Con il nome di Corpus Hermeticum si indica una raccolta di scritti di argomento filosofico-religioso redatti da autori diversi in tempi diversi, a partire dal I secolo, e poi raccolti e sistematizzati tra il VI e il IX secolo. Il nome deriva dal dio Hermes.
I Greci avevano attribuito il nome di Hermes o Ermete (per i Romani, Mercurio) al dio egiziano Thot. Troviamo questa divinità citata nel Fedro platonico come l’inventore della scrittura. Identificato con la Luna, Thot era stato adorato nel Medio e Basso Egitto come il dio della misura del tempo. Nel ciclo dei miti di Osiride Thot era lo scriba del dio e in quanto tale appariva come inventore della scrittura e del linguaggio. In seguito appare anche come inventore della magia, dell’astronomia e dell’astrologia, dell’alchimia. Negli inferi Thot scrive il risultato del giudizio su delle tavolette.
Appena entrati in contatto con la mitologia egiziana, i Greci avevano assimilato Thot a Hermes, il messaggero degli dèi. Platone nel Fedro lo presentava come inventore della scrittura ma non lo identificava ancora con Hermes; l’identificazione diventa pressoché normale nel II secolo. A quel punto si costruisce l’etimologia di Hermes da hermenéuein, vale a dire da “esprimere, interpretare”.
È pertanto comprensibile che quando si crea una tradizione che riguarda una sapienza segreta e privilegiata la si attribuisca a Hermes-Thot. Hermes funziona come principio di autorità e chiunque scriva qualcosa che vuole attribuire alla tradizione intemporale della sapienza divina e antica sarà portato ad attribuire le proprie parole a Hermes. Inizialmente questi scritti pseudo-ermetici non volevano essere un falso, così come non erano un falso i dialoghi di Platone che mettevano in scena Socrate come autore delle teorie esposte. Si trattava di una finzione letteraria, in cui il personaggio di Hermes interveniva come protagonista per conferire autorità alle affermazioni dell’autore reale.
Il cosiddetto Corpus Hermeticum è una raccolta che, pervenuta in Italia secoli dopo, nell’epoca umanistica, avrebbe dato inizio al mito di Ermete Trismegisto (“Tre volte grandissimo”). Benché la tradizione, e poi gli umanisti italiani, lo attribuissero a Ermete Trismegisto, talora identificato con Mosè, in effetti si trattava di una raccolta di scritti di autori diversi, tutti viventi in un ambiente di cultura greca nutrita di spiritualità egizia, e probabilmente circolanti in ambienti neoplatonici.
L’epoca della loro stesura è sicuramente posteriore al I secolo. A parte si deve considerare uno dei libri del Corpus, l’Asclepius, a noi noto solo attraverso la sua versione latina (che circola nel medioevo, mentre l’originale greco è andato perduto).
Il Corpus manifesta una mistura di elementi platonici e stoici, e tale sincretismo si verifica solo nel I secolo a.C. Per quanto riguarda le fonti egiziane nulla nel Corpus rivela uno stile di pensiero egizio, tranne alcuni aspetti di ardente pietà, che peraltro erano diffusi nel II secolo d.C. e oltre, in tutta l’area imperiale. Per quanto riguarda il pensiero cristiano, mancano nel Corpus riferimenti alla figura di Cristo come Salvatore, e il lógos che vi appare (che potrebbe essere persino di origine giudaica) si identifica talora con la sapienza divina. Quanto al “secondo Dio” a cui si accenna, non si tratta del Figlio cristiano, ma del Mondo o del Sole. E questi sono elementi platonici (Timeo) ma non cristiani.
Tutto sembra essere il risultato di una compilazione sincretistica di un sapiente ellenizzato.
L’Asclepius parla in toni apocalittici (ma la letteratura apocalittica era consueta nell’età imperiale) dell’invasione dell’Egitto da parte di genti barbare. Ma l’unica invasione dell’Egitto da parte di popolazioni barbare (né romane né greche) avviene solo verso il 270. Questo permetterebbe di datare l’Asclepius al III secolo avanzato.
Nessuna sistematicità unisce i testi del Corpus. A titolo di esempio riassumiamo soltanto i temi del primo discorso (lógos) dei 17 di cui si compone il Corpus, il Poimándres. È sufficiente per vedere come in questi testi s’intreccino motivi egizi, platonici, stoici, neoplatonici, biblici e gnostici, insieme a influenze astrologiche – così da classificare il Corpus come uno dei prodotti più tipici del sincretismo religioso e filosofico di quei secoli.
