NELLE distese ghiacciate dell’Antartide, dove da due milioni di anni non cadono piogge, in quelle lande dove il cielo ha un colore bianco lattiginoso e non ci sono né bambini né cani, Wolf Vishniac aveva tentato di collegare ciò che si sapeva della geologia di Marte con ciò che si conosceva della biologia terrestre, per capire se i microbi potessero sopravvivere a condizioni di vita così spietate.1 Per quanto sia di scarsa consolazione, prima di morire Vishniac seppe di avere trovato ciò che stava cercando: la vita in una terra «senza vita».2 I vetrini che aveva estratto dal suolo della dorsale Asgard mostravano tassi di crescita sbalorditivi; guardati controluce, sembravano contenere tante minuscole galassie lucenti.
Le cellule presenti sui vetrini non erano tuttavia ancora arrivate sulle piastre di Petri dei colleghi, perché Vishniac aveva deciso di lasciare i microbi praticamente da soli, con l’intenzione di farli crescere nel loro ambiente naturale. Dopo la sua morte, i vetrini furono spediti alla moglie Helen, la quale scoprì che contenevano centinaia di cellule, e non soltanto microbi, ma anche eucarioti complessi.3
Tra gli effetti personali di Vishniac c’era un sacchetto pieno di pietra arenaria proveniente da quel deserto ghiacciato, su cui lo scienziato aveva scritto: «Campioni per Imre Friedmann».4 Friedmann era un microbiologo della Florida State University e da anni conduceva ricerche per capire se la vita potesse conservarsi anche dentro le rocce, ma non era mai riuscito a ottenere i fondi necessari per una spedizione in Antartide. Aveva così chiesto a Vishniac di raccogliere alcune rocce per lui e, quando ricevette il sacchetto da Helen, fece una scoperta rivoluzionaria. Nel 1976 Friedmann pubblicò i suoi risultati su Science:5 alghe unicellulari color verdeazzurro e traboccanti di vita avevano colonizzato gli interstizi pieni d’aria all’interno dell’arenaria porosa, servendosi di quelle minuscole case di pietra come protezione contro le intemperie. La vita, in altre parole, poteva esistere non soltanto nei deserti ghiacciati, ma anche nelle rocce più gelide.
Queste e altre scoperte aprirono una nuova fase nella ricerca della vita dopo che, nel 1982, l’ultimo, debole segnale radio di Viking 1 fu lanciato in direzione della Terra dal versante occidentale della Chryse Planitia. Alcuni degli studenti che negli anni Settanta avevano scritto pieni di speranza la propria tesi di laurea su Marte, nei due decenni successivi, diventati nel frattempo giovani scienziati ai quali erano rimasti ormai pochissimi dati su cui lavorare, rivolsero l’attenzione al nostro pianeta. Nacque così un nuovo campo della biologia che studiava le possibilità della vita nelle condizioni più estreme e per comprenderne meglio i limiti frugava fra le crepe e gli anfratti della Terra.
Ben presto si individuarono microbi in specchi d’acqua con un tasso di salinità molto più elevato rispetto a quello del mare, o ipersaturi di metano, e in laghi che avevano un pH pari a quello della soda caustica. Gli scienziati che iniziarono a esplorare gli oscuri abissi delle profondità marine constatarono che non solo vi albergava la vita, ma ospitavano ecosistemi ricchi e complessi.6 Nonostante la presenza di gas tossici e di temperature abbastanza calde da fondere il piombo, i camini idrotermali brulicavano di comunità microbiche. C’erano gruppi di vermi tubolari, alcuni lunghi più di 2 metri, che fluttuavano nell’acqua marina simili a braccia umane: erano ricoperti di delicate piume rosse, osservate per la prima volta alla luce dei fari dei sommergibili inviati a perlustrare i fondali. Queste creature sopravvivevano a livelli di pressione fino ad allora ritenuti troppo elevati per consentire la presenza di vita, in un luogo irraggiungibile dalla luce del Sole. A sostenere quel mondo doveva essere un metabolismo sconosciuto, che non utilizzava la fotosintesi come fonte di energia.
Furono scoperti microbi anche nelle evaporiti di Yellowstone, rocce sedimentarie friabili e saline che si formano per evaporazione in particolari pozze di acqua calda. A Octopus Spring, nel parco, c’erano ceppi di Thermus aquaticus, minuscoli organismi in grado di vivere e riprodursi a temperature estremamente elevate.7 Nella Fossa delle Marianne, nonostante le pressioni elevatissime, fu individuato lo Pseudomonas bathycetes8 e nelle scorie dei reattori nucleari si tracciò la presenza di Deinococcus radiodurans.9 La vita, a quanto pareva, era ovunque.
