«Sono ormai un vinto»

Fu un inverno rigido quello del 1911 a Torino. Gli alberi dei lunghi viali cricchiavano nella morsa della galaverna. I tram bucavano la nebbia rischiando la collisione con le carrozze che le ruote di gomma avevano reso silenziose. Le midinettes scostavano caute le tendine linde delle case dei loro padroni e spingevano lo sguardo verso le strade percorse dalle sagome dei passanti curvi e frettolosi. Lungo le sponde del Po, su un’area di un milione e duecentomila metri quadrati, stava sorgendo una città posticcia fatta di cupole e colonne in legno che i tarli non avrebbero fatto in tempo a intaccare perché sarebbe stata smantellata dopo le celebrazioni del cinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia. Salgari prendeva il tram per recarsi alla libreria di Pietro Calandra, in piazza Vittorio Emanuele 8, dove vendeva a metà prezzo quei pochi libri che gli spettavano di diritto dai suoi editori. A Natale il “capitano” scrisse alla moglie una letterina di auguri su un romantico foglio incorniciato da decorazioni a traforo.

Mia cara Aida, quantunque molte, forse troppe tempeste abbiano attraversato i nostri cuori, ricorderò sempre con affetto colei che ho scelto a compagna della mia vita, e che doveva essere la luce dei miei occhi e dei miei pensieri... Dimentichiamo in questo momento tutto ciò che può aver offuscato la nostra vita e continuiamo sempre il nostro sogno d’amore cominciato un giorno nella mia casa in un istante di delirio che doveva segnare il nostro destino e la nostra unione delle anime...

Sulle colline di San Mauro assediate dalla neve un vecchio viaggiatore con l’artrite, in fondo al cuore appassito non riusciva a trovare più alcuna ragione per continuare a vivere. Era Augusto Franzoj, il moschettiere dei cinque duelli in cinque giorni, il soldato di ventura, lo “zingaro d’Africa”, il coraggioso esploratore di savane, deserti e foreste che Salgari aveva conosciuto in gioventù al Teatro Ristori di Verona, dove aveva tenuto una conferenza sui suoi viaggi. Da dieci anni si era ritirato in una villetta in mezzo al verde e non era più sceso in città. Le cicatrici che per molti anni aveva esibito come medaglie al valore, ora, sul vecchio corpo malato, gli sembravano soltanto stimmate sfiguranti e disgustose. Da tempo immemorabile non si apriva più la camicia sul petto per mostrare quella specie di mappa dell’onore tracciata da coltellate, sciabolate e pistolettate. Non era nato per vivere controvoglia e aspettò la primavera per morire.

La mattina del 13 aprile scrisse numerose lettere indirizzandole ad amici e congiunti, poi staccò dal muro due rivoltelle di grosso calibro, se le puntò alle tempie e si fece volare il cervello.

A primavera nella casa di Madonna del Pilone tutti i demoni che Salgari aveva ereditato alla nascita e che vivevano in contubernio con i suoi cavalieri e i suoi fantasmi nella parte più recondita del cervello, assalirono Aida con una furia che fu almeno doppia di quella che sarebbe servita a toglierle il senno. I tormenti di cui era vittima il marito, la paura che tentasse ancora il suicidio, le difficoltà di governare una casa sempre più alla deriva, l’inutilità delle sue richieste di aiuto, il venir meno della propria “fibra di ferro” con cui aveva retto – sola in tutte le tempeste – il timone della famiglia, le mariolerie dei figli maschi, l’incerta salute di Fathima, tutti questi problemi messi insieme, scontrandosi con un’organizzazione interiore non più capace di reggere costantemente a prove eccessive, fecero sì che i demoni della pazzia trovassero le porte spalancate. Il dottor Herr, dopo aver diagnosticato «una forma di mania furiosa con tendenza ad atti impulsivi» ne raccomandò l’immediato ricovero in una casa di cura. Salgari non aveva i soldi per pagare le rette. E così il medico si vide costretto, data l’urgenza e la gravità del caso, a far rinchiudere Aida nel manicomio di Collegno. Il “capitano” aveva perduto per sempre il profumo di eliotropio. E da quel giorno la sua donna, che si era visto portar via dalla forza pubblica, gli sarebbe apparsa in sogno con la camicia da reclusa, come l’ombra di una invisibile clarissa dietro le gelosie del coro.

