Introduzione

In un saggio datato 1953, Isaiah Berlin tratteggia due attitudini fondamentali dell’intelligenza umana: l’attitudine della volpe e quella del riccio1. La volpe è un animale dell’orizzontalità. Indaga, scruta, perlustra, si muove veloce e sollecita. Ci ricorda la curiosità: anch’essa, come la volpe, è in cerca di territori sempre nuovi. Antitetico alla volpe è invece il riccio: che trascorre lungo tempo immobile o nei pressi della tana, attestandosi in un unico punto come a difesa di sé stesso. Il riccio è un animale della verticalità: e questo suo tratto comportamentale, ci dice Berlin, lo candida a divenire emblema della più meticolosa esigenza di approfondimento.

In apparenza questo mio ultimo libro presenta le attitudini del riccio. Scelgo infatti di concentrarmi su un periodo specifico e su una geografia culturale ben determinata: l’Italia tra fascismo e Repubblica. I saggi che qui presento costituiscono come le prime giornate di un affresco più ampio a venire. Spiego in concreto. Una trattazione specificamente storico-artistica della «liturgia politica» nell’arte italiana del Ventennio oggi manca o è disponibile solo per frammenti, fatta eccezione per l’esplorativo e brillante Fascismo e politica dell’immagine di Laura Malvano, datato 19882: mentre possiamo contare su eccellenti versioni archeologiche, architettoniche, espositive o massmediatiche dello stesso tema, volte a illuminare l’«uso pubblico delle immagini» e la «sacralizzazione del potere» di un moderno regime totalitario o semitotalitario. È appunto il tema della «liturgia politica» che mi preme iniziare a sviluppare da adesso. Ecco che nel trattare di volta in volta di un critico, di un ministro o di uno storico – e cioè rispettivamente: di Edoardo Persico, Giuseppe Bottai e Renzo De Felice – mi propongo di complicare la trama dei rapporti tra arte e fascismo (così come tra arte e antifascismo) mentre, in linea con alcuni miei studi precedenti3, suggerisco possibili continuità storico-artistiche e storico-culturali tra prima e seconda metà del Novecento; tra fascismo e Repubblica.

Provo anche a gettare questo o quel ponte tra lo studio dei documenti figurativi e la Grande Storia, che coinvolge tutti e ciascuno; e ad articolare la molteplicità dell’«idea di nazione» (o meglio delle «idee di nazione») circolanti nel nostro paese nel periodo entre-deux-guerres e nei primi decenni della Repubblica4. Si è scritto talvolta che, nella storia dell’arte, la «teoria» precede la «pratica»5. Questo sembra essere particolarmente vero per l’Italia del Ventennio: la discussione sull’arte e gli artisti si intreccia qui su più piani e a livelli molteplici con la riflessione di giuristi, scienziati della politica, economisti, filosofi e teologi; e impone agli storici la necessità di ricognizioni più estese.

Per chi studia l’arte italiana del Novecento e desidera verificare se e quali continuità possano esservi state tra prima e seconda metà del secolo, la figura di Persico, ad oggi scarsamente decifrata, è un passaggio obbligato. È vero: talvolta risuona il luogo comune secondo cui le tracce dell’attività di Persico, in ambito figurativo, sarebbero state «brevi» e «lievi»6. Ma è appunto questo luogo comune che intendo sfidare nel primo capitolo di Arte e politica in Italia. Tra fascismo e Repubblica, segnalando istanze, prospettive o «ideologie» che Persico sviluppa già nel decennio di formazione e che sono poi destinate a orientare in modo molteplice, sul «lungo periodo», l’attività di questo o quell’artista a lui legato da vincoli intellettuali e affettivi (da Fontana a Birolli, per esemplificare; senza dimenticare Rosai). Mi riferisco al tema dell’«arte sacra», che Persico invita, sulle tracce di Maritain, suo filosofo-teologo guida, a rinnovare in profondità, disertando iconografie, tecniche e generi tradizionali; e all’incoraggiamento del dialogo tra arte e architettura, che Persico stesso, a partire dal 1934, persegue su piani anche pratici contribuendo in misura decisiva alla progettazione di «ambienti». Mi riferisco soprattutto a una circostanza almeno in parte meta- o extra-stilistica, tuttavia dirimente, che regola in Persico i rapporti fra arte italiana e arte europea, fra «tradizione» e modernità. In sintesi: alla luce di principî e convinzioni radicate, a cavallo tra anni venti e trenta Persico matura un modello di modernità (o meglio di modernismo) italiano altamente differenziato e specifico, attraverso cui si prefigge di tenere assieme aperture cosmopolite e memoria della madrelingua tre-quattrocentesca; «europeismo» e «nazione». Tale modello, implicitamente non collaborazionista e anticoncordatario sotto profili politici, appare già abbozzato nei primi testi «torinesi» dedicati alle arti figurative e trova esplicita formulazione nel 1930, con l’appello alla «rivolta cattolica». Ha un duplice senso polemico: è rivolto sia contro Strapaese che contro Stracittà o le frange più ufficiali del Novecento.