Il momento era giunto per la scoperta, sulle Allan Hills in Antartide, di una piccola roccia la cui forma ricordava quella di una patata. Nel 1984, due giorni dopo Natale, una giovane scienziata di nome Robbie Score notò una zona scura su una lastra di ghiaccio, oltre 200 chilometri a sud della dorsale Asgard.10 Stava viaggiando in motoslitta con un gruppo di ricercatori dell’Antarctic Search for Meteorites. In sella alla sua Ski-Doo, corse a dare un’occhiata più da vicino, quindi fece segno ai colleghi: sembrava quasi verde contro la superficie bianco-metallica del ghiaccio. Il reperto fu fotografato, infilato in una busta di plastica trasparente ed etichettato ALH84001. «ALH» stava per «Allan Hills»; «84» per l’anno; «001» perché era la prima scoperta dell’anno.
Il programma Antarctic Search for Meteorites era stato istituito perché in Antartide si trovano più meteoriti che altrove; non che lì ne cadano di più, solo che sono più facili da localizzare. In effetti, in alcune zone dell’Antartide, la maggior parte delle rocce sono meteoriti e il ghiaccio, muovendosi lentamente, le trascina con sé nell’immenso territorio all’interno del continente. I ghiacciai scendono fino a cadere in mare o si inerpicano lungo le catene montuose; quando viene bloccato, il ghiaccio si ritira, riportando in superficie le meteoriti congelate.11 Sui fianchi dei Monti Transantartici, che attraversano come una cordigliera il continente, le meteoriti si accumulano con concentrazioni decisamente superiori a quelle di qualsiasi altra regione terrestre. Si individuano agevolmente: spiccano come grani di pepe su un piatto di porcellana bianca e liscia.
Alla fine dell’estate antartica ALH84001 arrivò negli Stati Uniti in un container climatizzato, in compagnia di tutti gli altri campioni raccolti durante la missione.12 Quando, all’inizio del 1985, la roccia fu portata in una camera bianca a Houston, un frammento di mezzo grammo fu staccato e spedito allo Smithsonian National Museum of Natural History per essere classificato. Il giovane curatore che lo analizzò lo identificò come una diogenite proveniente molto probabilmente da Vesta, un grande asteroide nella fascia fra Marte e Giove. Erano presenti alcune strane macchie di carbonato marrone ricco di ferro piuttosto insolite per Vesta, ma lo scienziato pensò che fossero dovute al processo di invecchiamento avvenuto sulla Terra.13
Per sette anni ALH84001 rimase chiuso in un caveau ben protetto nel Johnson Space Center. Finché, nel 1992, un ricercatore si ritrovò a vagare perplesso lungo il corridoio del vicino Edificio 31.14 Aveva fatto uno studio sistematico dei frammenti che si pensava fossero arrivati sulla Terra da Vesta,15 ma c’era una roccia che proprio non lo convinceva: la diogenite con tracce di carbonato. Il ricercatore entrò nell’ufficio di David McKay.
McKay era un geologo alto, un poco curvo e dal passo spedito; era un tipo cordiale, aveva guance paffute e portava occhiali di metallo. Originario di Titusville, in Pennsylvania, quando frequentava la prima media si era trasferito con la famiglia prima a Tulsa, nell’Oklahoma (il padre era contabile presso la Kewanee Oil Company), quindi a Houston, nel Texas. Dopo avere lavorato su remote piattaforme petrolifere offshore ed effettuato rilievi nel deserto, David era tornato alla Rice University di Houston, dove si era laureato e aveva conseguito un dottorato di ricerca in Geologia.
Nel 1962 era seduto sugli spalti dello stadio dell’università, quando John F. Kennedy aveva annunciato che gli Stati Uniti sarebbero andati sulla Luna prima della fine del decennio. «Perché abbiamo scelto questo obiettivo?» aveva chiesto il presidente.16 «Abbiamo deciso di andare sulla Luna questo decennio e di fare altre cose non perché siano semplici, ma perché sono difficili, perché questo obiettivo ci permetterà di organizzare e di mettere alla prova il meglio delle nostre energie e capacità, perché questa è una sfida che vogliamo accettare, non abbiamo intenzione di rimandarla e abbiamo intenzione di vincerla, così come le altre.» Pieno di entusiasmo, McKay si era fatto assumere al Johnson Space Center, un complesso di recente formazione che si stava espandendo sempre di più nelle praterie a sud di Houston. Non si era più mosso da lì.
