Maestro del Laterano, Sant’Agostino, resti dell’antica Biblioteca del Palazzo del Laterano, VI sec., Roma, Scala Santa
L’itinerario filosofico di Agostino segue due direzioni fondamentali: dall’esteriorità delle sensazioni che provengono dal mondo verso l’interiorità del proprio modo di vivere la ricerca di verità e felicità; questo movimento dall’esterno all’interno implica simultaneamente un movimento dal livello inferiore, che è il mondo creato su cui l’anima conduce la sua ricerca, a un livello superiore che è quello dell’interiorità, nel quale intravedere le ragioni e le risposte ultime. La riflessione agostiniana si muove fra gli strumenti della ragione e quelli della fede, con una oscillazione tra l’uno e l’altro che è rappresentata vivacemente, come vedremo, nel racconto autobiografico. La fede richiede di essere approfondita e inserita in una visione complessiva fondata sulla ragione, la quale, a sua volta, trova nella fede un fondamento che non potrebbe trovare in se stessa. La ricerca della verità è sempre, in Agostino, un percorso inscindibile dalle vicende esistenziali. Più in generale, la sua filosofia non può mai essere posta e compresa prescindendo dal soggetto che la costruisce: le conclusioni che di volta in volta sembrano risultati definitivi vengono successivamente rimesse in discussione, perché, osservate da punti di vista differenti e in situazioni diverse della vita, rivelano nuovi problemi, pongono nuove domande e oggetti nuovi di indagine.
Per questi motivi le Confessioni, il grande racconto autobiografico che Agostino compone tra il 397 e il 401/403, rappresentano un punto di vista privilegiato per affrontare lo studio del suo pensiero, anche perché scritte, come vedremo, in anni decisivi, nel periodo in cui matura una svolta nel suo percorso esistenziale con la consacrazione a vescovo di Ippona. L’opera racconta le vicende biografiche di Agostino: dalla giovinezza movimentata dello studente che a diciassette anni giunge dalla provincia a Cartagine e assapora i piaceri della vita cittadina, all’unione con la donna che sarà al suo fianco per tredici anni e che gli darà un figlio, Adeodato, morto in giovane età e protagonista del dialogo De magistro, fino agli anni nei quali si collocano la conversione al cristianesimo, la morte della madre Monica e il ritorno in Africa. Capolavoro di stile e di sapienza retorica, oltre che un classico del pensiero filosofico, le Confessioni sono sicuramente l’opera agostiniana più letta, per la straordinaria capacità di costruire un racconto autobiografico che è al tempo stesso esperienza di formazione culturale e religiosa, e profonda analisi dell’interiorità dell’autore. L’opera è composta negli anni in cui, forse per la prima volta, Agostino porta in primo piano il problema del rapporto fra grazia divina e salvezza umana, tema centrale del suo pensiero. Le Confessioni possono allora essere lette come un modo per ripercorrere il cammino, biografico e intellettuale, che ha condotto Agostino fino alla decisiva conversione alla religione cristiana e alla maturazione della propria via alla riflessione filosofica.
Al centro delle Confessioni, infatti, si colloca l’episodio della conversione alla piena fede nel Dio cristiano, che rappresenta in un certo senso anche il più importante tra i tanti mutamenti del punto di vista che si ripetono continuamente nella sua vita e nel suo pensiero. Un mutamento che non fissa la ricerca agostiniana in una sintesi definitiva: subito dopo la conversione, infatti, Agostino afferma di non avere più alcun dubbio sull’esistenza di Dio, per chiedersi tuttavia nelle righe successive che cosa sia quel Dio di cui e a cui parla. La ricerca si riapre, è cambiato il punto di vista, si è avuta l’esperienza della conversione, ma la ricerca deve comunque riprendere.
Agostino nasce a Tagaste, nell’Africa proconsolare romana, nel 354. Suo padre Patrizio è pagano, mentre la madre Monica è cristiana. Il cristianesimo è una religione che Agostino dunque conosce da sempre e dalla quale non si allontanerà mai del tutto, pur non riuscendo negli anni giovanili ad accettarla pienamente. Il succedersi degli episodi biografici narrati nei primi nove libri delle Confessioni ripercorre la storia di una ricerca strettamente intrecciata al processo di formazione di Agostino.
