A volte, dalla piazza si poteva godere qualche scorcio di un bel tramonto, fra i comignoli e i tetti. Dalla finestra della cucina, invece, non si vedeva niente e si poteva solo indovinare il calar del sole, perché i mattoni assumevano una tonalità calda e l’aria una sfumatura rosa o gialla, oppure si coglieva il bagliore di un raggio di luce dorata sui vetri di una finestra. Ma c’era un luogo da cui si poteva ammirare quello spettacolo in tutto il suo splendore: verso ovest, cumuli di nuvole infiammate di rosso o luccicanti d’oro, nubi viola circonfuse di uno sfavillio accecante, o soffici nuvolette rosa, fluttuanti come voli di colombe, che si inseguivano veloci nel cielo al minimo soffio di vento. Come avrete indovinato, il luogo da cui si poteva contemplare questo incanto, e dove si aveva l’illusione di respirare un’aria piú pura, era la soffitta.

Quando d’un tratto la piazza cominciava a rosseggiare e a sembrare bella nonostante lo squallore degli alberi fuligginosi e delle tetre cancellate, Sara sapeva che lassú in cielo stava accadendo qualcosa di meraviglioso. Cosí, ogni volta che poteva lasciare la cucina senza il rischio di essere rimproverata o punita, sgattaiolava via, correva nella sua stanza e, salita sul tavolo, si sporgeva dalla finestra e si guardava intorno respirando a fondo, con la sensazione che il cielo e la terra le appartenessero. Di solito gli altri abbaini erano chiusi e, anche se erano aperti per far entrare l’aria, nessuno si affacciava.

Sara stava lí, con il volto proteso verso l’azzurro, che le pareva cosí vicino e amichevole, come un delizioso soffitto di cielo, poi osservava rapita le meraviglie del tramonto, con le nuvole che si sfaldavano o si fondevano o rimanevano lí immobili, in attesa di essere tinte di rosa, di rosso, di viola, di grigio perla. A volte si raggruppavano, formando isole, enormi montagne, laghi turchesi, color ambra o verdastri, scuri promontori persi in fantastici oceani senza fine ed esili istmi che univano terre sconosciute. Luoghi immaginari dove le sembrava di poter correre e arrampicarsi, per poi fermarsi a guardare quel che succedeva, finché le nuvole si sarebbero fuse, portandola via con sé.

Sara non aveva mai visto scenari piú belli di quelli che le offriva l’abbaino: perfino i passerotti sembravano incantati da quei momenti magici, e nel loro cinguettio risuonava una nota di quieta dolcezza.

Pochi giorni dopo l’arrivo del signore indiano ci fu proprio uno di questi incantevoli tramonti. Sara aveva finito il lavoro in cucina e, siccome nessuno le aveva ordinato di uscire per qualche commissione o di svolgere altri compiti, poté salire piú facilmente del solito nella sua stanza.

Saltò sul tavolo e si affacciò alla finestra. Era il momento ideale: a ponente, un mare di onde dorate si distendeva sul mondo. In quell’aria luminosa e splendente, gli uccelli che volavano sui tetti sembravano neri.

– Che meraviglia! – mormorò Sara. – È cosí bello da far quasi paura, come se stesse per accadere qualcosa di straordinario.

All’improvviso udí un suono strano, come un acuto chiacchiericcio, che proveniva dall’abbaino accanto al suo, allora si voltò e si accorse di non essere sola ad ammirare il tramonto. Vide una testa e parte di un corpo, che non appartenevano a una bambina: era un indiano vestito di bianco, dalla carnagione scura e gli occhi brillanti sotto il candido turbante.

«Un lascaro», si disse Sara.

Quelle che aveva sentito erano le strida di una scimmietta rannicchiata fra le braccia di quell’uomo, che la stringeva con grande affetto.

Gli occhi di Sara e dell’indiano si incrociarono. Subito la bambina notò che lo straniero aveva un’espressione addolorata e malinconica. Di certo era salito lassú per vedere il sole, che splendeva cosí raramente in Inghilterra. Sara lo fissò per qualche secondo, poi gli sorrise: sapeva per esperienza quale conforto può dare un sorriso, anche da parte di una persona sconosciuta.