* * *
Mentre all’inizio degli anni Novanta esaminava ALH84001 aspettandosi che provenisse da Vesta, McKay non poteva fare a meno di porsi domande sull’origine di quella roccia, esattamente come per secoli altri scienziati si erano interrogati sull’origine delle meteoriti che avevano rinvenuto. La sola idea che delle rocce potessero cadere dal cielo era stata considerata ridicola. Nel Diciottesimo secolo, un famoso mineralogista aveva addirittura dichiarato: «Ai nostri tempi sarebbe imperdonabile ritenere tali favole anche soltanto probabili».17
Alcuni credevano che quei bizzarri oggetti fossero rocce vulcaniche scagliate come bombe nel corso delle eruzioni, oppure rocce che si erano condensate all’interno di nuvole piene di grandine, o che erano state colpite da un fulmine (da cui il nome folgoriti).18 L’idea di Isaac Newton che nello spazio interplanetario non esistessero corpi di dimensioni ridotte non sarebbe stata messa in discussione fino all’inizio dell’Ottocento, quando un fisico tedesco sostenne per la prima volta, accolto dall’ilarità generale, che i meteoroidi provenienti dallo spazio si disintegravano diventando bolidi infuocati e potevano essi stessi essere «frammenti di mondi».19
McKay si chiedeva se quella roccia potesse essere in realtà una meteorite SNC20 (acronimo di shergottite, nakhlite e chassignite), o snick. Quel nome si doveva ai tre villaggi dove per la prima volta era stata documentata la caduta di rocce appartenenti a questa tipologia: Shergotty21 in India nel 1865, El Nakhla in Egitto nel 1911 e Chassigny in Francia nel 1815. Tutti questi eventi erano stati accompagnati da un grande boato. Si diceva che un pezzo di nakhlite avesse addirittura colpito un cane.22 Era stato subito chiaro che le tre meteoriti cadute su quei minuscoli villaggi avevano proprietà insolite, che le distinguevano da tutte le altre. Ma da dove provenivano?
A mano a mano che, nel corso degli anni, altri SNC si univano alla terna originaria, il mistero della loro origine si infittiva. Finché, nel 1983, si scoprì che una di queste rocce conteneva vescicole di gas nelle quali erano trattenute goccioline di atmosfera. L’esistenza di aria intrappolata nelle meteoriti era una scoperta eccezionale, che escludeva tutti i mondi privi di atmosfera, comprese le comete, gli asteroidi, la Luna e Mercurio, lasciando aperta la possibilità che la loro origine si trovasse in un pianeta che invece ne era dotato, come Marte. Alla fine, tutti gli elementi chimici presenti in quelle goccioline di atmosfera cominciarono a formare un quadro coerente: mentre l’analisi delle vescicole procedeva, la composizione del gas contenuto si rivelò in linea con quella dell’atmosfera marziana, in accordo con i risultati delle misurazioni spettroscopiche dalla Terra e con i dati raccolti dai lander della missione Viking.23 Nuove teorie furono formulate per spiegare come questi frammenti di materiale, detti «schegge», potessero essere stati espulsi dalla superficie di Marte senza fondersi o vaporizzarsi.
Sotto certi aspetti, per Dave McKay ALH84001 era come le altre meteoriti di Marte, pur essendo al contempo anche molto diverso. Innanzitutto, era tre volte più antico di qualsiasi altro reperto. Quando un suo collega condusse un’analisi per determinare per quanto tempo la roccia fosse stata esposta ai raggi cosmici – la radiazione spaziale che bombarda costantemente la superficie dei pianeti –, ottenne un risultato sorprendente: ALH84001 sembrava essersi formato solo cinquanta milioni di anni dopo la nascita del nostro sistema solare, cosa che lo rendeva la roccia più antica mai scoperta proveniente da qualsiasi pianeta noto, Terra compresa.24 Un impatto risalente a sedici milioni di anni prima l’aveva probabilmente staccato dal sottosuolo di Marte, dove fino a quel momento era rimasto al riparo dalle dure condizioni dell’ambiente superficiale, scagliandolo in seguito nello spazio, in rotta verso la Terra.25
Da una serie di analisi si calcolò che ALH84001 fosse caduto in Antartide circa tredicimila anni prima: prima dell’inizio dell’agricoltura, prima dell’ascesa della civiltà. ALH84001 aveva raggiunto la Terra proprio mentre l’ultima era glaciale volgeva al termine e il nostro pianeta cominciava a liberarsi dalla morsa dei ghiacciai. Il pezzo di roccia era rimasto congelato sottoterra per tutto quel tempo, senza subire l’azione del vento, delle intemperie e della luce solare.
