Quello fu un inverno particolarmente rigido. Certi giorni Sara doveva fare le commissioni arrancando nella neve; peggio ancora era quando la neve si scioglieva, trasformandosi in un pantano fangoso. Altre volte la nebbia era cosí fitta che le luci per le strade erano sempre accese, proprio come in quel pomeriggio ormai lontano in cui Sara aveva attraversato Londra in carrozza, stretta al suo papà.
In quelle giornate le finestre della casa della Grande Famiglia, che lasciavano intravedere l’interno intimo e accogliente, erano particolarmente attraenti, mentre lo studio in cui sedeva il signore indiano risplendeva del bagliore del fuoco che ravvivava le belle tappezzerie sulle pareti.
La soffitta, invece, era triste e desolata come non mai: non c’erano piú tramonti né albe da ammirare, e solo di rado s’intravedeva qualche stella. Le nuvole, grigie e pesanti, erano cosí basse da scendere fin sui tetti e spesso scaricavano una pioggia battente. Anche quando non c’era molta nebbia, alle quattro del pomeriggio era già buio; se per qualche ragione doveva salire in soffitta, Sara era costretta ad accendere una candela. Quel cattivo tempo metteva di malumore le donne giú in cucina, rendendole ancora piú irritabili, e chi ne faceva le spese era sempre la povera Becky.
– Se non ci fosse lei, signorina, – disse con voce roca una sera che era sgattaiolata nella stanza di Sara, – e non avessimo le celle vicine qui alla Bastiglia, credo che sarei già morta. Sembra proprio tutto vero, non le pare? Ogni giorno che passa, la direttrice è sempre piú come un capo carceriere: quasi mi sembra di vederle in mano quelle grosse chiavi di cui lei mi ha parlato. E la cuoca è come un secondino. Mi racconti ancora del passaggio sotterraneo che abbiamo scavato sotto il muro, signorina.
– Ti parlerò di qualcosa che ci riscaldi un po’, – rispose Sara rabbrividendo. – Prendi la tua coperta, io prenderò la mia e ci siederemo sul letto, vicine vicine. Ti descriverò la foresta tropicale dove viveva la scimmia del signore indiano. Quando la vedo seduta sul tavolo, vicino alla finestra, che guarda attraverso i vetri con quell’espressione malinconica, sono sicura che pensi alla foresta dove viveva felice, dondolando da un ramo di albero di cocco appesa per la coda. Chissà chi l’ha catturata. Forse ha lasciato una famiglia che aveva bisogno di lei per raccogliere le noci di cocco.
– Questo argomento mi riscalda davvero, – mormorò Becky riconoscente. – Ma in qualche modo mi sento meglio anche quando mi parla della Bastiglia.
– Perché ti distrae, – replicò Sara avvolgendosi ben bene nella coperta, lasciando spuntare solo la testa. – Mi sono resa conto che per dimenticare la sofferenza fisica bisogna costringersi a pensare ad altro.
– E lei ci riesce, signorina? – domandò Becky esitante, guardandola con ammirazione.
Sara aggrottò le sopracciglia.
– A volte sí e a volte no, – ammise con franchezza, – ma quando ci riesco sto bene. E credo che sarebbe piú facile, se mi esercitassi di piú. Ultimamente l’ho fatto spesso e mi sembra già piú semplice. Quando la situazione è particolarmente brutta, mi sforzo piú che mai di pensare che sono una principessa. Mi ripeto: «Sono una principessa, una principessa delle fiabe, e nulla può farmi del male». Sapessi come mi aiuta a dimenticare! – concluse con un sorriso.
Sara aveva molte occasioni per mettersi alla prova cercando di concentrarsi su altri pensieri e di provare a se stessa di essere una vera principessa. Una delle esperienze peggiori accadde in una giornata terribile, che non sarebbe mai riuscita a dimenticare.
Pioveva ininterrottamente da parecchi giorni, le strade erano disseminate di pozzanghere e invase da un fango vischioso, mentre una pesante coltre di nebbia infradiciava la città. Come sempre, Sara dovette camminare a lungo per sbrigare le commissioni e fu mandata fuori piú volte, finché i suoi miseri abiti s’inzupparono completamente e le scarpe si riempirono d’acqua. Le malandate penne del vecchio cappellino pendevano flosce e sembravano piú ridicole che mai. Come se non bastasse, non aveva mangiato, perché Miss Minchin aveva deciso di punirla. Era cosí infreddolita, affamata e stanca che qualche passante di buon cuore, colpito dal suo visino stravolto, le lanciava sguardi di compassione e simpatia. Ma lei non se ne accorgeva nemmeno e tirava dritto frettolosa, cercando di pensare ad altro, sforzandosi con tutta se stessa di continuare a immaginare e fingere. Questa volta, però, era davvero difficilissimo, e Sara si ritrovò a pensare che forse le sue fantasie le facevano sentire ancor di piú il freddo e i morsi della fame. Eppure, perseverava ostinatamente e, mentre il fango s’infilava nelle scarpe rotte e il vento soffiava cosí forte da strapparle quasi di dosso la giacca sottile, continuava a parlare con se stessa, anche se le sue labbra non si muovevano e non emettevano alcun suono.