Salgari cadde in una prostrazione abissale e cominciò a inanellare giorni senza speranza. Viveva il rimorso atroce di non aver potuto evitare che la sua Aida fosse rinchiusa in manicomio. A cosa gli era servita una vita da schiavo della penna se adesso non aveva di che mantenere la moglie in una casa di cura dove sarebbe stata trattata ben diversamente che in un manicomio? I figli gli diventavano sempre più un peso insopportabile. Gli parevano più insensibili delle scimmie. Soltanto Fathima capiva il suo dramma. Aveva smesso di andare a scuola di pianoforte per stargli vicino, ma era quasi sempre ammalata ed erano più i giorni che passava a letto che non quelli che poteva essere d’aiuto in casa. Ormai non c’era notte in cui Salgari riuscisse a chiudere occhio: Yanez aveva perduto Surama, la sua dolce creatura orientale, e invano la cercava nel letto, invocava il suo nome e si appellava ai tuoni e ai fulmini della sua epica. Passava notti intere seduto sull’orlo del materasso a cercare lo stordimento nel marsala o in quel vermouth torinese che si beveva anche nel Klondike dei Minatori dell’Alaska. E quando la nevrastenia si faceva insopportabile, spalancava la finestra perché l’aria fresca della notte, inumidendogli il viso, gli calmasse il fuoco che gli stava divorando il cervello. Tutti gli eroi dei suoi romanzi erano morti e la sua fantasia, ormai vizza come il grembo del Sahara che faceva da sfondo ai suoi Predoni del Gran Deserto, non era più capace di crearne altri.

Solo Yanez era sopravvissuto. Yanez era lui. Lo aveva detto la povera Aida al giornalista napoletano. «Eccolo lì, Yanez. È mio marito». Ma era un eroe stanco e malato e la sua nave non era più una nave ma la trave di un naufrago. L’ultima visita di amici, Salgari l’aveva ricevuta qualche mese prima. Erano andati a trovarlo Emilio Firpo e Luigi Motta, che da tempo lavoravano insieme per il teatro. Motta scriveva i libretti e Firpo componeva le musiche. Tre loro operette, Il bacio della duchessa, Sultana e Boulevard avevano ottenuto un buon successo. Ora si presentavano all’amico in difficoltà per proporgli di ridurre per le scene il suo romanzo avveniristico Le meraviglie del Duemila, che era uscito nel 1907 per i tipi di Bemporad. Erano gli anni di alluminio di Filippo Tommaso Marinetti che il 20 febbraio 1909 aveva pubblicato sul “Figaro” il primo manifesto del Futurismo. Firpo e Motta volevano allestire uno spettacolo intitolato Ballo Excelsior Futurista rifacendosi al celebre Ballo Excelsior di Luigi Manzotti e Romualdo Marenco, che era stato rappresentato per la prima volta a Milano nel 1881. Il naufrago stava per essere issato a bordo di un vascello amico. La buona notizia non poteva certo salvare tutto come il messaggero del re che irrompe in un ultimo atto di Molière, ma faceva almeno balenare una speranza. Chissà se con i soldi ricavati dall’attività teatrale Salgari avrebbe potuto tirar fuori la sua Aida dal manicomio e affidarla a una casa di cura. Ma il progetto fallì. Firpo e Motta furono incauti, sottovalutarono la fragilità dell’uomo: avrebbero dovuto avvisare l’amico a cose fatte, a contratto firmato. Salgari non aveva certo bisogno di altre delusioni. Nel marzo 1911 il “capitano”, che comunque continuava a informarsi sui successi teatrali dei suoi due amici, scrisse a Firpo: «Bravi... v’invidio. Dai giornali mi pare che la vostra Sultana abbia un leggero carattere salgariano. È così? In tal caso ne sono maggiormente contento. Io vivo in una tristezza infinita. Lei e Motta conoscono le mie pene, i miei dolori, ma non li conoscono nella loro tremenda realtà. Vogliatemi bene...» Era già l’addio.

Salgari fu visto sostare a lungo sulla tomba di Franzoj al cimitero di San Mauro. Indossava il suo solito soprabito giallo abbottonato fino al collo. I crampi della disperazione non gli davano tregua. La primavera preannunciava i germogli di una fioritura felice, le mortelle e le edere abbarbicate ai muri erano così lucide da sembrare di cristallo. La follia che aveva incubato per tutta la vita sembrava alimentarsi di quell’aria finissima, così nuova e ostile. I suoi occhi erano dilatati dalle sempre più frequenti allucinazioni. Yanez, la “Tigre bianca” vedeva a ogni angolo Surama, la bajadera del Bengala di cui si era innamorato, «pelle leggermente abbronzata, i lineamenti dolci e fini, gli occhi nerissimi e i capelli lunghi intrecciati con fiori di mussenda e nastrini di seta azzurra». La vedeva reincarnata nelle donne di San Mauro e di Madonna del Pilone, bellezze molto meno esotiche e appariscenti, massaie, contadine, lavandaie, con grandi grembiuli, le guance rosse, le mani dure, i fianchi larghi. Gli uomini erano tutti in fabbrica. La nascente Torino industriale li aveva arruolati in massa. A Madonna del Pilone di uomini non restava che Yanez, uno scalcinato Yanez il cui viso baffuto sembrava quello di un grosso gatto randagio pestato. Un fantasma in soprabito giallo fu visto inseguire il suo delirio senza pudore anche di notte. Qualche marito venne a sapere e minacciò il fantasma col coltello. Qualcun altro lo ricattò. La testimonianza fu resa da un vicino di casa che a quei tempi frequentava le scuole serali e vedeva quell’inconfondibile soprabito fendere furtivo le tenebre1. La voce si diffuse per la borgata. Ci fu chi sussurrò il nome del romanziere, quell’uomo mite di corso Casale 205 che non aveva mai disturbato nessuno ma che ora la disgrazia della moglie aveva ridotto alla follia. Così si diceva. E a Salgari non fu risparmiato nemmeno l’arsenico del compatimento.

