2. Le scuole neoplatoniche

di Alessandro Linguiti

2.1 Le origini del neoplatonismo: i filosofi e le città

La filosofia dell’età tardoantica è dominata dalla scuola platonica, o neoplatonica, secondo la designazione invalsa dagli inizi del XIX secolo per indicare il pensiero di Plotino e dei suoi successori. Nell’arco di tempo che va dal III al VI secolo il platonismo è infatti l’unica corrente filosofica in grado di mantenersi veramente vitale e di accogliere e rielaborare al suo interno istanze di altre tradizioni.

Plotino fonda a Roma, nel 244, il suo circolo intellettuale. È incerto se, dopo la morte del maestro (270), Porfirio abbia continuato a insegnare a Roma; certo è che, poco dopo quella data, l’attività dei neoplatonici prosegue e si sviluppa altrove. Giamblico, nato a Calcide e allievo di Porfirio, fonda una scuola ad Apamea e forse successivamente a Dafne, sobborgo di Antiochia.

ESERCIZIO

E10: Le scuole neoplatoniche

Il neoplatonismo si trapianta ad Atene grazie a Prisco, anche se fondatore della scuola (che idealmente si colloca nel solco della gloriosa Accademia platonica), è comunemente considerato Plutarco di Atene, detto “il Grande”, interprete e commentatore di Platone e di Aristotele. Alla sua morte (432) la guida della scuola è assunta da Siriano, e successivamente da Proclo, il maggiore esponente del neoplatonismo ateniese. Tra i suoi ultimi rappresentanti illustri si annoverano Damascio, Simplicio e Prisciano di Lidia. I decreti emanati nel 527 e soprattutto nel 529 dall’imperatore Giustiniano, che vietano ai non cristiani l’insegnamento pubblico, determinano di fatto la chiusura della scuola; Damascio, che all’epoca è scolarca, Simplicio, Prisciano e altri quattro colleghi abbandonano allora Atene e cercano rifugio, come narra lo storico Agazia, presso Cosroe, l’illuminato re dei Persiani. Quando nel 532 il re persiano conclude la pace con Giustiniano, vuole che sia garantita ai filosofi la possibilità di tornare in Grecia e vivervi indisturbati; alcuni di loro (o forse anche tutti), tra cui Simplicio, si insediano allora nella città greco-arabo-siriana di Harran (Carre), situata all’interno dei confini dell’impero bizantino, ma di fatto sotto l’influenza della vicina Persia.

Un altro grande centro è Alessandria, la città dove Plotino ventottenne aveva cominciato a seguire le lezioni di Ammonio Sacca e dove la tradizione platonico-pitagorica aveva continuato a mantenersi vitale con pensatori come Ipazia e Sinesio. Nel corso del V e del VI secolo in Alessandria è fiorente l’attività di numerosi intellettuali neoplatonici, anche se è improbabile che vi sia una scuola istituzionalmente organizzata come quella di Atene. Scambi e contatti tra i due centri sono comunque assai intensi. La figura di maggiore spicco è quella di Ammonio, nato ad Alessandria intorno al 440 e noto anche come matematico e astronomo. Come filosofo Ammonio si distingue nell’attività esegetica di Platone e di Aristotele, ma, mentre i suoi commenti a Platone sono andati perduti, a suo nome sono pervenuti numerosi commenti ad Aristotele.

LETTURE

Ipazia, filosofa e scienziata

L’antichissima sapienza: la tradizione platonico-pitagorica

In età ellenistica i filosofi che gravitano intorno all’Accademia abbracciano un orientamento filosofico di tipo scettico, che riconducono ai dialoghi platonici. Ai loro occhi il pensiero di Platone si caratterizza per l’attitudine critica, per l’assenza di teoremi filosofici definiti, per un generale atteggiamento di cautela, per l’invito a sospendere il giudizio, e infine per il riconoscimento che l’unica dimensione alla quale l’uomo può accedere sia quella della “plausibilità”, essendo la verità irraggiungibile.

