Passando davanti alla casa vicina, Sara vide Ram Dass che chiudeva le imposte e riuscí a dare un’occhiata all’interno. Un pensiero le attraversò la mente: «Da quanto tempo non metto piede in un posto cosí bello!»

Davanti al fuoco che scoppiettava vivace nel caminetto sedeva il signore indiano, con la testa fra le mani e la solita espressione infelice e solitaria.

«Poveretto! Chissà a che cosa pensa», si domandò Sara.

Ed ecco quali erano le riflessioni del signor Carrisford: «Supponiamo che Carmichael rintracci quelle persone a Mosca ma che la bimba che hanno preso dalla scuola di Madame Pascal a Parigi non sia quella che stiamo cercando. Che cosa farò, allora?»

Quando Sara entrò in casa, incontrò Miss Minchin, scesa in cucina per rimproverare la cuoca.

– Dov’è stata tutto questo tempo? – chiese a Sara. – È fuori da ore.

– Le strade sono bagnate e piene di fango, – rispose lei, – e non riuscivo a camminare, perché con le scarpe rotte rischio sempre di scivolare.

– Non cerchi delle scuse, – ribatté la direttrice, – e non racconti bugie!

Appena Sara entrò in cucina, la cuoca, irritata per la strigliata appena ricevuta, fu ben contenta di avere qualcuno su cui poter scaricare la sua collera.

– Ormai pensavo che saresti rimasta fuori tutta la notte! – la aggredí.

Sara posò gli acquisti sul tavolo.

– Ecco qui, – disse.

La donna si avvicinò per esaminarli, borbottando: era davvero furiosa.

– Potrei avere qualcosa da mangiare? – domandò timidamente Sara.

– L’ora del tè è passata, – rispose la cuoca. – Pensavi forse che te lo tenessi in caldo?

Sara rimase in silenzio per qualche istante.

– Oggi non ho pranzato, – si azzardò a dire piano, temendo che le tremasse la voce.

– C’è del pane nella credenza, – replicò la donna. – È tutto quello che puoi avere, a quest’ora.

La bambina andò a prendere il pane: era duro e raffermo. Ma la cuoca, irritata, non era disposta a darle altro. Per lei, era sempre facile e comodo prendersela con Sara. La povera bimba riuscí a salire a malapena le tre lunghe rampe che conducevano in soffitta: quando era stanca, quelle scale diventavano particolarmente ripide e faticose, ma questa volta le parvero interminabili. Fu costretta a fermarsi piú volte, per riprendere fiato.

Quando fu sul pianerottolo, si rallegrò vedendo un filo di luce che filtrava sotto la sua porta: Ermengarda doveva essere riuscita a sfuggire alla vigilanza per andare a trovarla. Sara si sentí rincuorata; era bello tornare e non trovare la stanza vuota. La sola presenza dell’affettuosa e cicciottella amica, avvolta nel suo scialle, attenuava la desolazione della soffitta.

E infatti, aprendo la porta, vide Ermengarda rannicchiata in mezzo al letto, con i piedi prudentemente nascosti sotto di sé. Per quanto fosse incuriosita da Melchisedec e dalla sua famiglia, non riusciva a sentirsi a suo agio e quando aspettava Sara preferiva sistemarsi sul letto. Quella sera, poi, era inquieta, e anzi si era anche lasciata sfuggire un gridolino, perché Melchisedec era uscito dal nido, si era messo a girare per la stanza e alla fine si era seduto di fronte a lei, osservandola e fiutando l’aria.

– Oh, Sara, come sono contenta che tu sia arrivata! – esclamò. – Melchisedec continua ad annusare qua e là. Ho cercato di convincerlo a tornare nel suo nascondiglio, ma non vuole saperne. Io gli voglio bene, ma mi fa paura quando mi viene cosí vicino. Pensi che riuscirebbe a saltare quassú?

– No, – rispose Sara.

Ermengarda si spostò verso l’orlo del letto per guardarla.

– Sembri molto stanca, – disse. – Sei pallidissima.

– Sí, sono sfinita, – ammise Sara lasciandosi cadere sullo sgabello. – Oh, ecco Melchisedec, il mio piccolino, che viene a chiedere la cena.

Il topo, che sembrava aver riconosciuto il passo della sua amichetta, si fece avanti, spavaldo e speranzoso. Sara si rovesciò le tasche, scuotendo la testa.

– Mi dispiace tanto, – si scusò, – non ho nemmeno una briciola. Va’ pure a casa a dirlo a tua moglie. Temo di essermi dimenticata di te, povero Melchisedec, perché oggi la cuoca e Miss Minchin erano proprio arrabbiate.

Il topo parve capire e tornò lentamente nella sua tana, deluso ma rassegnato.

– Non ti aspettavo stasera, Ermengarda, – disse poi Sara.

– Miss Amelia è andata da una vecchia zia e passerà la notte lí, – spiegò Ermengarda, – perciò non c’è nessuno che sorvegli i dormitori. Potrei anche rimanere qui tutta la notte.

Poi fece un cenno della mano, indicando il tavolo: c’era una pila di libri che Sara non aveva notato.

– Mio padre mi ha mandato altri libri. Guarda quanti sono! – esclamò Ermengarda avvilita.

Sara balzò in piedi, si avvicinò al tavolo, prese il primo volume che le capitò sottomano e si mise a sfogliarlo rapidamente, dimenticando per un attimo tutte le sue pene.

– Oh, che bellezza! La Storia della rivoluzione francese di Carlyle! Era tanto tempo che desideravo leggerla!