Mentre lavorava in laboratorio, dove restava spesso fino a tardi, a McKay piaceva ascoltare Enya, una cantante irlandese dalla voce eterea.26 Studiando ALH84001, cominciò a notare alcune formazioni di carbonato di color arancione: la prima di una lunga serie di strane scoperte.27 Si trattava di formazioni decisamente bizzarre, a cerchi concentrici come gli occhi dei gufi. La proporzione di carbonato nella meteorite, pari a circa l’1%, era molto più alta di quanto ci si sarebbe aspettati di trovare in una roccia che si era raffreddata da una massa vulcanica incandescente. Sulla Terra, i carbonati, per esempio quelli nelle vaste coltri calcaree che ricoprono il Nord America, si formano quasi tutti in presenza di acqua, nell’intervallo di temperatura in cui questa si trova allo stato liquido. La loro presenza nella roccia lasciava dunque pensare che Marte fosse stato ricoperto d’acqua e che ALH84001 si fosse formato in un ambiente che non escludeva la possibilità di vita.
Ben presto una collega di McKay, Kathie Thomas-Keprta, individuò anche alcuni delicati cristalli di magnetite formatisi lungo i carbonati come tanti fili di perle.28 Era un’altra scoperta inaspettata. Sulla Terra, sono i microbi a creare queste formazioni cristalline, che servono loro come minuscole bussole negli spostamenti. I cristalli di magnetite in ALH84001 erano inoltre straordinariamente puri.29 Nella magnetite che si forma nel corso di processi geologici non controllati sono normalmente presenti magnesio, calcio e ferro, mentre i microbi tendono a selezionare solo magnetite contenente ferro, caratterizzata da migliori proprietà magnetiche. In natura, i minerali magnetici si formano con livelli di pH diversi da quelli richiesti dai carbonati, quindi la presenza di questi ultimi insieme con i cristalli di magnetite era insolita e indicava potenzialmente la presenza di vita. Forse, miliardi di anni prima, i microbi fluttuavano nei mari marziani, attratti da un antico campo magnetico?
Se così fosse stato, pensarono McKay e i suoi colleghi, allora quelle formazioni magnetiche avrebbero dovuto contenere anche resti di materiale organico: i mattoni della vita. Per testare questa idea, McKay inviò alcuni campioni della meteorite a un noto chimico di Stanford. Nel giro di poche settimane, furono rilevati conglomerati di atomi di carbonio e idrogeno, gli idrocarburi policiclici aromatici (IPA). Gli IPA si trovano nel petrolio, nel carbone, nel catrame, nei resti carbonizzati delle foreste bruciate e nelle parti nere delle bistecche grigliate su una fiamma viva.
McKay e la sua squadra erano titubanti. Gli IPA non erano ancora una prova decisiva: sebbene comunemente sulla Terra siano il sottoprodotto del decadimento cellulare, sono presenti anche durante la formazione di nuove stelle. Ciononostante, McKay sembrava essersi imbattuto nella prima vera testimonianza a favore della presenza di sostanze organiche su Marte. Come minimo, gli IPA significavano che sul pianeta, almeno in un periodo della sua storia, era esistita una chimica favorevole alla vita. Gli IPA erano molto più abbondanti nel nucleo della roccia, il che rendeva poco probabile che fossero il risultato di una contaminazione; inoltre, quelli presenti in ALH84001 sembravano raggrupparsi proprio dove si concentravano anche i carbonati e i cristalli magnetici.
McKay continuò ad analizzare la meteorite al Johnson Space Center ed ebbe l’inaspettata fortuna di poter usufruire di un nuovo sofisticato microscopio elettronico a scansione, che la NASA aveva recentemente acquistato per ispezionare la strumentazione spaziale alla ricerca di impercettibili incrinature e difetti. McKay sapeva che quel microscopio gli avrebbe consentito di osservare le strutture minerali di ALH84001 con una risoluzione senza precedenti.
Un giorno del gennaio 1996, lui e un collega posizionarono con cura un minuscolo frammento della meteorite sullo strumento e accesero il laser. Mentre guardavano quelli che sembravano interi continenti di un mondo sconosciuto, d’un tratto notarono qualcosa di strano. Entrambi rimasero sbalorditi. Ai margini di una chiazza di carbonato arancione videro quello che sembrava un verme che saliva su una collina, fissato per sempre nella posizione in cui lo aveva raggiunto la morte, come se provenisse da una microscopica Pompei marziana. Aveva la forma di un cordino di appena 50 o 100 nanometri di diametro, e il fatto più strano era che sembrava segmentato come un microrganismo primitivo. Aveva tutte le apparenti caratteristiche di un nanobatterio fossile: un vero e proprio fossile della vita.
