«Carissimo Illa, prima di tutto ti ringrazio della tua lettera e delle tue parole che mi hanno consolato. Benché i singoli pezzi mi persuadessero, belli o brutti che fossero, essendo cose mie, mi restava infatti il dubbio che il libro risultante fosse sballato; e infelice per l’eccessiva monotonia dei temi e dell’accento generale.»1 Così il 21 settembre 1950, da Belluno, dove si trovava in vacanza, Dino Buzzati scriveva a Arturo Brambilla, grande amico dai tempi della scuola, che lo aveva confortato sulla riuscita del suo ultimo lavoro. Il volume cui si riferiva era In quel preciso momento, che proprio quel mese era arrivato in libreria pubblicato da Neri Pozza: una «raccolta di elzeviri, racconti, apologhi», come lo stesso autore lo avrebbe in seguito definito, che per la prima volta accendeva una luce sull’“uomo Buzzati”.
Dopo il successo ottenuto con Il deserto dei Tartari e la sua affermazione come scrittore fantastico, Dino Buzzati, firma illustre del «Corriere della Sera» dove militava ormai da oltre vent’anni, aveva infatti momentaneamente (e inaspettatamente) accantonato le atmosfere da favola per dare alle stampe un libro quasi autobiografico, che rendeva pubblici i suoi scritti più privati. Quello che Brambilla si era ritrovato in mano, e insieme con lui anche gli appassionati lettori dello scrittore bellunese, non era infatti un romanzo o una raccolta di novelle. Era piuttosto una sorta di Zibaldone personale, che riuniva in un unico quaderno appunti, riflessioni, cronache di vita vissuta, racconti lampo legati ai fatti e ai pensieri che avevano agitato Buzzati soprattutto negli anni a cavallo della Seconda guerra mondiale. Un’opera, «la prima del genere», come veniva definita nelle note di copertina dell’edizione curata da Neri Pozza, che se da un lato per la sua forma mista risultava difficile da definire, da inquadrare in un preciso genere (come del resto sarebbe accaduto in seguito anche con altri libri di Buzzati, primo fra tutti Poema a fumetti), dall’altro risultava estremamente preziosa per entrare nel mondo, poetico e umano, dello scrittore, da sempre così schivo e inafferrabile.
La prima edizione di In quel preciso momento ha una gestazione laboriosa che è ben testimoniata dalla lunga e articolata corrispondenza tra l’autore e il suo editore (divenuto in seguito amico stretto di Buzzati, tanto da fargli da testimone, insieme con la moglie Lea Quaretti, al suo matrimonio), i quali, attraverso decine di lettere, vagliano attentamente tutti gli aspetti – non solo editoriali – che riguardano la realizzazione del libro, seguendone in prima persona ogni fase, confrontandosi, chiedendosi reciprocamente consigli, proponendo soluzioni.
I primi contatti risalgono al marzo 1950, quando Neri Pozza, che ha fretta di cominciare, invita Buzzati a mettersi subito al lavoro senza preoccuparsi della vendibilità del libro. Ciò che gli importa è che sia un «volume necessario alla Sua storia di scrittore», scrive, e che arrivi «almeno a 100-120 pagine dattiloscritte. Benissimo se raggiungiamo 150 – compresi gli spazi bianchi».2 Alla fine, il volume ne conterà circa centottanta, e raccoglierà ottantotto «confessioni», come verranno definiti i pezzi nel risvolto di copertina. Buzzati glieli manda un po’ alla volta, e via via che l’editore li legge, rimanendone toccato – «alcuni sono davvero bellissimi»,3 «sono meditazioni, riflessioni, pensieri di un poeta»4 –, entrambi cominciano a pensare al titolo da dare all’opera. Una scelta che si rivelerà lunga e complicata, difficile sotto molti aspetti.