Una simile impostazione filosofica entra in crisi nella prima metà del I secolo a.C., quando i filosofi platonici attribuiscono al loro caposcuola un’attitudine “dogmatica”, consistente nell’assunzione di un insieme di dottrine definite. Il platonismo si configura quindi come un edificio teorico coerente e compatto. Tra i motivi che accomunano gli autori impegnati nell’impresa di “sistematizzare” Platone, due si impongono: una grande attenzione all’esegesi degli scritti platonici, che sono oggetto di commentari testuali, e il ricorso all’apporto di concezioni provenienti da altre scuole filosofiche, in particolare aristotelismo e pitagorismo.

ESERCIZIO

E14: Le scuole neoplatoniche

Inoltre, tra i platonici attivi in questo periodo inizia a profilarsi un atteggiamento destinato a imporsi nei secoli successivi, e consistente nella ricostruzione di una “genealogia filosofica” che avrebbe avuto in Pitagora la sua origine e in Platone e Aristotele i suoi snodi principali: a Socrate, funzionale al Platone scettico, essi sostituiscono Pitagora. Tra il I e il II secolo sono numerosi gli autori per i quali Platone e Pitagora appartengono a un’unica tradizione. Tra di essi va ricordato Trasillo, responsabile dell’ordinamento del corpus dei testi di Platone in tetralogie, ossia in gruppi di quattro dialoghi.

TESTO

T1: Plutarco, La E di Delfi

TESTO

T2: Plutarco, Le radici della verità I

Il medioplatonismo: Plutarco e Numenio

Le figure più interessanti della tradizione platonica prima di Plotino, comunemente definita come medio-platonismo per il suo carattere transitorio tra il platonismo scettico e il neoplatonismo, sono Plutarco di Cheronea (50-120 ca. d.C.) e Numenio di Apamea (II sec. d.C.). La loro appartenenza al medio-platonismo emerge nella riproposizione da parte di entrambi della classica distinzione tra “essere” e “divenire”.

Nel dialogo dal titolo La E di Delfi, Plutarco sostiene che la E, simbolo delfico, indica la epsilon, quinta lettera dell’alfabeto greco, e intende richiamare l’attenzione sull’importanza del numero 5, che secondo i pitagorici riveste un significato eccezionale, essendo la somma di 2, primo numero pari, e 3, primo numero dispari, nonché il termine della sequenza dimensionale (punto-linea-superficie-solido-solido animato), in cui trova

espressione la struttura della realtà. Per Ammonio invece, che rappresenta nel dialogo il portavoce dell’autore, cioè di Plutarco, la matematica costituisce un “aspetto non trascurabile della filosofia”, ma i suoi oggetti, cioè i numeri, non si identificano con l’essere. La E del tempio delfico, perciò, non evoca un numero, ma esprime la seconda persona del presente indicativo del verbo “essere” – ei, cioè “tu sei” – che rappresenta la formula con cui i fedeli si rivolgono al Dio entrando nel tempio. Così facendo essi riconoscono nella divinità l’essere perfetto, eterno e immutabile.

Anche Numenio, nel suo scritto Intorno al Bene, espone una concezione di stampo platonico: alla domanda su “che cosa è l’ente?” egli risponde che esso si identifica con l’essere intelligibile, il quale è immutabile, eterno e “concentrato nel presente”.

Il dualismo dei principi e la “lotta” tra Bene e Male

Sia Plutarco che Numenio sostengono un dualismo che essi riconducono a Pitagora e Platone, fondato sulla convinzione che la realtà sia riconducibile a due principi contrapposti, l’uno causa e fonte del bene, l’altro del male. Il principio positivo è rappresentato dal Dio-Bene-Uno, cioè dal mondo intelligibile, mentre quello negativo, da cui dipendono il disordine e il male, si sostanzia in un’anima precosmica, causa del movimento disordinato e irrazionale presente nell’universo. Entrambi riconducono poi tutto a due principi assoluti, rispettivamente l’Uno e la Diade indeterminata.

