l’inglesina. Ma ormai la “dea Kalì” con le sue quattro braccia l’aveva avvolta come in un bozzolo di seta, nascondendola alla vista. E per lui il vicolo diventò più buio di quello di Amir Nath del racconto kiplinghiano della piccola Bisesa e di Trejago.
Note
1 Così risulta dal Foglio di famiglia del 1° gennaio 1872, in contrasto con il registro della parrocchia di S. Eufemia secondo cui Emilio Salgari – che in questa chiesa fu battezzato il 7 settembre 1862 – sarebbe nato al numero 839 (poi 7) di vicolo S. Maria (toponimo inesistente dovuto a una trascrizione frettolosa della denominazione S. Marco).
2 Francesco Bresaola, La giovinezza di Emilio Salgari, Casa Editrice I.C.A., Verona 1963.
3 Con questo titolo Salgari presentò all’abate Caliari il romanzo che sarebbe stato pubblicato nel 1892 dai Fratelli Treves di Milano col nuovo titolo La scimitarra di Budda. Un romanzo intitolato La scimitarra di Kien Lung (non Khien come scritto dall’abate Caliari) venne effettivamente pubblicato nel 1939, 28 anni dopo la morte di Salgari, da Casa Editrice Impero, Milano, ma si tratta di un falso.
4 Uno dei primi biografi salgariani, Umberto Bertuccioli, che si firmava con lo pseudonimo di Berto Bertù. Nel 1928 pubblicò “Salgàri” (Edizioni Augustea, Roma, Milano).
5 Immagine ripresa nel romanzo I Briganti del Riff.
6 Salgari all’epoca della pubblicazione di Angiolina collaborava già alla «Nuova Arena» e poteva quindi dire di conoscere bene i giornalisti.