In una lettera scritta alla moglie su un cartoncino con ricami dorati, invocò un generico perdono. È dubbio che Aida sapesse, ma il “capitano” sentiva il bisogno di liberarsi la coscienza. «Tu sei stata l’unica donna della mia vita» la rassicurò. C’era ancora un po’ del fuoco delle vecchie lettere firmate dal “selvaggio malese”. La stessa fiamma che arroventava i dialoghi e i monologhi d’amore dei suoi eroi geneticamente incapaci di pronunciare parole delicate, ma teatralmente impegnati a recitare soltanto parti di grande drammaticità in cui l’uomo si dice sempre pronto a uccidersi per la sua donna. Così parlava Sandokan a Marianna, la “Perla di Labuan”:

Se vuoi andrò a rovesciare un sultano per darti un regno, se vorrai essere immensamente ricca io andrò a saccheggiare i templi dell’India e della Birmania per coprirti di diamanti e di oro; se vuoi io mi farò inglese; se vuoi che io rinunci per sempre alle mie vendette e che il pirata scompaia, andrò a incendiare i miei prahos onde non possano più corseggiare, andrò a disperdere i miei tigrotti, andrò a inchiodare i miei cannoni, onde non possano più ruggire e distruggere il mio covo.

Parla, dimmi ciò che vuoi; chiedimi l’impossibile e io lo farò. Per te mi sentirei capace di sollevare il mondo e di precipitarlo attraverso gli spazi del cielo.

Il 22 aprile Salgari scrisse altre lettere. Le ultime della sua vita. Una ai figli, una ai suoi editori, una ai direttori dei giornali torinesi. Fathima metteva la testa dentro la porta e vedeva il papà contro il riverbero della finestra, curvo come il solito sul suo tavolino pieno di carte, isolato dal mondo da una nuvola di fumo del suo pessimo tabacco. Pensava che stesse inventando nuove tigri e ciò la rassicurava. Da quando era nata non l’aveva visto far altro. Non si era accorta che quel giorno dalle sue tempie gelide gocciolava il sudore e che il pennino graffiava in modo diverso.

Miei cari figli

Sono ormai un vinto. La pazzia di vostra madre mi ha spezzato il cuore e tutte le energie.

Io spero che i milioni di miei ammiratori, che per tanti anni ho divertiti ed istruiti provvederanno a voi. Non vi lascio che 150 lire, più un credito di 600 lire che incasserete dalla signora Nusshaumer2. Vi accludo qui il suo indirizzo.

Fatemi seppellire per carità essendo completamente rovinato.

Mantenetevi buoni ed onesti e pensate, appena potrete ad aiutare vostra madre.

Vi bacia tutti, col cuore sanguinante, il vostro disgraziato padre.

Vado a morire nella Valle di S. Martino, presso il luogo ove, quando abitavamo in Via Guastalla andavamo a fare colazione. Si troverà il mio cadavere in uno dei burroncelli che voi conoscete, perché andavamo a raccogliere i fiori.

Emilio Salgari

Ai miei editori

A voi che vi siete arricchiti colla mia pelle mantenendo me e la mia famiglia in una continua semi-miseria od anche più, chiedo solo che per compenso dei guadagni che io vi ho dati pensiate ai miei funerali.

Vi saluto spezzando la penna.

Emilio Salgari

Ai direttori dei quotidiani torinesi

Vinto dai dispiaceri d’ogni sorta, ridotto alla miseria malgrado l’enorme mole di lavoro, colla moglie pazza all’ospedale, alla quale non posso pagare la pensione, mi sopprimo.

Conto milioni d’ammiratori in ogni parte dell’Europa e anche nell’America. Li prego, signori direttori, di aprire una sottoscrizione per togliere dalla miseria i miei quattro figli e poter passare la pensione a mia moglie finché rimarrà all’ospedale.

Col mio nome dovevo attendermi altra fortuna ed altra sorte.

Sono certo che loro, signori direttori, non mancheranno di far aiutare i miei disgraziati figli e mia moglie.