– Io invece no, – replicò Ermengarda. – Ma il mio papà s’infurierà se non la leggo, e si aspetta che io l’abbia già studiata quando andrò a casa per le vacanze. Come posso fare?

Sara smise di sfogliare il libro e la guardò, tutta rossa per l’eccitazione.

– Ascolta, – disse, – se mi presterai questi libri, io li leggerò e poi te li racconterò per filo e per segno, in modo che tu li ricordi bene.

– Oh, sarebbe fantastico! – esclamò Ermengarda. – Credi che sia possibile?

– Certo, – la rassicurò Sara, – le piccole ricordano sempre tutto quello che insegno.

– Sara, – disse Ermengarda con il viso tondo illuminato di speranza, – se lo farai, se riuscirai a farmi tenere a mente questa roba, io… ti darò tutto quello che vorrai!

– Non voglio niente, voglio soltanto i tuoi libri! – replicò Sara affannata, sgranando gli occhi.

– Allora prendili. Mi piacerebbe tanto avere la tua stessa voglia di leggere, ma non c’è niente da fare. Non sono intelligente, anche se mio padre, che invece lo è, pensa che dovrei esserlo.

Sara continuava ad aprire i libri, uno dopo l’altro.

– E cosa dirai al tuo papà? – domandò, mentre un dubbio s’insinuava in lei.

– Non gli dirò nulla. Crederà che io li abbia letti davvero.

Sara posò il volume che aveva in mano e scosse la testa.

– Sarebbe quasi una bugia, e le bugie sono ignobili e meschine, – obiettò. – A volte penso che potrei fare qualcosa di molto cattivo, potrei perdere le staffe e uccidere Miss Minchin, quando mi maltratta, ma non potrei essere meschina. Perché non dici la verità a tuo padre?

– Ma lui vuole che li legga io, – rispose Ermengarda, un po’ scoraggiata da questa svolta inaspettata della conversazione.

– Vuole che tu ne conosca il contenuto, e se io riuscirò a spiegartelo in modo chiaro e semplice, cosí che tu lo ricordi, credo che ne sarà contento.

– Sarà contento se imparerò qualcosa, in qualsiasi modo, – disse Ermengarda in tono lamentoso. – Anche tu lo saresti, al posto suo.

– Non è colpa tua… – cominciò Sara, ma s’interruppe di colpo mentre stava per dire: «… se sei stupida».

– Non è colpa mia… che cosa?

– Se non hai una buona memoria, – concluse Sara. – Tu impieghi piú tempo a imparare, io un po’ meno, tutto qui.

Era sempre molto tenera con Ermengarda e cercava di non umiliarla facendole pesare la differenza fra chi capisce tutto immediatamente e chi non riesce a imparare nulla. Guardando il visino paffuto dell’amica, le venne in mente uno dei soliti pensieri saggi e profondi.

– Forse avere una mente pronta non è essenziale quanto essere buoni e gentili con gli altri. Anche se Miss Minchin sapesse tutto quel che c’è da sapere al mondo, cosí cattiva com’è, sarebbe sempre un essere insopportabile e tutti la detesterebbero lo stesso. Molte persone intelligenti hanno fatto del male e sono state disprezzate per questo. Pensa a Robespierre…

Fece una pausa, guardando l’espressione smarrita di Ermengarda.

– Non te ne ricordi? Eppure te ne ho parlato poco tempo fa. Mi sa che l’hai dimenticato.

– Be’, non mi ricordo proprio tutto… – ammise Ermengarda.

– Allora aspetta un momento. Mi tolgo questi vestiti bagnati, mi avvolgo nella coperta e ti racconto di nuovo quella storia.

Sara appese a un chiodo il cappotto e il cappello, si levò le scarpe fradicie per mettersi le pantofole, poi saltò sul letto e si tirò la coperta fin sulle spalle, stringendosi le ginocchia fra le braccia.

– Adesso ascoltami, – e cominciò a parlare dei sanguinosi avvenimenti della rivoluzione francese con un tono cosí appassionato che Ermengarda la ascoltava a occhi sgranati, trattenendo il fiato per l’emozione. Per quanto fosse terrorizzata da quelle vicende, provava suo malgrado un fremito di entusiasmo e interesse: forse non avrebbe piú dimenticato Robespierre e non avrebbe piú avuto dubbi su chi fosse la principessa di Lam-balle 5.

– Sai, hanno portato in giro la sua testa infilzata su una picca, – spiegò Sara. – Aveva lunghi capelli biondi, e quando penso a lei non riesco mai a immaginarla viva, ma vedo sempre la sua testa sulla picca, con la folla inferocita che le balla intorno urlando.

Alla fine fu deciso che il signor St. John sarebbe stato informato del loro patto e che per il momento i libri sarebbero rimasti lí, nella soffitta.

– E ora chiacchieriamo un po’, – disse Sara. – Come vanno le lezioni di francese?

– Molto meglio da quando, l’ultima volta che sono venuta quassú, mi hai spiegato le coniugazioni. Il mattino dopo Miss Minchin è rimasta sbalordita, perché ho fatto bene tutti gli esercizi.

Sara sorrise, accoccolandosi ancor di piú.

– Non riesce a capire nemmeno come mai Lottie sia diventata cosí brava a risolvere i problemi! – esclamò. – Sai, anche Lottie viene qui da me e io la aiuto –. Lasciò vagare lo sguardo per la stanza. – Questa soffitta sarebbe anche carina… se non fosse cosí orribile, – aggiunse con una risata. – Senza dubbio, è un posto molto adatto per esercitarsi a fantasticare.