Dopo avere studiato grammatica e retorica a Madaura e a Cartagine, la lettura dell’Hortensius di Cicerone suscita in Agostino l’interesse per la conoscenza e l’amore per il sapere. In seguito anche all’influenza della madre, decide di dedicarsi allo studio delle Sacre Scritture, dalle quali tuttavia si allontana sia a causa dell’Antico Testamento – i cui contenuti sente distanti dalla educazione cristiana ricevuta dalla madre – sia per lo stile assolutamente non all’altezza degli autori classici studiati. Agostino va dunque alla ricerca di una spiegazione puramente razionale del mondo e di una risposta al problema, che si va facendo per lui imprescindibile, dell’esistenza in esso del male. Ritiene di trovarla nel manicheismo, la dottrina attribuita al sacerdote persiano Mani (III sec. d.C.), che spiegava il male ipotizzando due principi, uno buono e uno malvagio, tra loro perennemente contrapposti; il male era quindi ricondotto alla fase, ciclicamente ricorrente, in cui il principio malvagio riusciva a prevalere su quello buono. Agostino, però, si allontanerà presto dal manicheismo, deluso dall’incontro con Fausto, il maestro più noto, e soprattutto dalla contraddittorietà tra i rigidi principi etici della dottrina e la condotta dei suoi seguaci, che in quanto eletti si ritenevano esentati dal rispetto di qualsiasi regola morale.
Il vescovo Ambrogio in un mosaico del sacello di San Vittore in Ciel d’Oro, V sec., Milano, Basilica di Sant’Ambrogio
Insoddisfatto dall’esperienza dell’insegnamento a Cartagine, come scrive egli stesso nelle Confessioni, nel 383 Agostino si trasferisce a Roma e successivamente a Milano. Qui, mentre svolge la professione di maestro di retorica, ha modo di ascoltare le prediche del vescovo Ambrogio e di apprezzarne la lettura allegorica dell’Antico Testamento, che la sua formazione classica gli aveva fatto apparire grossolano. Incerto sulla possibilità di raggiungere qualche verità, Agostino si sente ora vicino alle posizioni scettiche sostenute da alcuni rappresentanti dell’Accademia platonica.
Ma si distaccherà presto anche da questa tradizione per l’influenza decisiva della lettura di testi neoplatonici – Plotino e Porfirio probabilmente –, che gli consentono di acquisire concetti metafisici fondamentali, grazie ai quali si riavvicina nuovamente al cristianesimo.
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Le scuole neoplatoniche
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Plotino
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Scienza e tecnica nell’alto medioevo
L’episodio decisivo della conversione è raccontato nell’ottavo libro delle Confessioni: combattuto tra la volontà di perseguire le proprie ambizioni mondane e la crescente adesione alla fede cristiana, Agostino, mentre passeggia assorto in giardino, sente una voce che gli intima tolle, lege (“prendi, leggi”). Aperto a caso il testo delle lettere di san Paolo sul quale stava meditando, vi legge l’esortazione ad abbandonare i desideri della carne e a seguire l’insegnamento di Cristo.
Convertitosi dunque al cristianesimo, Agostino lascia l’insegnamento e si ritira a Cassiciaco, in Brianza, proponendosi di abbandonare l’ansia di soddisfazioni esteriori – onori, ricchezze, piaceri sensibili –, per avviare invece un processo di purificazione intellettuale e spirituale e dedicarsi alla ricerca della verità. È a questo periodo che risale la stesura di una serie di dialoghi – Contra Academicos, De beata vita, De ordine, oltre alle riflessioni dei Soliloquia, al De immortalitate animae, al perduto De grammatica e al De musica. Cercare la sapienza coincide, per Agostino, con la ricerca di felicità e bontà, come sostiene nel De beata vita e in molti altri passaggi dei Dialoghi, condotti insieme ad alcuni allievi, come Evodio, e alla madre Monica, la quale, quando appare nelle conversazioni filosofiche, rappresenta sempre il punto di vista della fede capace di integrarsi con quello della filosofia (o dell’intelletto).
LETTURE
Akrasia. Debolezza morale e uomini malvagi
La compresenza di due vie per la ricerca – l’intelletto e l’autorità della fede – si ritrova anche nella discussione sviluppata nel Contra Academicos a proposito delle posizioni scettiche maturate nella tradizione platonica. Partendo dalla domanda se, per raggiungere la felicità, sia necessario arrivare alla verità o sia sufficiente cercarla senza mai pretendere di possederla in via definitiva, Agostino si misura con il dubbio scettico, che a suo avviso non può essere approvato nella sua formulazione radicale dal momento che esso comporta la messa in discussione perfino dell’esistenza di se stessi e della realtà. Così come non si può ammettere l’assenso precipitoso di fronte ad apparenti conclusioni.
Per Agostino, seguire con attenzione il percorso tracciato dalle sette arti liberali (grammatica, retorica, dialettica, musica, astronomia, matematica e geometria), che rappresentano i modi in cui per gli antichi si è organizzata la conoscenza del mondo, consente di dare un certo ordine anche al processo di formazione culturale individuale. Il De ordine, proponendo tale itinerario, pone anche la questione della possibilità umana di afferrare l’ordine del creato nella sua totalità e di ricondurre la molteplicità della conoscenza a unità.
