Lucio Anneo Seneca nasce nell’attuale Córdoba fra il 4 e l’1 a.C. Di famiglia agiata, svolge studi di grammatica e retorica a Roma, dove ha per maestri i filosofi Papirio Fabiano e Sozione, della scuola dei Sestii (scuola filosofica di orientamento cinico-stoico fondata a Roma da Quinto Sestio nel 40 a.C.), e lo stoico Áttalo. Essi gli trasmettono un insegnamento centrato su una serie di esercizi spirituali e ispirato a un severo rigorismo morale. Seneca entra in Senato poco meno che quarantenne. L’imperatore Claudio, nel 33 d.C., lo incarica dell’educazione del proprio figliastro, Nerone. Quando nel 54 Nerone assume il potere imperiale, Seneca si trova dunque nella posizione di realizzare il sogno che fu di Platone: influire da filosofo sul detentore del potere politico, convertendo il giovane principe alla filosofia o dirigendone le scelte attraverso la persuasione. Tuttavia, nonostante i successi iniziali, Seneca perde ogni ascendente su Nerone e si allontana sempre più dalla vita politica. I suoi ultimi anni sono trascorsi nello studio e nella meditazione. Travolto dal fallimento dell’ennesima congiura contro Nerone, che gli impone il suicidio, Seneca si toglie la vita nel 65 d.C.
LETTURE
Platone
TESTO
T8: Platone, Morire da filosofi I
TESTO
T9: Cornelio Tacito, Morire da filosofi II
Seneca è il primo filosofo stoico di cui possediamo interi scritti. Della sua vasta produzione filosofica ci sono pervenuti due trattati, De clementia e De beneficiis, i cosiddetti Dialoghi, e le 124 Lettere a Lucilio; oltre ai sette libri delle Questioni naturali, a nove tragedie e a un’operetta di satira politica, l’Apokolokýntosis. Sotto il titolo di Dialoghi sono raccolte dieci opere morali in prosa, che comprendono alcuni fra gli scritti più noti: De ira, De providentia, De constantia sapientis, De brevitate vitae, De vita beata, De tranquillitate animi, De otio, oltre alle tre lettere consolatorie Ad Marciam, Ad Helviam matrem e Ad Polybium.
L’opera di Seneca si distingue innanzitutto per la lingua in cui è scritta: il latino. In quegli anni, infatti, la lingua della filosofia a Roma è ancora il greco. Il caso di Seneca non va confuso però col precedente offerto da Cicerone. Cicerone scrive opere di filosofia in latino con un consapevole intento divulgativo, sforzandosi di creare un lessico di base per tradurre presso il pubblico romano idee filosofiche greche. Seneca, invece, scrive in latino perché è il latino la lingua in cui pensa, e raggiunge così l’obbiettivo di arricchire il corredo concettuale della sua scuola.
Un chiaro esempio di questo arricchimento è fornito dal ricorso al termine voluntas. Alla domanda “Che cosa ti occorre per essere buono?”, Seneca risponde: “La volontà”. Questo rompe sia con la tradizione socratica, cui si rifanno gli stoici – Socrate avrebbe risposto: “Conoscere le virtù” –, sia con la teoria dell’azione aristotelica, per la quale la vita pratica stabilisce il fine delle nostre azioni, che è sempre un bene per noi ma non è necessariamente un bene di per sé. Il fatto che ciò che si persegue come un bene sia davvero tale dipende infatti, per Aristotele, dal carattere dell’agente, che può essere virtuoso o vizioso. La centralità attribuita da Seneca alla volontà, in quanto principio dell’azione, ha in larga parte una funzione retorica, di esortazione all’autotrasformazione e al progresso morale: per esempio, nella Lettera 80, l’autore intende dire che per prendersi cura della propria anima non c’è bisogno di risorse esterne – a differenza di quanto avviene per il corpo, che richiede palestre, cibi e unguenti tonificanti – ma è sufficiente volerlo.
A Roma, ai tempi di Seneca, alcuni esponenti stoici si distinguono per la loro posizione critica nei confronti del principato, costituendo la cosiddetta “opposizione filosofica” a Nerone.