A dire il vero Ermengarda non aveva idea di quanto fosse triste, e a volte intollerabile, vivere in quella stanzetta, e non aveva abbastanza immaginazione per arrivarci da sola. Le rare volte che ci andava, ne vedeva solo il lato piacevole ed eccitante, grazie alle storie e alle invenzioni di Sara, e per lei ogni visita aveva il fascino dell’avventura. Certo, a volte Sara era pallidissima e di certo era molto smagrita, ma il suo spirito fiero le impediva di lamentarsi e di confessare, per esempio, che aveva una gran fame, come quella sera. Stava crescendo in fretta, e quel continuo correre qua e là le avrebbe fatto venire un robusto appetito anche se avesse potuto fare pasti regolari e abbondanti, molto piú nutrienti del cibo scadente e poco appetitoso che le davano in cucina, quando la cuoca non era di cattivo umore. Ormai era abituata a sentire un vuoto alla bocca dello stomaco.

«Credo che succeda anche ai soldati, quando sono impegnati in una marcia lunga e faticosa», si ripeteva spesso. Le piaceva quell’espressione: «una marcia lunga e faticosa», perché le dava l’impressione d’essere anche lei un soldato. Altre volte immaginava di essere una padrona di casa che riceve gli ospiti.

«Se vivessi in un castello ed Ermengarda fosse la signora di un altro castello, – pensava, – e venisse a farmi visita con un corteo di cavalieri, scudieri e vassalli, con gli stendardi al vento, sentendo il suono dei corni sul ponte levatoio io andrei ad accoglierla, farei preparare un banchetto nel salone e chiamerei i menestrelli a cantare, suonare e narrare gesta e leggende. Quando Ermengarda viene quassú non posso offrirle un rinfresco, ma posso raccontarle storie appassionanti e nasconderle la mia sofferenza. Probabilmente anche le castellane povere facevano cosí, in tempo di carestia, o quando le loro terre erano saccheggiate dai nemici».

Anche Sara era una piccola, coraggiosa castellana ospitale, che dava generosamente tutto ciò che aveva: i sogni e le visioni, sua unica ricchezza e conforto.

Perciò, mentre se ne stavano lí sedute una accanto all’altra, Ermengarda non sapeva che la sua amica era debolissima ed esausta e si domandava se sarebbe riuscita a dormire nonostante i morsi della fame, una volta rimasta sola. Non si era mai sentita cosí sfinita.

– Vorrei essere magra come te, Sara, – disse all’improvviso Ermengarda. – Ora sei ancora piú esile di prima, i tuoi occhi sembrano grandissimi e hai le braccia sottili e ossute.

Sara si tirò giú le maniche del vestito.

– Sono sempre stata magrolina, – rispose coraggiosamente, – e i miei occhi sono sempre stati grandi.

– Mi piacciono tanto i tuoi occhi, sono cosí particolari, – continuò Ermengarda, fissandola con affettuosa ammirazione. – Pare che guardino lontano e sono di un verde bellissimo, anche se spesso sembrano neri.

– Come gli occhi dei gatti, – rise Sara. – Però io non riesco a vedere al buio. Ci ho provato, ma inutilmente. Certo, mi piacerebbe riuscirci.

Proprio in quel momento accadde qualcosa che le due bambine non notarono. Se si fossero voltate, si sarebbero spaventate vedendo una faccia sbirciare con cautela dai vetri della finestra, per poi scomparire rapidamente e silenziosamente. Ma non senza fare alcun rumore, perché Sara, che aveva un udito fine, si girò di scatto a guardare verso il tetto.

– Non era Melchisedec, – disse. – Era un suono diverso.

– Che cosa? – fece Ermengarda allarmata.

– Non hai sentito niente? – chiese Sara.

– No… e tu? – balbettò Ermengarda.

– Forse mi sono sbagliata, ma mi è parso che ci fosse qualcosa sul tetto, che scivolava piano piano.

– Chi può essere? Forse i ladri?

– No, – rispose Sara con un gran sorriso, – non c’è niente da rubare qui…

S’interruppe nel bel mezzo della frase, perché aveva sentito distintamente un altro rumore. Questa volta non proveniva dal tetto, ma dalla scala. Era la voce furibonda di Miss Minchin. Sara balzò giú dal letto e spense la candela.

– Sta sgridando Becky, – sussurrò, in piedi nell’oscurità. – La sta facendo piangere.

– Verrà anche qui? – bisbigliò a sua volta Ermengarda, in preda al panico.

– No, crede che io dorma. Non muoverti!

Solo in rarissime occasioni la direttrice saliva in soffitta; da quando Sara viveva lí era successo soltanto una volta. Ma quella sera era abbastanza arrabbiata da arrampicarsi fin lassú e, a quanto pareva, portava con sé la povera Becky, coprendola di ingiurie.

– Sei una sfacciata, una ladra! – strillava. – La cuoca mi ha detto che è sparito del cibo dalla cucina.

– Non sono stata io, signora, – rispondeva Becky singhiozzando. – Anche quando avevo fame, non ho mai preso nulla!

– Meriteresti di andare in prigione! – insisteva la direttrice. – Dovresti vergognarti di piluccare e rubare! Addirittura metà del pasticcio di carne!

– Non sono stata io! – ripeteva Becky fra le lacrime. – Con la fame che avevo, avrei potuto mangiarlo tutto, ma non l’ho nemmeno toccato!

Miss Minchin era senza fiato, per le urla e lo sforzo di salire le scale. Il pasticcio di carne era stato preparato proprio per lei, per il suo spuntino notturno. Si udí chiaramente il colpo secco di uno schiaffo.

– Non dire bugie! – gridò la direttrice. – Va’ immediatamente nella tua camera.