McKay era così eccitato che stampò l’immagine e fece in modo che la figlia tredicenne la trovasse. «Che cosa ti pare che sia?» le chiese poi.30 «Batteri», rispose semplicemente lei.
Le immagini convinsero ulteriormente McKay a pubblicare i risultati della ricerca. I carbonati, i minerali magnetici e gli IPA erano presenti in ogni granello di roccia che lui e la sua squadra avevano analizzato; tutti e tre indicavano una possibile presenza di vita. E le strutture che McKay aveva fotografato avrebbero potuto benissimo esserne le tracce visibili! Per la presenza di questi elementi c’erano altre spiegazioni plausibili ma, ragionando nel complesso e soprattutto tenendo conto che erano presenti simultaneamente, McKay trasse una conclusione sensazionale: avevano scoperto la prima prova in assoluto di vita primitiva su Marte.
Lui e il suo team terminarono l’articolo e lo sottoposero a Science, che chiese un parere a ben nove recensori, fra i quali Carl Sagan, per valutare se fosse accettabile per la pubblicazione.31 Nel 1994, appena due anni prima, lo stesso Sagan aveva pubblicato uno scritto in cui notava come non fossero mai stati trovati microbi nelle rocce provenienti dallo spazio, almeno non fino a quel momento. Quando una copia del manoscritto di McKay arrivò sulla sua scrivania, lo scienziato rimase esterrefatto. Con ALH84001 sembrava che il lavoro di tutta la sua vita fosse finalmente giunto a compimento, anche se all’ultimo momento, perché stava lottando contro una malattia del midollo osseo.
Appena l’articolo passò la fase di revisione, la rivista fissò la data di pubblicazione per metà agosto. Prevedendo il putiferio che avrebbe sollevato nella stampa, la NASA non divulgò alcun particolare, decisa a tenere la notizia riservata fino all’uscita dello studio. Ciò significava che a McKay restavano un paio di settimane per riprendere fiato, prima di diventare uno degli scienziati più famosi della storia.
Decise quindi di partire con la famiglia in campeggio lungo il fiume Frio. Il parco naturale che scelsero come meta della vacanza si trovava su uno strato di roccia friabile formatasi cento milioni di anni prima lungo le rive dei mari. Da un punto di vista geologico, era una specie di Paese delle meraviglie: animali preistorici avevano lasciato le loro impronte nella sabbia e un altopiano calcareo si ergeva lungo una faglia inclinata. Guidavano all’ombra dei cipressi, avanzando lentamente fra rocce risalenti al Cretaceo.
Come McKay, mi sono sempre sentita a mio agio tra le rocce. Quando ero bambina, mio padre a volte trascinava me e mia sorella fuori dall’auto per osservare i tagli praticati sui fianchi delle colline per consentire il passaggio della strada. Si potevano vedere lungo tutta la Mountain Parkway, che percorrevamo per andare da casa nostra a quella della nonna, nel Kentucky orientale. La madre di mio padre era una donna forte, animata da una vitalità che pareva aumentare quanto più invecchiava. Dopo la morte del nonno aveva smesso di fare radiografie ma continuava a fare permanenti in veranda e, piena di energia, preparava ancora la zuppa di fagioli nella sua buia cucina di legno.
Durante il viaggio, mio padre si fermava spesso alla ricerca di fossili su quelle pareti rocciose: briozoi, brachiopodi, trilobiti, ostracodi e antichi crinoidi, animali d’acqua salata che un tempo remoto se ne stavano attaccati a uno stelo sul fondo del mare.
Lungo quella strada c’è un tratto dove davanti agli occhi scorrono decine di milioni di anni. Gli strati di roccia sono ammonticchiati come tante frittelle, diventando sempre più recenti chilometro dopo chilometro: raccontano la storia della vita mentre questa strisciava fuori dagli oceani per raggiungere la terra asciutta e gli anfibi si impadronivano del pianeta, seguiti dagli insetti e dai rettili dotati di vela dorsale.
Mentre io e mia sorella ce ne stavamo sul sedile posteriore, capitava che mio padre aprisse il suo thermos. Non sopportavamo l’odore del caffè: cominciavamo a rotolarci e a lamentarci, cercando di respirare l’aria pura che entrava dai finestrini aperti. Appena fingevamo di soffocare, papà coglieva l’occasione.
La maggior parte delle volte succedeva vicino a Slade. Parcheggiava la lunga Chevrolet grigia sul ciglio della carreggiata, accanto al guardrail, dove la strada scende e risale costeggiando una scarpata ai margini di un giacimento di carbone. Quando ci invitava a uscire dall’auto per prendere un po’ d’aria fresca e per una lezione di geologia, mia madre sospirava pazientemente.