Si diceva: «Facciamo finta che io abbia un vestito asciutto, un buon paio di scarpe, un bel cappotto lungo e caldo, calze di lana e un grande ombrello. E mentre passo davanti a un fornaio che vende panini caldi trovo per terra un sixpence che qualcuno ha perso, cosí entro nel negozio, compro sei panini appena sfornati e li divoro uno dopo l’altro».
A volte in questo nostro mondo succedono le cose piú incredibili, e fu proprio quello che accadde a Sara. Sulla strada c’era cosí tanto fango che la bambina quasi ci sguazzava: per quanto facesse attenzione, era impossibile evitarlo. Cercava di procedere tenendo gli occhi fissi a terra, per scegliere il percorso meno inzaccherato, e proprio mentre stava per raggiungere il marciapiede opposto scorse nel rigagnolo qualcosa che brillava. Era un soldo d’argento, una monetina calpestata da chissà quanti piedi, eppure ancora riluceva nella fanghiglia. Non era un sixpence, ma qualcosa di molto simile: un fourpence4.
La manina di Sara, livida per il freddo, lo raccolse prontamente.
– Oh! – esclamò senza fiato. – È vero, è proprio vero!
Subito dopo, che ci crediate o no, alzò la testa e vide di fronte a sé la vetrina di un fornaio, dove una donna dalle guance rosee e l’aspetto bonario, prosperoso e materno stava sistemando un bel mucchio di panini al ribes appena sfornati, grandi, soffici e dorati. Sara si sentí quasi svenire per lo stupore, per la vista di quelle delizie e per l’irresistibile profumo di pane caldo proveniente dal retrobottega.
Sapeva di poter usare quella moneta senza esitazioni: chissà da quanto tempo era lí nel fango, e il suo proprietario si era ormai perso nel fiume ininterrotto di persone che passavano, urtandosi per la fretta.
«Chiederò alla fornaia se l’ha persa lei», si disse con scarsa convinzione. Cosí, attraversò il marciapiede e mise un piede fradicio sullo scalino del negozio, ma nel momento stesso in cui stava per entrare, vide qualcosa che la bloccò. Era una creatura ancor piú misera di lei: un mucchietto di stracci troppo corti per coprire due piedini nudi, fangosi e arrossati dal freddo, e una massa di capelli arruffati che incorniciavano un visino sudicio con due grandi occhi sconsolati.
Sara lesse la fame in quello sguardo vacuo e subito provò pietà per quella disgraziata bambina.
«È una del popolino, – pensò sospirando, – e sta peggio di me».
La ragazzina la guardò e si spostò per lasciarla passare; era abituata a farsi da parte e a essere cacciata da ogni poliziotto che incontrava.
Sara strinse la monetina nella mano, esitando per qualche istante.
– Hai fame? – domandò.
La bimba strisciò un po’ piú in là, con tutti i suoi stracci.
– Se ho fame? – le rispose una vocetta fioca.
– Non hai pranzato? – insistette Sara.
– Niente pranzo, – disse la poverina con voce ancor piú flebile e continuando ad arretrare, – né colazione, né cena. Niente di niente.
– Da quando?
– Non lo so. Ho chiesto l’elemosina, ma nessuno mi ha dato nulla.
Solo guardandola, Sara si sentiva anche piú affamata e debole, però la sua mente era immersa nelle solite fantasticherie e continuava a ripetersi, con il cuore gonfio: «Se fossi una principessa… Una principessa cacciata dal trono divide sempre il pane se incontra qualcuno piú povero e affamato di lei. Sempre. I panini costano un penny l’uno. Se avessi un sixpence potrei comprarne sei. Quattro panini saranno pochi per tutte e due, ma sempre meglio di niente…»
– Aspetta un momento, – disse alla piccola mendicante, ed entrò nella bottega. Dentro faceva caldo e c’era un profumo delizioso. La fornaia stava disponendo altri panini nella vetrina.