L’antichissima sapienza

ESERCIZIO

E17: Plutarco e Numenio

Mentre per Plutarco le tesi pitagoriche vanno riprese laddove si integrano con il platonismo, ma corrette laddove se ne distaccano, per Numenio, invece, il pensiero di Pitagora è identico a quello di Platone. Numenio equipara l’intera storia del pensiero a un “distacco” dalla verità formulata da Pitagora, ripresa da Socrate e compresa pienamente solo da Platone. Tuttavia né a Platone né a Pitagora spetta il merito di avere scoperto la verità, perché essa ha radici antichissime e risale a una sapienza poetico-religiosa che coinvolge anche popoli diversi da quello greco: essa si trova in Omero, Esiodo, Eraclito, Parmenide, ma anche nei bramani, negli Egiziani e negli Ebrei. Questa antichissima sapienza è espressa in maniera enigmatica e può venire messa in luce solo per mezzo di un’esegesi allegorica dei testi appartenenti a tali tradizioni filosofiche.

LETTURE

Platonismo e pitagorismo in Plutarco e Numenio

Franco Ferrari

2.2 Caratteri metodologici e teorici comuni

Anche i neoplatonici, come già Plotino, non concepiscono la propria attività filosofica come elaborazione originale e autonoma, bensì come un’interpretazione, sempre più accurata e approfondita, del pensiero del “divino” Platone. Platone, tuttavia, non è l’esclusiva auctoritas per i neoplatonici, che tengono in grande considerazione anche le opinioni dei vari esponenti della tradizione platonica, di Aristotele e dei suoi commentatori, degli stoici e dei testi di teologie elleniche e orientali. Il valore attribuito alla tradizione incoraggia grandemente il ricorso alla forma letteraria del commento: parecchi degli scritti, conservati e non, dei neoplatonici sono infatti commentari, principalmente – ma non esclusivamente – alle opere di Platone. Non mancano tuttavia esempi, anche illustri, di opere redatte in forma di trattato autonomo: per esempio, le Sentenze di Porfirio, gli Elementi di Teologia di Proclo, i Problemi e soluzioni sui primi principi di Damascio.

Lo studio di Platone è fondamentale anche nella formazione del futuro filosofo: per l’allievo è dapprima previsto un corso propedeutico basato sugli scritti logici di Aristotele, poi, appunto, lo studio di Platone, scandito in due fasi. Secondo il canone stabilito da Giamblico, nelle lezioni del primo ciclo si esaminano dieci dialoghi platonici, presentati in un ordine prestabilito. Nel ciclo superiore sono invece analizzate le due opere più divinamente “ispirate”, vale a dire il Timeo per le dottrine fisiche e il Parmenide per le teologiche. Seguendo e sviluppando il suggerimento di Plotino, i neoplatonici posteriori cercano di individuare nella sequenza delle ipotesi dialettiche del Parmenide quelli che per essi costituiranno i diversi gradi di realtà, o “ipóstasi”, che dal principio supremo giungono fino alla materia.

Tra i tratti teorici comuni a tutti i pensatori neoplatonici vi è la nozione di un principio supremo, detto in genere “l’Uno” per influenza del Parmenide, collocato al di sopra dell’essere; essere che, per i neoplatonici, corrisponde in sostanza al platonico mondo delle idee intelligibili. Per la verità quasi tutti i neoplatonici postulano l’esistenza di più di un principio superiore all’essere, e a tutti questi principi è applicata, in misura più o meno accentuata, quella particolare modalità di discorso comunemente nota come “teologia negativa”: ciò che è al di là dell’essere è per sua natura privo di determinazione e, come tale, indicibile e inconoscibile; di esso, pertanto, è possibile parlare solo per via negativa, negandogli cioè qualsiasi attributo – persino quelli di “causa”, “principio”, “dio” o “Uno” –, dato che nessun attributo può rendere veramente conto della sua assoluta e trascendente semplicità. È una forma di descrizione del principio supremo, tipicamente plotiniana, che i neoplatonici approfondiscono ulteriormente, giungendo a teorizzare l’autodissolvimento di qualsiasi discorso relativo all’Uno.

