ERO al secondo anno di università e stavo seguendo un’affollatissima conferenza scientifica, quando vidi per la prima volta la nuova caleidoscopica mappa di Marte realizzata con i dati raccolti dalla missione Mars Global Surveyor.1 Mentre una professoressa del MIT di nome Maria Zuber si dirigeva verso il palco, me ne stavo seduta con altri studenti nella sala gremita di ascoltatori. In piedi dietro il podio, Maria sembrava incredibilmente minuta. Finché non partì la presentazione e lei cominciò a parlare.
Ricordo che all’inizio dell’intervento, mentre la sua voce riempiva l’ampia sala, ero un poco distratta. Per un attimo rimasi interdetta, poi, quando ne capii il motivo, mi drizzai sulla sedia: era la prima volta che sentivo una donna parlare di planetologia.
Concentrandomi per seguirla, mi resi conto che la Zuber stava dando una straordinaria spiegazione dei contenuti scientifici della missione, migliore di qualsiasi altra avessi mai sentito. Trasudava fiducia ed entusiasmo, e il pubblico era rapito. Tutto d’un tratto, consapevole di essere come lei una delle poche donne in una stanza piena di uomini, non riuscii a fare a meno di provare un senso di orgoglio, come se lei stesse in qualche modo parlando anche per me e per le altre aspiranti scienziate che la stavano ascoltando.
Dopodiché, Maria proiettò l’immagine di una magnifica mappa. Si fermò un istante, lasciando che rimanesse per qualche secondo sullo schermo alle sue spalle, come se conoscesse l’effetto che avrebbe avuto. Concesse a tutti un momento per capire e apprezzare quanto fosse diversa da tutto ciò che era venuto prima. La tradizionale superficie color cannella di Marte era stata invasa da un arcobaleno di colori che tracciavano contorni topografici incredibilmente definiti. La superficie iridescente era solcata da canyon, crepacci e avvallamenti sinuosi. L’emisfero settentrionale era piatto come le pianure abissali dei fondali marini sulla Terra:2 un’affascinante testimonianza dell’esistenza di un antico oceano. Fasce più chiare e più scure si alternavano fino al limite della calotta glaciale, dimostrando che erano esistiti non solo cambiamenti stagionali ma anche modelli climatici a lungo termine.
Nessuno di noi aveva mai visto Marte in quel modo; sembrava quasi di poterlo toccare. Nella sua elaborazione grafica, la Zuber aveva reso la mappa in tre dimensioni, dando alla superficie del pianeta una straordinaria profondità. I meridiani partivano dai poli attraversando come un’intelaiatura di piombo il globo colorato. Nella sala buia, l’effetto era quello di una rilucente vetrata di una cattedrale.
Quella mappa di Marte era qualcosa su cui sia la NASA sia Maria lavoravano da molti anni. Lo strumento che aveva raccolto i dati si chiamava MOLA (Mars Orbiter Laser Altimeter, ma anche, come talvolta qualcuno aveva osservato, il nome latino del pesce luna, un «grosso e bizzarro pesce oceanico»).3 Il MOLA era stato realizzato negli anni Ottanta nell’ambito della missione della NASA Mars Observer. Il veicolo spaziale doveva essere il primo di una serie di «osservatori planetari»,4 orbiter basati su satelliti per comunicazioni commerciali che la NASA poteva acquistare con un contratto fisso. Il piano prevedeva di usare lo Space Shuttle, che già trasportava gli astronauti nell’orbita terrestre bassa, per lanciare l’orbiter.
La missione Mars Observer fu una grande svolta per la Zuber, che si era appena laureata. Fu la sua prima occasione per lavorare a un veicolo spaziale diretto su Marte. Maria era cresciuta nei bacini carboniferi della Carbon County, in Pennsylvania, un luogo dove benessere e opportunità economiche erano andati progressivamente calando di pari passo con il declino dell’attività estrattiva.5 Nessuno della sua famiglia aveva frequentato l’università e i suoi genitori non riuscivano a capire perché qualcuno dovesse continuare a studiare per così tanti anni come aveva fatto lei. Maria era affascinata dallo spazio fin da bambina. Quando, ancora piccolissima, assisteva ai lanci di razzi alla televisione, si metteva a saltare dentro il suo box. Le piaceva perfino quando inquadravano gli operatori delle missioni nella sala di controllo.6
Crescendo, aveva cominciato a guardare Star Trek – il suo personaggio preferito era la tenente Uhura – e a passare più tempo possibile nel vecchio garage di uno dei nonni.7 Questi aveva lasciato la scuola dopo la terza media, era stato sottoccupato per la maggior parte della vita e soffriva di silicosi; ciononostante, a un certo punto aveva usato i suoi magri risparmi per acquistare un telescopio.8 Maria non lo sapeva, perché ormai il nonno lo aveva venduto, ma nel frattempo aveva imparato a costruirne uno da solo, insegnandolo anche alla nipotina. A dieci anni la Zuber sapeva come molare le lenti, che poi utilizzava nel proprio giardino, dove restava spesso per ore a scrutare il cielo notturno, tremando per il freddo.9
Non c’erano molti soldi per l’università nella famiglia di un poliziotto con cinque figli.10 Mentre Maria si avvicinava alla fine del liceo, il consulente scolastico la incoraggiò a chiedere una borsa di studio alla Pennsylvania State University. Dopo averla scelta, il comitato di selezione telefonò al consulente, proponendo invece l’Università della Pennsylvania.11 La Zuber si iscrisse quell’autunno, lavorando al Franklin Institute di Filadelfia per sbarcare il lunario, assistendo i visitatori nell’uso dei telescopi.12 Nel 1986, trasferitasi nel frattempo alla Brown University, fu il primo studente del suo liceo a conseguire un dottorato di ricerca.