– Mi scusi, signora, ha perso un fourpence d’argento? – le domandò, mostrandoglielo.
La fornaia guardò la moneta, poi scrutò la bambina, il suo visetto espressivo, i suoi vestiti logori e sporchi, che un tempo erano stati belli.
– No, – rispose. – L’hai trovata per strada?
– Sí, nel rigagnolo.
– E allora tientela! – esclamò la donna. – Potrebbe essere lí da una settimana, e Dio solo sa chi l’ha persa. Non troverai mai il proprietario.
– Lo so, – disse Sara, – ma ho pensato che fosse giusto chiedere a lei.
– Ben pochi farebbero altrettanto, – commentò la fornaia, sconcertata e commossa. – Vuoi comprare qualcosa? – aggiunse, notando lo sguardo di Sara, fisso sui panini.
– Sí, per favore, quattro panini, di quelli che costano un penny l’uno.
La donna andò alla vetrina e infilò dei panini in un sacchetto di carta. Sara vide che erano sei.
– Ho detto quattro, per favore, – ripeté. – Ho solo un fourpence.
– Ne ho messi sei per fare la mezza dozzina, – spiegò la fornaia con un’occhiata affettuosa, – ma credo proprio che li mangerai tutti. Non hai fame?
Gli occhi di Sara si annebbiarono.
– Sí, ho molta fame, – rispose. – E le sono davvero grata per la sua gentilezza e… – stava per aggiungere: «C’è una bambina qui fuori che è piú affamata di me», ma proprio in quel momento entrarono due o tre clienti che sembravano andare di fretta, cosí ringraziò ancora la donna e uscí.
La piccola mendicante era ancora rannicchiata nel suo cantuccio e aveva un aspetto terribile, coperta di quegli stracci sporchi e bagnati. Guardava fisso davanti a sé con un’espressione sofferente, mormorando parole incomprensibili. Sara la vide asciugarsi le lacrime che le cadevano dagli occhi con il dorso della mano sudicia e ruvida. Allora aprí il sacchetto, che le aveva già scaldato le mani gelate, e tirò fuori un panino.
– Tieni, – disse posandolo sulle ginocchia della bambina, – è caldo e buono. Mangialo, cosí avrai meno fame.
La poveretta trasalí e guardò Sara, quasi spaventata da quell’improvvisa e inaspettata fortuna, poi afferrò il panino e lo divorò a grandi morsi.
– Oh, com’è buono! – esclamò con la sua vocina fioca.
Sara le diede altri tre panini, e la bimba andò in estasi.
«Sta peggio di me, – pensò Sara, – sta morendo di fame». Ma la mano le tremava mentre tirava fuori dal sacchetto il quinto panino. «Io non muoio di fame», si disse infine, porgendoglielo.
La piccola creatura vorace stava ancora mangiando quando Sara se ne andò. Era troppo ansiosa di sfamarsi per perdere tempo a ringraziare; e poi, nessuno le aveva mai insegnato le buone maniere. Era come un animaletto selvatico.
– Ciao, – le disse Sara. Dopo avere attraversato la strada, si voltò: la bambina si era fermata nel bel mezzo di un morso e la guardava, tenendo un panino in una mano e uno nell’altra. Sara la salutò con un cenno e lei, dopo avere indugiato ancora a osservarla, rispose dondolando la testa arruffata. Ricominciò a mangiare solo quando Sara era ormai lontana.
La fornaia aveva seguito quella scena attraverso la vetrina.
– Ma guarda un po’! – esclamò. – Ha regalato tutti i panini a una piccola mendicante, e non certo perché non li voleva per sé. Sembrava davvero affamata. Vorrei proprio sapere perché l’ha fatto! – Rimase lí ferma a riflettere, poi la curiosità prese il sopravvento e la donna si affacciò alla porta della bottega per parlare con la povera bimba.
– Chi ti ha dato quei panini? – domandò.
La bambina indicò con un cenno della testa Sara, che continuava a camminare.
– E che cosa ti ha detto? – insistette la fornaia.
– Mi ha chiesto se avevo fame, – disse la vocina flebile.
– E tu cos’hai risposto?
– Che ne avevo tantissima.
– Allora è entrata a comprare i panini e te li ha dati, vero?
La bambina annuí.
– Quanti?
– Cinque.
«Ne ha tenuto uno solo per sé, – pensò la donna, – eppure li avrebbe volentieri mangiati tutti, gliel’ho letto negli occhi».
Seguí con lo sguardo la figurina inzaccherata di Sara, ormai lontana, sentendosi turbata come non le capitava da molto tempo.