Con i più sentiti ringraziamenti.

devotissimo    

Cav. Emilio Salgari

La notte del 24 Salgari pensò a suo padre, allo zio Giovanni, a Giacomo Bove, ad Augusto Franzoj e a come avrebbe dovuto essere stata per loro la sera prima di uccidersi. Forse pensò a tutta una fila di antenati, a noi ignoti, che scombinarono i piani del padreterno, impiccandosi a travi con funi da ormeggio, ingurgitando veleni medievali, squarciandosi il cuore con “misericordie” spagnole. Stava per entrare a far parte del club e, visto quanto gli era costato finora esserne rimasto fuori, gli dispiaceva soltanto di essere in ritardo.

La mattina di venerdì 25 aprile salutò i figli dicendo che sarebbe andato in città per affari e che non sarebbe tornato per pranzo. «Ci vedremo verso le sei» disse. Ormai aveva il cuore in cenere. Non si commosse nemmeno quando baciò i figli più piccoli. Nessun bagliore allucinato nello sguardo, ma una strana serenità, come se il distacco fosse già avvenuto.

Quasi presentissero qualcosa, Romero e Omar lo seguirono fino in strada e lo videro avviarsi a passi lenti verso il tram. Quando si volse a guardare la casa, si accorse che i suoi due figli più piccoli, il “pistolero” e l’“indiano”, lo stavano osservando. «Andate a scuola», gli raccomandò. E prima di salire sul tram fece un cenno di saluto alzando il bastone. Scese dopo poche fermate e si avviò verso la collina percorrendo la strada del Lauro che sale verso i boschi di Val San Martino. Indossava un abito grigio. La natura era in pieno rigoglio, i sassi avevano la parrucca di muschio tenero e gli uccelli si disputavano un posto sui rami. Il “capitano” si fermò nel bosco Rey, si tolse la giacca e la cravatta, posò il bastone su un ciuffo d’erba, si sdraiò in un piccolo crepaccio che si apriva nel terreno come una nicchia funeraria, e con un rasoio, con furia spaventosa, si colpì ripetutamente all’addome e alla gola.

L’agonia fu lunga e terribile. Alle sei di sera, mentre il sole stava per tramontare e il bosco era avvolto in una leggera nebbia cilestrina, una giovane lavandaia di corso Casale che stava raccogliendo legna, Luigia Quirico, scoprì il cadavere di un uomo che le sembrò di riconoscere subito per quello del cavalier Emilio Salgari. Era piegato sul fianco sinistro, aveva gli abiti scomposti e insanguinati. La donna, atterrita, corse verso il più vicino gruppo di case e diede l’allarme. Era quasi buio quando un funzionario della Questura, Pappalardo, nell’odore aspro del sangue e del muschio, perquisendo le tasche del morto, trovò la ricevuta di un pacco di manoscritti spedito alla casa editrice Bemporad e firmata Cav. Salgari: non c’erano dubbi, il suicida era l’infelice romanziere di Madonna del Pilone.

Il cadavere aveva il gilè aperto e i pantaloni sbottonati. La camicia di flanella era tagliata. Nell’erba, accanto alla mano destra, luccicava la lama di un rasoio striata di sangue. Il dottor Borione dell’Ufficio civile d’Igiene esaminò le ferite. Da uno squarcio di nove centimetri nell’addome erano uscite diverse anse intestinali, mentre la gola appariva orrendamente devastata da tre rasoiate. Era difficile ricordare un altro caso in cui un uomo si fosse accanito con tanto furore contro il proprio corpo. Un giornale cattolico torinese «Il Momento» liquidò il suicida in quattro righe: «Era tanto notissimo come scrittore quanto sconosciuto personalmente. Piccolo, magro, terreo in viso, aveva un aspetto caratteristico da cinese. Faceva vita ritirata, ma disordinata e spendereccia...» L’autopsia, eseguita il 27 aprile all’Istituto Universitario del Valentino dal professor Mario Carrara, genero dello psichiatra veronese Cesare Lombroso, accertò che la morte era avvenuta per “scannamento”. Tra gli studenti che assistevano alla perizia necroscopica c’era il futuro scrittore Salvator Gotta che così ricordò quel “triste mattino” di primavera:

...dopo che il carrello funebre fu spinto in mezzo alla sala, il professore ci ordinò di alzarci in piedi e ci rivelò che il suicida dal ventre squarciato era Emilio Salgari, lo scrittore, l’educatore dei nostri sogni adolescenti. Quegli che noi avevamo tanto pensato ed amato, baldo, audace, bello, forte come i mille eroi generosi e felici di conquista sul mare, nei più lontani paesi, vincitori di tutte le più aspre battaglie, alti sui gorghi delle più fantasiose avventure, noi lo vedemmo nudo, sanguinolento, vecchio, miserabile come una povera bestia assassinata e abbandonata alle coltella dei sezionatori. È stato questo il contrasto, l’angoscia più stridente che ho provato nella mia vita, fors’anche lo spavento più forte: poiché mi accingevo a scrivere dei libri.