Durante la specializzazione, Maria lavorò sui modelli teorici dell’evoluzione planetaria.13 I dati di cui aveva bisogno per testare quei modelli non erano ancora disponibili, perciò decise di raccoglierli lei stessa. Come ricercatrice appena assunta al Goddard Space Flight Center della NASA a Greenbelt, nel Maryland, collaborò alla realizzazione della strumentazione di Mars Observer, in particolare a un altimetro radar per misurare il paesaggio fisico marziano, le sue profondità e le sue altezze. Dopo l’esplosione dello Shuttle Challenger con sette astronauti a bordo, la NASA sospese però temporaneamente la missione. Il lancio di Mars Observer fu rimandato di un paio d’anni e ben presto i fondi destinati alle apparecchiature furono tagliati per contenere gli enormi costi del progetto. La NASA voleva ancora un altimetro, ma non poteva più permettersi quello in costruzione; annunciò dunque che avrebbe indetto un concorso pubblico per una versione più economica.14
La Zuber sapeva che gli Stati Uniti avevano investito miliardi di dollari in tecnologia laser nel progetto Star Wars, il sistema di difesa missilistica voluto da Ronald Reagan. Ottenuta l’autorizzazione ad accedere a informazioni che costituivano segreto di Stato, lei e altri giovani scienziati cominciarono a incontrarsi con gli ingegneri responsabili del progetto.15 Avevano già risolto i problemi di alimentazione e quelli relativi al puntamento, nonché trovato un modo per stabilizzare il segnale. In quegli anni tutti i pianeti erano ancora mappati con il radar, ma Maria aveva capito che un sistema laser – ammesso che si riuscisse ad approntarlo – avrebbe reso obsoleto il vecchio metodo.
L’idea era misurare la distanza fra una sonda spaziale orbitante e la superficie di Marte e usarla per calcolare l’altitudine del terreno marziano. Lo strumento avrebbe lanciato impulsi laser, ciascuno della durata di otto miliardesimi di secondo, quindi avrebbe cronometrato con estrema precisione il tempo impiegato perché questi raggiungessero la superficie. Anche se la potenza effettiva del laser era pari soltanto a un cinquantesimo di quella della lampadina di un frigorifero, lo strumento era in grado di restituire misurazioni topografiche estremamente accurate.16
Quando approvò il progetto, il cui costo si aggirava intorno ai 10 milioni di dollari, la NASA corse un rischio enorme.17 Non era per niente sicuro che quell’idea potesse funzionare. Il sistema di puntamento del telescopio, realizzato in berillio rivestito d’oro, doveva essere preciso fino al nanosecondo, e così pure la tempistica. Lo strumento doveva inoltre avere un proprio orologio a temperatura controllata, che andava raffreddato per evitare ogni alterazione. Anche il minimo errore sarebbe stato difficile da correggere.
C’erano poi altri ostacoli. Inizialmente gli ingegneri impedirono agli scienziati l’accesso alla camera bianca, quindi Maria dovette ottenere una certificazione per essere autorizzata all’uso di strumenti laser e produrre un attestato che accertasse le sue competenze in ingegneria laser. Lavorò alla missione per anni; nel frattempo si sposò ed ebbe due figli, che a volte doveva portare con sé alle riunioni. Anche il giorno del lancio li aveva accanto. Il più piccolo, nato da poco, quando udì il rombo del razzo spalancò gli occhi e si guardò attorno, quindi si riaddormentò tranquillamente.
Quando, circa un mese prima del suo arrivo sul pianeta, Mars Observer iniziò a scattare le prime foto di Marte, la Zuber capì subito quanto quei dati sarebbero stati preziosi.18 La precisione era il punto di forza dello strumento, ed era certa che lei e i suoi colleghi fossero riusciti a costruire uno degli apparecchi scientifici più accurati del mondo.
Alla fine dell’agosto 1993, tre giorni prima che Mars Observer entrasse nell’orbita marziana, Maria stava facendo la spesa.19 Lei e il responsabile dell’équipe addetta al MOLA erano in procinto di partire per il JPL, ma voleva fare scorta di cibo e bevande perché il resto della squadra potesse unirsi ai festeggiamenti a distanza. Mentre rientrava dal supermercato, ricevette una telefonata in cui le dissero che l’orbiter non aveva ripreso le comunicazioni. Dal momento che prima dell’ingresso nell’atmosfera era prevista una loro interruzione, la notizia non la preoccupò eccessivamente. Sembrava soltanto che gli ingegneri avessero qualche problema a ristabilire il collegamento.
