Cicerone nasce ad Arpino nel 106 a.C. da una famiglia agiata, ma non aristocratica. Il suo successo come uomo politico e oratore non è quindi dovuto né alla nobile nascita né alla ricchezza, ma alla sua educazione giuridica, retorica e filosofica. Egli compie a Roma il corso di studi di un giovane il cui obiettivo è dedicarsi alla vita politica e ben presto viene in contatto con la filosofia greca.
In questo periodo Cicerone ha l’opportunità di ascoltare le lezioni di Fedro, unico filosofo epicureo su cui egli esprime un giudizio positivo; di ospitare nella sua casa lo stoico Diodoto, da cui apprende la dialettica; e di frequentare l’accademico Filone di Larissa, al cui insegnamento rimarrà fedele per tutto il corso della vita. Incontra anche lo stoico Posidonio che si trova a Roma per un’ambasceria e che egli avrà occasione di riascoltare in seguito a Rodi durante il suo viaggio di studi.
Dal 79 al 77 a.C., infatti, per completare la formazione retorica e filosofica Cicerone si reca prima ad Atene, dove frequenta le lezioni dell’epicureo Zenone di Sidone e di Antioco di Ascalona, rappresentante dell’Accademia ormai stoicizzata; poi in Asia Minore e a Rodi. Si può dire quindi che egli è in possesso di una buona formazione retorica e filosofica.
Cicerone ha letto e studiato i dialoghi di Platone, conosce le opere pubblicate di Aristotele e ha letto direttamente molte opere dei filosofi precedenti. Aristotele è per lui un modello soprattutto per la metodologia dialettica e per l’arte retorica, che egli fa risalire all’Accademia oltre che al Liceo. Del resto Cicerone, come ogni ambizioso romano della sua epoca, aspira ad apprendere le tecniche argomentative indispensabili per la vita politica.
Il suo interesse per la retorica trova conferma e si approfondisce frequentando le lezioni di Filone di Larissa: poiché la conoscenza certa o non è attingibile o è estremamente difficile da raggiungere, Filone riteneva che ci si dovesse attenere a ciò che è probabile, o persuasivo; si deve quindi accogliere provvisoriamente qualunque punto di vista, ma la provvisorietà delle opinioni richiede che esse siano sottoposte a critica, argomentando pro e contro.
Nel De oratoreCicerone afferma che la vera arte retorica deve essere nutrita di vasta cultura letteraria, storica e filosofica. Platone rappresenta per lui la somma autorità: si tratta di un Platone mediato attraverso l’interpretazione delle scuole ellenistiche, soprattutto degli stoici Panezio e Posidonio e della tradizione platonica, all’interno della quale proprio i suoi due maestri Filone di Larissa e Antioco di Ascalona davano interpretazioni opposte del pensiero platonico: in chiave scettica il primo, dogmatica il secondo.
VIDEO
La civiltà romana
TESTO
T1: Marco Tullio Cicerone, La formazione filosofica dell’oratore
Ispirandosi a Platone come modello e imitandone la forma dialogica, Cicerone scrive il De re publica e il De legibus, i cui titoli riprendono significativamente quelli di due dialoghi platonici, ma che nel loro impianto sono le sue opere politiche più genuinamente romane. Egli è convinto che i Romani siano superiori ai Greci per i costumi, le istituzioni civili, l’organizzazione dello Stato e “quanto ai risultati ottenuti con le doti di natura”, ma riconosce la superiorità dei Greci in campo filosofico. Le tradizioni e i costumi della civitas sono dunque il paradigma alla luce del quale accettare o respingere i sistemi filosofici greci, e non viceversa. Nel De re publica, in particolare, egli si dedica a un’opera di fusione della tradizione e della cultura romana con la filosofia greca allo scopo di dimostrare che la costituzione romana è di gran lunga la migliore.
VIDEO
Filosofi e filosofia a Roma
Cicerone afferma con molta chiarezza che il mos maiorum, cioè la tradizione morale romana, è il principio della vera conoscenza: la fonte della verità e della conoscenza è dunque nella storia della res publica romana. Nonostante il suo interesse per la filosofia si sia manifestato fin dalla giovinezza e sia rimasto costante per tutto il corso della vita, Cicerone dedica soltanto gli ultimi anni, dal 46 al 44 a.C., alla stesura delle opere filosofiche, ovvero quando è costretto ad abbandonare l’impegno politico sotto la dittatura di Cesare. Egli si propone di scrivere una “enciclopedia filosofica” in latino per rendere un servigio ai suoi concittadini e continuare ad agire a vantaggio dello Stato. Il suo vanto è di mettere a disposizione dei Romani opere filosofiche scritte in latino e non più soltanto in greco.
