Così il conte Cavazzocca vinse la battaglia del biciclo e avviò al nuovo sport anche Salgari raccomandandogli «disinvoltura e leggerezza» nella manovra. «Se si cade – gli diceva – la prima regola è di montare di nuovo in sella e ripartire subito». Poi, quando lo vide salire, lui così piccolino, su quell’affare così alto, scosse la testa e sorrise. «Vederlo sulla ruota anteriore del biciclo era uno spasso» scriverà in una lettera a Umberto Bertuccioli. Talora Salgari infilava la testa in un turbante che si era fabbricato con le sue mani e che aveva impreziosito con l’aggiunta di una penna di gallina sul davanti. Così conciato, gli sembrava di essere un rajah di qualche parte dell’India. Ma per i veronesi dotati di scarsa fantasia e incapaci di andare oltre quello che vedevano con i loro occhi, era soltanto «Salgarello ch’el fa el mona vestìo da paiàsso». Lo vedevano passare in cima al biciclo con gli sbrendoli al vento, quasi un’immagine dei suoi pensieri, e scuotevano la testa. «I Salgari muoiono matti» commentava qualcuno. Il rajah pedalava verso il Boschetto, un po’ fuori città. Il sole sulle spalle e l’aria pulita del mattino nelle narici. Rollava sul pavé, sobbalzava sulle rotaie del tram a cavalli e poi manovrava in scioltezza quando le ruote prendevano a girare nella docile polvere col crepitio di un macinino da caffè. Giunto all’altezza delle prime robinie, abbandonava il biciclo tra l’erba alta e, incurante dei cardi selvatici che gli sferzavano i pantaloni, guadagnava la riva dell’Adige proprio dove il fiume forma un’ansa e la corrente si biforca per lambire i fianchi di un isolotto selvaggio. Mentre il fango gli succhiava le scarpe, Salgari puntava il fuoco terribile delle sue pupille sul groviglio verde di alberi e cespugli e sognava di essere in chissà quale parte del mondo, nel Sarawak bornese o nelle Sunderbunds bengalesi. Tutt’intorno le strisce lucenti delle lumache sulle vesciche e i rigonfiamenti della sabbia scura gli sembravano bave di velenosissimi serpenti. In quei momenti di ansia suprema la fantasia ricamava le più vertiginose avventure. Su quell’isolotto, tra le robinie-paletuvieri e i platani-baobab, ruggivano tigri, soffiavano cobra, schiumavano leoni, si inseguivano scimmie di ogni risma, si celavano i selvaggi di chissà quante razze, tutta gente che manovrava il coltello come i veronesi lo stuzzicadenti. C’erano l’India con le sue sette, la Malesia con i suoi veleni, i Caraibi con tutti i loro pirati impiccati e da impiccare. Sul fiume dalle trasparenze arcane sfilavano i fantasmi dei velieri di Melville e Cooper, passava la lunga barca dorata della licenziosa regina Pomaree seguita dalle baleniere di Nantucket. E mentre Salgari fantasticava, la follia, che lo seguiva ovunque, gli annusava i pantaloni.
Il conte Cavazzocca Mazzanti credeva a tutto quello che gli raccontava quel giovane “capitano” che diceva di aver girato più volte il mondo, ma era tormentato da un dubbio destinato a rimanere irrisolto. «Come se la sarebbe cavata» si chiedeva «nel caso in cui una ciurma si fosse ammutinata? Per quanto forte, il mio amico non aveva certo la statura per tenerle testa».
Salgari, nel suo romanzo La riconquista del Mompracem, descrivendo il sultano Selim Bargani Arpaland, parla di «un cosettino smilzo, color del pane bigio che portava in capo un turbante di dimensioni colossali». Quell’immagine non era tanto lontana da quella che il “capitano” vedeva riflessa ogni mattina nello specchio davanti al quale si radeva e si impeciava le punte dei baffi. In quanto a forza però ne aveva da vendere. Alla Società di ginnastica e scherma Bentegodi si distingueva in quasi tutte le discipline. Il 28 luglio 1885 fu per lui un giorno speciale. Fu premiato due volte: come ginnasta con una medaglia d’argento dorato e come schermidore con una “menzione onorevole”. Nel suo cuore stava già germogliando il seme del Corsaro nero, signore di Ventimiglia e di Valpenta, il suo autoritratto lirico. Botte, affondi, stoccate, mulinelli, parate: Salgari sosteneva che chi maneggiava la spada non poteva macchiarsi di viltà. Il suo colpo preferito era l’inquartata contro tempo. Quando lo sferrava non c’era quasi speranza per l’avversario. Il suo idolo era Agesilao Greco, campione della famosa scuola siciliana, celebre non solo per la sua “botta dritta” e per i “disarmi” ma anche per la vita avventurosa. Ma quando Emilio si batteva con l’amico Vittorio Cavazzocca Mazzanti, che lo sovrastava come un campanile domina la propria chiesa, non aveva scampo e rischiava di far crepare dalle risate i soci del circolo. Il conte Vittorio batteva improvvisamente la sciabola sulla pedana; Emilio si chinava pronto a parare chissà quale diabolico colpo, ma nello stesso momento il gigantesco avversario sollevava fulmineamente la lama e gliela stampava di piatto sul sedere. L’irriverente ferro gli trasmetteva un’eco gelata nelle viscere e un caldo rossore alle orecchie. Ma, dopo un attimo di smarrimento, cadeva sulle ginocchia e guardava con un sorriso tremulo verso il pubblico esilarato.
Le figuracce cui lo costringeva l’amico conte non gli impedirono di diventare presidente della Società di ginnastica e scherma Bentegodi, né le mascherate sul biciclo gli preclusero la via alla massima carica del Circolo velocipedistico veronese. La sua simpatia radiante gli apriva tutte le porte. In occasione del banchetto del 9 gennaio 1886 organizzato in una Verona bianca di neve all’albergo Riva San Lorenzo per festeggiare il terzo anniversario della fondazione del Veloce-club, gemello del Circolo velocipedistico veronese, Salgari, dopo aver narrato la storia delle due ruote, dalla draisine del barone Karl Friedrich Drais von Sauerbronn al modello di James Starley, brindò alla fratellanza tra le due società veronesi. Invise alle pubbliche autorità, ci mancava pure che si facessero guerra tra di loro. Al prodigioso veicolo nove anni dopo Salgari avrebbe dedicato un romanzo, Al polo australe in velocipede, pubblicato dall’editore Paravia, probabilmente ispirato al fenomenale pedalatore dottor Raffaele Gatti, che aveva appena percorso ottomila chilometri dall’Italia al Circolo polare artico.