Infatti, lui parve apprezzarlo: il suo viso triste s’illuminò di un sorriso che gli scoprí i denti bianchissimi. Lo sguardo dolce e comprensivo di Sara riusciva sempre a rinfrancare chi era stanco e afflitto.

Mentre l’uomo salutava con un inchino, la scimmia gli sfuggí dalle braccia. Era una creatura birichina, sempre pronta a lanciarsi in nuove avventure, e probabilmente la vista della bambina l’aveva incuriosita. Di colpo si liberò, saltò sul tetto, lo attraversò gridando, saltò sulla spalla di Sara e con un balzo s’infilò dentro la stanza.

Sara rise divertita, ma sapeva di dover restituire la scimmietta al suo padrone, sempre che il lascaro fosse il suo padrone. Ma come fare? L’animaletto si sarebbe fatto riprendere docilmente o avrebbe cercato di scappare, saltando sui tetti e perdendosi per Londra? Sarebbe stato terribile! Forse la scimmia apparteneva al signore malato, che magari le voleva molto bene. Si voltò verso il lascaro, contenta di ricordare ancora qualche parola d’indostano insegnatale dal padre: almeno sarebbe riuscita a farsi capire.

– Si lascerà acchiappare da me? – domandò.

Al suono di quelle parole, sul volto scuro del lascaro si dipinsero uno stupore e un sollievo quali Sara non aveva mai visto: per un attimo, l’uomo credette che i suoi dèi fossero intervenuti in suo aiuto e che quella vocina gentile venisse direttamente dal cielo.

Immediatamente Sara capí che era abituato ad avere a che fare con bambini europei, perché si profuse in mille ringraziamenti, dichiarandosi umile servitore di «Missee Sahib». Poi spiegò che la scimmietta era buona e non mordeva ma era molto disobbediente, perciò di certo sarebbe saltata qua e là con la velocità di un lampo e sarebbe stato molto difficile agguantarla. Ram Dass la conosceva bene, come se fosse sua figlia, e a volte lei gli obbediva, ma non sempre. Se a Missee Sahib non dispiaceva, lui stesso sarebbe entrato nella soffitta per riprendere la bricconcella, ma forse la signorina non gradiva quell’intrusione e preferiva che lui non si avvicinasse.

Sara gli diede subito il permesso.

– Riuscirà ad attraversare il tetto? – chiese.

– In un baleno, – rispose lui.

– Allora, venga! – lo invitò. – La scimmietta sta correndo per la camera e sembra spaventata.

Ram Dass passò dal suo abbaino a quello di Sara con incredibile naturalezza, come se per tutta la vita non avesse fatto altro che camminare sui tetti; s’infilò nella finestra, saltò giú silenziosamente, quindi si girò verso la bambina e le fece un inchino. Appena lo vide, la scimmia lanciò un grido. Ram Dass chiuse rapidamente la finestra e cominciò a inseguirla. Evidentemente, la bestiolina si divertiva a scappare, ma dopo qualche minuto gli saltò sulla spalla borbottando e gli si aggrappò al collo con un buffo braccino magro e peloso.

Ram Dass ringraziò calorosamente Sara. Lei capí che con una sola occhiata il lascaro si era reso conto dello squallore della stanza, ma fece finta di nulla e le parlò come se fosse la figlia di un ragià. Catturata la scimmia, si soffermò ancora un momento per esprimerle la sua profonda gratitudine e il suo rispetto. Accarezzando la scimmietta, disse che quella monella non era poi cosí cattiva come poteva sembrare, che al suo padrone, ammalato, piaceva molto la sua compagnia e di certo sarebbe stato triste se l’avesse smarrita. Poi s’inchinò un’ultima volta, uscí dall’abbaino e attraversò il tetto con la stessa agilità della scimmia.

Sara rimase sola nella soffitta, sommersa dai ricordi suscitati dall’aspetto e dalle maniere dell’indiano. Le pareva strano pensare che la servetta strapazzata dalla cuoca per tutto il giorno, solo qualche anno prima fosse stata circondata da servitori che la trattavano come aveva fatto Ram Dass, inchinandosi fin quasi a toccar terra con la fronte quando le rivolgevano la parola, pronti a eseguire ogni suo ordine, a sua completa disposizione. Ma ora quei tempi erano finiti e non sarebbero tornati mai piú: era impossibile che la sua vita cambiasse.