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La storia dell’arte, ci viene detto, si occupa di opere d’arte, di artisti, al più di collezionisti, mostre e musei. Ma che succede se opera d’arte è (o si vaticina che sia) lo Stato stesso? Le usuali competenze dello storico dell’arte sembrano improvvisamente superate. Molti studi sono stati dedicati al corporativismo fascista. Si tratta per lo più di studi tecnici, storico-giuridici o politico-economici. Tuttavia sappiamo, per ammissione degli stessi corporativisti, che la teoria ha qui origini immaginative o «liriche»; e che l’intera concezione dello Stato corporativo, o meglio i suoi presupposti pre-tecnici non sono pienamente comprensibili senza riferimento all’arte e alla letteratura nazionali intese come nutrimenti mitici. L’una e l’altra, nell’ambito dell’«interventismo» prebellico, degli anni di guerra e dell’immediato dopoguerra, incoraggiano convinzioni (per così dire antropologico-politiche) relative all’Italia, agli italiani e soprattutto al «lavoro» degli italiani.

Sottosegretario prima, ministro delle Corporazioni poi, Giuseppe Bottai ha costruito la sua carriera politica sul corporativismo. Nel secondo capitolo cerco di ricostruire in dettaglio le origini del progetto corporativista bottaiano alla ricerca di quelle connessioni con gli interessi storico-artistici del futuro gerarca (che negli anni immediatamente precedenti la prima guerra mondiale è allievo di Roberto Longhi al Liceo Tasso di Roma); con l’arditismo bellico e «civile»; con il corporativismo fiumano di D’Annunzio e De Ambris; e infine con il futurismo politico del triennio 1918-1920, caratterizzato dall’ambizioso proposito di fare dello Stato «rivoluzionario» a venire una nuova e grandiosa opera d’arte e di portare gli artisti al governo della nazione.

Diviene presto evidente, a Bottai e non solo, che le profonde trasformazioni sociali che avrebbero dovuto accompagnarsi al dispiegamento burocratico-legislativo del corporativismo fascista sono di fatto «incompatibili con il complesso degli interessi politici del regime»7. Sia Mussolini che gli industriali o i grandi proprietari terrieri vi si oppongono. Proprio il fallimento del progetto corporativo spinge allora Bottai a rilanciare per via indiretta, culturale e non più economico-giuridica, il proposito di «rivoluzione italiana»; e a investire pittori e scultori di compiti che sono propri di un’élite rivoluzionaria8. Questo innalzamento per così dire leaderistico degli artisti di più giovane generazione non è certo ingenuo, da parte di Bottai. Corrisponde a convinzioni radicate e insieme a precise esigenze di reclutamento, ed è destinato a produrre conseguenze che vanno al di là degli anni trenta. Si appoggia a presupposti fideistici indiscussi; in base ai quali è sempre semplice e lecito distinguere «tra la fede degli artisti e la speculazione extraartistica degli spettatori»9; e tende a interpretare l’attività artistica inevitabilmente come prefigurazione della nuova civiltà del lavoro (corporativa, etica, collettiva)10.