Il primo titolo che Buzzati propone è «Cinquanta (o sessanta) piccole storie», che a suo avviso darebbe, anche dal punto di vista editoriale, «maggiore serietà e importanza al volume».5 Poco importa se, come gli viene fatto notare, Piccole storie è un titolo già usato da Tolstòj. «Tolstoi [sic] è ormai lontano» scrive a Neri Pozza. «E in questo caso, a differenziarle, c’è il numero, che si potrebbe in copertina far risaltare anche più delle parole Piccole storie.»6
In alternativa propone di usare il titolo di uno dei «pezzettini», come lui definisce invece i brani che danno corpo al libro, ma la soluzione non lo convince perché presenta due inconvenienti: «il primo di fare al pubblico una specie di piccola truffa,» scrive a Neri Pozza il 20 aprile 1950 «come piccole truffe sono sempre i titoli da romanzo dati a un volume di novelle; secondo, nei titoli di fantasia si è ormai fatto una esperienza così vasta che per quanto un titolo sia trovato bene o bizzarro la gente resta del tutto indifferente; in questo senso i titoli addirittura burocratici fermano più l’attenzione; in terzo luogo Cinquanta (o sessanta o settanta, il numero lo vedrà lei dopo aver fatto la scelta) piccole storie è il titolo più onesto ed esatto».7
Invece questa idea viene accantonata (Buzzati la riciclerà, leggermente modificata, pochi anni dopo, nel titolo della raccolta Sessanta racconti, premio Strega 1954) per lasciare il posto ad altre proposte, che da quel momento in poi vengono sottoposte alla reciproca attenzione. Contraddicendo quanto espresso dallo scrittore nella lettera del 20 aprile, si tratta soprattutto di titoli già contenuti nel libro, da La S.V. è invitata a Enumerazioni, da Le finestre accese a Uno ti aspetta, ma Buzzati rimane perplesso. Quello che gli preme è che il titolo «alluda al tempo che passa, perché questo è in fondo il leitmotiv di tutto il libro».8 Così, quando ormai i giorni per decidere stanno per finire e Neri Pozza minaccia di usare «il titolo più spregioso che esista, esempio I rospi in vetrina»,9 viene proposto La brevità della festa o La breve festa. Ma il 18 agosto Buzzati scrive: «Il titolo La breve festa non mi va; non dico che sia brutto, ma non può essere mio. Propongo invece In quel preciso momento che è certo più attraente, moderno e nuovo. Anche Longanesi, a cui parlavo l’altra sera, lo trova ottimo».10
Il titolo, che sarà quello definitivo, è ancora una volta preso dall’omonimo brano del libro, e a differenza degli altri è forse quello che meglio esprime il senso ricercato da Buzzati, oltre a essere una locuzione che ricorre spessissimo nei suoi scritti.
L’altro aspetto al centro della lavorazione del volume è il montaggio dei vari «pezzettini», la loro sequenza, che Dino Buzzati affida completamente alle mani – e al gusto – del suo editore (non numerando nemmeno i fogli che gli invia), al quale chiede anche consigli su alcuni che è incerto se inserire o meno. Scartata subito l’ipotesi della divisione per temi o per generi, l’obiettivo è trovare la giusta alternanza che renda il libro il più mosso possibile, evitando il rischioso effetto ripetizione, e quello che Buzzati, citando Voltaire, ritiene l’unico genere letterario non ammesso: quello che annoia il lettore. Neri Pozza ci lavora con scrupolo e attenzione e alla fine il risultato soddisfa entrambi.
Nonostante si tratti inequivocabilmente di un libro atipico, che avrebbe potuto facilmente risultare estraneo, se non addirittura ostico, al lettore, le duemila copie della prima edizione vanno subito esaurite, ma anziché ristamparle in fretta, come ci si sarebbe aspettati e come, molto probabilmente, sarebbe stata l’intenzione dell’editore, Buzzati vuole rimetterci le mani, per dare al volume un nuovo assetto, aggiungendovi, su richiesta dello stesso Neri Pozza, altri racconti.