Dalla perfetta unitarietà della prima causa procede, per sovrabbondanza di potenza, tutta la serie dei piani di realtà successivi, caratterizzati da gradi crescenti di molteplicità. Il grado massimo di dispersione nel molteplice, e quindi di imperfezione e disordine, si raggiunge nelle cose sensibili e nella materia. La derivazione di tutte le cose dall’Uno si articola, secondo i neoplatonici, in un continuum privo di lacune, scandito in ordini di realtà, o ipòstasi dotati di fisionomia e caratteristiche proprie. A questo riguardo la suddivisione plotiniana della sfera immateriale in Uno, intelletto e anima è dai neoplatonici posteriori complicata ulteriormente, attraverso la proliferazione di piani interni alle tre ipòstasi, organizzati in gruppi perlopiù triadici.

ESERCIZIO

E11: Le scuole neoplatoniche

Dal punto di vista etico l’imperativo fondamentale è per tutti i neoplatonici quello di mantenere la natura spirituale dell’anima il più possibile immune dalla degradazione connessa al corpo, ai piaceri e alle passioni, al fine di ricondurla al suo luogo di origine: l’intelligibile e, infine, l’Uno. A tale scopo, i neoplatonici praticano uno stile di vita basato sullo studio, sull’ascesi e – soprattutto a partire da Giamblico – su pratiche cultuali e magiche, in grado di operare infine la riunificazione dell’anima al principio supremo.

2.3 I principali esponenti: Porfirio, Giamblico, Proclo e Damascio

Per originalità di pensiero e influenza culturale esercitata i neoplatonici postplotiniani più significativi sono probabilmente Porfirio, Giamblico, Proclo e Damascio, senza dimenticare, sul versante dei commentatori di Aristotele di formazione neoplatonica, soprattutto i nomi di Simplicio e di Filopono.

LETTURE

Le scuole neoplatoniche da Porfirio a Damascio

Porfirio

Originario di Tiro, in Fenicia, Porfirio riceve la sua formazione ad Atene. Nel 263 si trasferisce a Roma alla scuola di Plotino, dove rimane per sei anni; circa trent’anni dopo la morte del maestro cura l’edizione delle Enneadi. L’influenza esercitata da Plotino su Porfirio è innegabile, ma significative sono anche le differenze tra i due filosofi: se Plotino era attratto dalle questioni schiettamente filosofiche, ed era incline all’approfondimento della soluzione “platonica” piuttosto che alla mediazione tra posizioni diverse, Porfirio è animato invece da una varietà di interessi quasi enciclopedica, da una spiccata attenzione ai vari fenomeni religiosi (in particolare, per esempio, la sua polemica contro i cristiani), e dalla volontà di trovare punti di convergenza tra il platonismo e le altre correnti filosofiche. In uno scritto ora perduto Porfirio si sforza infatti di dimostrare l’accordo sostanziale tra Platone e Aristotele.

ESERCIZIO

E12: Le scuole neoplatoniche

Nella concezione porfiriana del primo principio sembrano coesistere aspetti contraddittori, dovuti presumibilmente alla mancata conciliazione di istanze plotiniane e di elementi propri del platonismo precedente: se infatti in alcuni scritti l’Uno è da Porfirio mantenuto rigorosamente separato dalle altre ipòstasi, ed è quindi superiore all’essere, altrove esso è descritto come equivalente all’essere puro e anteriore a ogni determinazione, che precede l’essere determinato delle idee intelligibili.