Salendo sul volo che l’avrebbe portata in California, la Zuber sperava che, una volta atterrata a Los Angeles, quell’intoppo fosse già stato risolto riavviando i computer.20 Quando arrivò al JPL, però, la situazione non era cambiata. Con il passare delle ore, Maria cominciò a essere inquieta. Nuovi comandi venivano inviati a intervalli di venti minuti;21 tutte le antenne del sistema di comunicazione verso lo spazio profondo disposte a Canberra, Madrid e in California erano impegnate nel tentativo di ristabilire il contatto.22
Maria e i colleghi si aggrappavano alla speranza che i comandi automatici sarebbero comunque rimasti in funzione e avrebbero attivato i razzi per entrare nell’orbita marziana. Se la navicella fosse riuscita a rallentare senza mancare il pianeta, gli ingegneri avrebbero avuto più tempo per pensare a una soluzione. Alle Hawaii, i telescopi a infrarossi delle basi militari e scientifiche furono riprogrammati in tutta fretta per cercare di rilevare a distanza il calore della manovra, ma quando furono pronti le nuvole nel Pacifico oscurarono la vista.23 Il tempo continuava a passare e la disperazione cresceva. Dopo una settimana, le comunicazioni non erano ancora state ristabilite: la navicella spaziale sembrava essere scomparsa come un fantasma.24
Maria tornò nel Maryland. Trovò l’ultimo posto libero sull’ultimo volo del giorno, nell’ultimissima fila dell’aereo. Pensava al fatto che in quei tre giorni avrebbe potuto avere uno straordinario flusso di dati, invece non aveva nulla. Quando l’assistente di volo vide lo sconforto nel suo sguardo le chiese che cosa non andasse. Lei rispose che la sua astronave si era perduta. «Spero che la ritrovi», disse l’assistente di volo al momento dello sbarco, facendole scivolare in mano una bottiglia di vino.25
Il giorno dopo, rientrata in ufficio, la Zuber trascorse l’intero pomeriggio guardando fuori dalla finestra. Si rese conto che non aveva niente da fare: non c’era nessuna scatola nera da recuperare, né dati telemetrici che aiutassero a capire dove la navicella avesse deviato dalla rotta prestabilita. Una squadra convocata presso l’US Naval Research Laboratory per indagare sul problema, pur analizzando minuziosamente il progetto della navicella, non riuscì a replicare nessun guasto.
Il gennaio successivo, quando ormai da molto tempo Maria si era rassegnata al fatto che non si sarebbe più sentito parlare di Mars Observer, si annunciò che la colpa era forse da imputare a un guasto del sistema di propulsione – un pezzo di tubo nascosto sotto lo scudo termico della sonda –, che si era riacceso dopo la lunga crociera.26 Il violento afflusso di carburante aveva probabilmente impresso alla navicella un rovinoso moto di rotazione.
Nei mesi successivi a quella dolorosa sconfitta, la Zuber e uno scienziato della Cornell University, Steve Squyres, decisero di collaborare per cercare di ottenere i fondi necessari per rifinanziare la missione.27 Iniziarono a passare molto tempo al Campidoglio: prendevano appuntamenti ai quali si presentavano vestiti elegantemente, implorando i deputati del Congresso. Sì, il governo aveva già speso molti soldi per la strumentazione, spiegavano, ma una cifra anche maggiore era stata stanziata per pagare il personale e capire come fare cose che ancora nessuno sapeva come fare. Ora, invece, avevano bisogno soltanto di fondi per una nuova strumentazione.
Con una mossa che sarebbe senz’altro piaciuta a William Pickering – il quale, settantacinque anni prima, inviava regolari comunicati su Marte dal proprio osservatorio giamaicano in cima alla montagna –, la Zuber diceva agli scettici di tornare a casa e chiedere ai loro figli che cosa ne pensassero della possibilità di avere rapporti meteo da Marte. Era ciò che quella missione prometteva di dare, spiegava, se solo fosse riuscita a partire.28
A poco a poco, Maria e Steve cominciarono a intravedere un’altra possibilità. La NASA stava sviluppando un nuovo programma per l’esplorazione di Marte, basato su veicoli spaziali più piccoli e meno costosi. Per la finestra di lancio del 1996 fu scelta una nuova missione chiamata Mars Global Surveyor; come Pathfinder, che pure sarebbe stata lanciata nel 1996, anche la sonda Mars Global Surveyor rientrava nella nuova filosofia «più rapido, migliore, più economico».29 Pur essendo più leggera di Mars Observer (era la metà per massa e dimensioni), avrebbe comunque trasportato cinque delle sue apparecchiature, compreso il MOLA. La Zuber sarebbe stata la seconda in comando.30
Poco prima del lancio, un giornalista la chiamò e le chiese come si sentisse a essere l’unica donna tra gli ottantasette membri dell’équipe scientifica della missione.31 La domanda la colse alla sprovvista. Davvero era così? Scorrendo rapidamente i nomi dei colleghi, si accorse che il giornalista aveva ragione. Si rese anche conto che ormai già da molto tempo doveva aver smesso di notare cose del genere: aveva imparato a pensare a questioni ben più importanti, per esempio a come mappare la superficie di Marte con una risoluzione mozzafiato, rivoluzionando la cartografia planetaria.