Dopo lo schiaffo, Sara ed Ermengarda sentirono i passi affrettati delle scarpe troppo grandi di Becky raggiungere la sua stanza, la porta che si chiudeva e il cigolio del letto quando la povera servetta vi si buttò sopra.

– Ne avrei mangiati anche due, – gemeva Becky con la testa affondata nel guanciale, – ma non ne ho assaggiato nemmeno un pezzettino. È stata la cuoca che l’ha regalato al suo amico poliziotto.

Sara era ancora in piedi nel buio, con i denti stretti e i pugni serrati. Riusciva a stento a controllarsi, ma non osava muoversi finché Miss Minchin non fosse ridiscesa.

– È una vera crudeltà! – sbottò infine. – La cuoca prende il cibo e incolpa Becky di averlo rubato. Non è vero, non è vero niente! A volte Becky è cosí affamata che va a cercare le croste di pane tra i rifiuti!

Si coprí il viso con le mani e scoppiò a piangere, singhiozzando piano. Di fronte a quella reazione inaspettata, Ermengarda rimase sconvolta. Sara, la sua incrollabile amica, piangeva! C’era qualcosa di strano, qualcosa che a Ermengarda non era mai venuto in mente. All’improvviso, un terribile pensiero balenò nel suo cervellino pigro. Scivolò giú dal letto, si avvicinò a tastoni al tavolo, cercò i fiammiferi e accese la candela, poi si protese verso Sara e la scrutò con occhi spauriti, mentre quell’orribile pensiero cominciava a diventare una certezza.

– Sara, – cominciò con voce timida e incerta, – tu… tu non mi hai mai detto niente… non vorrei essere indiscreta ma… forse… tu qualche volta hai fame?

Era troppo! A quelle parole Sara crollò. Alzò il viso bagnato di lacrime e rispose impetuosamente: – Sí, sí, ho fame. In questo momento sono cosí affamata che potrei mangiare anche te. Ed è straziante sentir piangere la povera Becky, perché lei soffre la fame anche piú di me!

Ermengarda rimase a bocca aperta.

– Oh, e io non lo sapevo! – esclamò.

– Non volevo che tu lo sapessi, – disse Sara. – Mi sarei sentita come una mendicante. Del resto, so bene di sembrare un’accattona.

– No, non è vero, non è vero! – ribatté Ermengarda. – I tuoi vestiti sono un po’ strani, sí, ma tu non potresti mai sembrare una mendicante!

– Eppure un giorno un bambino mi ha fatto la carità, mi ha dato un sixpence, – disse Sara con una risatina forzata. – Eccola, – e mostrò all’amica il nastro che portava al collo. – Se non avesse pensato che ero una mendicante, non mi avrebbe regalato la moneta che gli avevano dato a Natale.

In qualche modo, la vista del sixpence le rasserenò ed entrambe si misero a ridere, seppur con le lacrime agli occhi.

– Chi era quel bambino? – domandò Ermengarda, guardando la moneta come se non ne avesse mai vista una simile.

– Un bimbetto che andava a una festa, un vero tesoro. È uno dei figli della Grande Famiglia, quello piccolino con le gambe cicciottelle, che ho soprannominato Guy Clarence. Immagino che la sua cameretta fosse piena di regali e dolci, e avrà pensato che io invece non avevo nulla.

Ermengarda trasalí e fece un salto all’indietro. Le ultime parole di Sara le avevano dato un’improvvisa ispirazione.

– Oh, come sono stata stupida a non pensarci prima! – esclamò.

– A che cosa?

– A una cosa straordinaria, – rispose tutta emozionata. – Proprio oggi la piú gentile delle mie zie mi ha mandato un pacco pieno di leccornie. Non le ho nemmeno assaggiate perché avevo mangiato troppo pudding a pranzo, e poi ero preoccupata per i libri che mi ha spedito mio padre, – continuò d’un fiato. – Ci sono pasticcini, ciambelle, tortine con la marmellata, panini dolci, e poi arance, sciroppo di ribes, fichi e cioccolato. Ora scendo piano piano in camera a prenderlo e lo porto qui, cosí potremo mangiare tutto.

Sara si sentí quasi mancare: quando si è affamati come lupi e si sente parlare di cibo, si possono avere strane reazioni.

– Riuscirai ad andare a prenderlo? – domandò, stringendo un braccio di Ermengarda.

– Ma certo!

Ermengarda corse alla porta, la aprí silenziosamente e sporse la testa nell’oscurità, rimanendo in ascolto. Poi tornò da Sara.

– I lumi sono spenti e tutti sono a letto. Farò pianissimo, cosí nessuno mi sentirà.

Le due bambine si presero la mano e una luce improvvisa balenò negli occhi di Sara.

– Ermengarda, immaginiamo di fare una festa. Che ne dici di invitare la prigioniera della cella accanto?

– Sí, sí! Bussiamo sul muro, il carceriere non sentirà.

Sara si avvicinò alla parete: ora Becky piangeva sommessamente. Allora, picchiò quattro colpi.

– Questo vuol dire: «Devo parlarti, vieni subito da me attraverso il passaggio segreto», – spiegò.

In risposta giunsero cinque rapidi colpetti.

– Viene, – annunciò Sara.

Poco dopo la porta della soffitta si aprí e Becky entrò: aveva gli occhi rossi e la cuffietta di sghimbescio, e appena vide Ermengarda cominciò ad asciugarsi nervosamente il viso con il grembiule.

– Non preoccuparti per me, – la rassicurò Ermengarda.

– La signorina Ermengarda ha voluto che tu venissi qui, – disse Sara, – perché ora va a prendere per noi un pacco di cose buonissime da mangiare.