Sapeva benissimo quale futuro Miss Minchin aveva in serbo per lei. Fino a quando non fosse stata abbastanza grande per insegnare, l’avrebbero usata per sbrigare le commissioni e come sguattera; nel frattempo, avrebbe dovuto ricordare quello che aveva imparato e, non si sa come, avrebbe anche dovuto cercare di migliorare la propria istruzione. Avrebbe dovuto passare lunghe serate a studiare e di tanto in tanto sarebbe stata interrogata senza preavviso, e se non avesse compiuto i progressi che si aspettavano da lei, l’avrebbero duramente punita.

In realtà Miss Minchin sapeva che Sara, animata com’era da un gran desiderio di imparare, non aveva bisogno di professori; bastava darle dei libri e lei li divorava, studiandoli con tanta attenzione da ricordarli a memoria. Fra qualche anno sarebbe diventata un’ottima insegnante. Ecco che cosa la aspettava: una volta cresciuta, l’avrebbero messa al lavoro in classe con lo stesso ritmo frenetico con cui ora svolgeva tutte le altre incombenze; sarebbero state costrette a darle abiti piú dignitosi, ma sempre semplicissimi e brutti, in modo che continuasse a sembrare una serva, quale era.

Sara rimase immobile per parecchi minuti, immersa in queste riflessioni. D’un tratto, un pensiero le balenò nella mente, facendole brillare gli occhi e tingendole di rosa le guance. Allora, raddrizzò l’esile corpicino e sollevò la testa.

«In ogni caso, – si disse, – c’è qualcosa che non potranno mai cambiare. Se sono una principessa con questi stracci addosso, posso esserlo anche in fondo al cuore. Sarebbe facile essere una principessa se avessi vestiti eleganti e costosi, ma esserlo sempre dentro di me, all’insaputa di tutti, è un trionfo ancor piú grande. Maria Antonietta, una volta cacciata dal trono, fu gettata in prigione con indosso un misero vestito nero e i capelli tutti bianchi, e fu coperta di insulti, chiamata “la vedova Capeto”. Eppure, era ancora piú regale di quando viveva tra le feste e gli sfarzi della corte. E io preferisco immaginarmela cosí, impassibile tra la folla urlante, piú coraggiosa e forte di tutti loro, anche quando le tagliarono la testa».

Da tempo questo era per Sara un pensiero ricorrente, che le dava consolazione nei giorni piú amari, e infatti se ne andava in giro con un’espressione che Miss Minchin trovava incomprensibile ed esasperante. Era come se avesse una sua vita segreta che la teneva al di sopra del mondo: sembrava sorda a tutte le cattiverie che le dicevano, e se anche le sentiva, rimaneva indifferente. A volte, nel bel mezzo di una severa strigliata, Miss Minchin si accorgeva che Sara le puntava addosso gli occhioni calmi, dall’espressione adulta, con un lieve sorriso orgoglioso sulle labbra. Non poteva certo immaginare che in quei momenti la bambina stava pensando: «Non sa che sta offendendo una principessa e che se volessi potrei mandarla a morte con un cenno della mano. La risparmio soltanto perché sono una principessa e lei è un povero essere stupido, sgarbato, volgare e ignorante».

Queste sue fantasie la assorbivano e la divertivano piú di ogni altra cosa e, per quanto bizzarre e irreali fossero, le davano un grande conforto, impedendole anche di diventare villana e malvagia come le persone che la circondavano.

«Una principessa deve essere educata», diceva fra sé e sé.

Cosí, quando le domestiche, seguendo l’esempio della padrona, la comandavano a bacchetta e inveivano contro di lei, non abbassava mai la testa e rispondeva con una cortesia che le lasciava di stucco.

– Quella ragazzina si dà piú arie che se vivesse a Buckingham Palace, – diceva ogni tanto la cuoca ridacchiando. – Mi arrabbio di continuo con lei, ma devo riconoscere che non dimentica mai le buone maniere: «Se permette, signora cuoca… Sarebbe cosí gentile da… Le chiedo perdono… Posso permettermi di disturbarla?» E lo dice con una tale naturalezza!