Ricevuto a Milano il battesimo da Ambrogio, nella veglia pasquale del 387, Agostino decide in seguito di ritornare in Africa. Durante il tragitto verso Tagaste giunge a Ostia, dove muore la madre Monica. Il sopraggiungere della cattiva stagione e l’inquieta situazione politica lo inducono a rimandare la partenza e a trattenersi a Roma. Qui Agostino scrive altre opere significative in cui prosegue la sua ricerca filosofica. Nel De quantitate animae vengono sollevate diverse questioni relative all’anima, ma la riflessione si concentra quasi esclusivamente sulla sua grandezza, da intendersi in termini puramente spirituali, e sul suo rapporto con il corpo. L’anima, che è anche il soggetto della conoscenza, non può avere un ruolo puramente passivo nel momento della conoscenza sensibile. Attraverso l’introspezione e la concentrazione in se stesso – “Mi sono rivolto a me stesso e mi sono chiesto: ‘Tu chi sei?’ ‘Un uomo’. Ecco qui: corpo e anima, l’uno esterno l’altro interiore” (Confessioni, X 6, 9) – l’anima diviene consapevole di sé e della propria attività percettiva, perché all’anima non sfugge nulla (non latet) di ciò che accade al corpo e la conoscenza non è che il risultato dell’attenzione (intentio) dell’anima sugli oggetti sensibili che vengono così appresi.
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Le arti liberali: Cassiodoro e Marziano Capella
Mosaico IV secolo , Montréal du Gers (Francia), Villa di Seviac
Nel De musica, composto nello stesso periodo, la riflessione sull’anima si approfondisce: l’azione vivificatrice operata dall’anima sugli organi di senso viene aiutata oppure ostacolata da quanto proviene dall’esterno e si produce così una sensazione piacevole oppure spiacevole. Particolare attenzione viene data, nel corso dell’opera, ai temi del suono, della percezione uditiva e del giudizio intellettuale derivante dall’ascolto. L’analisi agostiniana propone una dottrina che si può in certa misura definire “estetica”, al centro della quale si colloca il tema della proporzione, della misura e dell’armonia.
Nel 388, a Roma, Agostino comincia la stesura del De libero arbitrio, che concluderà attorno al 391 a Ippona – oggi Arraba, centro costiero dell’Algeria settentrionale – , città poco distante dalla nativa Tagaste e della quale sarà ordinato vescovo nel 395. Il dialogo difende una posizione che afferma la libertà dell’uomo nonostante l’onnipotenza e la provvidenza divina, che tutto prevede e dispone. Posizione che Agostino abbandonerà successivamente, in quanto caratterizzata da uno spazio eccessivo concesso alla responsabilità e all’iniziativa dell’uomo.
Il De libero arbitrio si apre con la domanda se Dio sia l’artefice del male. Il male si presenta sotto un duplice aspetto: come mancanza di essere, cioè come nulla, e come atto della volontà che si distoglie da Dio per volgersi ai gradi più bassi della realtà.
Per quanto riguarda il primo aspetto, Agostino sostiene che l’essere è buono perché proviene da Dio che è sommo bene; quindi le creature sono buone in quanto sono. L’essere è bene in quanto tale, e il male è privazione di essere, cioè di bene: il disegno divino dell’universo, tuttavia, comprende anche il male, perché ogni essere ha il posto e il grado che gli conviene, ed è buono nei limiti assegnati dal Creatore.
Dal punto di vista della volontà, invece, il male è il peccato che le creature commettono allontanandosi coscientemente dall’ordine stabilito da Dio. Le pene e i castighi che ne conseguono riconducono anche le azioni malvagie nell’ordine governato dalla giustizia divina.
TESTO
T4: Agostino, Il paradosso della volontà
Agostino, rispondendo così a quella che nelle Confessioni diverrà la domanda classica sull’origine del male (Unde malum?, ossia “da dove viene il male?”), definisce dunque il male come nulla. In questo modo toglie a Dio la responsabilità del dolore e delle sofferenze che patiscono le creature. Il male non esiste se non in quanto errore di prospettiva dell’uomo, il quale non riesce a cogliere l’armonia di un universo creato capace di comprendere dentro di sé anche il dolore, il peccato e il male.