Quando Mars Global Surveyor decollò, nel novembre 1996, Maria si trovava in Florida. I suoi figli non avrebbero potuto essere più felici, perché per loro significava anche una gita a Disney World. Tutto sembrava andare secondo i piani. Circa un’ora dopo il lancio, però, nel silenzio assoluto e nell’immenso vuoto dello spazio, una minuscola leva si staccò da uno dei pannelli solari della navicella mentre questo tentava di aprirsi.32 Si sganciò lentamente, senza produrre alcun suono. Non era più grande di un moschettone33 ma, per un caso della fisica, seguì una traiettoria che la portò a infilarsi in uno spazio di soli 5 centimetri nella giunzione del pannello solare,34 che con quella leva incastrata nella cerniera non riuscì a dispiegarsi completamente al sole: 20 gradi in meno rispetto all’angolo di apertura previsto.35
Per fortuna, l’energia solare accumulata era comunque sufficiente per raggiungere Marte; le complicazioni sarebbero sorte dopo l’arrivo. La sonda era stata progettata per entrare in orbita impiegando una nuova tecnica, l’aerofrenata,36 che per rallentare avrebbe sfruttato l’attrito della sottile atmosfera marziana contro i pannelli solari senza dover usare carburante prezioso. In questo modo i costi del razzo erano stati assottigliati di cinque volte, riducendo però anche i margini di errore.37 E con un pannello solare fuori uso non era chiaro se l’aerofrenata avrebbe funzionato.
Più volte, durante i trecentonove giorni della traversata spaziale, gli ingegneri cercarono invano di muovere il pannello avanti e indietro per liberare il pezzo di metallo incastrato.38 Quando finalmente la sonda raggiunse Marte, la squadra decise di «entrare» dolcemente nell’atmosfera per vedere che cosa sarebbe successo.
A questo punto la Zuber si trovava già nel Massachusetts. Le era stata proposta una cattedra al MIT, un’offerta che non poteva rifiutare. L’università riponeva un’enorme fiducia in lei. La preside le disse: «Dopo il fallimento di Mars Observer, nessuno avrebbe più dovuto sentir parlare di lei. Invece non è successo, e pensiamo che sia per una buona ragione».39 Maria si era appena installata nel suo nuovo ufficio, quando ricevette una telefonata dalla sala di controllo. La voce che usciva dall’apparecchio sembrava preoccupata: «Il pannello solare potrebbe essersi rotto… Dovremo aspettare la telemetria».40 Quando la Zuber riattaccò, la sua segretaria impallidì e uscì dallo studio, evitando di guardarla negli occhi.41 Maria fece un profondo respiro.
Anche se il pannello non era rotto, si sarebbe comunque potuto danneggiare.42 Aveva iniziato a scattare, bloccandosi prima a 20 gradi, quindi aprendosi ben oltre l’ampiezza prevista, come un ginocchio iperesteso. Preoccupata dalla debolezza della giunzione, la squadra aveva immediatamente riportato la sonda al di sopra dell’atmosfera per capire come procedere. Ben presto i test dimostrarono che le molle che tenevano il pannello aperto non avrebbero resistito a lungo alle forze atmosferiche. Questo lasciava i tecnici alle prese con un grave problema: Mars Global Surveyor avrebbe dovuto rallentare drasticamente, modificando la propria rotta, passando da quella che avrebbe dovuto essere un’ampia ellissi a un cerchio molto più stretto. L’unico sistema per entrare in un’orbita di mappatura sarebbe stato l’aerofrenata, che però comportava il rischio di perdere il pannello solare.
Gli ingegneri, consapevoli che chiudere completamente il sistema di pannelli non era un’opzione praticabile in quanto avrebbe generato troppo calore sulla superficie della sonda, decisero di riorientare il pannello, allineandolo con la resistenza atmosferica e riducendo così di due terzi la forza che questa avrebbe esercitato su di esso. Quando trasmisero il comando, sapevano che ciò avrebbe comportato un costo enorme: avrebbe significato effettuare centinaia di giri intorno al pianeta prima di entrare in un’orbita circolare, sfiorando appena l’atmosfera ogni volta che la sonda si fosse avvicinata alla superficie. La missione principale non sarebbe potuta cominciare finché il processo di aerofrenata non fosse stato completato e Marte non fosse tornato nel corretto allineamento con il Sole.43 Il che significava dover aspettare un altro anno e mezzo.
Maria non aveva sempre voluto fare la mappatrice, ma aveva sempre ammirato le mappe di Marte, comprese quelle realizzate molto prima che lei nascesse. Pur essendo decisamente imprecise per i suoi standard, incapaci di cogliere quei particolari che avrebbero permesso di rendere «vivo» il pianeta, i nomi che i loro compilatori avevano assegnato alle formazioni marziane erano pieni di significato: Isidis, Arcadia, Elysium… Tutti evocavano luoghi mitici ed eterei.