Nel De divinatione, infatti, Cicerone presenta le sue opere filosofiche come un programma coerente e unitario e ne espone sinteticamente il contenuto: l’Hortensius è un’esortazione alla filosofia sul modello del Protreptico di Aristotele; i Libri Academici espongono la filosofia dell’Accademia scettica; le Tusculanae disputationes si occupano del valore terapeutico della filosofia in vista del raggiungimento della felicità; il De natura deorum, a cui si aggiungono il De divinatione e il De fato (che ancora non ha scritto, ma che si ripromette di scrivere) completano la discussione delle teorie fisiche e teologiche. Annovera tra i dialoghi filosofici il Cato Maior e il Laelius che trattano i temi etici della vecchiaia e dell’amicizia. E soprattutto egli rivendica con orgoglio l’appartenenza alla filosofia anche delle sue tre opere retoriche più importanti, il De oratore, il Brutus e l’Orator. Cicerone è il primo, in particolare, a diffondere in latino la filosofia dell’Accademia scettica di cui è seguace, componendo i Libri Academici, che purtroppo in parte sono andati perduti.
TESTO
T2: Platone, Il dialogo filosofico I
TESTO
T3: Marco Tullio Cicerone, Il dialogo filosofico II
TESTO
T4: Marco Tullio Cicerone, La perfetta eloquenza
La sua adesione allo scetticismo dell’Accademia e la scelta della forma dialogica gli permettono di esporre i principi delle più importanti filosofie dell’età ellenistica, mettendoli a confronto e scegliendo per ciascuna di esse ciò che gli sembra essere migliore; mentre, al contempo, l’atteggiamento di distacco epistemologico gli impedisce di riconoscerne la verità. Nel De finibus bonorum et malorum e nel De natura deorum, i portavoce delle diverse scuole filosofiche espongono di volta in volta i principi della loro dottrina e sono sottoposti a critica. Ma Cicerone è convinto che solo in questo modo sia possibile raggiungere ciò che si approssima maggiormente al vero. Questo atteggiamento epistemologico non gli impedisce dunque di concludere che talvolta le altre scuole filosofiche possano sostenere punti di vista più “probabili” e quindi di accoglierli.
Anche nel De officiis, che è un trattato di etica politica e sociale di carattere dogmatico indirizzato al figlio Marco, Cicerone segue la dottrina stoica, ma si concede la libertà di adottare le argomentazioni più persuasive sull’argomento. Il De officiis non è quindi semplicemente una traduzione del trattato di Panezio, dal quale certo prende spunto, ma piuttosto una rielaborazione originale.
BOX
Dalla logica alla retorica: il segno nella tradizione latina
Cicerone si pone come obiettivo di diffondere tra i suoi concittadini la filosofia ellenistica greca, di cui peraltro la sua produzione rimane a tutt’oggi una fonte imprescindibile di informazione. Le opere filosofiche di Cicerone hanno quindi il carattere di un resoconto introduttivo dei temi fondamentali della filosofia ellenistica – epistemologia, etica, teologia – che egli presenta secondo la tecnica accademica dell’argomentare pro e contro, lasciando così al lettore il giudizio finale. Cicerone è consapevole di non elaborare una filosofia originale e ammette continuamente la sua dipendenza dai modelli greci, anche se dichiara di non fare una semplice opera di traduzione. Ma nei prologhi alle sue opere filosofiche egli rivendica il merito di esporre le diverse opinioni filosofiche secondo la sua personale interpretazione, rilevandone pregi e debolezze, e arricchendole con le allusioni costanti alla storia e alla letteratura romana.
ESERCIZIO
E1: Cicerone
Alla base del modo di intendere la diffusione della filosofia di Cicerone vi è l’idea che i Romani colti sappiano leggere e parlare il greco e quindi siano bilingui. È per questo che Cicerone sente la necessità di giustificare la sua opera di traduttore e al contempo di divulgatore della filosofia greca, rivendicando con forza la capacità del latino di riferire un pensiero filosofico complesso. Del resto il dibattito sull’opportunità di filosofare in latino è centrale all’epoca di Cicerone e viene affrontato anche da Lucrezio, il quale esprime serie riserve nei confronti del latino come lingua filosofica. Lucrezio ritiene infatti che il latino, a causa “della povertà della lingua” e della novità del contenuto filosofico all’interno della cultura romana, non sia in grado di esprimere i concetti della filosofia epicurea in tutta la sua pienezza.