TESTO
T2: Agostino, L’ordine, il male e l’errore
Mosaico detto "Daniele tra i leoni", IV sec., Tunisi, Museo del Bardo
Agostino individua non nell’attività dei sensi, ma in quella dell’anima il motore della conoscenza. Secondo Agostino, il meccanismo della sensazione è prettamente fisiologico: “dal cervello [...] come da un centro si dipartono sottili cunicoli che arrivano non solo agli occhi, ma anche agli altri sensi [...] per rendere possibile l’udire, il percepire gli odori e il gustare” (De Genesi ad litteram, VII, 13, 20). La percezione non è solo di natura fisiologica ma è un processo psichico, determinato dall’interazione tra anima e corpo. In questa interazione è sempre l’anima ad agire sull’organismo sensibile, e non viceversa: superiore per natura a ogni realtà materiale, l’anima, che è spirituale, non può in alcun modo patire o essere modificata dal corpo. Agostino ammette che l’individuo è spinto a conoscere dall’oggetto che percepisce, tuttavia egli sottolinea che la percezione vera e propria si origina dalla riflessione che l’anima esercita volontariamente sugli stimoli sensoriali cui è sottoposto il corpo. I sensi sono sempre veritieri quando ci riferiscono le loro percezioni: l’errore nasce, infatti, solo nel momento in cui la mente esprime un giudizio intellettivo su ciò che appare.
Gli apparati olfattivo, visivo, auditivo, tattile o gustativo si mescolano, si correggono continuamente, convergendo l’uno con l’altro. Così, ad esempio, il tattile e il visivo si alleano nella determinazione degli oggetti, mentre il gusto non è concepibile senza la visione, l’olfatto, il tatto e persino l’udito. Spetta, poi, al “senso interno” (sensus interior) unificare le diverse sensazioni provenienti dai cinque sensi esterni, di per sé non percepibili. Infine la facoltà intellettiva ha il compito di decifrare tutte le percezioni e giudicare i dati del senso interno. In altre parole, non sono gli occhi a vedere, le orecchie a sentire, le mani a toccare, il naso a odorare e la bocca a gustare, ma la mente: “sentire non è una proprietà del corpo ma dell’anima per mezzo del corpo” (De Genesi ad litteram, III,5). Gli stimoli sensoriali subìti dal corpo sono immediatamente presenti all’attenzione dell’anima, che li giudica con un atto intellettivo, quindi la sensazione è già un atto mentale.
La percezione culmina nella visio corporalis, un’immagine (similitudo) che rappresenta l’oggetto in tutte le sue qualità sensibili. Tale similitudo è poi impressa nella memoria, con una forma che Agostino definisce visio spiritualis, che può essere recuperata nel pensiero ogni qualvolta la mente la voglia ricordare. La visio spiritualis è anche alla base di un nuovo atto mentale da cui si origina il pensiero intellettuale. L’anima volge poi il suo sguardo sull’immagine mentale che viene espressa dall’intelletto in una visione interiore che è più di tutte le altre lontana dal corpo e depurata dalla sensibilità: si tratta della visio cogitantis, che non è una semplice rappresentazione dell’oggetto, al pari delle precedenti visioni, ma piuttosto il pensiero della cosa (res), il suo concetto, diremmo oggi. Ciò che, da ultimo, esprime e schiude questa conoscenza è la parola del cuore (verbum in corde): pensare è per Agostino parlare nel proprio cuore, nell’interiorità, con una lingua che non s’identifica con nessun idioma particolare, ma si limita a indicare gli oggetti come segni e a porli in luce nell’animo.
Tornato in Africa dopo la morte della madre Monica, oltre a portare a termine alcune delle opere iniziate in Italia, Agostino scrive il De magistro (fra il 388 e il 391), contributo essenziale per comprendere la sua teoria della conoscenza e in particolare quell’aspetto spesso ricordato come dottrina dell’illuminazione. La prima parte dell’opera è dedicata a una minuziosa analisi dei termini linguistici, intesi come segni che rimandano, in quanto tali, alle cose che significano. La riflessione prende spunto dall’esame di due casi problematici del linguaggio: il canto e soprattutto la preghiera. Se le parole sono in generale segni istituiti per insegnare e far ricordare, le parole della preghiera sono “un parlare dentro di sè” (De magistro, 1, 2) che non ha bisogno di risuonare esteriormente. Mentre i segni del linguaggio verbale sono convenzioni per richiamare e significare gli oggetti che conosciamo, il linguaggio interiore (il verbum cordis, cioè la “parola del cuore”) per Agostino non rappresenta una mediazione tra le facoltà conoscitive dell’uomo e gli oggetti, ma dice direttamente le cose. In questo modo egli richiama, nell’analisi del linguaggio, la priorità delle cose cui le parole si riferiscono rispetto al piano delle parole stesse. Nella seconda parte, spostando l’attenzione sull’uso del linguaggio per comunicare e insegnare, Agostino, secondo un modo di procedere a lui consueto, conduce il ragionamento fino a una contraddizione apparentemente insolubile: dapprima dimostra che non si può insegnare nulla se non per mezzo di segni, ma subito dopo osserva che propriamente i segni non sono in grado di insegnare nulla, in quanto non producono nuove conoscenze se non si sa già precedentemente a cosa essi rinviano. Agostino fa l’esempio del passo biblico (Dn, 3, 94) dove compare il termine oscuro “sarabare”. La parola non è in grado di insegnarci cosa siano le “sarabare”; al contrario, è solo la conoscenza della cosa che mi permette di apprendere il significato della parola: “si apprende più il segno tramite la cosa conosciuta che la cosa tramite il segno dato” (De magistro, 10, 33).