TESTO
T9: Ermete Trismegisto, La rivelazione del nóus
Nel Poimándres Ermete riceve la sua rivelazione nel corso di un sogno o visione in cui gli appare il nóus. Nóus è un termine greco che nei diversi filosofi può assumere diverso valore: in Aristotele esso designa l’intelletto, attraverso il quale elaboriamo le nostre percezioni e riconosciamo, in parole semplici, un uomo come un uomo, un fiore come un fiore. Nulla di mistico e ineffabile in questa operazione: e tuttavia anche in Aristotele la rapidità, l’intuitività dell’intelletto, che ci permette senza fatica di cogliere l’essenza delle cose, si oppone al lavorio ben più complesso di altre attività spirituali, come la diánoia, che già in Platone era riflessione, attività razionale. Il nóus è più rapido della epistéme, che è la scienza, della phrónesis, che è riflessione sulla verità. Così, gradatamente, il nóus, che per Platone era la capacità di intuire le idee e per Aristotele l’azione quotidiana di percepire le sostanze come tali, diventa nel misticismo ellenistico la facoltà dell’intuizione mistica, della illuminazione non razionale, della visione istantanea e non discorsiva.
Nel Corpus il nóus s’identifica con la luce che emerge di fronte alla oscurità inferiore. La luce è Dio Padre e il lógos è suo Figlio. La luce si è organizzata in innumerevoli Potenze. Il mondo luminoso delle potenze è il mondo degli archetipi ideali e il mondo sensibile si forma per una sorta di divisione interna alla volontà di Dio che, ricevuto il lógos, vuole imitare il mondo archetipo. Il primo nóus, Dio Padre, androgino, ne genera un secondo, il demiurgo, e questi produce i Sette Governatori che presiedono ai sette cerchi planetari, il cui governo è il Destino. Il lógos abbandona la natura umida e va a ricongiungersi col demiurgo e insieme stabiliscono i sette cerchi del fuoco, il cui movimento trae all’essere gli animali, e ciascuno dei quattro elementi produce i propri.
Il primo nóus genera come propria immagine l’Uomo archetipo. L’uomo riceve il permesso di essere demiurgo a sua volta. I Governatori lo amano e lo accolgono tra loro. L’uomo si mostra alla Natura, che lo ama, e si unisce a essa. L’uomo è dunque caduto e misto di spirito e di corpo. Fecondata dall’uomo, la natura genera sette uomini terrestri androgini che corrispondono ai Sette Governatori. Alla fine di questo periodo Dio divide tutti gli animali e gli uomini in maschi e femmine. Questi esseri si uniscono e si moltiplicano. L’uomo che si conosce come immortale mira al bene sovrabbondante, mentre colui che ama il suo corpo vive nelle tenebre e nella morte. La presenza del nóus non è accordata che agli uomini virtuosi.
Il corpo è soggetto all’alterazione e, quando la forma visibile scompare, la parte morale è data ai demoni. Ma l’anima umana può risalire attraverso i cerchi planetari rendendo a ciascuna delle sette zone, come vesti smesse, gli accidenti e le passioni di cui è stata rivestita durante la sua discesa. Nuda, raggiunge l’Ogdoade, entra nel coro delle Potenze superiori all’Ogdoade e diventa Potenza essa stessa. Entra in Dio e diventa Dio. Sia la divinizzazione dell’uomo che la nozione di Ogdoade ricordano elementi gnostici. Per Ogdoade si debbono intendere i sette pianeti più una entità superiore, che in diversi trattati appare come il Sole o altro. Il coro delle Potenze è superiore all’Ogdoade. La storia della creazione del Corpus ricorda quella della Genesi, tranne che nel Corpus l’uomo è di natura divina e può diventare Dio.
Un cenno a parte merita l’Asclepius. Citato da Agostino e da vari pensatori scolastici, l’Asclepius non presenta alcuna cosmogonia mitica, non è ossessionato dal male in generale ed elogia la procreazione. A questi motivi probabilmente si deve la sua traduzione e la sua sopravvivenza nell’ambiente patristico e poi medievale.
ESERCIZIO
E17: Il Corpus Hermeticum
ESERCIZIO
E18: Il Corpus Hermeticum
Il Corpus è stato definitivamente riconosciuto come testo tardo grazie a Isaac Causobon, nel XVII secolo, con argomenti filologicamente stringenti. Ma presso tutti i cenacoli occultistici, a dispetto di questi fatti, è stato in seguito e ancor oggi preso come autentico documento di antichissima sapienza.