Ma vicino alla città, sotto le colline di Avesa, stava per nascere il grande nemico del biciclo. Lo si sentiva ruggire a parecchi chilometri di distanza e molti ignoravano quale fosse la fonte di quel fracasso infernale. Finalmente un giorno qualcuno fu in grado di riferire che alle vacche di Avesa e dintorni si erano avvizzite le tette; che una dozzina di galline, nel fare le uova, erano esplose; che le foglie dei gelsi si frantumavano con scroscio di vetri e che i contadini erano decisi a «uccidere sul colpo» un certo ingegner Enrico Bernardi non appena l’avessero avuto a tiro. Costui, bombetta in testa e una crudeltà da cinghiale negli occhi, con un diabolico biroccino a motore si buttava all’impazzata per le strade bianche facendo stabaccare polvere a tutto il paese. Per una settimana, dopo il suo passaggio, le tagliatelle cricchiavano sotto i denti e, visto che passava ogni giorno, e più volte, non c’era più verso di mangiare la pasta così come usciva da sotto il matterello ai tempi felici in cui quel mostruoso triciclo non era ancora in circolazione.
L’ingegner Bernardi, che sarebbe passato alla storia come uno dei padri fondatori dell’industria automobilistica, era conosciuto ad Avesa e dintorni soprattutto come inventore della neve artificiale. Prima di capirne la causa, infatti, tutti si meravigliavano nel vedere i tetti e la campagna coprirsi di bianco, le marasche incipriarsi, le Madonne addolorate dei capitelli impallidire come geishe, le lucciole nelle sere d’estate volare basse sotto il peso della neve che si era accumulata sulle loro ali.
In quei tempi a Verona prestava servizio militare come ufficiale di cavalleria Giovanni Agnelli che volle visitare il laboratorio dove venivano prodotti quel rumore e quella “neve”, e in quel preciso istante il balbettante Veneto industriale perse una chance storica. Enrico Bernardi non riuscì a vendere i suoi motori a scoppio e la sua impresa pionieristica, fondata a Padova col socio Antonio Conti, e fallì in poco tempo. All’ingegnere non restò che consolarsi col successo che ebbe proprio in quegli anni un libro scritto dal padre Lauro qualche tempo prima, Cecchino da zero al milione, il primo romanzo industriale, come spiegava il sottotitolo, pubblicato per i tipi padovani del Sacchetto, l’editore del profondo Veneto clericale.
Nella primavera del 18831 Salgari fu presentato dal suo ex insegnante di storia e geografia, Giuseppe Arturo Belcredi, al direttore-proprietario della “Nuova Arena”, Ruggero Giannelli, che aveva fondato il giornale il primo maggio 1882, dopo aver diretto per due anni “L’Arena” ed essersi dimesso – come spiegò più volte – «per diversità di vedute con l’amministrazione e gli azionisti». «Diversità di vedute? Ma fatemi un piacere!» scriverà nelle sue memorie Antonio Todeschini, proto dell’“Arena” per cinquantadue anni, sopravvissuto a otto direttori. «Giannelli voleva soltanto diventare editore di un giornale. Cercò amici e denari e ci riuscì, ma perse la tranquillità del ben vivere. Difatti, dovette elemosinare giorno per giorno per mantenere in vita il giornale per quattro anni».
A Verona si pubblicavano quattro quotidiani: i liberali “L’Arena” e “La Nuova Arena”, il democratico e socialisteggiante “L’Adige”, e il clericale “Il Corriere di Verona”. Il giornale di Giannelli era stritolato dalla concorrenza e salassato dai debiti. Belcredi, che ne era stato il co-fondatore e vi collaborava come critico d’arte e cronista, accompagnò il giovane Salgari nell’ufficio del direttore, in via Pigna, e ne disse tutto il bene possibile. Molto tempo dopo Giannelli ricorderà quell’incontro con commozione.
...mi pare ancora di vederlo con quest’occhi il giovane ventenne, che tornava dal mare, navigato alla ventura; bassotto, tarchiatello, le salde gambe lievemente arcuate, il naso schiacciato al vertice, i neri occhi lampeggianti di intelligenza e di ardire, sormontati da folti sopraccigli, baffi scuri, fitti, corti, alquanto ispidi, allora. Non elegante, anzi alla buona il vestire e il portamento, ma un insieme di politezza e di dignità che ispirava simpatia... Ricordo che era di carattere chiuso, taciturno anche quando partecipava a qualche festicciola o modesto desinare della mia famiglia.
Un giorno, dall’appartamento accanto a quello di Giannelli, Emilio vide uscire una ragazzina bionda e, facile com’era agli amori a prima vista (gli eroi dei suoi romanzi s’innamorano sempre a prima vista), si sentì salire dal cuore un improvviso frastuono di zufoli e tamburi. La piccola dea era figlia di un degnissimo avvocato, Giacomo Caris, che accettava anche tre o quattro processi al giorno facendosi pagare poco o niente perché era ricco e gli bastava che il suo nome finisse sui giornali. Il “capitano” la squadrò col suo sguardo un po’ asiatico, ma la ragazzina, secondo Giannelli «era troppo giovinetta e non disposta a corrispondergli». E lo stesso Giannelli ricorderà che «Salgari, un giorno, d’umor nero, mostrò in redazione un grande coltello catalano, formidabile arma, comperata in un porto spagnolo, dicendo, con amaro ghigno, che quello era il miglior rimedio di ogni guaio: ed accennò al gesto di segarsi la gola...».
Salgari dunque «tornava dal mare» (vi era tornato da qualche mese e il suo viaggio in Adriatico non fu e non sarà seguito da altri) e si presentò a Giannelli con un racconto cocincinese, Tay-See, ambientato nel 1861. Fino a quel momento il giornale aveva pubblicato in appendice romanzi di intrighi amorosi che uscivano dalle penne di vecchi specialisti in drammi d’alcova. Ci voleva qualcosa di nuovo, qualcosa che desse la scossa, che stupisse. La passione sbocciata tra Tay-See e José Blancos sullo sfondo della guerra nella lontana regione del delta del Mekong prometteva di penetrare nei gusti segreti dei lettori veronesi. Non solo: il racconto, decisamente anticolonialista in un’epoca in cui i giornali crispini, compresa “La Nuova Arena”, sostenevano la politica delle colonie, avrebbe avuto un effetto dirompente in una società che in gran parte viveva nel limbo del conformismo più piatto. E se ciò non bastasse, veniva messa in discussione anche l’opera dei missionari in tempi in cui tutta Verona trepidava per la sorte delle suore e dei preti prigionieri del Mahdi, nel Sudan messo a ferro e fuoco dalla rivolta dei dervisci. Dice infatti in Tay-See il generale Tay Shung, comandante delle truppe cocincinesi reduci dalla sconfitta di Saigon, parlando con uno dei suoi ufficiali: «...E sarebbe forse la causa di questa invasione la morte di qualche missionario? Non lo avevo sempre detto io, che quelle tonache nere ci porterebbero sfortuna? Chi li chiamò nelle nostre terre a insegnar le loro frottole?»