Questa difficoltà si supera grazie al “maestro interiore”, cioè alla capacità primaria di misurare quanto ci viene comunicato, grazie all’esistenza di una possibilità di giudizio che consente di comprendere la fondatezza di quanto sentiamo, ossia grazie a una sorta di illuminazione da parte di Dio.
Agostino afferma che il maestro interiore è Cristo, dimostrando la stretta connessione tra filosofia e fede: la dottrina filosofica trova un punto di appoggio nella convinzione religiosa cristiana secondo cui, almeno in un momento della storia, il Verbo, sede dei significati delle cose create, si è fatto uomo, cioè segno fra gli altri segni. Nel profondo dell’anima, dunque, avviene l’incontro tra l’uomo e Dio, poiché in interiore homine habitat Veritas (“nell’uomo interiore risiede la Verità”, De Vera Religione, XXXIX, 72).
Grazie alle arti liberali, suddivise in trivio (grammatica, retorica e dialettica) e quadrivio (aritmetica, geometria, musica e astronomia), per Agostino è possibile cogliere l’ordine che Dio ha imposto alla creazione. Per questo, Agostino afferma che tali arti conducono la mente umana dall’ammirazione della perfetta armonia della natura alla contemplazione delle realtà incorporee, cioè a Dio.
La progressiva astrazione dalla sensibilità perseguita da Agostino si attua anzitutto partendo dalla musica. È perciò a questa disciplina scientifica (e quindi appartenente al quadrivio) che egli dedica un dialogo in cinque libri, il De musica. Tema dell’opera è la musica intesa come scienza della misura che si organizza nella struttura della ritmica e della metrica classica romana (per metrica si intende la strutturazione del verso poetico in base alla quantità o durata delle sillabe). Il De musica si apre infatti con una discussione su cosa significhi “muovere la voce secondo la misura”, cioè scandire la parola in base a una successione numerico-ritmica. La musica insegna a fare proprio questo, afferma Agostino, e quindi musica est scientia bene modulandi (I, 2, 2), cioè “la musica è una scienza che insegna a modulare la voce in modo appropriato, seguendo ritmo e metro”.
Suonatore nero di aerofono, V sec., Riggisberg (Svizzera), Abegg-Stiftung Museum
A completamento di tale ricerca Agostino introduce una teoria della sensazione, sviluppata nel sesto libro, e basata sul principio unificante del numero ritmico. Il ritmo sensibile, quale è appunto quello delle parole pronunciate secondo la loro metrica e il corretto ritmo, è conoscibile dall’anima, perché anch’essa è strutturata secondo rapporti analoghi: sia l’anima che la musica operano attraverso numeri e “scansioni ritmiche”, simili a quelle recepite dal corpo. Ciò fa sì che ogni verso ascoltato sia piacevole se rispetta la corretta proporzione numerica dell’anima, o sgradevole se non lo fa. Secondo una tipica organizzazione gerarchica delle facoltà dell’anima, poi, i numeri del giudizio intellettivo sovraintendono tutti gli altri numeri, cioè quelli presenti, rispettivamente, nelle facoltà della memoria e del senso. La bellezza consiste nel riconoscere che ogni rapporto numerico ha il suo fondamento nel rapporto più perfetto, cioè quello di uguaglianza (1:1). Questo è il modello eterno che Dio ha posto nell’anima e al quale ha conformato ogni proporzione nel creato. Quindi, il rispetto implicito del ritmo e dell’armonia che regge il mondo e l’uomo, e sul quale si fonda il concetto di bellezza, suggerisce che vi sia un unico artefice alla base di tale legge universale. Perciò è evidente, conclude Agostino, “che Dio è creatore di ogni essere vivente, e che lo si deve credere con certezza autore di ogni convenienza e concordia” (De musica VI, 8, 20).