Si tratta per lo più di membri dell’aristocrazia senatoria. Qual è il ruolo di questi uomini negli anni in cui Seneca esercita la sua funzione di consigliere del principe? Benché si parli di opposizione stoica al principato, non bisogna pensare a una formazione politica organizzata, né che fra gli esponenti di questo gruppo vi siano dei cospiratori seriamente determinati a restaurare la repubblica. Ciò a cui aspirano questi senatori, dopo i molti abusi perpetrati dall’imperatore Claudio, è il ripristino della normale procedura nei rapporti fra il principe e il senato. In particolare, essi si ergono a custodi della libertas senatoria e della morale pubblica, minacciate dal dispotismo neroniano.
LETTURE
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Nel trattato Sulla clemenza (De clementia), Seneca si fa carico di un’apologia del principato, cui viene riconosciuto il ruolo di istituzione-garante della pace e della sicurezza dei cittadini. Il De clementia traccia un ritratto del principe virtuoso secondo la tradizione dei trattati ellenistici sulla regalità, dove il monarca viene paragonato agli dèi sia per il potere illimitato che detiene, sia per la giustizia e la benevolenza con cui dovrà esercitarlo. Il filosofo pone l’accento sulla virtù della clemenza, poiché soltanto grazie alla moderazione nell’esercizio dei poteri – in particolare nell’assegnazione di pene e punizioni – il principe dimostra di governare innanzitutto se stesso e si differenzia così dal tiranno.
Nel rivolgersi direttamente a Nerone, Seneca adotta una strategia che combina insieme lode e ammonimento. Da un lato, attraverso la finzione dello speculum principis (“specchio del principe”, ovvero un genere letterario che enuncia regole di comportamento per un principe ideale), rimanda a Nerone l’immagine virtuosa che, in effetti, si augura che questi farà propria; dall’altro, gli ricorda come solo l’esercizio della clemenza gli varrà l’amore dei cittadini, che agli occhi di Seneca costituisce l’unico baluardo sicuro per la sua incolumità.
Il filosofo trova nell’azione della natura una conferma delle proprie tesi: guardando alla fisiologia delle api, nota come il re si distingua non solo per una corporatura maggiore, ma soprattutto per la mancanza di uno strumento offensivo (il pungiglione). Per essere in accordo con la norma naturale, dunque, il principe dovrà riprodurre lo stesso comportamento non-violento nei confronti dei propri sudditi (De clementia, I 19, 3). E ciò gli risulterà semplice, secondo Seneca, se vorrà pensare all’impero come al proprio corpo: poiché il principe è la mente che governa l’impero, di conseguenza i sudditi – ovvero ciò che quella mente governa – sono il suo stesso corpo.
Il ruolo di apologeta del sovrano, benché allontani Seneca dagli stoici suoi contemporanei, non è incompatibile con l’ortodossia della scuola. Il coinvolgimento diretto del saggio nelle vicende politiche della città e, più in generale, il suo impegno al servizio dell’interesse comune – quale che sia il regime vigente – sono infatti alla base del pensiero politico dell’antica Stoá, che invece attribuiva un’importanza soltanto secondaria ai problemi di organizzazione costituzionale dello stato.
Le Lettere a Lucilio rappresentano l’opera più influente di Seneca per l’impatto che hanno avuto sulla tradizione letteraria successiva e per il ruolo che hanno giocato, in tempi moderni, nel modellare l’immagine del filosofo. L’intera raccolta delle Lettere è scritta da Seneca nei suoi ultimi anni di vita; si tratta di un’opera che ci è giunta incompleta e che presenta un carattere fittizio. In altre parole non è una corrispondenza reale ma un componimento destinato alla pubblicazione. Del resto sarebbe stato alquanto improbabile uno scambio epistolare che non tenesse conto dei tempi naturali di spedizione: per spedire 32 lettere in 40 giorni, come risulta dagli indicatori temporali presenti in una parte dell’opera, Seneca avrebbe dovuto rassegnarsi a scriverle prima di conoscere le risposte di Lucilio.