La maggior parte della nomenclatura di Marte risaliva a più di un secolo prima, creata dal medesimo astronomo italiano che nel Diciannovesimo secolo aveva individuato per primo la trama di linee che si intersecavano sulla superficie del pianeta. Giovanni Schiaparelli aveva infatti osservato anche decine di altre caratteristiche che nessuno aveva mai rilevato, formazioni che avevano bisogno di nomi.44 Come la Zuber, aveva scrutato lo spazio fin dall’infanzia. Anche lui era cresciuto in una famiglia numerosa in un tranquillo angolo di mondo: era il primo di otto figli di un operaio in una fornace nel Regno di Sardegna.45 Modellare e cuocere mattoni e tegole dalla terra non era una vita facile, ma da ragazzo aveva avuto comunque molto tempo per meravigliarsi ed esplorare. Quasi tutte le domeniche e durante molte giornate invernali, il giovane Schiaparelli si rintanava in casa con un libro. La sera osservava gli anelli di Saturno da un telescopio posto sul campanile della chiesa.
Pochi giorni dopo il tredicesimo compleanno di Schiaparelli, però, re Carlo Alberto dichiarò guerra all’impero austroungarico, finendo con l’essere ricacciato nuovamente in Piemonte. Quando poi abdicò, il figlio soffocò sul nascere ogni possibile insurrezione, rivolta o ribellione. Mentre il Regno di Sardegna vacillava, Schiaparelli partì per Torino, entrando all’università all’età di quindici anni.46 Considerata l’incertezza in cui versavano la sua nazione e la sua famiglia, si rassegnò a diventare ingegnere: una professione sicura, utile e redditizia. Superò con profitto i difficili esami, che assottigliarono il numero dei suoi compagni da cinquantacinque a quindici, e a diciannove anni si laureò in Architettura civile e Ingegneria idraulica.47
Avendo finito i soldi e non potendo più contare su altre borse di studio, accettò per breve tempo un posto come professore di Matematica in una vicina scuola.48 Viveva risparmiando ferocemente. Come scrisse ai genitori nel 1856, quando ricevette il primo incarico presso il ginnasio Porta Nuova,49 non aveva nemmeno gli asciugamani e aveva bucato le scarpe buone camminando per i prati.50 Chiese alla madre tre o quattro bottoni per sostituire quelli che si erano rotti.
Nella sua misera stanza, trascorreva le serate immerso nei libri, studiando soprattutto le lingue e l’astronomia e prendendo appunti su una serie di diari. Scriveva sia in prosa sia in poesia, in elegante corsivo, alternando italiano, latino, francese, greco ed ebraico, lingue la cui conoscenza approfondiva sempre di più con il passare del tempo.51 Soffriva spesso la fame, e questo lo rallentava negli studi. Era insoddisfatto da quanto poco avesse concluso al termine della giornata, soprattutto perché faceva «cose che non so quanto mi saranno utili».52
Finché, nel 1857, grazie a un ex professore, gli si presentò l’inattesa occasione di studiare astronomia. Preparò immediatamente i bagagli, felice di poter andare a Berlino a lavorare con un esperto di comete. I genitori accolsero la notizia con ansia e timore, ma lui promise che avrebbe mandato loro una lettera per ogni tappa del viaggio: Chambéry, Parigi, Bruxelles, Colonia e Berlino. «Finalmente poi non vado nel Paese dei Barbari», li rassicurò, osservando che Francia e Germania erano «nazioni civili.»53
Una volta arrivato, si immerse immediatamente negli studi, non soltanto di astronomia ma anche di filosofia, geografia, meteorologia, fisica e magnetismo terrestre.54 Divorò il canone delle opere drammatiche di Friedrich Schiller,55 si dilettò di indologia e cominciò a imparare l’arabo e il sanscrito.56 Due anni dopo si recò a Potsdam, quindi salpò per San Pietroburgo per ulteriori ricerche presso l’Osservatorio di Pulkovo, dove lavorò sotto la guida di due astronomi, padre e figlio. Gli arrivò poi voce di un’offerta di lavoro: entrò così come «secondo astronomo» al Reale Osservatorio di Brera a Milano, dove individuò immediatamente un nuovo asteroide – che chiamò Hesperia, speranza – e scoprì che le stelle cadenti erano in realtà le code delle comete.57
Qualche anno dopo, Schiaparelli rivolse la propria attenzione verso Marte. Nell’estate 1877, da un osservatorio situato sul tetto di Palazzo Brera, iniziò a prendere appunti sulle singolari formazioni che vedeva. Innanzitutto divise il globo del pianeta con un gigantesco «diaframma», una linea di demarcazione tra nord e sud che separava le zone più scure da quelle più chiare.58 Suddivise le aree chiare in una serie di isole, alle quali assegnò nomi come Zephyria (sede del vento di ponente), Argyre59 ed Elysium (la dimora ultraterrena degli eroi). A ovest, entro le Colonne d’Ercole,60 mappò i mari oscuri: Mare Thyrrenum (il mare degli etruschi), Mare Cimmerium (il mare dei traci) e Mare Sireneum (il mare delle sirene). Più a nord si trovava l’Arcadia Planitia e a est il Solis Lacus.