Alle ore 18 del 28 aprile in una Torino pavesata a festa per l’Esposizione Universale che si sarebbe inaugurata l’indomani, presenti una gran quantità di teste coronate, ambasciatori di mezzo mondo e il presidente del Consiglio Giovanni Giolitti, il “capitano” Emilio Salgari venne accompagnato al cimitero da un corteo di giovani che avevano conosciuto Sandokan, Tremal-Naik, il Corsaro Nero ma che non avevano mai visto di persona il padre degli eroi. Ora lo vedevano all’obitorio, in una cassa di legno chiaro, il viso terreo atteggiato a un’espressione di bontà infinita, il collo serrato nella redingote abbottonata fino al mento, la croce di cavaliere della Corona d’Italia sul petto, nessun segno della morte selvaggia, tranne una macchia scura sul naso. Fathima piangeva, Nadir, Romero e Omar baciarono il padre sulla fronte tenendosi per mano. Quando il feretro venne chiuso, i giovani vi gettarono sopra fiori di campo gialli che avevano raccolto nei prati, e lo portarono a braccia sul carro. Un vento tiepido spirava sul cimitero portando voci del passato. Le rondini sembravano immobili contro lo smalto del cielo, quasi fossero morte in volo con le ali spiegate. E una nuova pioggia di fiori gialli sommerse la bara che stava per essere calata nella fossa.

Benché il funerale fosse stato celebrato a spese del Comune, nessuna autorità vi partecipò, né rimbombarono discorsi ufficiali. Le pubbliche sottoscrizioni aperte a Torino e in altre città a favore degli orfani di Salgari fruttarono 42 mila lire. Il re contribuì con mille lire. Giacomo Puccini con 50, Amalia Guglielminetti con 20, Carlo Dadone con 5, i ferrovieri con 15,80, «due piccoli fratelli veronesi» con 4, gli studenti del Politecnico con 110,80. Gli editori respinsero in coro le accuse contenute nella lettera di Salgari. Donath inviando 200 lire fece sapere con poche righe sulla “Stampa” di essersi sempre comportato onestamente col suo autore. G.B. Paravia, pur “offeso”, sottoscrisse 100 lire, come Emilio Treves, che tuttavia si chiamò fuori dal novero degli “affamatori” non avendo «pubblicato che quattro volumi, credo i suoi primi, e 15 anni fa». L’editore Bemporad, che aveva assicurato la vita del suo romanziere per 20 mila lire, inviò con raccomandata 500 lire promettendo un ulteriore contributo che non avrebbe mai versato. E si difese: «Il contratto vigente col disgraziato autore non giustificava affatto le espressioni della sua lettera». Si giustificò anche sostenendo che lo scrittore si era a sua volta assicurato sulla vita, circostanza corrispondente al vero; senonché delle due polizze sottoscritte, una per 3500 lire e una per 6500, i figli non poterono godere, e molto tardi, che di 1400 lire poiché la prima era decaduta per il mancato pagamento del premio e della seconda non arrivarono che briciole avendo i beneficiari rifiutato una prima somma di quattromila lire ed essendo poi fallita la società assicurativa.

La commissione del “Raduno” nel 1928, pur avendo criticato Bemporad per la scarsa sensibilità, lo assolse in pieno per tutto il resto: i contratti furono ineccepibili anche se “rigidi” e il trattamento economico non fu tale da mantenere la sciagurata famiglia in uno stato di miseria o di semimiseria. Quindi se il “capitano” si suicidò fu per «un concorso doloroso di cause deprimenti: una tara ereditaria, una struttura psicologica che non poteva adattarsi alla quotidiana e banale lotta per l’esistenza, la minaccia di cecità, la disordinata amministrazione familiare, e poi la pazzia della moglie, come egli stesso confessò e fu confermato dai suoi amici».

Bemporad e con lui tutta la categoria furono dunque liberati dall’accusa di strozzinaggio. Emilio Salgari avrebbe spezzato quella penna in ogni caso. Era destino.

Alle ore 14 dell’11 febbraio 1912 le spoglie dello scrittore giunsero a Verona per essere sepolte nella tomba di famiglia. Pioveva a dirotto. Ad attendere il feretro che arrivava alla stazione di Porta Vescovo con il treno accelerato 82681 c’era una grande folla sotto una fungaia di ombrelli. Il corteo si snodò lungo via XX Settembre, percorse lungadige Porta Vittoria, passando davanti all’ultima abitazione veronese di Salgari, e arrivò al cimitero, attraversando quei giardini in cui l’antico amico del “capitano” Francesco Serravalli andava a caccia di fantasmi per i suoi racconti “neri”.