Il tema della musica ritorna più volte nell’opera di Agostino, in particolare nelle Confessioni e nelle Enarrationes in Psalmos, in relazione all’opportunità del canto dei salmi e degli inni nelle funzioni liturgiche. La discussione è legata al dubbio se sia lecito il godimento della bellezza fisica del suono. Agostino manifesta in merito una certa ambiguità: egli infatti prende le distanze dal piacere della melodia, ma non può negarne il fascino. Come si spiegano queste esitazioni? Per Agostino, il piacere fisico nell’ascolto del canto sacro deriva dalla melodia e dal ritmo dei suoni, tra i quali rientrano anche le parole della Bibbia. Purtroppo, quando i suoni sono troppo “affascinanti”, invece di limitarsi a veicolare il testo, inducono a distrarsi. Per questo il canto degli inni, come quelli composti da Ambrogio e che Agostino ascolta a Milano, è un’esperienza in sé positiva, ma la forza ammaliatrice del suono musicale è comunque fonte di distrazione. Insomma, il piacere suscitato dalle belle melodie è inevitabile, essendo dovuto alla natura “numerica” dell’anima stessa. Il dilemma se accogliere o no il canto sacro dipende, quindi, dalla necessità di frenare il piacere dell’ascolto per evitare di seguirne la bellezza e non cogliere il senso delle parole.
C’è però un tipo di canto sacro che non incorre nei pericoli della deviazione, pur essendo privo di parole. Si tratta del “giubilo”, cioè il puro vocalizzo del canto senza parole. Questo tipo di manifestazione gioiosa è un’esperienza unica e singolare, con la quale l’anima esprime la gioia di “sentire” la presenza di Dio. Dio stesso suggerisce, nel cuore di colui che vuole lodarlo, la “misura giusta” nell’emissione della voce: le parole allora diventano inutili, perché cantare in giubilazione è analogo a cogliere la parola di Dio che non si traduce in sillabe, e dunque in strutture ritmiche e metriche precostituite.
LETTURE
La Musica e l’anima sinfonica
Il De doctrina christiana viene iniziato negli anni immediatamente successivi alla consacrazione a vescovo (395-396) e segna in certo modo l’inizio dell’attività pastorale di Agostino, mettendo subito in evidenza la serietà e la decisione con cui egli assume le nuove responsabilità e intende percorrere il nuovo cammino, esistenziale e intellettuale al tempo stesso. Interrotta e poi completata intorno al 420, l’opera attua la scelta consapevole di inserire la dottrina cristiana nel solco della grande tradizione retorica classica, alla quale vengono dunque collegati sia la ricerca dei mezzi con cui diffondere la cultura cristiana sia gli strumenti di interpretazione dei Testi Sacri.
Mosaico funerario da Tabraca, V sec., Tunisi, Museo del Bardo
La questione del rapporto tra fede cristiana e cultura pagana è molto discussa nei primi secoli del cristianesimo e Agostino è certamente uno degli autori che maggiormente contribuiscono a creare un atteggiamento di grande apertura del cristianesimo nei confronti delle tradizioni precedenti. In particolare, accanto a un evidente utilizzo della filosofia neoplatonica, egli propone di ricorrere alle arti liberali provenienti dal mondo classico. Si è già visto come nel De ordine venisse proposta una specie di gerarchia fra le arti, capace di condurre al principio del tutto. Lo stesso tema ricompare nel De doctrina christiana accompagnato dalla metafora del “furto sacro”, destinata a grande fortuna nei secoli successivi: come gli ebrei, fuggendo dalla prigionia in Egitto, furono autorizzati a sottrarre agli Egiziani le ricchezze e i mezzi necessari per tornare alla loro terra, così i cristiani possono appropriarsi dei tesori della cultura pagana per costruire una nuova visione del mondo in cui quegli stessi tesori acquisteranno un nuovo significato.
Il decimo e undicesimo libro delle Confessioni segnano la chiusura del legame tra vicende intellettuali e biografiche e al contempo l’apertura al superiore livello della riflessione, nel quale Agostino affronta i temi della memoria, del tempo e della creazione divina. Dopo il viaggio nella memoria alla ricerca di se stesso, per comprendere il significato del tempo ormai trascorso della sua vita, Agostino negli ultimi libri delle Confessioni approfondisce proprio questi temi da un punto di vista teorico.