Nell’etica Porfirio insiste sulla necessità di una condotta di vita ascetica per mantenere l’anima pura dalle passioni corporee; questo, unito alla pratica costante del pensiero (inteso non come mero accumulo di conoscenze, bensì come realizzazione integrale di una vita filosofica), potrà consentire il ritorno dell’anima a Dio e l’affrancamento dal ciclo delle rinascite. Le virtù, per le quali si compie l’ascesa morale, sono ordinate da Porfirio in una scala gerarchica (scala che sarà ripresa, e talora ampliata, da numerosi filosofi di epoca tardoantica e medievale) quadripartita: al primo grado si trovano le virtù civili, che si fondano sulla moderazione delle passioni e si esplicano nei rapporti personali e sociali; al secondo grado vi sono le virtù purificatrici, che operano il distacco dal corpo e dal mondo, e hanno per fine la mancanza di passioni; il terzo grado corrisponde alle virtù contemplative, per le quali l’anima volge costantemente il suo sguardo all’intelletto, sua origine; il quarto grado, infine, è rappresentato dai modelli ideali delle virtù presenti nell’essere-intelletto.

Giamblico

Gran parte della produzione di Giamblico (250 ca. - 330 ca.) è perduta, ma gli scritti conservati e le testimonianze posteriori attestano incontrovertibilmente l’importanza decisiva del fondatore della scuola siriana nella storia del neoplatonismo. Grazie a una sua opera in dieci libri interamente dedicata al pitagorismo, divengono patrimonio stabile della scuola aspetti caratteristici della tradizione pitagorica, quali la purezza dello stile di vita, la valorizzazione dell’aspetto matematico, la tendenza ad applicare schemi di pensiero dualistici con riferimento alla coppia di principi limite-illimitato. Agli Oracoli caldaici, una raccolta, risalente al II secolo, di rivelazioni concernenti gli dèi e il destino dell’anima umana, Giamblico dedica i 28 libri della sua Perfettissima teologia caldaica, assegnando così un ruolo di primo piano a pratiche magiche ed evocazioni di potenze divine, giudicate in grado di purificare l’anima umana e operare il suo definitivo ricongiungimento al principio senza più ricorrere alla ricerca intellettuale.

Oltre a fissare il canone scolastico neoplatonico, Giamblico innova profondamente il modo di leggere e commentare i testi, specialmente quelli di Platone: mentre in Porfirio prevale in genere l’indagine di tipo erudito e l’attenzione alle varie possibilità di interpretazione allegorica, Giamblico è animato da un intento tipicamente sistematico: di ogni dialogo platonico occorre dapprima individuare il “tema” (skópos) filosoficamente rilevante, e quindi interpretare alla luce di esso tutti gli altri contenuti. Ogni affermazione di Platone, ritiene inoltre Giamblico, appartiene, a un primo livello di analisi, all’ambito o della fisica o dell’etica o della metafisica, ma la sua validità si estende in realtà a tutti e tre i settori, giacché la stessa verità può essere espressa in termini fisici, etici o metafisici. Compito dell’interprete è pertanto quello di individuare e valorizzare i nessi esistenti tra i tre piani, alla luce del principio di corrispondenza universale.

In ambito più specificatamente filosofico dobbiamo a Giamblico per prima cosa la teorizzazione di un principio supremo ancora superiore all’Uno: un motivo che sarà ripreso e sviluppato da Damascio. Giamblico prende le distanze anche dall’identità di essere e pensiero asserita da Plotino, anteponendo, all’interno dell’ipòstasi successiva all’Uno, il carattere intelligibile a quello intellettivo: le idee che formano l’essere, in altre parole, sono in senso primario oggetti di pensiero e solo in senso secondario soggetti che esercitano il pensiero al suo grado più perfetto ed esemplare.

Proclo

La preminenza di Proclo (412-485) tra i neoplatonici più tardi è motivata sia dalla sua statura di pensatore sia dalla straordinaria influenza esercitata sulla filosofia posteriore: è infatti lecito affermare che è in massima parte procliana l’immagine di Platone che l’antichità trasmetterà al medioevo e al rinascimento. Di Proclo si apprezzano in genere più la coerenza del sistema e la lucidità dell’argomentazione che l’originalità del pensiero.