Giannelli decise di rischiare di inimicarsi tutte le gerarchie della città pubblicando la novella, che apparve sulle appendici della “Nuova Arena” in ventotto puntate dal 15 settembre al 12 ottobre 1883. L’altro problema, quello di come avrebbe pagato il giovane scrittore visto che le casse del giornale erano sconsolatamente vuote, era di secondaria importanza. Tanto più che Salgari aveva capito immediatamente la situazione e, nonostante fosse «sempre alla caccia della bestia feroce chiamata scudo», rispose che non voleva denaro ma soltanto qualche copia del giornale per ritagliare le puntate del suo racconto da mandare a qualche editore di romanzi d’avventura.
Il successo di Tay-See fece lievitare le vendite della “Nuova Arena” che schizzò a vette mai raggiunte prima. Nel 1891, in una versione in parte riveduta e con un finale diverso, la novella partecipò a un concorso letterario bandito a Milano dalla “Cronaca d’Arte” di Ugo Valcarengi. I giurati, oltre al direttore del giornale, erano tre scrittori che allora erano di gran moda: la marchesa Colombi, Neera (pseudonimo di donna Anna Radius) e Gerolamo Rovetta. Il concorso non ebbe vincitori perché nessuno dei 269 manoscritti venne ritenuto «tale da toccare quel grado di valore e di perfezione artistica» che erano richiesti dal bando.
Nel numero dell’11 dicembre 1891 la “Cronaca d’Arte” riportava il giudizio su Tay-See:
È una novella che dà più di quanto promette. Il soggetto è vecchio come Noè, i tipi sono i soliti e lo studio psicologico ne è assai superficiale; eppure qualche cosa c’è, un po’ di quell’animo che rende belle le immagini della mente, un po’ di quel filtro d’arte che par sangue, passione, vita.
Il marchese Francesco Miniscalchi, uno dei notabili della città, teneva due tigri tra i melograni del giardino. Un conte della Valpolicella si era portato dal Sudan un bel leone fulvo di savana che aveva rinchiuso nella cappella della sua villa dopo aver sostituito il portoncino con una grata. Si trattava del primo leone al mondo che avesse un serraglio affrescato da un maestro del Cinquecento. Un giorno la belva fuggì e raggiunse i binari della ferrovia. Venne uccisa dalla carabina dello stesso conte mentre stava per azzannare due spigolatrici di carbone che, con le sporte di paglia, andavano di traversina in traversina a raccogliere i cocci neri e lucenti caduti dai tender.
Una mattina, verso metà ottobre del 1883, quando le foglie dei castagni d’India cominciavano a congedarsi dai rami e planavano largo prima di atterrare, i veronesi videro in vari punti della città dei manifesti con l’immagine di una tigre. In una città di missionari, di serragli, di viaggiatori e di conti e marchesi che almeno una volta all’anno partivano con un fascio di carabine per l’“Hic sunt leones” o per qualche distretto dell’India a grande densità di “mangiatrici di uomini”, la tigre era ormai diventata un animale quasi domestico che si doveva soltanto “maneggiare” con maggior cura di un cane o di un gatto. Perciò quella belva sui muri, più che destare grandi emozioni, incuriosì. Che cosa poteva significare, visto che sul manifesto non c’era alcuna scritta? I veronesi se lo chiedevano ogniqualvolta ne incontravano una spiaccicata a una casa. «Sarà in arrivo un nuovo circo» congetturavano sorridendo. All’indomani, 14 ottobre, “La Nuova Arena” annunciava: «Al momento di andare in macchina un amico ci comunica un telegramma da Milano, secondo il quale una terribile tigre della Malesia è fuggita da un serraglio in piazza Castello. Grande spavento in quella città. Carabinieri e soldati danno la caccia alla belva». E insinuava: «Che si tratti di quella stessa tigre di cui i giornali cittadini e misteriosi avvisi annunziano il prossimo arrivo a Verona?»
La notizia era troppo bizzarra per essere credibile: da Milano una tigre in libertà non poteva che arrivare in treno, con regolare biglietto di viaggio, e scendere alla stazione come un qualsiasi passeggero. Il 15 ottobre Verona si trovò tappezzata di nuovi manifesti: sempre la stessa tigre ma con l’aggiunta di una frase che prometteva, anzi minacciava, di mettere fine all’attesa: «La Tigre della Malesia, animale terribile che si pasce di carne umana, sta per arrivare». E finalmente, dopo un altro giorno di ansia, il mistero si chiarì. Sotto l’immagine della belva una nuova scritta informava: «La Tigre della Malesia è arrivata! Leggete la Nuova Arena».
Insomma era stata una felice trovata pubblicitaria di Ruggero Giannelli per lanciare il nuovo romanzo d’appendice di Emilio Salgari. Era il 16 ottobre e il giornale spiegava:
La Tigre della Malesia non è veramente una tigre, ma un uomo-tigre, un pirata ferocissimo... La Tigre della Malesia è un romanzo del nostro simpatico e fantasioso romanziere E. Salgari, l’autore di Tay-See, che tanto piacque ai lettori. È la storia di un pirata, la cui memoria dura tuttavia nei mari della Malesia e incute ancora spavento: un pirata della più terribile specie, che beveva sangue umano; che insanguinò per più di dieci anni le coste della sua Mompracem, di Labuan e di Borneo, e che si innamorò della nepote di un suo nemico. È una tremenda storia di stragi di ogni maniera, di assassini, di fughe, di inseguimenti; e l’amore vi ha una parte principale. Vi troverete descrizioni accurate di quei lontani e sconosciuti paesi; amori ardenti da parte di questa Tigre che non aveva mai amato, ed imprese eroiche per vincere gli ostacoli che s’oppongono a questo amore, circondato dai più terribili avvenimenti. La Tigre della Malesia del nostro concittadino Emilio Salgari è un romanzo di genere nuovo in Italia, un romanzo che oltre a essere dei più interessanti è al sommo grado istruttivo, è un romanzo che può essere letto in qualsiasi famiglia.