Davanti alla tomba aperta il sindaco Gallizioli, fradicio di pioggia e senza la protezione di un ombrello o di un cappello, pronunciò un breve, magistrale discorso che aveva il valore di un epitaffio ideale, straordinario compendio dell’esistenza di un uomo la cui indubitabile grandezza stava soprattutto nella sua continua lotta contro i fantasmi che gli assediavano lo spirito.

...visse una vita singolare, e malgrado la realtà lo urtasse a volte brutalmente, era tuttavia così forte in lui la forza morale da non accorgersi quasi di queste terribili crisi che lo richiamavano al positivo discernimento dei fatti cotidiani. Ma se ciò fu un difetto del suo angolo visuale, fu anche tutta la suprema bellezza della sua esistenza... nella quale passò assorto sempre in un mondo popolato di sogni e di fantasmi. E restò in tal modo ognora solingo...

Morto e sepolto Salgari, restò il suo inchiostro, un liquido chimicamente velenoso per tutti tranne che per gli eredi, gli editori e gli scrittorucoli mercenari. Il loro sodalizio partorì la più grande e vergognosa fabbrica di falsi della letteratura di ogni paese e di ogni epoca. Da due gocce di inchiostro secco trovate su un foglio nasceva un nuovo romanzo di pirati, di naufraghi, di cacciatori del Far West con la firma usurpata di Emilio Salgari o con sul frontespizio la più pudica dicitura «romanzo postumo tratto da una trama lasciata dall’Autore...» E anche quando dell’inchiostro non rimase più alcuna traccia, la fabbrica dei falsi eroi salgariani continuò a funzionare a tutto regime sprizzando scintille da tutte le sue ciminiere. Luigi Motta, l’epigono veronese che, a differenza del maestro, seppe far fruttare la professione rimanendo immune da nevrastenie e depressioni, non solo si autoproclamò legittimo successore, ma nella prefazione a un’edizione di Sonzogno del Tesoro del presidente del Paraguay (Milano, 1923) annunciò una sorta di truffaldina reincarnazione.

... Se alcuni romanzi vennero lasciati incompiuti, questi, portati a fine da me stesso, verranno a diffondere nuova luce gloriosa sull’Uomo sereno e nobilissimo, così pieno di umiltà francescana. Sandokan, Yanez e gli altri eroi narreranno ancora le loro gesta e riempiranno di gioia il cuore dei loro lettori.

E di lì a poco, come nelle mani di un burattinaio, tigri e tigrotti sfornati a colpi di parti plurigemellari, ripresero a danzare fiaccamente nel teatrino sotto l’insegna della premiata ditta Motta-Salgari3.

Motta era un grande esperto in operazioni di sciacallaggio letterario. Già dopo la morte di Louis Boussenard, uccisosi nel 1910 per il dolore della perdita della moglie, il romanziere di Bussolengo ne aveva sfruttato la scia narrandone le temerarie gesta in Le avventure di un esploratore, un lungo racconto della raccolta di novelle Il devastatore della Jungla, frutto degli “amichevoli colloqui” avuti col celebre collega. Non solo, ma aveva gettato le basi per ulteriori incursioni sostenendo che «l’album di Boussenard è uno scrigno prezioso» e che «agli amici solo è dato violare il segreto».

I più spregiudicati falsari dell’opera salgariana furono gli stessi figli maschi del romanziere, e in particolare il più giovane, Omar l’“indiano”. Essendo tuttavia piuttosto ignoranti, si avvalsero della collaborazione del professor Lorenzo Chiosso, che frequentava casa Salgari e che, alla morte del romanziere, era stato nominato pro-tutore dei figli minori (tutori titolari erano gli zii Peruzzi). Il professor Chiosso era salito alla ribalta cinque giorni dopo la morte del “capitano” per un “carme funebre” il cui incipit di grottesca ispirazione manzoniana («Egli tacea») sarebbe stato sufficiente a squalificarlo per tutta la vita.