Se in quel momento ci fossero stati anche i miei amici mi sarei sentita in imbarazzo, ma per fortuna non c’erano. Così, come una scolaretta diligente, prendevo per mano mia sorella e trotterellando andavo dove nostro padre ci aspettava. Ci indicava gli strati nella roccia, mostrandoci come si abbassavano, come si incrociavano e come scomparivano. Mia sorella Emily faceva di sì con la testa. Aveva due anni più di me ma, siccome aveva la sindrome di Down, l’avevo raggiunta in altezza quando avevo sette o otto anni. Sorrideva a papà con i suoi dolci occhi a mandorla, seguendo con il dito la linea delle rocce. Nel frattempo, io mi inginocchiavo e mi mettevo a caccia di fossili.
Ero troppo imbarazzata per ammetterlo, però trovavo davvero affascinante il fatto che il terreno nascondesse dei segreti, che la vita fosse stata mummificata nella pietra. Era qualcosa di straordinario. Le formazioni si estendevano per chilometri, testimoniando com’era il mondo prima che gli uccelli volassero nell’aria e i fiori lo riempissero di colori, quando i mari erano poco profondi e il Kentucky si trovava all’equatore.
Quando vidi per la prima volta ALH84001, non riuscii a non pensare ai crinoidi che osservavo durante quei viaggi. Per molto tempo avevo creduto che i crinoidi fossero creature striscianti, perché assomigliavano in tutto e per tutto ai lombrichi che invadevano il nostro viottolo dopo un temporale. Ed ero abituata a vedere forme sinuose impresse nelle cedevoli siltiti, che si confondevano con la consistenza e il colore della roccia circostante. Quelle impronte erano le scie che alcuni vermi avevano lasciato nel fango, ma non erano di crinoidi: i crinoidi non hanno un corpo morbido e sinuoso, e non strisciano. Mentre stavo di fronte a quelle pareti rocciose doveva essere terribilmente difficile convincere me bambina che quegli esili mucchietti di ossicini che continuavo a vedere fossero i resti calcificati delle braccia di antichi gigli di mare, singolari e bellissimi cugini delle stelle marine.
La maggior parte delle cose scompare, ricordo che mio padre mi spiegò. Le cose dure e solide, aggiunse, sono quelle che rimangono. Tutto il resto si dissolve e scivola via.
Prima di partire alla volta degli antichi fondali marini del Texas Hill Country, McKay aveva infilato nello zaino un cercapersone, nel caso in cui fosse capitato qualcosa.32 Dopo un paio di giorni, si accorse che non aveva mai squillato e quel silenzio cominciò a innervosirlo. Il 6 agosto si decise a chiamare l’ufficio da un telefono pubblico nel negozio del campeggio, giusto per fare un controllo. Con sua grande sorpresa, venne a sapere che tutti stavano parlando della sua roccia.33 Il cercapersone non funzionava oltre i confini della città di Houston e alla NASA la situazione era frenetica. Moglie e figlie accompagnarono di corsa McKay all’aeroporto di San Antonio perché volasse a Washington. Il giorno seguente, si ritrovò sotto i riflettori di un auditorium nel quartier generale della NASA, di fronte a centinaia di giornalisti.
All’inizio della conferenza stampa, che si sarebbe protratta per due ore e mezzo, il presidente Bill Clinton salì sul podio del Prato Sud della Casa Bianca per annunciare al mondo le scoperte di David McKay: «Oggi la roccia 84001 ci parla da tutti questi miliardi di anni e milioni di chilometri. Ci parla della possibilità della vita. Se verrà confermata, questa scoperta sarà sicuramente una delle più sensazionali conquiste mai fatte dalla nostra scienza. Avrà conseguenze e ricadute di portata immensa, quasi inimmaginabile…»34
Con la camicia a righe e la cravatta con un motivo ispirato allo spazio, McKay aveva l’aria confusa quando entrò nel quartier generale della NASA. Era sopraffatto dalle attenzioni che gli venivano riservate. Davanti al podio, un pezzetto di ALH84001 era esposto in una teca poggiata su un panno di velluto nero. Pesava poco più di 35 grammi, una minima frazione della roccia di 4 chili raccolta dodici anni prima in Antartide sulle Allan Hills. Quando gli chiesero una foto, assumendo una postura leggermente impettita, McKay afferrò nervosamente la teca e si mise a fissare il vetro che rifletteva i flash abbaglianti di decine di giornalisti.