LETTURE
Lucrezio
Cicerone è ben consapevole dell’importanza della scelta delle parole quando si deve tradurre in un’altra lingua un concetto filosofico e riportare con fedeltà e correttezza una dottrina. Ma proprio per questa ragione è altrettanto conscio della rilevanza del compito che si è prefisso, dal momento che la lingua latina, pur essendo molto ricca, non sempre dispone di termini tecnici in grado di rendere il significato di quelli greci. Ed egli colma questa carenza anche coniando parole nuove che siano comprensibili e accettabili per coloro che parlano latino. Nel proporre ai Romani la filosofia greca, egli ricorre talvolta all’uso di un termine equivalente e meno tecnico di quello greco, o a più parole per rendere il significato di una singola parola greca, o allo stesso termine greco se l’equivalente non ricorre in latino.
Molti termini coniati da Cicerone – come qualitas, perceptio, probabilitas, evidentia, moralis, indifferens ecc. – si sono affermati nel linguaggio filosofico segnandone la storia. Cicerone è consapevole della difficoltà di adattare alla cultura latina la filosofia, che è una creazione greca, e riconosce che una materia così importante richiede eleganza ed efficacia nelle espressioni. L’obiettivo di Cicerone è dunque di esporre in uno stile elegante le dottrine che i Greci hanno espresso spesso in un linguaggio tecnico e in modo oscuro. L’oscurità è il più grave limite in un discorso, sia di un oratore che di un filosofo. Ma pur ammettendo la differenza tra la filosofia e la retorica, Cicerone è convinto dell’utilità che l’oratore e il filosofo si riuniscano in un’unica persona come in Platone, il suo più alto modello letterario. Questa convinzione si riflette nella ricchezza linguistica della sua prosa filosofica, di cui egli si considera il fondatore nella lingua latina.
AMBIENTE CULTURALE
La parola famiglia (familia) a Roma indica un gruppo diverso da quello che oggi intendiamo con questo termine (quale che sia il gruppo che di volta in volta così definiamo, dalla famiglia nucleare a quella di fatto, da quella monoparentale a quella omosessuale e via dicendo). A Roma quello che accomuna i componenti di una familia non è né il matrimonio, né la convivenza, né il legame di sangue, di affinità o di affetto. È la comune sottoposizione a un paterfamilias, dotato di poteri enormi, che arrivano fino allo ius vitae ac necis, vale a dire il diritto di mettere a morte i componenti del gruppo, del quale fanno parte anche gli schiavi (servi), sottoposti a un potere che, a differenza di quello sui filii, non è detto patria potestas, bensì dominica potestas (da dominus, “padrone”).
Patria potestas A dare un’idea di quanto forti siano i poteri paterni sui componenti liberi della familia basterà citare quello che scrive nel II secolo d.C. il giurista romano Gaio (morto verso il 180 d.C.) nelle sue Istituzioni (1, 55): “Nessun altro popolo ha sui figli un potere come quello che noi abbiamo”. In effetti, la patria potestas romana è caratterizzata da un elemento che la distingue non solo dai poteri che spettano oggi sui figli (ispirati più a un criterio protettivo che a un principio potestativo, ovvero fondato sull’autorità), ma anche dal potere di altri padri dell’antichità (ad esempio quelli greci): a Roma la sottoposizione dei figli ai padri (a meno che il padre non decida di “emanciparli”) non termina al raggiungimento della maggiore età dei figli, ma dura finché il paterfamilias è in vita.
Al momento della morte del paterfamilias, inoltre, vengono liberati dalla patria potestas solo i suoi discendenti immediati, vale a dire i suoi figli e i discendenti di questi. Solo costoro, detti sui, alla morte del paterfamilias cessano di essere alieni iuris (letteralmente “di diritto altrui”) o alienae potestatis subiecti (“sottoposti alla potestà di un altro”), e diventano sui iuris (letteralmente “di diritto proprio”), acquistando la capacità giuridica. Tutti gli altri passano sotto la potestas del nuovo paterfamilias, l’ascendente superstite. A Roma insomma, nel campo del diritto privato, solo il paterfamilias ha rapporti giuridici con gli appartenenti ad altri gruppi. Tutti gli altri componenti del gruppo sono giuridicamente incapaci.