«Peccato che se ne sia andata cosí in fretta. Avrei dovuto dargliene una dozzina!» si disse.
Poi si rivolse alla piccola mendicante: – E tu, hai ancora fame? – chiese.
– Ho sempre fame, – rispose lei, – ma ora va un po’ meglio di prima.
– Vieni con me, – la invitò la fornaia, aprendo la porta del negozio.
La bambina si alzò e la seguí strascicando i piedi. Le pareva un sogno essere accolta in un ambiente caldo e pieno di pane appena sfornato! Non aveva idea di quel che sarebbe successo poi, e non le importava nemmeno.
Riscaldati un po’, – disse la donna, indicando un braciere nel piccolo retrobottega. – E sappi che quando avrai voglia di un po’ di pane, potrai venire qui a chiedermelo. Che mi venga un accidente se non te lo darò, per amore di quella piccina!
Sara si sentí un po’ meglio dopo avere mangiato il panino rimasto: era caldo e, per quanto poco fosse, serví a placare i morsi della fame. Mentre camminava, ne staccava dei pezzettini che mangiava a uno a uno, lentamente, per farlo durare piú a lungo.
«Facciamo finta che sia un pane magico, – pensava, – e che ogni boccone sia come un pasto intero. Mangerò cosí tanto che mi verrà un’indigestione».
Era buio pesto quando arrivò nella piazza del collegio. Le case erano tutte illuminate ma, come molte altre volte, gli scuri delle finestre della Grande Famiglia erano ancora aperti. Spesso a quell’ora vedeva il signor Montmorency seduto in una grande poltrona, circondato dalla piccola tribú dei suoi figli che ridevano, chiacchieravano e si arrampicavano sui braccioli o sulle sue ginocchia. Anche quella sera i bambini erano tutti lí, ma non erano seduti, anzi, c’era un gran fermento. Erano in corso i preparativi per una partenza e, a quanto pareva, sarebbe stato proprio il signor Montmorency a partire. Davanti al portone era in attesa una carrozza, con una grande valigia a cassetta.
I bimbi saltavano, strillavano e si aggrappavano al padre; la graziosa mamma dal colorito roseo era in piedi accanto a lui e sembrava chiedergli le ultime istruzioni. Sara si soffermò a osservare il padre che baciava tutti i figli, prendendo in braccio i piú piccoli e chinandosi sugli altri.
«Chissà se starà via a lungo, – si domandò. – La valigia è molto grossa. Oh, poverini, sentiranno tutti la sua mancanza! Mancherà anche a me, per quanto lui non sappia nemmeno che esisto».
Quando la porta si aprí, Sara si allontanò, memore della moneta di Donald, mentre la figura del signor Carmichael si stagliava contro la calda luce del vestibolo, circondata dai figli piú grandi.
– Ci sarà tanta neve a Mosca? – gli chiese Janet. – Sarà tutto ghiacciato?
– Guiderai una slitta? – s’informò un altro. – E vedrai anche lo zar?
– Vi scriverò e vi racconterò ogni cosa, – rispose il padre ridendo. – E vi manderò delle cartoline. Ora correte in casa; è molto umido qui fuori. Preferirei di gran lunga rimanere qui con voi, piuttosto che andare a Mosca! Buonanotte, paperotti miei. Che Dio vi benedica.
Scese rapidamente gli scalini e salí in carrozza.
– Se trovi la ragazzina, salutala per noi! – gridò Guy Clarence, saltellando sulla soglia.
– Hai visto? È passata «la bambina che non è una mendicante», – disse Janet a Nora. – Era tutta bagnata e infreddolita, e si è voltata a guardarci. Secondo la mamma, i vestiti che porta deve averglieli regalati una persona molto ricca, quando erano cosí consumati che non poteva piú metterli. Quelli del collegio la mandano sempre in giro a fare le commissioni, di giorno e di sera, anche con questo tempo terribile.
Sara, sfinita e tremante, attraversò la piazza fino alla porta dell’istituto di Miss Minchin.
«Chi sarà quella ragazzina che è andato a cercare?» si chiedeva mentre scendeva la scaletta che conduceva in cucina, trascinando faticosamente il cesto, che le sembrava pesantissimo.
Intanto, il padre della Grande Famiglia si avvicinava velocemente alla stazione per prendere il treno che lo avrebbe portato a Mosca, dove avrebbe fatto del suo meglio per trovare la figlia del capitano Crewe.
4 Moneta d’argento del valore di quattro penny [N. d. T.].