I direttori della National Science Foundation, dei National Institutes of Health e delle accademie nazionali di Scienze, Ingegneria e Medicina erano tutti seduti in prima fila.35 McKay ascoltò il responsabile della NASA dichiarare che quello era «un giorno incredibile», rilanciando l’invito del presidente a organizzare un vertice sull’esplorazione spaziale quello stesso autunno alla Casa Bianca.36 «Siamo alle porte del cielo. È una fortuna poter vivere in questo tempo!»
Nelle ore successive, le notizie su ALH84001 furono ribattute in tutto il mondo. Nel giro di pochi giorni, quasi un milione di persone lesse l’articolo sul nuovo sito internet di Science o tramite il suo servizio di avviso web. Nelle case d’asta i prezzi delle meteoriti schizzarono alle stelle, passando da 200 a 2.000 dollari al grammo.37 Il Congresso mise in programma delle audizioni. I corridoi del Johnson Space Center brulicavano di giornalisti. Dopo secoli di osservazioni, dopo aver lanciato decine di sonde, esisteva una risposta alla domanda se ci fosse vita su Marte, ed era piovuta dal cielo.
ALH84001 era caduto in Antartide tredicimila anni prima, ma a cambiare le cose erano stati i pochi anni che avevano preceduto la sua scoperta. Se fosse stato ritrovato e analizzato durante la missione Viking, gli scienziati non avrebbero avuto alcun motivo di credere che una meteorite potesse compiere quel viaggio senza surriscaldarsi e disintegrarsi, vanificando ogni speranza di condurre analisi significative, o senza che i microbi soccombessero a condizioni così proibitive. Inoltre, in quel periodo non avrebbero ancora avuto a disposizione la sofisticata strumentazione sulla quale aveva potuto contare McKay negli anni Novanta.
Nel frattempo, erano infatti stati fatti passi da gigante nello studio dei limiti della vita. Ciononostante, nessun ricercatore aveva mai individuato un microbo così piccolo come il fossile rinvenuto in ALH84001. McKay era noto per essere uno scienziato estremamente scrupoloso;38 la sua descrizione della meteorite non fu mai messa in discussione, ma le conseguenze delle sue conclusioni diventarono ben presto bersaglio di un fuoco incrociato. La critica più stringente, esposta in modo articolato in un rapporto del National Research Council, era che quelle cellule segmentate potessero non essere abbastanza grandi per contenere la biochimica necessaria a sostenere la vita.39
Di lì a poco, un giovane ricercatore britannico invitato a unirsi all’équipe di McKay rilevò alcune preoccupanti avvisaglie che il materiale organico di ALH84001 potesse avere origine terrestre e fosse penetrato nella roccia con l’acqua di fusione dei ghiacci antartici. Dopo non molto tempo, anche un altro gruppo di ricerca del Johnson Space Center guidato dal fratello di McKay, Gordon, dimostrò che stringhe di cristalli di magnetite dall’aspetto quasi identico potevano formarsi spontaneamente in laboratorio.40
McKay replicò subito, sostenendo che in quegli esperimenti erano stati impiegati materiali di partenza purificati artificialmente e che tale purezza non sarebbe mai stata possibile in natura. Un’origine biogenica restava dunque ancora la più plausibile e la possibilità che si trattasse di una forma di vita aliena era «ulteriormente corroborata dalla presenza di numerose [strutture simili a fossili] in altre meteoriti marziane».41 Secondo i critici, tuttavia, McKay si era lasciato trarre in inganno dalla morfologia della roccia: le forme possono giocare brutti tiri ai nostri occhi.
Con il passare dei mesi, fu difficile per lui non prendere questi attacchi sul personale. Le critiche piovevano da ogni parte, con Gordon che, scherzando con i giornalisti, arrivò a dire che suo fratello stava diventando «un po’ permaloso».42 McKay lavorava tutto il giorno e rientrava la sera tardi a bordo del suo vecchio furgone Chevrolet, cercando rifugio nella casa che aveva costruito sulla pianura alluvionale, le cui pareti erano tappezzate di kimono in ricordo del tempo trascorso in Giappone, presso l’Istituto di studi geologici.43 Nonostante lo stress che stava accumulando, continuò a difendere strenuamente la propria posizione, finché un anno dopo si ritrovò in ospedale, sottoposto a un intervento per un quadruplo by-pass cardiaco.44
Nel corso di questa querelle scientifica fu ripetuta più volte una frase che Carl Sagan aveva pronunciato all’inizio della carriera: «Affermazioni straordinarie richiedono prove straordinarie».45 Quando si svolse il vertice sull’esplorazione spaziale convocato da Clinton alla Casa Bianca, Sagan non era più in grado di reggersi in piedi da solo, tanto meno di partecipare all’evento. Pur essendo sempre stato il profeta della vita su Marte – idea che aveva continuato a difendere con granitico ottimismo e infaticabile energia anche di fronte ai risultati più scoraggianti –, poco prima di morire, mentre era ricoverato in una clinica di Seattle, fu costretto ad ammettere che «le prove dell’esistenza di vita su Marte non [erano] ancora abbastanza straordinarie».46 Erano in molti a pensarla come lui, e l’idea che ALH84001 contenesse resti fossili di vita marziana fu in gran parte accantonata.