Per molti anni si congetturò sul nome dell’autore della falsa autobiografia salgariana Le mie memorie, pubblicata nel 1928 da Mondadori sull’onda della strumentalizzazione fascista del romanziere e ristampata nel 1937 da Sonzogno col titolo cambiato in Le mie avventure e prefazione di Nadir. Finalmente nel 1982 l’editore Andrea Viglongo, uno dei più spietati cacciatori di teste nella giungla infernale dei falsi salgariani, trovò (e ne diede notizia sul suo benemerito Almanacco piemontese) un contratto che risaliva all’8 dicembre 1948 stipulato tra il professor Chiosso e il dottor Bruno Brandi, in base al quale il primo cedeva al secondo «tutti i diritti derivantigli dalla sua qualità di autore e co-autore» di: Le avventure di Simon Wander; Le straordinarie avventure di Testa di Pietra; La rivincita di Yanez; A bordo dell’Italia Una; e Le avventure (o Memorie) di Emilio Salgari. Per le prime tre opere il professor Chiosso aveva effettivamente utilizzato come traccia del materiale salgariano. Ma per la quarta si era basato soltanto su “ricordi” di confidenze fattegli da Emilio Salgari, al quale, su consiglio di Omar, si sostituì narrando in prima persona, come se si trattasse di un’autentica autobiografia. In essa al bistrattato “capitano” vengono messe in bocca un’infinità di fandonie, come, ad esempio, quella del suo arruolamento al servizio di Sandokan in qualità di comandante di navi pirate, delle battaglie nella giungla malese combattute a fianco di Tremal-Naik che si sacrificherà per salvare l’“amico”, dell’avventuroso ritorno in Europa su un veliero bretone il cui capitano lo aveva trovato svenuto su una spiaggia del Borneo. Quanto poco importasse a Omar di esporre al ridicolo la figura del padre pur di racimolare qualche quattrino lo dimostrò un’intervista del maggio 1927 rilasciata ad Adolfo Sarti, giornalista della “Gazzetta del Popolo” che anticipava quanto narrato nelle Mie memorie.

Papà fu capitano di marina mercantile: viaggiò moltissimo: disegnava lui stesso gli itinerari. Abbandonò la carriera in modo avventuroso, come era il suo animo e come fu tutta la sua vita. All’epoca dell’insurrezione dei “cipay” egli si trovava con la sua nave nel porto di Bombay. Un giorno, per un futile motivo, litigò con il suo ufficiale superiore e se ne andò. Il caso gli fece incontrare Tremal-Naik, uno dei capi ribelli e che fu poi l’eroe di un suo romanzo. Tremal-Naik cercava volontari per le sue bande. Mio padre senz’altro passò alle sue dipendenze, quale comandante della flottiglia dei rivoltosi, composta di una trentina di velieri. Prese parte a diverse azioni, facendosi notare per l’eccezionale ardimento. I combattimenti terminavano quasi sempre col tentativo di arrembaggio da parte degli insorti, che, calatisi sulla nave nemica, si impadronivano di tutti i metalli occorrenti per foggiarne dei proiettili, di cui erano sprovvisti. La sollevazione, com’è noto, naufragò e mio padre riuscì in tempo a porsi in salvo: pendeva infatti sopra di lui la taglia di morte! Dopo aver girovagato qua e là per il mondo, giunse verso il 1890, nella sua città natìa, a Verona...

I falsari salgariani furono un vero esercito e, complici editori ed eredi, ingannarono spudoratamente i lettori per decine di anni. Il solo scrittore torinese Giovanni Bertinetti, l’autore de Le orecchie di Meo, dichiarò di averne confezionati 17, più il volume Mio padre Emilio Salgari, che Omar pubblicò come farina del proprio sacco nelle edizioni Garzanti con prefazione di Lucio d’Ambra. Con Bertinetti, tra i lavoratori più instancabili nella vigna dei falsi salgariani si segnalarono Collodi nipote, Riccardo Chiarelli e Americo Greco. Nel 1991 il figlio di Chiarelli, Renzo, rivelò di essere l’autore del romanzo La figlia del Corsaro Verde, aggiungendo di averlo scritto a vent’anni sulle rive del Trasimeno. Agli ottantotto romanzi genuini di Salgari in pochi lustri se ne aggiunsero altri cinquantotto, scritti da penne mercenarie ma gabellati per originali. Oltre all’oltraggio dei falsi la memoria del “capitano” subì un’infinità di altre offese. Nell’anno in cui il “Raduno” assolveva Bemporad, gli educatori cattolici sparavano con tutte le loro spingarde contro il padre di Sandokan: il Manuale di letture per le biblioteche, le famiglie e le scuole gli riconosceva «qualche pagina istruttiva di storia e di usi e costumi» ma metteva all’indice gran parte dei suoi libri per lo zibaldone di razze, «amori di cristiani con pagane», e per il perenne senso di odio e vendetta d’uomo contro uomo «con ecatombi e assassini d’ogni genere».

Il destino che si accanì così ferocemente contro Salgari non risparmiò la sua disgraziata famiglia. Nel 1915 Fathima, che Antonio Casulli ricordava come «un fiore di bosco», morì di tubercolosi. Nel 1922 un cancro mise fine ai tormenti di Aida nella clausura del manicomio. Nel 1931 Romero, guardia regia a Torino, eroe della Grande Guerra, due medaglie d’argento al valore, accecato dalla gelosia, dopo aver tentato di uccidere a revolverate la moglie, il figlio e la cognata, fuggì in casa di amici dove, bendatosi, si gettò da una finestra. Cinque anni dopo, Nadir, quarantunenne, ex ufficiale libico, sette ferite, decorazioni a iosa, si sfondò il cranio cadendo con la motocicletta. Infine il 5 novembre 1963, Omar, invalido di guerra, scampato a tre infarti, il viso citrino da vecchio indiano malato, si lanciò dal secondo piano della sua casa di via Principessa Clotilde 31.