Lo scrittore ci lavora per due anni (più che altro nei ritagli di tempo, visti i suoi numerosi e pressanti impegni) e alla fine, nel 1955, forse non ancora pienamente convinto del risultato, dà comunque il visto per la stampa. Il libro, che esce nello stesso anno, raggruppa a quel punto quaranta testi in più rispetto all’edizione precedente, per un totale di centoventotto, che di conseguenza hanno alzato il numero delle pagine a trecentododici. Sarà questa la forma in cui, nel 1963, verrà pubblicato per la prima volta dall’editore Mondadori il quale però, undici anni più tardi, nel 1974, lo riediterà nuovamente accresciuto di altri ventisette pezzi, che lo porteranno a un totale – definitivo – di centocinquantacinque. Alla morte di Dino Buzzati, infatti, la moglie Almerina ritroverà tra le sue carte una cartelletta intitolata appunto In quel preciso momento, nella quale lo scrittore aveva via via inserito negli anni nuove «confessioni» da pubblicare in eventuali riedizioni. Domenico Porzio, al quale Almerina le affiderà, sceglierà le più adatte, posizionandole con cura e sensibilità nel pieno rispetto della sequenza originaria (tanto che è impossibile oggi individuarle), dando così al volume la forma attuale.
Ingiustamente rimasto in secondo piano nella produzione di Dino Buzzati, dietro ai romanzi – dal Deserto dei Tartari a Un amore – e ai racconti – da Paura alla Scala a Sette piani a Il crollo della Baliverna –, citato raramente, a volte persino guardato con sospetto dai critici perché difficile da definire (non è una raccolta di racconti, non è un diario), In quel preciso momento è invece un libro indispensabile per conoscere Buzzati, una sorta di puzzle dove ogni scritto, autobiografico e non, lungo o appena accennato, è una tessera che ne compone il ritratto. Sfogliando le sue pagine, infatti, man mano che si passa dagli apologhi ai racconti brevi, dagli abbozzi di novelle ai dialoghi fulminanti, ci si rende conto di stare compiendo un viaggio all’interno dell’uomo e della sua poetica. Ci si accorge di avere in mano una lente d’ingrandimento, una chiave per entrare nell’animo del suo autore e guardare il mondo con i suoi stessi occhi.
La visione della vita che ne deriva è una visione amara, disillusa, senza appello né scampo, dove sembra facile (e inevitabile) sprofondare nel buio. Solo l’ironia, il paradosso, la rappresentazione – spietata e cruda – della realtà sono le vie di fuga concesse, gli unici bagliori in grado di rischiarare il crepuscolo dell’esistenza e di regalare una speranza di riscatto: ma la loro fiamma è debole e tremula, sembra sempre avvertire Buzzati, e un leggero alito di vento potrebbe spegnerla improvvisamente.
In quel preciso momento, però, è anche una summa dei suoi temi fondamentali: la solitudine, l’attesa, l’impotenza di fronte al tempo che passa, il continuo duello con la morte. È un libro sincero, vivo, scritto con profonda onestà intellettuale, nel quale Buzzati si mette a nudo senza censure, senza furbizie, senza strategie né scappatoie. Tant’è vero che quando Neri Pozza, colpito dagli scritti riguardanti il periodo della guerra (La calata degli Unni, Tromba 1944, Nella casa sinistrata) gli chiede se «non si potrebbe insistere sull’argomento trovando nuovi motivi»,11 Buzzati, pur con la pacatezza e la cordialità che lo contraddistinguono, risponde fermo: «No, non si può insistere. Se questi miei scritti possono avere qualche pregio, è che, come le ho detto, sono stati scritti con una estrema spontaneità, quasi come una confessione a se stessi. Guai se mi mettessi in mente di scriverne degli altri su questa o quella intonazione e con l’idea di pubblicarli. Ne verrebbero fuori fatalmente delle cose false».12