La mattina dopo l’incontro con Ram Dass e la scimmietta, Sara era in classe con le sue piccole allieve. Terminata la lezione, si mise a raccogliere i libri di francese, e intanto pensava alle disavventure capitate a vari personaggi di sangue reale mentre vivevano nascosti sotto i piú strani travestimenti: per esempio, Alfredo il Grande3 era stato schiaffeggiato dalla moglie di un bifolco per aver bruciato i dolci che stava cuocendo. Come doveva essersi spaventata quella donna quando si era accorta di quello che aveva fatto!

E se un giorno Miss Minchin si fosse resa conto che quella Sara che andava in giro con le scarpe sfondate era davvero una principessa? A questa idea, nei suoi occhi comparve lo sguardo che la direttrice detestava. Disgrazia volle che Miss Minchin le fosse accanto proprio in quel momento, e si arrabbiò talmente che si avventò su di lei e le diede due schiaffi, proprio come la moglie del bifolco aveva fatto con re Alfredo. Sara trasalí, risvegliata di colpo dal suo sogno. Trattenne il respiro, rimase immobile per un istante, poi, quasi senza rendersene conto, fece una risatina.

– Che c’è da ridere, piccola sfacciata? – strillò Miss Minchin.

Ci volle qualche secondo perché Sara riuscisse a controllarsi e a ricordare che era una principessa. Le guance erano rosse e bruciavano per i colpi ricevuti.

– Riflettevo, – rispose.

– Mi chieda immediatamente scusa! – disse la direttrice.

Sara esitò un momento.

– Mi scuso per avere riso, se è stato un atto di maleducazione, – replicò infine, – ma non chiederò perdono per avere riflettuto.

– E su che cosa rifletteva? Come osa fare delle riflessioni?

Jessie sogghignò, mentre lei e Lavinia scuotevano la testa all’unisono. Tutte le bambine alzarono la testa dai libri per ascoltare: era sempre uno spettacolo interessante quando Miss Minchin se la prendeva con Sara, perché lei reagiva dicendo qualcosa di originale, senza mostrarsi minimamente intimorita. E anche questa volta non era spaventata, nonostante le orecchie in fiamme e gli occhi che luccicavano come stelle.

– Stavo pensando, – rispose educatamente e con grande dignità, – che lei non sa quel che fa.

– Io non so quel che faccio? – ribatté Miss Minchin, quasi senza fiato per la collera.

– Sí, – continuò Sara. – Pensavo a cosa potrebbe succedere se io fossi una principessa e lei mi schiaffeggiasse, a quello che potrei farle. E che se lo fossi veramente, lei non oserebbe mai alzare le mani su di me, qualunque cosa dicessi o facessi. E pensavo quanto rimarrebbe stupita e sconvolta se all’improvviso scoprisse…

Sara immaginava cosí intensamente questa possibilità che parlò con estrema sicurezza, tanto che la stessa Miss Minchin rimase colpita. Per un attimo, la sua mente ottusa e priva di immaginazione credette che ci fosse un fondo di verità in quelle parole pronunciate con candida sfrontatezza.

– Come? – esclamò – Che cosa dovrei scoprire?

– Che io sono davvero una principessa, – disse Sara, – e posso fare tutto… tutto quello che voglio!

Le allieve sgranarono gli occhi, sbalordite. Lavinia si protese in avanti per vedere meglio.

– Vada immediatamente in camera sua! – gridò Miss Minchin infuriata. – Fuori di qui! Signorine, rimettetevi a studiare!

Sara fece un inchino.

– Mi scusi per avere riso, se sono stata maleducata, – ripeté, e uscí dall’aula, mentre la direttrice cercava di controllare l’ira e le bambine bisbigliavano sopra i libri.

– L’avete vista? Avete visto che aria strana aveva? – sbottò Jessie. – Non mi stupirei se un giorno o l’altro si venisse a sapere che è davvero una principessa!

3 Alfredo il Grande (849-899) fu il primo sovrano a definirsi «re d’Inghilterra» [N. d. T.].