Per la nomenclatura Schiaparelli attingeva da Erodoto, dall’Odissea e dagli eroi della mitologia greca. Alcuni nomi si ispiravano a racconti mitici, come quello del titano Elios che guidava il carro solare nel cielo. Schiaparelli ne tracciò il percorso attraverso Marte, assegnando al paesaggio, da oriente verso occidente, nomi come Chryse Planitia,61 Argyre Planitia (Thailandia e Birmania) e Margaritifer Sinus (India). Recuperò vari nomi anche dalla tradizione religiosa, prendendoli in prestito dalla Bibbia: accanto all’Arabia Terra c’era l’Eden Patera, grande e luminosa. A questi si aggiunsero alcuni epiteti più cupi, dovuti forse alla «nera malinconia»62 in cui a volte cadeva o a un senso di disagio nei confronti del mondo.
C’erano terre ricoperte di nebbie e laghi nerastri; c’era Memnonia, una macchia color piombo che a volte si schiariva, ma solo d’inverno. Vi erano poi formazioni che portavano il nome di luoghi della Terra mai trovati dagli esploratori moderni, come Pison e Gehon, i due fiumi perduti della Mesopotamia. E tutta la mappa era capovolta:63 il suo telescopio capovolgeva l’immagine, e Schiaparelli aveva trovato più semplice disegnare Marte e pensarlo allo stesso modo.
Per sua stessa ammissione, era una disposizione «singolare ed inaspettata».64 Ciononostante, nel complesso evocava una storia culturale umana, un luogo intessuto con la nostra stessa esistenza che sembrava promettere che le nostre più grandi ambizioni sarebbero risorte. Schiaparelli assegnò alle formazioni marziane nomi magnifici, che sarebbero rimasti lungo le generazioni.65
Quando la Zuber arrivò al MIT, anche lei stava diventando una mappatrice, un passo dopo l’altro, con determinazione. Inizialmente aveva pensato a una carriera come astronauta, arrivando a presentare domanda di ammissione per poi ritirarla quasi subito.66 Voleva avere dei figli e, soprattutto dopo l’incidente del Challenger, non sopportava il pensiero di lasciarli senza una madre. Ma ben presto scoprì che esistevano molti altri modi di esplorare e che le sonde erano in grado di portarla più lontano di quanto potesse mai fare una stazione spaziale nell’orbita terrestre bassa. Le sonde spaziali aprivano possibilità ben oltre la portata umana, gettando luce su mondi remoti.
Al contempo, Maria sapeva che si trattava di un settore che comportava non solo molte soddisfazioni ma anche altrettanti rischi: nessuno parte per la frontiera sicuro di quello che vi troverà e l’esplorazione spaziale nasce e muore all’avanguardia dell’evoluzione tecnologica. Lei stessa aveva sperimentato un fallimento con Mars Observer. Eppure, raccogliere dati direttamente su Marte, non importa quali, era un’opportunità rara. Pertanto, anche se il ritardo nell’aerofrenata era stata una scoraggiante battuta d’arresto per tutti, Maria era determinata a sfruttare la situazione al meglio.
Per fortuna, nonostante l’orbita fosse tutt’altro che ideale, per alcuni mesi fu possibile ottenere alcuni rilievi cartografici. Al di fuori delle fasi di aerofrenata, quando la navicella spaziale non attraversava l’atmosfera era infatti possibile attivare la strumentazione in sicurezza.67 In quei momenti il periapside della navicella, vale a dire il punto dell’orbita più vicino al pianeta, era posizionato sopra il polo nord.
La Zuber era entusiasta di avere la possibilità di testare il proprio strumento, e ben presto il MOLA cominciò a dare ottimi risultati. Utilizzando i dati preliminari, Maria fu in grado di elaborare uno splendido modello tridimensionale del polo nord di Marte. Si affrettò a pubblicare i dati su Science, giusto in tempo per Natale. Fu un meraviglioso assaggio di quello che sarebbe venuto.