Quel giorno dalle fauci della tigre usciva lo spaventoso ruggito di Sandokan, il capostipite degli eroi salgariani, che avrebbe insanguinato le appendici della “Nuova Arena” per centocinquanta puntate, fino al 13 marzo 1884. Conoscere il segreto della sua filiazione psicologica significherebbe decifrare il prodigio del delirio del suo creatore. Sandokan è uno spietato vendicatore, un pirata che «più di una volta era stato visto bere sangue umano e, orribile a dirsi, succiare le cervella dei moribondi».
È dubbio che Emilio volesse soltanto stupire. Certo: non aveva ancora ventidue anni quando consegnò il manoscritto a Giannelli, viveva ancora abbastanza tranquillamente in famiglia anche se il padre insisteva perché si trovasse un lavoro “serio”, amava le burle, le stravaganze, raccontava a tinte forti agli amici mirabolanti e grottesche avventure di terra e di mare di cui assicurava di essere stato protagonista. Ma chi può dire in quali drammi diguazzasse già la sua mente e quali risentimenti avesse accumulato per partorire un uomo-tigre, uno sterminatore, «un uomo che, nuovo Attila, sul suo passaggio non lasciava che fumanti rovine e distese di cadaveri»? Potevano essere sufficienti i primi fallimenti amorosi, le frustrazioni marinare e un certo disagio esistenziale per mettere in subbuglio il suo giovane cervello, oppure aveva origini molto più lontane quell’odore di bruciaticcio psichico che la gente sentiva quando lo vedeva passare sul biciclo col turbante da maharajah? Il pirata Sandokan «non mancava di una certa generosità, che lo rendeva attraente» e per l’amore di Marianna era pronto a rinunciare a essere tigre. Anche Emilio era generoso, gentile e leale tanto da farsi voler bene da tutti, trovando estimatori soprattutto tra quanti ne conoscevano l’innocua follia e se ne giovavano. Ma la sua misteriosa furia interiore, malattia oscura quanto tenace, e i suoi sogni di trasmutazione violenta gli imponevano di costruire mostri capaci di vendette totali, che lavassero nel sangue torti e ferite che le turbolenze della fantasia ingigantivano fino a rendere immani. Un’anima, anche, ma forse soprattutto, all’età acerba dei vent’anni, può avere già misteriose ferite che reclamano vendette cosmiche. E la vita e l’opera del giovane che “tornava dal mare” cominciarono ineluttabilmente a confondersi al punto da risultare indistinti i confini dell’una e dell’altra. Accanto a Sandokan, nelle appendici della “Nuova Arena”, c’è Yanez, il «cinico e fedele» portoghese. Ma vi appare ancora come un eroe appena sbozzato. Ha lo spessore di una comparsa e non fuma ancora «l’ennesima sigaretta».
La Tigre della Malesia (il romanzo, ampiamente modificato, sarà pubblicato in volume nel 1900 dall’editore Donath di Genova col titolo Le tigri di Mompracem) per i molti aspetti violenti e scabrosi, per gli schizzi di sangue e di cervella, non era propriamente adatto a essere «letto in qualsiasi famiglia» come specificava “La Nuova Arena”, ma appunto per questo fu letto in tutte le famiglie e le vendite del giornale schizzarono a vette mai raggiunte prima. Il direttore Giannelli pagò un po’ di debiti e gli arretrati dei tipografi. «Non ti posso ricompensare che con una torta» disse però a Salgari, che accettò di buon grado e consegnò un nuovo romanzo, La favorita del Mahdi. In realtà la torta, una torta raffigurante una tigre («pane di Spagna deliziosamente condito di zabajone all’alchermes»), non fu pagata da Giannelli ma offerta alla redazione della “Nuova Arena” dal Caffè Dante che, com’era tradizione in occasione della pubblicazione di nuove appendici, affidava al suo pasticciere Capobianco il compito di fabbricare dolci a tema che poi metteva in vendita.
La rivolta dei dervisci in Sudan era un argomento di grande e drammatica attualità. Laggiù c’erano le suorine veronesi di cui non si sapeva nient’altro se non che erano cadute nelle mani dei musulmani che potevano farne quello che volevano. C’erano missionari di primo pelo e missionari di barba bianca. Quasi tutti partiti da Verona che era il quartier generale dell’evangelizzazione africana. Dal pulpito domenicale i preti non parlavano d’altro, invitavano alla preghiera e sollecitavano novene per suor Teresina, suor Maria, suor Eulalia, padre Luigi e gli altri. Salgari nella Favorita del Mahdi, sullo sfondo della sanguinosa rivolta, tessé la drammatica storia d’amore tra la bellissima danzatrice Fathma e l’ufficiale egiziano Abd-El-Kerim. Anche qui, come nella Tigre della Malesia, le passioni sono smisurate e tormentatissime, ma il tasso di spargimento di sangue è nettamente inferiore. La favorita del Mahdi, che nel 1887 sarà il primo romanzo di Salgari a essere pubblicato in volume (Casa Editrice Guigoni, Milano) infiammò le appendici della “Nuova Arena” dal 31 marzo al 7 agosto 1884 e la rotativa del giornale diventò incandescente a forza di stampare copie.
È un giudizio di oggi fondato su criteri incomparabili quello secondo cui il lettore contemporaneo che avesse cercato nei romanzi di Salgari anche i valori estetici del bello scrivere, di una prosa fine e raffinata, avrebbe storto il naso. Basta sfogliare i dizionari enciclopedici del tempo, primo fra tutti quello di Girolamo Boccardo, ventiquattro volumi pubblicati tra il 1879 e il 1889, l’opera di consultazione a disposizione della redazione dell’“Arena”2, per rendersi conto che la scrittura di Salgari era più corretta di quella messa in mostra dai compilatori, che pur si ritiene fossero dei letterati e degli uomini di scienza. E non presentava meno pecche neppure di quella dei più noti scrittori di romanzi d’appendice dell’epoca, in gran parte stranieri e, quindi, passati attraverso gli attenti risciacqui dei traduttori. Il “capitano”, uomo e narratore impulsivo e vulcanico, cadeva talora nell’incongruenza di riproporre qualche pagina dopo, in modo difforme, quello che aveva detto qualche pagina prima: sbadataggini, tutto sommato simpatiche, che riguardavano particolari di poco conto. I testi salgariani non vanno comunque affrontati impugnando la matita rossa e blu, come non si deve guardare un quadro con la lente d’ingrandimento. Imperfezioni e incongruità si perdono nell’incalzare di una prosa che vive della forza primitiva del linguaggio dell’avventura fantastica, della freschezza sorgiva della scrittura immediata che è nello stesso tempo suggestione di immagini, suoni e odori, che tiene in sospensione il lettore, estraniandolo dalla realtà.