Becky si agitò tanto che quasi la cuffietta le cadde dalla testa.

– Da mangiare, signorina? Cose buonissime? – domandò sbalordita.

– Sí, – rispose Sara, – e faremo finta di dare una festa.

– E mangerete tutto quello che volete, – concluse Ermengarda. – Vado subito a prenderle.

Uscí in punta di piedi, ma con tanta fretta che le cadde dalle spalle lo scialle rosso, senza che le altre se ne accorgessero.

Becky non poteva credere a tanta fortuna.

– Oh, signorina, – annaspò, – lo so che è stata lei a chiederle di invitarmi. Se ci penso, mi viene da piangere, – e si avvicinò a Sara con uno sguardo adorante.

Negli occhi affamati di Sara aveva ricominciato a splendere la vecchia luce, che trasformava il mondo intorno a lei. Lassú nella soffitta, mentre fuori tutto era freddo e buio, dopo un pomeriggio passato a trascinarsi per le strade ricoperte di fango e con il vivido ricordo della piccola mendicante disperata, finalmente era accaduta una specie di gioiosa e inattesa magia.

Sara fece un sospiro.

– In un modo o nell’altro, proprio quando tutto sembra andare per il peggio, succede qualcosa, come per incanto, – disse. – Se solo riuscissi a ricordarmi sempre che alla fine le cose piú brutte non si avverano.

Poi dette a Becky una scrollatina affettuosa.

– Su, su, non piangere! Forza, dobbiamo apparecchiare la tavola, – la incitò.

– Apparecchiare, signorina? – le fece eco Becky, guardandosi intorno. – E con che cosa?

Anche Sara lanciò un’occhiata alla stanza.

– In effetti, non c’è granché, – ammise con una risatina.

In quel momento vide qualcosa e si precipitò a prenderlo: era lo scialle rosso di Ermengarda, caduto sul pavimento.

– Ecco qua! – esclamò. – Sono sicura che a Ermengarda non dispiacerà se useremo il suo scialle, sarà una bellissima tovaglia rossa.

Spostarono il tavolo e lo coprirono con lo scialle. Con quel tocco di colore caldo e gradevole, subito la camera sembrò piú accogliente.

– Pensa come sarebbe bello se avessimo anche un tappeto rosso, – proseguí Sara. – Be’, faremo finta che ci sia!

I suoi occhi si posarono sul pavimento con uno sguardo soddisfatto: il tappeto era stato disteso in un baleno.

– Com’è soffice e caldo! – aggiunse con quel sorrisetto che Becky conosceva bene. Poi Sara si mise a camminare con cautela, come se sotto i suoi piedi ci fosse davvero un tappeto pregiato.

– Sí, signorina, – disse Becky seria, osservandola ammirata.

– Che altro ci serve? – riprese Sara, ferma in mezzo alla stanza con le mani sugli occhi. – Se ci penso un attimo, mi verrà qualche idea. La magia mi aiuterà, – aggiunse piano, con un tono carico di aspettative.

Tra le sue fantasie preferite c’era quella che i pensieri si aggirino «là fuori», come diceva lei, tutt’intorno a noi, in attesa di un richiamo da parte nostra. Becky l’aveva già vista molte volte rimanere immobile aspettando un’ispirazione, e sapeva che nel giro di qualche secondo si sarebbe tolta le mani dal viso, scoprendo un’espressione allegra e vivace. E fu proprio quel che accadde.

– Ho trovato! – annunciò Sara. – Mi è venuta un’idea! Dobbiamo frugare nel vecchio baule di quando ero una principessa.

Corse a inginocchiarsi nell’angolo dove si trovava il baule, che era stato portato lassú non per farle piacere ma perché non si era trovato un altro posto dove metterlo. Dentro c’era soltanto qualche vecchio rimasuglio, ma certo Sara avrebbe trovato qualcosa che faceva al caso suo: in un modo o nell’altro, la magia riusciva sempre a sistemare tutto.

In un cantuccio del baule c’era un pacchettino, rimasto lí perché aveva un’aria del tutto insignificante ma che lei aveva conservato gelosamente come una reliquia: conteneva dodici fazzolettini bianchi. Sara li prese, corse alla tavola e li dispose sullo scialle rosso in modo da metterne in risalto l’orlo di pizzo.

– Qui ci sono i piatti, – spiegò. – Sono d’oro, e accanto a ognuno c’è un tovagliolo ricamato dalle suore di un convento spagnolo.

– Davvero, signorina? – chiese Becky, incantata da quella descrizione.

– Devi immaginartelo, – rispose Sara. – E se continui a fare finta che sia vero, alla fine lo vedrai.

– Sí, signorina, – fece Becky docile, e mentre Sara tornava al baule provò a concentrarsi in un grande sforzo d’immaginazione.

Quando Sara si voltò la vide lí, accanto al tavolo, in un atteggiamento bizzarro. Aveva gli occhi chiusi e contorceva la faccia in strane smorfie, con le braccia rigidamente piegate ai lai del corpo, come se tentasse di sollevare un peso enorme.

– Che c’è, Becky? – gridò. – Cosa stai facendo?

Becky sussultò e aprí gli occhi.

– Stavo immaginando signorina, – rispose con voce stanca. – Cercavo di vedere quello che vede lei. Ce l’avevo quasi fatta, ma che fatica! – concluse con un sorrisetto speranzoso.

– Forse perché non ci sei abituata, – disse Sara guardandola con simpatia. – Ma se lo fai spesso, diventa facilissimo. Non devi sforzarti troppo, all’inizio. Dopo un po’ ti verrà naturale. Intanto io ti descriverò tutto quel che vedo.