Ciononostante, mentre aspettava di poter dare un secondo morso alla mela, la scienziata non poteva fare a meno di pensare alle incognite che ancora mettevano a rischio la missione. Anche se, quando uscì nel dicembre 1998, il suo articolo fu il più citato fra le notizie su Marte, nel frattempo la NASA aveva lanciato una nuova missione sul pianeta rosso per studiarne il clima.68 Come Pathfinder e Mars Global Surveyor, anche Mars Climate Orbiter era un progetto a basso costo, il terzo programmato secondo la filosofia «più rapido, migliore, più economico».69 La traiettoria della nuova sonda aveva richiesto alcune minime correzioni lungo tutta la rotta, molte più del solito, ma questo non aveva destato grandi preoccupazioni. Solo quando la navicella raggiunse Marte, nella sala di controllo fu chiaro che qualcosa non andava. Al primo passaggio dietro il pianeta, il segnale si interruppe; lo fece quarantanove secondi prima del previsto, per non tornare più. Nel giro di mezz’ora si capì che la sonda aveva impattato la parte superiore dell’atmosfera, disintegrandosi: il calcolo della traiettoria era errato a causa di una confusione fra le unità di misura espresse secondo il sistema imperiale britannico e quello metrico.70
Entro un paio di mesi fallì anche un’altra missione «più rapida, migliore, più economica». Era quella cui anch’io avevo dato un piccolo contributo, con gli esperimenti condotti nella galleria del vento per valutare il carico di polvere sui pannelli solari. Il Mars Polar Lander riuscì quasi ad atterrare a Ultimi Scopuli, nel polo sud marziano, tra canyon scavati da venti catabatici e dune scure disseminate sul terreno come fiori.71 Ma il computer di bordo interpretò erroneamente un dato proveniente dai piedi del lander: credendo che il veicolo avesse già toccato il suolo, trasmise un segnale per spegnere i motori di discesa. La navicella precipitò così per una quarantina di metri, colpendo la superficie a velocità elevata.72
Quando Maria decise che avrebbe lavorato alla mappatura di Marte, sapeva che quella era la frontiera della scienza planetaria. Metà delle missioni sul pianeta rosso non aveva avuto successo. Alcune, come Mars Observer, erano passate silenziosamente accanto al pianeta; altre erano andate a schiantarsi sulla sua superficie, disseminando qua e là i loro rottami. Ancora oggi, sparsi sulle sabbie di Samara vi sono frammenti di metallo e grovigli di fili.73 A ovest degli Alpheus Colles c’è un gagliardetto sovietico;74 i pannelli solari senza vita di una missione britannica di astrobiologia,75 uno dei quali ancora ripiegato come una sedia a sdraio,76 accumulano polvere nell’Isidis Planitia; e da qualche parte a Ultimi Scopuli c’è un CD-ROM americano, probabilmente in frantumi, che conteneva i nomi di un milione di alunni delle scuole.77
Dopo Mars Observer, la Zuber aveva il morale a terra: era stato un fallimento epocale, da prima pagina del New York Times. Non era una bella sensazione, ma alla fine riuscì a trarre coraggio ed energia dall’esperienza. Ogni volta che qualcosa andava storto, pensava: Quanto può essere grave? Peggio che perdere una navicella spaziale tre giorni prima di raggiungere Marte? Probabilmente no.78
Anche il successo di Mars Global Surveyor era a rischio, a causa del pannello semiaperto che il veicolo trascinava con sé nella notte marziana. Però, con grande sollievo di Maria, la missione non diventò l’ennesima disavventura utile soltanto a fortificare il suo carattere, rivelandosi anzi una delle più riuscite nella storia della NASA. Solo nei primi due anni di mappatura, furono raccolti più dati di qualsiasi altra precedente spedizione su Marte, soprattutto grazie al MOLA.79 Ogni giorno, novecentomila impulsi laser erano inviati sul pianeta, ottenendo misurazioni topografiche più accurate di quelle esistenti per vaste regioni terrestri.80 Le informazioni raccolte erano le più varie e riguardavano fenomeni che interessavano la superficie marziana, dal vulcanismo e dalla craterizzazione e deformazione della superficie all’azione erosiva e alluvionale dell’acqua e del ghiaccio.
La Zuber e la sua squadra utilizzarono i dati per compilare una mappa a colori. Su bassopiani di un profondo azzurro ceruleo si ergeva la crosta in un tripudio di rossi e viola, come se nelle aree pianeggianti del pianeta la lava stesse ancora ribollendo. C’erano dedali di valli, crepacci irregolari e montagne che si ergevano su altopiani. La frattura delle policrome Valles Marineris si inabissava a una profondità cinque volte superiore a quella della Rift Valley africana, prima di cedere il passo ai bastioni merlati del Noctis Labyrinthus.
Eppure, in nessun punto delle vaste pianure o degli altopiani disseminati di crateri si riscontravano evidenti faglie sismiche o catene montuose, come invece avrebbe dovuto essere se il pianeta avesse avuto una tettonica a placche.81 L’emisfero meridionale era stato colpito da un gigantesco asteroide in un qualche remoto momento della sua storia, come dimostrava un’enorme depressione sul terreno. L’Hellas Planitia era già stata osservata in precedenza, ma fino a quel momento nessuno si era reso conto che fosse abbastanza profonda da contenere il Kilimangiaro. Sulla mappa era di un penetrante blu con sfumature violacee e ricordava l’occhio di un ciclope. Nella pianura si innalzava un bastione di roccia alto un chilometro e mezzo, quindi l’asteroide doveva aver sollevato una quantità di detriti sufficiente per ricoprire tutti gli Stati Uniti continentali sotto una coltre di roccia spessa 3 chilometri.82 Forse era stata la violenza di quell’impatto a interrompere definitivamente il flusso di calore fra il nucleo e il mantello, spegnendo per sempre il campo magnetico marziano e determinando la perdita dell’atmosfera.83
La precisione della mappa consentiva a Maria di leggere la storia del pianeta come una specie di alfabeto braille. A conferma dei dati iniziali, l’emisfero settentrionale si rivelò la superficie più liscia mai osservata nel sistema solare.84 La maggior parte del terreno sembrava inclinarsi leggermente verso nord, lasciando pensare che un immenso sistema di drenaggio avesse convogliato tutte le acque del pianeta in un grande oceano settentrionale.85 Sulla superficie compariva persino una possibile linea costiera, Deuteronilus,86 che correva per migliaia di chilometri lungo la stessa latitudine, con leggere variazioni che potevano dipendere da sollevamenti del terreno dovuti all’evaporazione della pesante massa d’acqua un tempo esistente.87 A ogni nuovo dettaglio tracciato dalla Zuber, un altro aspetto della storia del pianeta rosso prendeva vita.