Nella Tigre della Malesia, per spingere in mare una canoa, Salgari scrive che «basterà farla scorrere sui truògoli». Il truògolo è una mangiatoia per maiali scavata in un tronco d’albero ed è impensabile che, con tutti gli alberi delle foreste di Labuan, occorressero proprio dei truògoli per mettere in mare una barca. Ma se sostituissimo «truògoli» con «tronchi d’albero» è evidente che non sarebbe più la stessa barca e che persino il mare che deve accoglierla non sarebbe quello del Borneo3.
Quando scriveva per “La Nuova Arena” Salgari pensava più che altro a farsi un nome come romanziere e sperava che qualche importante editore si accorgesse di lui e stampasse i suoi libri. Ma intanto i suoi pirati e le sue almee gli avevano aperto le porte di una professione in cui l’ultima dote richiesta era la fantasia. Un giorno di marzo del 1885 il “capitano” entrò nell’ufficio del direttore Giannelli. Non portava il solito fascio di cartelle manoscritte. Era imbarazzato. Gli occhi gli brillavano in modo diverso dal solito. «Ho capito, sei venuto a dirmi che passi alla concorrenza» lo anticipò il direttore.
Giannelli fu molto comprensivo. Già alcuni suoi cronisti erano passati dall’altra parte della barricata, all’“Arena Vècia”, come la chiamavano i veronesi per distinguerla dalla “Nóva”. Salgari aveva ormai raggiunto un’età in cui non si può più dipendere economicamente dalla famiglia senza sentirsi a disagio. Bisognava cominciare a guadagnare. D’altra parte, Giannelli stesso era il primo a rendersi conto che se il suo giornale era in edicola tutte le mattine era un miracolo che prima o poi non si sarebbe più ripetuto. Infatti il 5 luglio 1886 il suo quotidiano uscirà per l’ultima volta. E sul suo vecchio giornale, “L’Arena”, farà pubblicare a pagamento uno sconsolato comunicato: «La Nuova Arena è morta e io sono un vinto4, spezzato da un cumulo di difficoltà».
Salgari se ne andò prima della fine del mese. Sulla “Nuova Arena” dell’11 marzo 1885 Giannelli, capitano sfortunato ma coraggioso che mise in salvo i propri marinai prima che la nave affondasse con lui, scrisse:
Il signor Aymo, direttore dell’Arena, parte questa sera per Roma5. Rimanendo così la redazione dell’Arena – dalla quale è uscito, com’è noto, il signor Massuero – ridotta per qualche giorno al solo Gatti, noi abbiamo ben volentieri convenuto che il signor Salgari, il quale già avea tolto licenza per la fine del mese, si rechi subito a rinforzarla. Il signor Salgari lascia dunque col numero di oggi la redazione del nostro giornale e noi, contenti delle migliorate sue condizioni economiche, gli auguriamo la migliore fortuna.
A Giannelli interessava soprattutto quel giovane che «tornava dal mare». La partenza del “capitano” non fu indolore per “La Nuova Arena”. Pur essendo pagato poco o nulla, Salgari, oltre ai romanzi, pubblicava una grande quantità di articoli, soprattutto di politica estera, che firmava con lo pseudonimo stravagantemente spagnolesco e marinaresco di “Ammiragliador”, talora preceduto da una elle apostrofata. La prova è fornita dal numero del 18 novembre 1883 della rivista letteraria “La Ronda” nella quale un anonimo “ex giornalista” scrive:
Sono alla “Nuova Arena” Pio del Bello (p.d.b.) già redattore e poi direttore della “Stella d’Italia” di Bologna; Todeschini (Mario), che non vede l’ora di aver finiti gli studi universitari per slanciarsi di nuovo, con beata illusione, nella procella del giornalismo; e l’Ammiragliador (certo Emilio Salgari).
Inoltre, dalla fine del 1883 all’inizio del 1885, prima da solo e poi assieme al collega e amico Francesco Serravalli (Checo), il “capitano” curò per lo stesso giornale, con lo pseudonimo di Emilius, una rubrichetta teatrale intitolata Sulle scene. In quel periodo, una sera di marzo del 1884, al Teatro Ristori il suo cuore vibrò per un soprano polacco, Zofia Brajnin6, applauditissima interprete di Abigaille nel Nabucco di Verdi. L’improvviso e, come tutto lascia supporre, non corrisposto amore sfociò in una poesia che il “capitano” scrisse di getto e fece stampare dalla tipografia della “Nuova Arena” su dei cartoncini che gli spettatori del loggione lanciarono in platea durante una replica7. Facile agli innamoramenti come i suoi eroi, il “capitano” era un formidabile collezionista di delusioni. La sua galanteria non aveva confini. La sua rubrica Sulle scene è più un appassionato baciamano che un genere giornalistico. Le interpreti femminili sono tutte irresistibilmente belle e brave. «Franceschina Copca si mostrò sulla scena con una brillantissima toilette di pizzo rosa guarnita in seta azzurra e i lunghi capelli neri sciolti sulle spalle» e cantò il Bolero «con tale grazia, con tale languidezza, con tale vivacità talvolta, che il pubblico ne fu affascinato». Anche le dame del pubblico erano adorabili. Non tutte ma quasi. «Fra quel mare di teste si scorgevano bei visini di eleganti signore». E quando il pubblico non aveva nulla di attraente lo sottolineava: «Non si vedeva un visetto gentile a pagarlo un occhio della testa». Quando smetteva i panni di Emilius per indossare quelli di Ammiragliador (non gli bastava il titolo di capitano?), Salgari sfornava invece articoli sulla guerra del Sudan, su quella del Tonchino e sul nascente colonialismo italiano sulle rive del Mar Rosso. Con uno stile comiziale e provocatorio criticava gli inglesi e i francesi, simpatizzava per le popolazioni musulmane fintantoché “dormivano” per poi scagliarsi contro il Mahdi, il loro sanguinario profeta, quando queste si destarono. Amava il generale Gordon che partì «con la Bibbia in mano, i logaritmi nell’altra e un revolver nella cintura, deciso a sfidare il profeta e a spiegare di fronte al suo stendardo la bandiera del diritto europeo». Si dimostrava anticolonialista quando si trattava di cantarle agli inglesi (con qualche riserva) e ai francesi (senza riserve), ma diventava fervente interventista quando c’era di mezzo la politica coloniale italiana.