“Grande è questa potenza della memoria, troppo, Dio mio: una cripta profonda e sconfinata” (Confessioni, X, 8.15): la memoria è luogo non solo delle immagini provenienti dalla conoscenza sensibile, ma anche dei fondamenti delle scienze, dei sentimenti, della coscienza di sé e consente di costruire la propria identità. Agostino si inoltra “nelle distese e nei vasti palazzi della memoria” (Confessioni, X, 8.12) come in un vero e proprio spazio mentale. Solo nella memoria possono trovarsi tracce di eternità e di verità che spingono alla ricerca di Dio; e Dio viene trovato appunto nella parte più intima di se stessi, che è al tempo stesso anche la più alta. Il Dio di cui parla Agostino non può essere del tutto immanente, ma neppure può essere pensato come assolutamente esterno all’uomo, quasi fosse un principio lontanissimo e incomprensibile.
TESTO
T3: Agostino, La potenza della memoria
Anche il tempo ha la sua realtà solo grazie alla memoria che collega all’istante presente il passato, che non esiste più, e il futuro, che non esiste ancora; anche in questo caso è il soggetto a conferire unità al tempo, che risulta distentio animi, un “protendersi dell’anima” verso il passato e verso il futuro. Solo l’individuo con la sua cultura può svolgere il compito impegnativo di costruire un significato per la propria esperienza del tempo e del mondo; in questo senso Agostino interpreta il precetto biblico del “crescete e moltiplicatevi”: assoggettate il mondo riempiendolo delle vostre interpretazioni.
TESTO
T1: Agostino, Il problema del tempo
Il libro XI delle Confessioni ci consegna forse la più famosa riflessione sul tempo della storia della filosofia. “Che cos’è dunque il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; ma se volessi spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so” (XI, 14.17): con queste parole si aprono le pagine nelle quali Agostino pone la domanda sulla natura del tempo. La riflessione agostiniana affronta il problema nel quadro delle questioni legate alla creazione ex nihilo (“dal nulla”) del mondo. Se Dio ha creato il mondo dal nulla, si chiede Agostino, “che cosa faceva Dio, prima di fare il cielo e la terra?”. La domanda non è oziosa: rispondere che Dio non faceva nulla o che faceva altro significa sostenere un mutamento nell’azione divina, che perderebbe di conseguenza la sua perfezione. Inoltre, la questione solleva nodi spinosi da risolvere: perché Dio ha creato il mondo in quell’istante del tempo? Se la creazione è frutto di un atto libero della volontà divina, perché Dio, pur potendo, non ha voluto che il dono dell’esistenza al mondo e alle creature avvenisse prima? E se esiste un motivo per cui la creazione doveva avvenire in quell’istante, ciò significa che l’atto della creazione non era libero ma necessario e quindi vincolante per Dio stesso?
Stele funeraria romana, dettaglio, Timgad (Algeria), Museo Archeologico
La risposta a questo intreccio di problemi non può che partire dalla distinzione tra tempo ed eternità. Quest’ultima si caratterizza per la sua stabilità e immutabilità: l’eternità è sospesa in un istante eterno dove tutto è presente. Il tempo, invece, è ciò che scorre e che è per definizione instabile. Tempo ed eternità sono dimensioni distinte e incommensurabili. Porre quindi la domanda su cosa facesse Dio “prima” di creare il mondo significa riferire impropriamente a Dio una categoria (il “prima” e il “dopo”) che riguarda il tempo, e quindi il mondo, e non l’eternità.
La distinzione tra tempo ed eternità non cancella tuttavia i dubbi sulla natura del tempo. Esso infatti si articola nelle tre dimensioni del passato, del presente e del futuro. Ma, di queste, il passato in quanto tale non esiste più, il futuro non esiste ancora e il presente è un istante privo di durata, che fluisce senza soluzione di continuità e che diviene immediatamente passato. Il tempo quindi non esiste: non ha consistenza reale, cioè non ha un’estensione che possa essere misurata.
Eppure gli uomini misurano il tempo, anche se esso non esiste. La soluzione di Agostino è che l’animo costituisca lo spazio nel quale passato, presente e futuro prendono consistenza e diventano misurabili. Nell’animo il passato esiste come pensiero presente di ciò che è stato (presente del passato), il presente in quanto coscienza di ciò che accade ora (presente del presente) e il futuro come attesa di ciò che accadrà (presente del futuro). Alle tre dimensioni del tempo così intese corrispondono, per Agostino, i modi con cui l’animo può agire muovendosi verso le cose, cioè la memoria (del passato), l’intuizione (del presente) e l’attesa (del futuro).
Il tempo quindi non esiste se non nell’animo che lo misura: “In te, animo mio, misuro il tempo” (Confessioni, XI, 27.36). Il tempo è quindi una tensione, un distendersi (distentio) dell’animo stesso, verso il passato, verso il presente o verso il futuro. Esso dunque non è nelle cose che mutano, perché il tempo continuerebbe a scorrere anche se il movimento dei cieli - con il quale gli antichi identificavano il tempo - si interrompesse, bensì nell’animo umano che nella propria coscienza interna è come se fermasse il fluire delle cose, misurandole e comprendendole come passato, presente e futuro.