Mars Global Surveyor cambiò il nostro modo di guardare un pianeta. Se la vecchia mappa di Marte era una semplice immagine, quella nuova era un ritratto. Andava al di là di ciò che i nostri occhi potevano cogliere, catturando particolari sulle formazioni, sulla loro composizione e sugli agenti fisici e atmosferici che non riuscivamo a vedere: non soltanto a livello topografico, ma anche magnetico e mineralogico, con misurazioni condotte su lunghezze d’onda a noi invisibili.88 C’erano minuscoli dettagli da osservare e per riuscirci dovevamo prima localizzarli, poi sapere come guardare.
Per anni Mars Global Surveyor monitorò i cambiamenti su Marte: la crescita delle calotte polari, l’ablazione delle rocce, la scomparsa della polvere. E, per la gioia di Maria, la NASA trasmetteva settimanalmente al pubblico le previsioni del tempo sul pianeta attraverso il proprio sito web: una finestra sulle mutevoli condizioni di un luogo incredibilmente lontano, proprio come i rapporti di Pickering dalle montagne centrali della Giamaica.88 Un giorno, mentre era in Massachusetts, la Zuber sentì due conduttori radiofonici parlare delle temperature di Marte e dei suoi cieli polverosi:90 si meravigliavano di come si potessero avere tutte quelle informazioni e si domandavano chi fossero gli scienziati che le avevano rese possibili.
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Entro la fine della missione, Mars Global Surveyor scattò anche la prima fotografia della Terra da un altro pianeta.91 Per la maggior parte delle persone si trattò di un fatto accessorio e poco rilevante, che generò scarso entusiasmo. Non era Yuri Gagarin che, sbirciando dall’oblò della sua navicella, vedeva per la prima volta il nostro pianeta dallo spazio,92 né la sonda Voyager che puntava il proprio obiettivo dai confini del sistema solare per ritrarre la Terra grande poco più di un pixel, «un granello di polvere sospeso in un raggio di sole», come disse Sagan.93 Ricordo però di avere osservato attentamente quella foto sul mio computer, ingrandita fino a riempire tutto lo schermo. La Terra sembrava incredibilmente distante, ma era ancora riconoscibile. Era una mezzaluna oscurata per oltre metà. Accanto a lei c’era la Luna, a sua volta parzialmente in ombra.
Mentre la analizzavo pixel per pixel, cercando di capire a cosa corrispondessero i quadratini di colore blu, verde e bianco, pensai a dove mi trovavo in quella foto, in cui molti particolari erano stati catturati e altrettanti erano invece rimasti nell’oscurità. Il giorno in cui era stata scattata anch’io ero lì, da qualche parte, a vivere la mia vita; mi chiesi se stessi cucinando una zuppa di fagioli, dormendo nel mio letto sgualcito o guardando fuori dalle imponenti vetrate della biblioteca battute dalla pioggia. Forse ero seduta sotto una magnolia o stavo camminando di fretta in una via affollata della città, immortalata tra un passo e l’altro, in un fermo immagine infinitesimale. Forse ero da qualche parte persa nei miei pensieri, a domandarmi se avessi quello che serviva per diventare una scienziata e chi mi avrebbe indicato la strada.
Anche Maria Zuber era lì, in un altro pixel. Senza dubbio stava facendo qualcosa di straordinario, inconsapevole dell’attrazione gravitazionale che esercitava sulla vita di molte giovani donne come me. Sotto quella fotografia della Terra a mezzaluna che stavo osservando sullo schermo del computer compariva un messaggio che si chiudeva con una citazione de Il Signore degli Anelli di Tolkien, a me ben nota: «Né gli erranti sono perduti».94
Quello era il motivo per cui avevo ingrandito quell’immagine, la ragione per cui me ne stavo seduta lì a fantasticare su dove sarei stata la volta successiva che un otturatore fosse scattato in direzione di Marte. Il messaggio sotto la foto era di Maria, che mi aveva scritto per dirmi che di lì a qualche mese mi sarei potuta trasferire a Boston per iniziare il dottorato. Aveva accettato di seguirmi come tutor.