ESERCIZIO

E13: Le scuole neoplatoniche

TESTO

T8: Proclo, Enade delle enadi

Negli Elementi di teologia, una delle sue opere più rappresentative, formata da 211 proposizioni seguite da altrettante dimostrazioni, Proclo deduce in maniera geometrica la sua scienza metafisica soffermandosi sulla natura e sui rapporti della varie realtà incorporee: l’Uno, le enadi, gli intelletti (ovvero, la sfera dell’essere), le anime. Le enadi sono per Proclo le prime entità che procedono dall’Uno totalmente semplice: unitarie e quasi del tutto simili al principio, esse sono responsabili del primo insorgere della pluralità e della differenza. Diversamente dall’Uno, che è “impartecipato”, le enadi sono infatti “partecipate” e, come tali, capostipiti dei vari ordini “partecipanti”; esse svolgono, cioè, una funzione analoga a quella svolta dalle idee nei confronti delle cose sensibili, essendo però cause delle idee stesse. Superiori persino alle enadi sono i principi del limite e dell’illimitato, l’unione dei quali, il “misto”, corrisponde alla prima manifestazione dell’essere. Il gruppo ternario limite, illimitato e misto si riproduce nei vari ordini di realtà successivi, e costituisce il modello di strutture analoghe, come per esempio della triade permanenza-processione-conversione, attraverso la quale Proclo esprime la legge, dinamica e circolare, che governa l’azione di ogni principio: l’Uno, o qualsiasi causa, “permane” dapprima in sé, nella sua perfezione; poi esce, “procede”, da sé per sovrabbondanza di potenza, e genera così il suo prodotto, che altro non è che la causa in forma dispiegata e pluralizzata; la somiglianza che sussiste tra causa ed effetto consente infine a quest’ultimo di volgersi, “convertirsi”, verso la sua origine, riguadagnando la perfezione iniziale.

Nella Teologia platonica Proclo intende raccogliere e interpretare tutti gli insegnamenti “teologici” – concernenti, cioè, i principi metafisici – rintracciabili nei dialoghi di Platone e ordinati sistematicamente nel Parmenide; anche al fine di integrarli con quelli dei responsi oracolari caldaici, delle rapsodie orfiche, della mitologia omerico-esiodea, del patrimonio dottrinale (neo)pitagorico. Rispetto agli Elementi di teologia, la gerarchia divina è qui più complessa, prevedendo ripartizioni ulteriori all’interno delle ipòstasi intellettiva e psichica. Questa cospicua proliferazione di piani di realtà risponde principalmente a due esigenze: assicurare un posto nella gerarchia metafisica a ogni divinità tradizionale, unificando così prospettiva filosofica e prospettiva religiosa, e mediare quanto più possibile il passaggio dall’Uno al molteplice sensibile, stabilendo una successione di gradi di realtà immune da lacune o da “salti”.

Damascio

L’ultimo scolarca dell’Accademia ateniese si distingue per senso critico e abilità dialettica, di cui fa le spese soprattutto Proclo, nel senso che Damascio (V-VI sec.), pur non mettendo veramente in discussione l’impianto generale della tarda metafisica neoplatonica, interviene spesso con puntualizzazioni polemiche e interpretazioni alternative su molte delle affermazioni dei suoi predecessori. Nella prima parte del trattato Problemi e soluzioni sui primi principi, Damascio sviluppa una notevole critica della nozione di principio, dando nuovo vigore alle tesi di Giamblico: l’Uno, in quanto principio di tutte le cose, è in qualche modo coordinato a esse, e il fatto stesso di esistere, e di essere pensato, in relazione ai molti lo rende imperfetto e non compiutamente trascendente; è pertanto necessario postulare l’esistenza di un’entità ancora superiore, un principio totalmente ineffabile che sia in tutto e per tutto separato e trascendente, al punto di non tollerare neppure le qualifiche di “principio” e “trascendente”, che implicano pur sempre relazione ad altro. Del principio totalmente ineffabile anteriore all’Uno possiamo avere solo un oscuro presentimento, e dobbiamo rinunciare a ogni descrizione razionale di esso.