Quantunque noi siamo in buonissimi rapporti con re Giovanni e segnatamente con Menelik, re dello Scioa, potrebbe darsi che gli abissini, giacché sono in ballo, andassero a ballare vicino ad Assab e bravamente l’occupassero. Per ora non vi ha pericolo, non è questa che una semplice supposizione, ma sarebbe cosa prudente che il nostro Governo mandasse qualche nave da guerra per tutelare la sicurezza dei nostri connazionali e per tenere un po’ in freno i nostri cari fratelli d’oltre Alpi i quali non contenti di avere le mani nel pasticcio tonchinese, nel pasticcio mascareno e nel pasticcio del Congo, pare che abbiano intenzione di porre le mani anche nel pasticcio egizio-abissino per papparsi un bel pezzo di costa e fiaccare con questo il poco commercio che noi abbiamo con l’interno dello Scioa e che dà loro tanto fastidio.
In un articolo intitolato Ci si schiaffeggia! Ammiragliador scriveva con accenti drammatici:
Ci si schiaffeggia e ci si calpesta a Tunisi, ci si osteggia odiosamente alla Plata, minacciano la nostra microscopica colonia d’Assab, ci insultano in Europa e nulla facciamo, anzi ci chiudiamo in un vergognoso silenzio, incoraggiando gli schiaffeggiatori a farci di peggio e meritarci il nome di «razza degenerata» o poco meno. C’è una nazione che ci sputa in volto e questa nazione è quella stessa che ci schiaffeggiò a Tunisi, quella stessa che diede la caccia ai nostri connazionali a Marsiglia. È infine ancora la Francia.
Quindi, rivolto al ministro degli Esteri, gli chiede: «Onorevole Mancini, quando è che il nostro governo, schiaffeggiato e calpestato, alzerà la voce e le mani per reagire?». C’erano tutte le premesse per una personale dichiarazione di guerra in piena regola. È convinto che il futuro dell’Italia si giochi sul mare ma intanto la «nostra potente flotta» è formata dal Duilio che ha le caldaie bruciate, dal Dandolo che ha le caldaie fuori uso perché costruite con materiale scadente, dalla Palestro che ha le macchine guaste; dal Principe Amedeo che è un colabrodo e, come tale, incapace di tenere il mare, dall’Affondatore che è in disarmo per il cambio delle torri e dei cannoni, dal Roma che fa acqua da tutte le parti. E, per quanto riguarda tutte le altre navi minori, il “capitano” è convinto che basterebbe una modesta flotta nemica per spedircele in fondo al mare.
È inutile perdersi in dispute sul Salgari colonialista o anticolonialista quando il “giovane che tornava dal mare” era prima di tutto un italiano che aveva a cuore gli interessi, legittimi o illegittimi che fossero, del proprio Paese. Ma non fu né per i suoi articoli di politica estera né per le sue cronachette mondane né per i suoi romanzi d’appendice che “L’Arena” lo assunse. Il giornale si era trovato improvvisamente sotto organico e aveva semplicemente pescato dal giornale che era nato da uno scisma interno e che, dopo una breve e stentata vita, si stava spegnendo.
Non si sa con quali garanzie il “capitano” sia stato imbarcato sull’ammiraglia della stampa cittadina. Probabilmente nessuna. Era lecito che sperasse di poter piazzare qualche romanzo anche sul giornale diretto da Giovanni Antonio Aymo che, vendendo molte più copie della “Nuova Arena”, gli avrebbe assicurato un pubblico di lettori assai più vasto e, quel che per lui più contava, una notorietà che gli avrebbe forse spalancato le porte dei grandi editori nazionali. Fatto sta, però, che quando varcò la soglia della redazione di stradone San Fermo, gli ci volle poco per rendersi conto che il suo orizzonte, anziché allargarsi, si sarebbe malinconicamente ristretto. Per uno zingaro della fantasia, per uno che aveva cuore e cervello allagati dalle acque tempestose di mari incogniti, tuffarsi nella quotidianità minima di ufficiali depressi che si suicidavano in ufficio, di consiglieri comunali che litigavano con i parroci per le spese di culto e di sartine insidiate da ubriachi, poteva tradursi in una mortificazione insopportabile. Passare dai ribelli mahdisti ai fruttivendoli di piazza Erbe, dagli strangolatori del Gange alle levatrici abusive dei vicoli oscuri del quartiere della Cadréga poteva essere una mordacchia troppo crudele per un “capitano” abituato a ben altri cabotaggi. Eppure, per quanto ne sappiamo, sembrò adattarsi di buon grado al lavoro di redattore che, se da una parte gli consentiva di sbarcare il lunario, dall’altra non gli impediva di continuare a sognare di diventare un giorno un grande romanziere.
Quando arrivò all’“Arena”, Salgari trovò un direttore che aveva soltanto un anno più di lui. Giovanni Antonio Aymo era infatti nato a Mondovì il 13 ottobre 1861. A otto anni era già orfano di entrambi i genitori. L’ultima a morire fu la madre, per una puntura di uncinetto che le procurò un’infezione. Venne allevato da uno zio cappellano con il petto gremito di medaglie di tutte le guerre d’Indipendenza, che gli insegnò a leggere e a scrivere e gli parlò delle meraviglie di un mondo che però gli negò, chiudendolo in un seminario.
Giovanni Antonio fuggì prima di indossare la tonaca. «Volevo fare di te un santo, non un evaso!» gli urlò in faccia lo zio, ripudiandolo, il giorno che se lo vide ritornare in canonica. La perpetua, mossa a pietà, nascose il ragazzo in una stalla dopo aver spedito al macello l’ultima vacca. I pasti gli arrivavano attraverso un’inferriata. Giovanni Antonio lasciava la stalla soltanto per andare al liceo che frequentava con profitto.
Un articolo velenoso contro il suo vecchio direttore del seminario, pubblicato sul “Torino”, segnò il suo esordio nel giornalismo. Dovette però aspettare che lo zio morisse per uscire dalla stalla, e quel giorno apprese dalla perpetua che, poco prima di salire in cielo con tutte le sue medaglie, il cappellano non solo lo aveva perdonato ma gli aveva anche lasciato una discreta rendita.