Nei secoli della dominazione romana, Atene rimane uno dei grandi centri culturali dell’impero insieme ad Antiochia, Costantinopoli, Alessandria d’Egitto. Ma una lunga tradizione conserva alla città greca un ruolo particolare: Atene è “la città dei filosofi”. Le sue scuole, fino alla tarda antichità, attirano studenti da tutto l’impero, ma diventano anche progressivamente il bersaglio di chi, come Tertulliano nel II secolo, vi scorge il simbolo del sapere profano: una nuova Babilonia, che oppone le sottigliezze della filosofia alla semplicità e verità della fede cristiana. Mentre il soggiorno ad Atene sarà fondamentale per la formazione filosofica del futuro imperatore Giuliano (detto l’Apostata), promotore nella seconda metà del IV secolo di una energica quanto effimera rinascita del paganesimo e di una politica culturale volta ad escludere i cristiani dall’insegnamento.
L’ascesa del cristianesimo e la sua consacrazione a religione di Stato dà il via a un crescendo di provvedimenti repressivi contro i centri del sapere pagano. Il primo segnale è l’editto di Teodosio II, nel 425, con il quale viene fondata la cosiddetta “università di Costantinopoli”. Per la prima volta si istituisce una cattedra imperiale di filosofia; ma in tal modo l’insegnamento, e quindi la diffusione e circolazione del sapere, viene sottratto all’iniziativa di maestri privati – come quelli delle scuole di Atene – e posto sotto il diretto controllo del potere politico. A partire dall’ultimo quarto del V secolo, la religione e la cultura pagana devono fare i conti con una crescente intolleranza. A Roma la rimozione dell’altare della Vittoria dal Senato colpisce uno dei simboli della storia pagana della città. Ad Atene il bersaglio privilegiato è senza dubbio l’Accademia: la scuola, infatti, raccoglie ancora un gran numero di adepti, è ricca e autonoma, e l’insegnamento di filosofi come Proclo e Damascio le dona lustro e peso politico.
L’offensiva finale contro il pensiero pagano, protagonista l’imperatore Giustiniano, parte nel 527. Una legge di quell’anno, infatti, revoca a eretici, ebrei ed elleni (ovvero pagani) ogni carica nell’amministrazione statale, negando inoltre il diritto all’insegnamento. Cancellando la possibilità di tenere pubbliche lezioni, si colpiscono le scuole filosofiche nell’esercizio del libero dibattito intellettuale. Con un altro provvedimento vengono tagliati i finanziamenti all’Accademia, culti idolatrici e sacrifici sono vietati: la “follia degli Elleni” (così è definita la filosofia pagana nel provvedimento del 527) deve essere estirpata.
In questo quadro si colloca l’evento emblematico del 529 d.C., quando un editto dell’imperatore Giustiniano vieta l’insegnamento della filosofia ad Atene, imponendo di fatto la chiusura delle scuole cittadine e mettendo fine a una tradizione quasi millenaria. Il decreto colpisce due valori fondamentali del modello filosofico greco: la parrhésia e la politéia, cioè la libertà di parola e l’impegno politico. Giustiniano pone così sotto controllo quello che è percepito come un potenziale centro di dissenso: l’ultimo scolarca dell’Accademia, Damascio, aveva infatti incoraggiato l’impegno politico della scuola, in linea con il modello di filosofo tratteggiato da Platone nella Repubblica.
Non si hanno notizie della reazione dei filosofi ateniesi all’editto, né sembra che esso abbia avuto una particolare eco nel mondo intellettuale tardo antico. Lo storico Agazia Scolastico narra però di un evento, avvenuto attorno al 531, che forse costituisce una risposta al provvedimento di Giustiniano: sette filosofi – tra i quali lo scolarca Damascio – avrebbero abbandonato l’impero romano per rifugiarsi alla corte dell’imperatore persiano Cosroe. I sette, riferisce lo storico, vedevano in quello persiano lo stato più giusto, perché plasmato sul modello della Repubblica di Platone, dove “filosofia e politica erano una cosa sola”.
Il 529 è una data comoda per definire un’epoca storica. Essa non segna tuttavia la fine del pensiero antico e neppure dell’insegnamento pagano: altri centri importanti, come Harran (l’antica Carre, nell’attuale Turchia sud-orientale) e Alessandria d’Egitto, proseguono la loro attività. Ma certamente l’editto di Giustiniano è la spia del tramonto di un modo di praticare la filosofia che aveva caratterizzato con una certa continuità tutto il mondo antico. È anche il segno del definitivo imporsi di un modello culturale, quello cristiano, destinato a mutare profondamente la pratica e la geografia del sapere occidentale: nello stesso anno del decreto di Giustiniano, infatti, Benedetto da Norcia fonda l’abbazia di Montecassino, primo nodo di una fitta rete di monasteri che costituiranno le nuove scuole della cultura cristiana altomedievale.