Aveva in mano un vecchio cappello da estate che aveva scovato in fondo al baule e staccò la ghirlanda di fiori che lo ornava.

– Ecco i fiori per la nostra festa, – spiegò solennemente. – Il loro profumo riempie l’aria. C’è una tazza sul lavandino, Becky. Dammela, e prendi anche il portasapone, che servirà come centrotavola.

Becky glieli porse premurosamente.

– E di che cosa sono fatti, signorina? – domandò. – Sembrerebbero di terracotta, ma non è cosí, vero?

– Questa è una brocca cesellata, – rispose Sara, disponendo la ghirlanda di fiori intorno alla tazza. – E questo è alabastro purissimo incrostato di pietre preziose, – aggiunse mentre riempiva delicatamente di rose il portasapone.

Accarezzò con dolcezza quegli oggetti, e il sorriso felice che le aleggiava sulle labbra la faceva sembrare una creatura di sogno.

– Oh, com’è bello! – sussurrò Becky.

– Se solo avessimo dei piattini per i dolci… – disse Sara. – Aspetta, ho appena visto qualcosa, – e si diresse di nuovo al baule.

Era soltanto un gomitolo di lana avvolto in un pezzo di stoffa rossa e bianca, ma parte di quella stoffa fu trasformata in piattini e parte fu sistemata, insieme con i fiori rimasti, intorno al candeliere che avrebbe illuminato la festa. Ci voleva proprio un incantesimo per credere di non avere davanti solo una tavola malandata coperta da uno scialle rosso e apparecchiata con vecchie cianfrusaglie tirate fuori da un baule che nessuno apriva da anni, eppure Sara arretrò per guardare soddisfatta il risultato del suo lavoro, mentre Becky, entusiasta, la osservava a bocca aperta.

– Ma siamo ancora alla Bastiglia o è diventato un altro posto? – chiese, lanciando un’occhiata intorno a sé.

– Certo che è un altro posto! – rispose Sara. – È la sala del banchetto.

– Che bellezza, signorina! La sala del banchetto! – e si girò per ammirare la stanza in tutto il suo splendore.

– È un salone dove si fanno le feste: ha un alto soffitto a volta, una tribuna per i menestrelli e un enorme caminetto dove ardono grandi ceppi di quercia, ed è illuminata da tante torce sistemate su tutte le pareti.

– Oh, è proprio cosí, signorina! – confermò Becky affascinata.

In quel momento la porta si aprí ed entrò Ermengarda, barcollante sotto il peso di un grande pacco. Si fermò di colpo e lanciò un’esclamazione di gioia, trovandosi di fronte, dopo avere appena lasciato il freddo e l’oscurità delle scale, la tavola apparecchiata di rosso e decorata con i fazzolettini bianchi e i fiori. Evidentemente, durante la sua assenza i preparativi per la festa erano stati frenetici.

– Oh, Sara! – gridò. – Sei la bambina piú in gamba che abbia mai conosciuto!

– Non è bellissimo? – disse Sara. – Ho preso tutto dal mio vecchio baule. Ho chiesto aiuto alla magia, e mi ha suggerito come abbellire la stanza.

– Signorina Ermengarda, – intervenne Becky, – aspetti di sentire che cosa sono questi oggetti! Perché non sono soltanto… Signorina Sara, glielo racconti lei!

Cosí, Sara evocò l’incantesimo anche per Ermengarda, che vide i piatti d’oro, il soffitto a volta, la legna che crepitava nel caminetto e le torce che illuminavano il salone. E quando Ermengarda tirò fuori le sue ghiottonerie – i dolcetti con la glassa, la frutta, i cioccolatini e lo sciroppo di ribes – la festa divenne una splendida realtà.

– È proprio un vero banchetto! – esclamò Ermengarda.

– Sembra la tavola di una regina, – sospirò Becky.

Ermengarda ebbe un’improvvisa illuminazione.

– Sai, Sara, – disse, – se ora tu fingessi di essere una principessa, questa sarebbe davvero una festa regale.

– Ma è la tua festa, – replicò Sara, – sei tu la principessa, noi saremo le tue dame.

– Oh, no, non posso. Sono troppo grassa e non so come fare. Devi essere tu la principessa.

– Va bene, se è quello che desideri.

D’un tratto Sara ebbe un’altra idea e corse al caminetto.

– C’è un mucchio di cartacce e di rifiuti qua dentro! – esclamò. – Se li bruciamo, per qualche minuto avremo una bella fiamma, e ci sembrerà un fuoco vero.

Accese un fiammifero e subito una gran luce illuminò la soffitta.

– Quando si spegnerà, fingeremo che bruci ancora.

Rimase per qualche istante in piedi a guardare il bagliore, sorridendo.

– E ora diamo inizio alla festa.

Fece un grazioso cenno alle due amiche, accompagnandole a tavola.

– Prego, gentili damigelle, – le invitò in tono trasognato, – vogliate accomodarvi alla tavola del banchetto. Il mio nobile padre, il re, è partito per un lungo viaggio e mi ha chiesto di fare gli onori di casa –. Si voltò verso un angolo della stanza. – E voi, menestrelli, suonate le viole e i fagotti! – Spiegò velocemente a Ermengarda e Becky che le principesse avevano sempre dei menestrelli che suonavano ai loro banchetti –. E adesso cominciamo.

Avevano appena preso il primo dolcetto, senza ancora assaggiarlo, quando balzarono in piedi tutte e tre, pallide e con l’orecchio testo verso la porta, in ascolto… No, non si sbagliavano: qualcuno stava salendo le scale. Le bambine riconobbero quel passo affrettato e impetuoso e si resero conto che la festa era finita.