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Si è talvolta osservato che gli studi di De Felice toccano in molti punti la storia dell’arte. Per ampiezza e dettaglio essi costituiscono in effetti una risorsa che sembrerebbe ineludibile. Tuttavia, malgrado questo loro spiccato tratto transdisciplinare, non si può dire che siano diventati lettura corrente per gli storici figurativi. Non lo sono diventati per motivi molteplici, di volta in volta tecnico-specialistici o politico-ideologici. La tesi che cerco di formulare è che la riflessione di De Felice sui temi del «consenso» e della «nazione» contiene spunti, indicazioni e prospettive di notevole interesse non solo per gli storici politici e sociali, ma anche per gli storici dell’arte italiana del primo e (forse ancor più) del secondo Novecento, campo di studi, quest’ultimo, che appare modellato in profondità, in ambito nazionale e internazionale, da rigidità e distorsioni ideologiche. Essa induce infatti, per tenersi adesso ad aspetti generali e di metodo, a interrogarsi sulla fondatezza o fecondità di taluni presupposti ideologici, diffusi tanto nel discorso storico-critico di estrazione accademica che nel discorso giornalistico e curatoriale; e a dare libero corso all’indagine sulle continuità esistenti tra le due metà del Novecento anche qualora questo si traduca in una ricostruzione meno conciliata e pacifica del progressivo inserimento dell’arte italiana postbellica nel contesto atlantico.

Desidero esprimere la mia gratitudine a Carmine Donzelli per la cordialità e generosità con cui ha accolto la proposta di questo mio nuovo libro; a Elena Munafò, Francesca Pieri e Simona Santarelli per la cura con cui, come di consueto, hanno seguito l’intero processo editoriale. Un grazie di cuore va agli studiosi, amici e colleghi che più hanno contribuito al sorgere di talune domande e al tentativo di formulare prime risposte: Carlo Altini, Gianni Belardelli, Fabio Benzi, Tommaso Casini, Lara Conte, Flavio Cuniberto, Alessandro Del Puppo, Patrizia Dragoni, Flavio Fergonzi, Irving Lavin, Tomaso Montanari, Giulio Paolini, Emanuele Pellegrini, Massimiliano Rossi, Salvatore Settis. Ringrazio Giovanni Paciullo, Giuliana Grego Bolli e Giovanna Zaganelli per l’affetto e la stima che mi hanno dimostrato dal mio primo giorno all’Università per Stranieri di Perugia. Michela Morelli si è resa più volte preziosa con le sue ricerche e la sua disponibilità ad assistermi nella routine universitaria, e così Gemma Zaganelli: ringrazio qui entrambe. Riservo ringraziamenti di genere del tutto particolare, per ragioni che è facile intuire, a mia moglie Livia e alla mia primogenita Pandora: senza il loro sostegno questo libro non avrebbe visto la luce. La dedica infine è per l’esuberante Melusina: mia piccolissima ultracanora secondogenita.

 

1 I. Berlin, The Hedgehog and the Fox, Weidenfeld & Nicolson, London 1953; trad. it. Il riccio e la volpe, in Id., Il riccio e la volpe e altri saggi, Adelphi, Milano 1986.

2 L. Malvano, Fascismo e politica dell’immagine, Bollati Boringhieri, Torino 1988.

3 M. Dantini, Arte italiana postbellica. Conversazioni atlantiche, in Id., Arte e sfera pubblica. Il ruolo critico delle discipline umanistiche, Donzelli, Roma 2016, pp. 213-25.

4 Il riferimento è al titolo di un celebre saggio di F. Chabod, L’idea di nazione, Laterza, Roma-Bari 2015 (1961).

5 E. Gombrich, Norma e forma, Einaudi, Torino 1973 (1966), p. XIX.

6 P. Fossati, Pittura e scultura tra le due guerre, in Storia dell’arte italiana, VII, Il Novecento, Einaudi, Torino 1982, p. 227; e A. d’Orsi, Intellettuali nel Novecento italiano, Einaudi, Torino 2001, p. 253.

7 A. J. De Grand, Bottai e la cultura fascista, Laterza, Roma-Bari 1978, p. 128.

8 Ibid., pp. 255-7.

9 G. Bottai, Fronte dell’arte, Vallecchi, Firenze 1943, p. 19.

10 Id., Vent’anni e un giorno, Garzanti, Milano 1949, p. 48.