Compiutosi l’ultimo atto della più tenebrosa delle tragedie, il nome Salgari non poteva non suonare per molti come una maledizione. La notte di Natale 1928 Alberto Della Valle, il più celebre illustratore dei romanzi di Salgari, morì sparandosi a una tempia col pistolone dal calcio di madreperla che nei suoi tableaux-vivants metteva in pugno a Sandokan.

Una trentina d’anni prima che nascesse Salgari, una oscura maledizione aveva colpito anche Mompracem, l’isola del Mar Cinese meridionale che “il capitano” aveva scelto come covo di Sandokan e dei suoi tigrotti. Le antiche carte la indicavano con grande approssimazione al largo della costa occidentale del Borneo, variandone capricciosamente il nome in Mompiaceni, Monpiacem, Monpiacen o Mon Pracem. L’isola comparve ancora col suo ruggente toponimo sull’atlante di Adolfo Stieler del 1830. Poi sparì. Anzi era già sparita dalla precedente carta, a scala molto maggiore, della Compagnia delle Indie Orientali di James Horsburgh del 1821. Sia la carta di Horsburgh che quella di Van den Dungen Gronovius del 1835 (riveduta nel 1839 da Vincendon Dumoulin), che quella del barone Pieter Melvill de Carnbée del 1848, si limitavano a segnalare un isolotto anonimo a mezza rotta tra le Comades e le Tre Isole. Oggi l’isola che ha fatto sognare generazioni e generazioni di ragazzi e che è diventata per tutti sinonimo di avventura non c’è più e ci si chiede se abbia perduto soltanto il nome o se sia stata cacciata in fondo al mare con le sue mangrovie e i suoi idoli da uno di quei biblici cataclismi che hanno più volte cambiato la faccia di quella parte del mondo. A Bandar Seri Begawan, capitale del Brunei, nessuno sa dare una risposta. Neanche il sultano Hassanal Bolkiah, l’uomo più ricco del mondo, sa dove sia finita Mompracem. Il nonno di suo nonno era proprio quel Selim Bargani Arpalang che nella Riconquista di Mompracem è quasi la controfigura di Salgari: «un cosettino smilzo, color del pane bigio che portava in testa un turbante di dimensioni colossali». Il mistero dell’isola forse è sepolto con lui sotto le pietre color miele della moschea di Bandar Seri Begawan, graffiate dal vento caldo del Mar Cinese meridionale che, come ai tempi dei romanzi di Salgari, brulica di pirati, anche se di ben altra risma rispetto agli epici “tigrotti” di Sandokan. Resta il pensiero orribile e romantico, e per questo tanto più difficile da scacciare, che il destino di Mompracem sia legato a doppio filo a quello del suo unico, appassionato cantore.

Note

1 La pietosa “confidenza” all’autore è di Giuseppe Turcato che aveva raccolto testimonianze in merito.

2 La signora Nusshaumer abitava a Torino e si interessava delle edizioni tedesche dei romanzi di Salgari.

3 Finché i falsi li fabbricava lui tutto andava bene, ma quando anche altri diedero mano ai torchi allora Motta trovò che il fenomeno era immorale. In una lettera a Giuseppe Fragale del 17 marzo 1952 deplorò il comportamento di Omar Salgari colpevole di «gettare allo sbaraglio le opere del genitore, buttandole come merce trascurabile, sui banchetti, a misero prezzo». E spiegò: «Il mio caro amico Salgari meritava quel culto che ad esempio Ugo De Amicis ebbe e ha per il babbo suo. Infatti, spento Edmondo, non uscirono più opere con il nome del grande scrittore. Le opere apocrife non sono fatte certo per onorare il nome dell’autore scomparso. È questione di sensibilità artistica e morale... Io, anche malato di cuore, a mezzo legale, le avrei proibite! La rivincita di Yanez e La caduta di un Impero sono veramente di Emilio. Ma poi basta...» Infine recriminò: «Avevo scritto ora Sandokan nella jungla nera, ma la bella rivista “Epoca” facendomi una intervista, pubblicò che io stavo scrivendo tale opera. Ebbene con lo stesso titolo Omar lanciò un suo libro. Lo scorsi. Troppo toscano! Non scrivono ad esempio palagio che i toscani. Chiarelli fiorentino: scrittore di buona tempra. Il titolo mi fu soffiato...»