– È la direttrice! – disse Becky con voce strozzata, lasciando cadere a terra il dolce.

– Sí, – confermò Sara con il volto cereo e gli occhi sgranati, – Miss Minchin ci ha trovate.

La direttrice spalancò la porta con violenza. Era pallida anche lei, ma di rabbia. Guardò i tre visetti spaventati, poi la tavola apparecchiata e infine le ultime fiammelle delle cartacce che bruciavano nel caminetto.

– Lo sospettavo, ma non avrei mai immaginato che foste cosí sfrontate! – esclamò. – Lavinia aveva ragione.

Cosí, Lavinia era riuscita in qualche modo a scoprire il loro segreto e le aveva tradite. Miss Minchin si avvicinò a Becky è la schiaffeggiò per la seconda volta, quella sera.

– Piccola sfacciata! – sbraitò. – Domattina te ne andrai di qui!

Sara rimase immobile, gli occhi sempre piú grandi, il viso sempre piú pallido. Ermengarda scoppiò a piangere.

– Non la mandi via! – singhiozzò. – Mia zia mi ha mandato un pacco. Stavamo solo… facendo una festa.

– Lo vedo, – rispose Miss Minchin sprezzante, – con la principessa Sara al posto d’onore –. Poi si rivolse a Sara, furiosa. – Sono sicura che tutto questo sia opera sua, – strillò. – A Ermengarda non sarebbe mai venuto in mente. E ha anche preparato la tavola con tutta questa robaccia! – Batté il piede a terra e ordinò a Becky: – Vattene nella tua soffitta!

Becky uscí di corsa, coprendosi il viso con il grembiule, le spalle scosse dai singhiozzi.

Ma Miss Minchin non aveva ancora finito con Sara.

– Mi occuperò di lei domani; intanto non avrà né colazione, né pranzo, né cena.

– Anche oggi non ho avuto né colazione, né pranzo, né cena, – replicò debolmente lei.

– Tanto meglio, cosí se ne ricorderà piú a lungo. Non stia lí incantata, rimetta tutto dentro il pacco.

Cominciò lei stessa a infilare i dolci dentro la scatola, e cosí facendo notò i libri di Ermengarda.

– E lei, Ermengarda, perché ha portato i suoi bei libri nuovi in questa topaia? Li prenda e vada subito a letto. Domani rimarrà tutto il giorno nella sua camera, e io provvederò a scrivere a suo padre. Che cosa direbbe se la vedesse qui, stasera?

In quel momento sentí su di sé lo sguardo fisso e grave di Sara e si voltò inferocita.

– A che cosa pensa? Perché mi guarda cosí?

– Mi stavo domandando… – cominciò a rispondere lei, proprio come aveva fatto quella volta in classe.

– Che cosa?

Il tono di Sara non era impertinente, ma quieto e triste.

– Mi stavo domandando, – proseguí a bassa voce, – che cosa direbbe il mio papà se sapesse dove sono questa sera.

Miss Minchin era sempre piú inviperita e si lasciò di nuovo trasportare dall’ira, come già aveva fatto altre volte. Prese Sara per le spalle e la scrollò con forza.

– Come osa, bambina insolente e ribelle!

Raccolse i libri e gettò alla rinfusa i resti del banchetto nella scatola, che poi mise bruscamente fra le braccia di Ermengarda, spingendola verso la porta.

– La lascio alle sue riflessioni, – disse a Sara. – E vada subito a letto! – Uscí sbattendo la porta e si avviò dietro Ermengarda, che continuava a incespicare.

Il sogno era finito: l’ultima scintilla del fuoco si era spenta, lasciando solo dei resti di carta bruciacchiata; la tavola era nuda; i piatti d’oro, i tovaglioli di pizzo e le ghirlande erano di nuovo vecchi fazzoletti, brandelli di carta bianca e rossa e fiori finti sparpagliati per terra; i menestrelli erano fuggiti dalla tribuna e le viole e i fagotti tacevano. Emily sedeva immobile, con la schiena appoggiata al muro e lo sguardo vitreo. Sara la prese e la sollevò con mani tremanti.

– Niente piú banchetto, Emily, – le disse, – e niente piú principessa. Ora ci sono solo le prigioniere della Bastiglia –. Poi si accasciò, nascondendosi il viso fra le mani.

Chissà che cosa sarebbe successo se, invece, avesse alzato gli occhi verso l’abbaino… Non possiamo saperlo. Forse, se lo avesse fatto, la fine di questo capitolo sarebbe stata diversa, perché se Sara avesse guardato lassú, sarebbe rimasta stupefatta. Avrebbe visto un viso che sbirciava dai vetri, lo stesso che l’aveva osservata poco prima mentre parlava con Ermengarda. Ma Sara non sollevò la testa e continuò a tenerla nascosta fra le braccia ancora per un po’, come faceva sempre quando soffriva in silenzio. Infine, si alzò e raggiunse lentamente il letto.

«Non ce la faccio a immaginare qualcos’altro, stasera, – si disse. – Sarebbe inutile provarci. Ma se mi addormento, forse riuscirò a sognare».

All’improvviso si sentí cosí esausta, forse per la mancanza di cibo, che ebbe a stento la forza di trascinarsi fino al letto.

Facciamo finta che ci sia un bel fuoco nel caminetto, con tante piccole fiamme che danzano, – mormorò. – E davanti al fuoco una comoda poltrona e un tavolino con un piatto di minestra calda –. Si tirò addosso la coperta logora. – E facciamo finta che ci sia un letto morbido, con una trapunta soffice e grandi guanciali di piuma… e poi… – Per sua fortuna, la stanchezza prese il sopravvento, cosí Sara chiuse gli occhi e si addormentò.