Tuttavia, a differenza di altri epistolari filosofici (per esempio la corrispondenza attribuita a Epicuro), le Lettere a Lucilio presentano un peculiare carattere dialogico: Seneca stabilisce di volta in volta il tema da trattare immaginando reazioni e domande del suo destinatario a missive precedenti. Inoltre, la voce di un anonimo interlocutore polemico interviene nei punti più salienti allo scopo di avanzare possibili obiezioni che fanno procedere l’argomentazione. In questo modo il lettore ideale delle Lettere è portato a identificarsi con il destinatario, cioè con un uomo in procinto di intraprendere il cammino di conversione alla filosofia e di progresso morale.
ESERCIZIO
E5: Seneca
TESTO
T6: Lucio Anneo Seneca, La lezione di Áttalo
TESTO
T7: Lucio Anneo Seneca, Brillare di luce propria
Nonostante le singole lettere affrontino temi diversi, si può riconoscere nella concezione della filosofia come pratica terapeutica il tratto distintivo dell’intera raccolta.
Confrontarsi con le Lettere è già di per sé un esercizio: “Mi accorgo, caro Lucilio, che non solo mi vengo correggendo, ma mi sto anche trasformando” (6, 1). Le lettere sono pensate da Seneca come un percorso per arrivare a interiorizzare le verità dello stoicismo: formulare una verità morale, per esempio che solo la virtù è un bene, non è sufficiente per comportarsi di conseguenza, ma occorre impadronirsi del principio calandolo nelle diverse situazioni concrete; solo così si arriverà a conoscerlo veramente. Durante una trasferta fuori città in cui si trova a viaggiare su mezzi di fortuna, Seneca osserva: “Sono sistemato alla meglio su un carretto di campagna; le mule mostrano di essere vive solo perché camminano ancora; il mulattiere va scalzo [...]. Mi sento proprio a disagio se gli altri pensano che questo sia il mio equipaggio [...] e, ogni qualvolta ci imbattiamo in una carrozza elegante, arrossisco; e questo dimostra che non ho ancora ben ferme e radicate nell’animo tutte quelle lodevoli massime di cui mi vanto” (87, 4). Se l’unico vero bene è la virtù, allora Seneca non dovrebbe vergognarsi – né d’altra parte compiacersi – di un oggetto “indifferente” come il mezzo su cui si trova a viaggiare. Per uno stoico cose come la salute, la ricchezza o la comodità del viaggio hanno “valore”, cioè sono “preferibili” rispetto ai loro contrari, ma solo la virtù è un bene, perché solo la virtù può determinare la nostra felicità. Per arrivare a sentire questa verità occorre però “fare esercizio”, per esempio meditare sulle questioni affrontate nelle Lettere, confrontarle con il proprio vissuto, sforzarsi di tenere presenti i principi dello stoicismo nelle situazioni concrete: tale sarà, per esempio, la funzione del Manuale di Epitteto. In questo modo si agisce su di sé, trasformando progressivamente se stessi, superando se stessi, diventando finalmente padroni di se stessi. La “riflessività” del linguaggio di Seneca ha incontrato l’interesse degli studiosi contemporanei sensibili alla cosiddetta “filosofia del sé”, cioè all’insieme delle questioni riguardanti temi specifici come l’identità personale nel tempo (che cosa ci fa continuare a essere quelli che siamo malgrado i cambiamenti) e, più in generale, il modo in cui ogni essere umano è cosciente di sé e del mondo. In particolare, il filosofo francese Michel Foucault (1926-1984) ha rintracciato nelle pratiche stoiche di autotrasformazione un modello del rapporto con se stessi alternativo alla ricerca di un sé profondo, professata per esempio dalla psicoanalisi. La sua proposta, benché continui a sollevare accese polemiche, ha senz’altro avuto il merito di liberare le Epistulae dall’etichetta di lettura edificante, ricollocandole nell’orizzonte socratico della cura di sé.