Filii, filiae e schiavi Quantomeno nei primi secoli di Roma, sotto questo profilo l’unica differenza tra i filii e gli schiavi è che i primi hanno nel loro futuro un’aspettativa normale di capacità; gli schiavi, invece, acquistano la libertà (e la capacità che ne consegue) solo se il paterfamilias decide di dar loro la libertà “manomettendoli”, vale a dire compiendo un atto detto manumissio.
ESERCIZIO
La condizione femminile a Roma
Venendo più specificamente ai poteri compresi nella patria potestas, è inevitabile ricordare che il primo potere dei patres è quello, quando una donna del gruppo partorisce, di decidere autonomamente e insindacabilmente se accettare il nuovo nato nella famiglia o rifiutarlo ed “esporlo”, vale a dire abbandonarlo al suo destino. A questo scopo i neonati vengono deposti a terra ai piedi del paterfamilias, che può sollevarli prendendoli fra le braccia (tollere o suscipere liberos), o lasciarli dove sono stati deposti, dando con questo l’ordine implicito di abbandonarli alla loro sorte.
Il primo limite all’esercizio di questo potere viene posto da una lex regia attribuita a Romolo, che stabilisce una sanzione economica (la confisca di metà del patrimonio) a carico di chi espone un figlio maschio o la figlia primogenita. L’esposizione delle figlie cadette, dunque, non è sanzionata (Dionigi di Alicarnasso, 2, 15, 2). La ratio della norma è evidente: in una società agricola, qual era Roma agli inizi della sua storia, una figlia, appena raggiunta l’età, deve andare sposa, trasferendosi in un altro gruppo familiare e portando con sé una dote (l’ipotesi che una donna non si sposi è inconcepibile). Di conseguenza un numero eccessivo di figlie femmine costituisce un problema economico.
Sui poteri che spettano al pater sui figli accolti nella familia (tra i quali, ad esempio, quello di sceglier loro il coniuge) il più rilevante è il potere disciplinare, che arriva al diritto di metterli a morte. I comportamenti che giustificano socialmente l’esercizio di questo diritto (nel momento stesso in cui socialmente impongono al padre di esercitarlo) sono diversi a seconda del sesso dei figli. Sui figli maschi, di regola, esso viene esercitato quando si rendono colpevoli di crimini contro lo Stato. Più in particolare quando commettono proditio (“tradimento”) o perduellio (“delitto contro lo Stato”), vale a dire attentano alle istituzioni. Anche se normalmente questi crimini vengono puniti dallo Stato stesso, quando vengono commessi da un filiusfamilias la civitas si ritrae di fronte al potere paterno.
Sulle figlie femmine, invece, il ius vitae ac necis viene esercitato, di regola, nel caso abbiano perduto la pudicitia (l’”onore”). In altri termini, nel caso in cui si rendano colpevoli del comportamento illecito che i Romani chiamano stuprum, e che nulla ha a che vedere con il reato oggi così definito. Stuprum, infatti, a Roma è qualunque rapporto sessuale intrattenuto da una donna onesta (vale a dire non prostituta) al di fuori del matrimonio o del concubinato. Un ulteriore potere che il pater può esercitare sui figli è il diritto di venderli (ius vendendi), trasferendoli presso un altro paterfamilias in una situazione formalmente diversa dalla schiavitù, ma nei fatti identica a questa (detta causa mancipii). Questo diritto originariamente può essere esercitato più volte: il potere paterno, infatti, è così forte che la vendita del figlio non è sufficiente a estinguerlo. Se dopo essere stato venduto il figlio viene liberato dall’acquirente o per qualunque altra ragione esce dalla sua potestà (ad esempio, se l’acquirente muore senza eredi), il pater riacquista la pienezza dei suoi poteri. Ma le XII Tavole (450 a.C.), la più antica opera legislativa di Roma, stabiliscono: si pater filium ter venum duit, filius a patre liber esto (Tab. IV, 2): “se un padre vende un figlio per tre volte, dopo la terza vendita il figlio sia libero dal padre”.
Un altro potere paterno che ha conseguenze gravissime sui figli è il diritto di darli “a nossa” (noxae deditio), che consiste nel liberarsi di loro, qualora abbiano commesso un delitto “privato”, vale a dire un illecito penale perseguibile su richiesta della parte lesa e punito con una pena in denaro: in questo caso, per evitare di pagare la pena, il padre può cedere il figlio alla parte lesa, ponendolo così di fatto, in condizione di schiavitù.
LETTURE
Filii e patria potestà
LETTURE
La sessualità a Roma
LETTURE
La condizione femminile