Quando si svegliò non avrebbe saputo dire quanto aveva dormito. Era talmente stanca che era caduta in un sonno profondo, al punto da non sentire nulla, nemmeno gli acuti squittii e le corse frenetiche di Melchisedec e della sua famiglia. Si svegliò di colpo, senza rendersi conto che in realtà qualcosa aveva interrotto il suo riposo. Era stato un rumore: il richiudersi della finestra dietro un’agile figura bianca che era scivolata attraverso l’abbaino e si era distesa sul tetto, abbastanza vicino da vedere che cosa accadeva nella soffitta senza essere vista.

Sara non aprí subito gli occhi. Era ancora troppo assonnata e, stranamente, stava cosí bene, comoda e al caldo, che per un momento credette di essere ancora addormentata.

– Che bel sogno! – sussurrò. – Che bel calduccio! Non voglio svegliarmi…

Sí, di sicuro stava sognando. Le sembrava di avere coperte calde e morbide, le sentiva addosso, cosí tirò fuori una mano e toccò qualcosa che somigliava moltissimo a una trapunta di raso. Temendo di interrompere quel sogno delizioso, rimase immobile, cercando di farlo durare il piú a lungo possibile. Ma, per quanto stringesse gli occhi, qualcosa nella stanza la costrinse ad aprirli: la sensazione che ci fosse una luce, e poi un suono, che pareva proprio il crepitio di un fuoco.

– Peccato, non c’è niente da fare, mi sto svegliando, – bisbigliò dispiaciuta.

Aprí gli occhi, lottando contro se stessa, e subito sorrise, vedendo qualcosa che non si sarebbe mai aspettata di trovare nella soffitta e che non sarebbe dovuto essere lí.

– Non sono ancora ben sveglia, – sospirò, appoggiandosi su un gomito e guardandosi intorno. – Sto ancora sognando.

Quel che vedevano i suoi occhi non poteva essere vero. Nel caminetto ardeva un fuoco scoppiettante, sul fornello brontolava un bollitore d’ottone, sul pavimento era disteso uno spesso tappeto rosso, accanto al focolare c’erano una poltrona con dei cuscini e un tavolino apparecchiato con una tovaglia bianca, dei piatti coperti, una tazza con il piattino e una teiera. Sul letto c’erano coperte soffici e una trapunta di seta, e sulla spalliera una vestaglia di seta imbottita, un paio di pantofole nuove e qualche libro.

Come per magia, la squallida soffitta si era trasformata nella camera dei suoi sogni, illuminata da una calda luce diffusa da una lampada con il paralume rosa, che troneggiava sul tavolo.

Sara si tirò su, affannata per l’emozione.

– Questo sogno non svanisce, – disse. – Non ho mai fatto un sogno cosí.

Non osava stiracchiarsi, ma alla fine spostò le coperte e appoggiò i piedi sul pavimento, con un sorriso estatico dipinto sul volto.

– Sto sognando… sogno che sto scendendo dal letto, – mormorò senza rendersene conto, mentre si girava lentamente guardandosi intorno. – Sogno che questa è la realtà. O forse è un incantesimo? Eppure, io vedo tutto questo. Se solo potessi continuare a immaginarlo! – esclamò con il fiato mozzo.

Rimase in piedi, ansante, per qualche minuto, poi gridò: – Non è vero! Non può essere vero! Ma sembra cosí reale!

Andò a inginocchiarsi davanti al fuoco e tese le mani, ma dovette indietreggiare per il calore intenso. – Se lo stessi sognando, non brucerebbe cosí, – disse.

Si alzò di scatto, toccò la tavola, i piatti e il tappeto, si avvicinò al letto e tastò le coperte, poi prese la morbida vestaglia e se la strinse al petto, appoggiandovi la guancia.

– Com’è calda e soffice! – singhiozzò. – È vera, deve esserlo!

La indossò e s’infilò le pantofole.

– Sono vere anche queste! – esclamò. – Non… non sto sognando!

Barcollando, prese il libro che stava in cima alla pila e lo aprí. Sulla prima pagina c’era scritto: «Alla bambina della soffitta, da parte di un amico».

A quel punto non resse piú e, per quanto inconsueto fosse da parte sua, abbandonò la testa sul libro e scoppiò a piangere.

«Non so proprio chi sia, – pensò, – ma qualcuno s’interessa a me. Ho un amico».

Afferrò la candela, scivolò fuori dalla stanza, entrò in quella di Becky e si avvicinò al letto.

– Becky, Becky, – sussurrò scuotendola, – svegliati!

Becky aprí gli occhi e si sedette sul letto, con il viso gonfio per le lacrime versate e, con suo immenso stupore, vide una figuretta con il viso raggiante avvolta in una bellissima vestaglia di seta rossa. Sara era accanto al suo letto con una candela in mano, ed era proprio la principessa di un tempo.

– Oh, Becky, vieni subito! Vieni! – le disse.

Becky, troppo sbalordita per parlare, si alzò e la seguí in silenzio, con gli occhi sgranati e la bocca aperta. Quando furono entrate nella soffitta, Sara richiuse piano piano la porta e le indicò tutte quelle meraviglie che la disorientavano, dandole quasi un senso di vertigine.

– È vero! È vero! – gridò. – Ho toccato tutto, ed è reale quanto lo siamo noi. È stata la magia a farlo, è venuta qui mentre dormivamo, la magia che ci proteggerà dal male!

5 Maria Teresa Luisa di Savoia-Carignano, amica della regina di Francia Maria Antonietta, uccisa nel 1792, un anno prima della regina [N. d. T.].