Ai tempi di Seneca, il tema della partecipazione del sapiente alla vita pubblica è un argomento particolarmente sentito, oggetto di un acceso dibattito all’interno della scuola stoica. La questione presenta due aspetti, il primo di carattere filosofico più generale, ovvero se la “vita pratica” sia da preferire alla “vita teoretica” e il secondo strettamente legato alla figura del saggio, cioè se vi siano delle ragioni che possono impedire al saggio la partecipazione alla vita pubblica, ovvero se quest’ultima vada considerata una sorta di dovere morale oppure se si debba ammettere una serie di condizioni da soddisfare per renderla possibile. Entrambi questi aspetti sono presenti nell’opera di Seneca, in particolare in due scritti appartenenti alla raccolta dei Dialoghi: il De tranquillitate animi e il De otio.
Nel De tranquillitate il filosofo prende posizione contro Atenodoro, uno stoico vissuto nel I secolo a.C., il quale, pur apprezzando l’impegno a vantaggio dei concittadini, sosteneva che in condizioni di particolare corruzione dello stato sia meglio ritirarsi da ogni incarico pubblico e attività sociale. Seneca replica che al contrario la constantia impone al saggio di non ritirarsi troppo in fretta, e mai del tutto, dalla scena politica.
ESERCIZIO
E4: Seneca
Il De otio, invece, è una esortazione a una vita ritirata, dedita alla filosofia e alla contemplazione della natura. Seneca mira a dimostrare che si può preferire la vita teoretica senza per questo cessare di dirsi stoico: chi si adopera per migliorare se stesso, infatti, giova anche agli altri, “poiché prepara un uomo che in futuro potrà essere loro utile” (De otio, 3, 5). Non solo. Seneca osserva che gli stoici ammettono l’esistenza di due “città”: la prima corrisponde alla città storica in cui a ciascuno è dato in sorte di nascere; la seconda coincide con il mondo ed è la casa comune di uomini e dèi, ovvero di tutti gli esseri dotati di ragione. Grazie a una vita libera dagli incarichi pubblici e dalle occupazioni mondane, possiamo renderci utili proprio a questa seconda “città”, la più grande.
TESTO
T5: Lucio Anneo Seneca, Otium et negotium
Dobbiamo dunque pensare a un radicale cambiamento di fronte da parte di Seneca, nel passaggio dal primo al secondo dialogo? È plausibile, invece, che egli abbia sempre apprezzato l’otium come condizione che permette al filosofo di esercitare la propria attività caratteristica, ovvero la speculazione. Nel De tranquillitate si discute della scelta di un’occupazione che sia adatta alla propria indole: a chi ha scelto la carriera politica, per esempio, si consiglia di non ritirarsi troppo in fretta (e mai del tutto), anche qualora la corruzione dello stato renda difficile mantenere una condotta integra; chi non ha un carattere idoneo, perché troppo timido o irascibile, è invece invitato ad astenersi dalla vita pubblica. Il De otio mette in primo piano l’elemento nuovo dell’utilità generale dell’otium e insieme chiarisce le riserve espresse da Seneca a proposito di un’astensione dalla vita politica che si basi sulla corruzione presente dello Stato. Il filosofo nota come nessuno Stato storico presenti condizioni adatte alla natura del saggio; di conseguenza, ammettendo l’astensione per ragioni politiche, si renderebbe l’otium necessario anziché oggetto di scelta, e la posizione stoica sull’impegno civile risulterebbe autocontraddittoria.
In entrambi i testi, in ogni caso, Seneca respinge la giustificazione del disimpegno basata su cause esterne, cioè sullo stato di decadenza della res publica, piuttosto che su un attento esame delle proprie inclinazioni naturali. Questo lascia intuire come dietro le ragioni teoretiche agisca in qualche misura la cautela politica del filosofo, preoccupato di non passare per detrattore di Nerone. Anche sul tema della partecipazione politica, egli prende dunque le distanze dall’atteggiamento degli “stoici” presenti in Senato, i quali ricorrono all’astensione come strumento di censura morale nei confronti del principe.