Aymo, oltre che sul “Torino”, scrisse sull’“Alpinista”, sulla “Nuova Torino” e su alcuni giornali letterari. Ma l’angustia del mondo in cui viveva, e non ci riferiamo alla stalla, esperienza ormai digerita, gli serrava la gola. Giovane inquieto e incline all’avventura, dalla sera alla mattina decise di partire per Marsiglia per imbarcarsi sul primo bastimento che facesse rotta per le Americhe. Saltò sopra il Ferdinando di Lesseps che stava salpando per il Messico e, visto che se lo poteva permettere, prese posto in una cabina di prima classe. In Messico, a soli nove giorni dall’arrivo, fondò il giornale “Scintilla italiana” che si spense dopo quattordici settimane e un duello che l’ardente editore-direttore sostenne per lavare l’onta dell’orgoglio nazionale offeso. La sciabola dell’avversario gli penetrò nel petto e dalla ferita sembrò sfiatargli anche la voglia di continuare ad attizzare pericolosi fuochi con la sua penna incendiaria. Tanto più che il gruzzolo ereditato dallo zio si era ingracilito al punto da spingerlo sull’orlo della miseria. Ma dopo aver lavorato per qualche tempo come condirettore in un grande ristorante di Città del Messico di proprietà di un piemontese, Giuseppe Fulcheri, fondò un altro giornale le cui ambizioni erano chiaramente indicate nella cosmica testata “Corriere Universale”. Anche stavolta però l’avventura editoriale durò poco, meno di un anno. A fermare Aymo non fu un nuovo duello ma la sua nomina a ispettore delle colonie e traduttore e interprete del Ministero dei Lavori Pubblici. Un lavoro molto decoroso ma evidentemente poco appagante per il giovane di Mondovì che, dopo pochi mesi, diede vita a un nuovo giornale, stavolta più battagliero dei precedenti, la “Cronica del Comercio” dalle cui colonne dichiarò guerra al governo messicano che accusava di attirare gli emigranti italiani con falsi allettamenti mentre poteva offrirgli soltanto miseria e febbri. La reazione della autorità fu brutale ma proporzionata rispetto alle idee radicate in quel Paese in merito alla libertà di stampa: la “Cronica” venne sequestrata e il suo direttore ebbe un paio di costole fracassate da due agenti in borghese che gli tesero un agguato notturno in una strada di Città del Messico e lo minacciarono di un ben più energico trattamento se non avesse lasciato il Paese con la prima nave. Aymo partì dopo aver venduto una fabbrica di aceto che si era comprato con gli ultimi soldi che gli erano rimasti, ma durante una sosta a Vera Cruz fu colpito dalla febbre gialla, quel “vomito prieto” che tanto temevano gli eroi salgariani.
Ormai tutti scommettevano sulla sua morte, anche il conte Ioannini, ministro d’Italia, che lo circondò di amorevoli cure fino al giorno in cui, avendo tentato con successo il suicidio, spirò proprio tra le braccia dell’oggetto delle sue premure. Aymo si ristabilì e si recò a New York, dove la passione per i duelli gli costò una nuova ferita. Prima di rientrare in Italia fece tappa a Londra e a Parigi. Secondo il suo biografo Gerolamo Mariani, ripartì poco tempo dopo per un nuovo viaggio durante il quale «ficcò il naso nell’Asia» e diede «uno sguardo all’Africa». Insomma se, invece di bruciarle in soli vent’anni, Aymo avesse distribuito le proprie esperienze nell’arco di una esistenza centenaria, alla fine di questa avrebbe comunque potuto dire di aver vissuto intensamente senza mai aver avuto il tempo di pensare se non fosse stato il caso di fare tutte quelle cose con meno affanno.
Aveva appena ventidue anni quando il proprietario dell’“Arena”, Albano Franchini, nell’autunno del 1883, lo chiamò a Verona per affidargli l’incarico di caporedattore. Era un giovane pallido, magrissimo, con una barbetta selvatica che sembrava tenuta a bada da un coltello. Si ammalò subito ma quando guarì era già stato promosso direttore al posto di Dario Papa8 che era andato a Milano a dirigere l’“Italia”. Politicamente, secondo il ritratto di Gerolamo Mariani, Aymo era «monarchico fino alla radice dei capelli», aveva «un vero culto per casa Savoia» e per la sua fede combatteva «come combattono gli eroi».
Renato Simoni, critico teatrale e commediografo, passato nel 1899 dall’“Arena” al “Tempo” per poi continuare la carriera al “Corriere della Sera”, ricordava Aymo come un uomo «di pronto e fervido ingegno, giornalista ricco di idee e di iniziative, polemista pronto e senza paura». Era «alto e sottile ed elegante, con un bel viso espressivo e magro talora scolorantesi per improvvisi pallori, scriveva una prosa nervosa, gustosa e precisa. Le sue polemiche erano coraggiose e leali. Alla vivacità dell’assalto univa spesso una fina amenità canzonatrice, dalla quale poi il sarcasmo scattava aggiustato». Simoni ne ricordava le frequenti dispute col pittore Angelo Dall’Oca Bianca, «intransigente ed eloquente battagliatore, e anche fiero attaccabrighe, quando si trattava della bellezza di Verona e delle opere della sua arte». Quando qualcuno gli chiedeva della sua «dilettissima Arena», Renato Simoni dopo il nome di Dario Papa faceva quello di Salgari, liquidandolo però sbrigativamente come «il romanziere dei ragazzi».
Il proto Antonio Todeschini accolse con calore Aymo, ancora troppo giovane per fare il direttore «ma già introdotto nel mestiere della penna e della sciabola». Già, la spada: non c’era editoriale al mondo che reggesse, in quanto a efficacia, il confronto con un duello. Forse il nuovo arrivato, con quel viso da eroe del Risorgimento, gli aveva ispirato immediata simpatia, ma sul suo giudizio influiva anche il fatto che l’allergia nei confronti di Dario Papa era aumentata da quando questi era tornato da un viaggio di studio in America con certe manie innovative che mal si accordavano con il carattere provinciale dell’“Arena”. Il Dario Papa che voleva fare un giornale “americano” dopo aver tentato di farne uno “milanese” con due edizioni al giorno, pare stesse scontentando un po’ tutti e per questo, quando se ne andò, pochi lo rimpiansero, a cominciare dall’editore Franchini.