Tutto ciò appare chiaro fin dal primo «pezzettino», La formula, che funge quasi da prologo al libro, da manifesto programmatico, da promessa poetica. «Di che hai paura, imbecille? Della gente che sta a guardare? Dei posteri, per strano caso?» Buzzati non ha paura di mostrarsi com’è. Non ha paura della gente che lo sta a guardare, dei posteri, perché la sua è l’arma della sincerità. È un’arma pericolosa, ne è cosciente, che facilmente qualcuno potrà ritorcergli contro, ma egli sa anche che alla fine, nell’eternità, quell’arma si rivelerà vincente. «Questo è un uomo, uno dei tanti se volete, ma uno.» E di tale unicità «gli altri» saranno costretti «a tenerne conto, stupefatti». Tra questa ferma rivendicazione di intenti e l’ultimo scritto, La segretaria, specchio del suo chiaro, incontenibile bisogno di esprimersi, della sua urgenza di scrivere – «La segretaria […] si è sposata e ha due figli […]. La mia macchina da scrivere l’ho prestata […]. La mia stilografica si è rotta […]. E la antica mia penna […] chi è più capace di trovarla? […] Perciò scrivo con la matita. Un mozzicone veramente, trovato in una vecchia scatola, per caso. Gli ho fatto la punta, amici miei, e sulla poca carta bianca che rimane stasera io scrivo» –, c’è tutto Buzzati. In questi centocinquantacinque «coriandoli di poesia», come li ha magnificamente definiti Eugenio Montale in una recensione al libro apparsa sul «Corriere della Sera» nel marzo del 1951, che a ogni lettura rivelano qualcosa di nuovo che prima non si era notato (come solo ai grandi libri accade), in queste storie «del tutto sincere e non scritte gratuitamente tanto che non pensavo di pubblicarle mai»,13 c’è il Dino Buzzati che era e quello che sarebbe stato, il Buzzati del Deserto dei Tartari (Venuto a cercarci) e quello che rifiuta qualsiasi analogia con Kafka (Lo scarafaggio), il Buzzati metafisico (Clac) e quello infantile e natalizio (Il fondo del letto; Stupidità dei bambini; Rabbia di Natale), il Buzzati che soffre la vecchiaia (Patrocinatore di giovani) e quello delle Notti difficili (Domenica).
Cosicché la preoccupazione per un’«eccessiva monotonia dei temi e dell’accento generale» che egli aveva espresso a Brambilla, pur se comprensibile in un libro così concepito, appare totalmente infondata appena ci si mette a sfogliarlo. Se da un lato è infatti inconfutabile che questa sorta di diario creativo, concentrando i punti saldi della poetica buzzatiana, li ripete quasi ossessivamente, come un catalogo dei suoi temi prediletti, è altrettanto innegabile che lavorandoli in maniera diversa, inquadrandoli da sempre nuove angolature, travestendoli di volta in volta con la forma dell’appunto, della confessione, dello strale, del racconto morale, della riflessione intima, Buzzati scongiura l’effetto monotonia. Anzi: proprio dalla diversità degli stili adottati e dal passaggio – impalpabile – dalla fiction alla realtà, il lettore viene risucchiato nella lettura come dalle pagine di un romanzo. Perché la vera trama di questo libro senza trama, il filo conduttore di questo libro senza filo conduttore è Buzzati e solo Buzzati. E non è un caso che con il passare del tempo queste pagine siano via via aumentate, e il volume sia cresciuto, invecchiato con lui, così da rispecchiarlo nelle varie fasi della vita.
Scriveva Eugenio Montale nella recensione a In quel preciso momento: «Vive e dura in tutto il libro, una felicità leggera d’immaginazione, una pietà affettuosa che è di Buzzati ed oggi solamente sua». Quell’oggi dura ancora e, c’è da crederlo, durerà per l’eternità, continuando a lasciare tutti stupefatti.
Lorenzo Viganò
1 Dino Buzzati, Lettere a Brambilla, a cura di Luciano Simonelli, De Agostini, Milano 1985, p. 291.
2 Neri Pozza, Saranno idee d’arte e di poesia. Carteggi con Buzzati, Gadda, Montale e Parise, a cura di P. Di Palmo, Neri Pozza, Vicenza 2006, p. 39.
3 Ibid., p. 40.
4 Ibid., p. 42.
5 Ibid., p. 41.
6 Ivi.
7 Ivi.
8 Ibid., p. 44.
9 Ibid., p. 49.
10 Ibid., p. 52.
11 Ibid., p. 40.
12 Ibid., p. 41.
13 Ibid., p. 40.