Quelle poche settimane erano state magiche, entusiasmanti. Quel ritrovamento sembrava talmente improbabile e al tempo stesso perfettamente in linea con la straordinaria rivoluzione in atto nel mondo della biologia, dove il ritmo delle scoperte era in piena accelerazione. Il genoma umano era quasi mappato, così come quello di molti altri organismi più semplici. In tutto il mondo si sequenziavano filamenti di DNA. Ogni organismo era assegnato al proprio albero filogenetico e i microbi estremofili sembravano risalire alle origini stesse della vita sulla Terra.
Nel giro di poche settimane dall’annuncio su ALH84001, la ricerca genomica svelò un dominio della vita completamente nuovo: gli archeobatteri, microbi primitivi capaci di sopravvivere in condizioni estreme, fino a quel momento sconosciuti alla scienza. In seguito a quella scoperta, la tassonomia che divideva la biologia in cinque regni (animali, piante, protisti, funghi e batteri)47 fu rimpiazzata da una classificazione48 che riconosceva la diffusione e la diversificazione degli organismi monocellulari elementari sulla Terra.49 Nel frattempo, fu clonata anche la pecora Dolly;50 sugli scaffali dei supermercati si trovavano in quantità sempre maggiore mais e soia geneticamente modificati; le aziende farmaceutiche conducevano ricerche in tutto il mondo per scoprire rari organismi potenzialmente salvavita e, campioni alla mano, sintetizzavano, brevettavano e commercializzavano nuovi strani composti. Erano tempi esaltanti. E, in un certo senso, sembrava più che normale che dal nulla fosse spuntata una roccia capace di svelare i misteri della vita.
ALH84001 lasciava intravedere un futuro ricco di possibilità. E se la vita su Marte fosse stata completamente diversa da quella sulla Terra? Tutti gli organismi a noi noti erano identici a livello molecolare: un DNA che codifica l’RNA, l’RNA che codifica gli aminoacidi, gli aminoacidi che si riuniscono a formare le proteine e le proteine che costruiscono le cellule. E se quelle minuscole cellule marziane fossero state basate su una biochimica completamente diversa? Forse le risposte stavano dentro quella meteorite. Forse quella roccia avrebbe rivelato le basi stesse della vita, o magari ci avrebbe fornito le prove di una genesi diversa. Oppure, se quelle cellule avessero presentato fondamentali analogie con la struttura della vita sulla Terra, ciò avrebbe potuto costituire la conferma dell’esistenza nella biologia di leggi fondamentali come quelle che già si conoscevano per fisica e chimica. Il ritrovamento di ALH84001 avvenne proprio mentre si facevano scoperte tanto sensazionali da rivoluzionare la scienza.
E le possibilità non si esaurivano qui. Se la vita su Marte fosse stata esattamente come quella sulla Terra – se fra l’una e l’altra fosse esistito un rapporto ancestrale, se la vita si fosse trasmessa come un raffreddore da un pianeta all’altro –, anche questa sarebbe stata una scoperta importantissima. Un microbo che avesse viaggiato in autostop su una meteorite avrebbe potuto dirci molto sulla natura stessa dell’evoluzione, consentendoci forse di riprodurne le fasi, di ricostruire le ragioni della suddivisione adattiva e casuale delle diverse specie. Forse ci avrebbe permesso di capire come le cose sarebbero potute andare diversamente per noi sulla Terra. La filogenetica marziana avrebbe potuto mostrarci che anche sul pianeta rosso la vita era nata in una pozza d’acqua calda, o magari avremmo scoperto che non avevamo bisogno di trovare i marziani perché i veri marziani eravamo noi. Dopo tutto, innumerevoli tonnellate di rocce – proprio come ALH84001 – avevano viaggiato fra i pianeti all’inizio della loro storia e, fra i detriti che nel nostro sistema si muovevano in direzione del Sole, le meteoriti che avevano raggiunto la Terra da Marte erano assai più numerose di quelle che avevano compiuto il percorso inverso.51
Alla fine, ALH84001 non si rivelò quello che David McKay sperava che fosse.52 Ma per un istante avevamo creduto di avere finalmente tra le mani ciò che cercavamo da tanto tempo: una Stele di Rosetta per la biologia.