Tra coloro che speravano molto in Giovanni Antonio Aymo, c’era Emilio Salgari, ma per motivi di ambizione personale. Sperava di poter pubblicare i suoi romanzi, come aveva fatto sulla “Nuova Arena”. Al nuovo direttore, uomo d’avventura che nello spirito molto gli assomigliava, sarebbero certo piaciute le sue storie di mare e di terra. Con Papa “L’Arena” pubblicava in appendice La maliarda di G.L. Patuzzi, «gentile novelliere di Verona», e altri romanzi inediti di autori italiani e stranieri. Ma con l’arrivo di Aymo il feuilleton diventò territorio esclusivo di Pierre Zaccone, Jules Mary, Ponson du Terrail (l’autore delle Avventure di Rocambole), Jules Lermina, Paolo Sauniere. Non c’era posto per Salgari: se voleva “ruggire” doveva farlo altrove, non sull’“Arena”. E così nel 1887 il “capitano” pubblicò sulle appendici del “Telefono” di Livorno Gli strangolatori del Gange, poche puntate anticipatrici de I misteri della jungla nera che, prima di uscire in volume nel 1895 (Donath, Genova), apparvero col titolo Gli amori di un selvaggio sulla “Provincia di Vicenza”, in 191 puntate dal 21 agosto 1893 al 13 novembre 1894. Dall’ottobre 1891 al gennaio 1892 la “Gazzetta di Treviso” fu invasa dai profumi esotici della Vergine della pagoda d’Oriente, romanzo che verrà ripreso l’anno dopo dalla “Provincia di Vicenza” col titolo I pirati della Malesia e che sarà pubblicato in volume nel 1896 dallo stesso Donath. Gli venivano negate le appendici del suo giornale, troppo affollate da nomi importanti e di già lungo cabotaggio letterario, ma si stava facendo un nome come romanziere seminando qua e là le sue tigri e i suoi pirati.
Nel corso dei circa nove anni in cui lavorò come redattore all’“Arena”, Salgari scrisse inoltre Duemila leghe sotto l’America (Guigoni, Milano 1888), La scimitarra di Budda (Treves, Milano 1892), I pescatori di balene (Treves, Milano 1894), I naufraghi del Poplador (Treves, Milano 1895). Anche se per alcuni romanzi la pubblicazione in volume avvenne dopo la fine del 1893, anno in cui Salgari lasciò “L’Arena”, si trattò comunque di lavori concepiti durante il periodo areniano e in parte già pubblicati a puntate sui giornali. Se poi si vogliono prendere in considerazione tutti i romanzi veronesi del “capitano” bisogna aggiungere anche quelli pubblicati sulle appendici della “Nuova Arena”, e cioè Tay-See, La Tigre della Malesia e La favorita del Mahdi. E per avere un panorama ancora più completo della produzione salgariana, bisogna aggiungere che dalle pagine di altri giornali delle Tre Venezie occhieggiavano lunghi racconti anonimi sul mondo malese, sotto le cui trame avventurose un orecchio attento avrebbe potuto avvertire il raschio duro e appassionato di una penna conosciuta.
Note
1 In una breve nota autobiografica del 1933 Vittorio Cavazzocca Mazzanti a proposito di un articolo sulle Imbarcazioni del lago di Garda comparso su “Lo sport illustrato” di Milano scrive: «...questo scritto piacque assai all’amico Emilio Salgari che lo volle ristampare quasi per intero sulla “Nuova Arena”, della quale era cronista, del 14 giugno 1883». L’articolo è stato in parte pubblicato col titolo La navigazione del Benaco.
2 Ne esiste un esemplare con stampigliato in copertina a lettere dorate G.A. Aymo, Giovanni Antonio Aymo, il direttore dell’“Arena” dei tempi in cui vi ha lavorato Emilio Salgari.
3 Il dizionario P. Petrocchi del 1906, Treves, Milano, alla voce “Truogolo” che rinvia a “Trògolo” riporta anche: “Tronco d’albero scavato a trògolo per trasportarci le artiglierie”.
4 «Miei cari figli, sono ormai un vinto. La pazzia di vostra madre mi ha spezzato il cuore e tutte le energie» lascerà scritto Emilio Salgari prima di togliersi la vita.
5 Aymo andava a Roma per battersi in duello con Felice Oddone, corrispondente da Roma dell’“Epoca” di Genova. Il duello alla spada avvenne il 15 marzo e il direttore dell’“Arena” ne uscì vincente avendo ferito l’avversario al terzo assalto.
6 Zofia Brajnin figura nell’elenco degli artisti d’opera, sotto la voce “prime parti”, dell’agenzia Carozzi di Milano e nell’Annuario teatrale italiano 1886-1887.
7 A te, cui, nella verde primavera / Della ridente etade / Sublime uscir dalla volgar schiera / L’arte del canto e l’armonia süade / Leggiadro fior, mirabile Sofia / Innalza l’inno a te l’anima mia. // L’innalza estasiata: Un immortale / Genio da novo cielo / Discende e a vol sicuro impenna l’ale / A te, donna gentile, e, tolto il velo / Ch’altri ottenebra, a plelibar t’adduce / Dell’eterna armonia l’immensa luce. // Del bello eterno verginette figlie / Movon l’arti divine / Onde di meraviglie in meraviglie / Corron per mare che non ha confine / E sì nel canto a te, donna che sai, / Reca dolcezza non sentita mai. // Nata del popol forte e glorïoso / A cui la sconoscente / Europa, ancor non spezza l’odioso / Giogo, m’ascolta – il Dio della tua gente / Presto gli affanni, e i pianti / Cessando esclamerà: Polonia avanti! // E come tu dalla superba fronte / Dell’assiro tiranno / Strappi il serto che gronda sangue ed onte / E pria schiava poi siedi in real scanno, / Il popol tuo magnanimo e altero / S’assiderà sopra il tiranno impero.
8 Dario Papa (Rovereto 1846-San Remo 1897), giornalista e uomo politico. Dopo essere stato redattore de “L’Italia Agricola”, il “Sole”, la “Perseveranza”, e il “Pungolo”, fu direttore dell’“Arena”, caporedattore del “Corriere della Sera”. Al ritorno da un viaggio di studi negli Stati Uniti, portò in Italia e applicò il modello organizzativo del “New York Herald”, il principale quotidiano americano dell’epoca. Dal 1884 al 1889 fu direttore de “L’Italia”. Nel 1890 fondò “L’Italia del Popolo”. Fu tra i fondatori del Partito repubblicano lombardo.