TESTO
T5: Agostino, L’anima e il tempo
ESERCIZIO
E3: Agostino
Nell’ultimo libro delle Confessioni, infine, dedicato all’esegesi dei primi versetti della Bibbia, Agostino fa riferimento alla triplice modalità dell’essere dell’uomo – esistenza, conoscenza e volontà – riservando un ruolo tutto particolare alla volontà. L’articolazione in tre aspetti distinti ma inseparabili si propone come analogia della Trinità divina, come primo riferimento a quella ricerca di tracce del divino che costituisce gran parte di un altro capolavoro agostiniano, il De Trinitate.
Iniziato nel 399 e concluso nel 420, il trattato si occupa di problemi esegetici, cioè legati all’interpretazione del testo, in questo caso le Scritture, opponendosi nella prima parte a ogni interpretazione che, come quella ariana, introduca rapporti di subordinazione fra le persone della Trinità, e insistendo sul fatto che l’intera Trinità è implicata in ogni opera divina e condivide la medesima trascendenza.
Lipsanoteca di Brescia, cofanetto istoriato con episodi dell’Antico e del Nuovo Testamento, fabbricato in una bottega dell’Italia settentrionale, probabilmente a Milano, seconda metà del IV sec., Brescia, Chiesa di Santa Maria in Solario
Nel suo sforzo di sostenere e chiarire la dottrina trinitaria, Agostino fornisce un contributo decisivo alla trasformazione del concetto di Dio nel mondo occidentale latino. Notevoli sono le implicazioni anche di carattere filosofico: mentre secondo la tradizionale dottrina aristotelica un predicato può essere unito a un soggetto per dirne la sostanza oppure una qualità accidentale, nel caso di Dio i predicati di persona – Padre, Figlio e Spirito – sono predicati di relazione poiché dicono in che relazione sono le tre persone divine, ma non dicono dunque tre sostanze diverse e, malgrado ciò, non sono accidentali.
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La nascità della Trinità: Ario e il concilio di Nicea
LETTURE
Aristotele
La concezione del principio, o di Dio, che nel mondo classico era una sorta di assolutizzazione della categoria di sostanza, diventa in Agostino, e nella tradizione che a lui si richiamerà, una assolutizzazione della categoria di relazione: si parla di Dio come amore perché l’idea di due soggetti che si amano e dell’amore che li unisce rappresenta proprio la struttura pura della relazione.
Se l’uomo è immagine e somiglianza di Dio, qualcosa nella sua natura deve essere segno del modo trinitario con cui pensiamo a Dio. La seconda parte del De Trinitate è infatti una straordinaria ricerca di analogie sempre più perfette tra la conoscenza dell’uomo e la Trinità divina, a partire dall’articolazione della visione sensibile – soggetto, oggetto e attenzione del soggetto verso l’oggetto – fino alla suprema analogia tra il mistero della Trinità e le facoltà della conoscenza – memoria (notitia), intelligenza (mens) e volontà (amor) –, che non sono sostanze distinte ma relazioni interne al processo di conoscenza: una sola vita, di una sola sostanza che, nel momento in cui opera, stabilisce relazioni tra i movimenti cui dà origine.
Nella memoria, come si è detto, si trovano i fondamenti delle diverse scienze costruite dall’uomo; l’intelletto lavora sui dati provenienti dalla memoria e li considera analiticamente; la volontà collega intelletto e memoria, rappresentando la relazione che fra loro intercorre.
Emerge in modo molto chiaro il ruolo dell’analogia, strumento fondamentale della ricerca agostiniana e, al tempo stesso, struttura che sta alla base del mondo che questa ricerca si trova di fronte. L’analogia, che non è semplicemente un rapporto di somiglianza, ma una somiglianza di rapporti riassumibile nella proporzione a:b=b:c, consente di dare unità alla molteplicità dei dati della conoscenza e ai diversi livelli dell’Essere, senza per questo dover superare le distinzioni, le dissomiglianze e le diversità di perfezione tra le realtà esistenti. Si tratta di una fondamentale conquista intellettuale che illumina tutto il percorso della ricerca agostiniana, mostrandolo dominato proprio dalla logica del desiderio di Dio che altro non è che una logica di relazioni costruite sul modello della Trinità divina.
ESERCIZIO
E5: Agostino
ESERCIZIO
E2: Agostino
Il tratto caratteristico dell’ispirazione agostiniana – la centralità delle relazioni e dei rapporti di analogia – è forse quello che lentamente si perde negli scritti dell’ultimo periodo della vita di Agostino, soprattutto in quelli composti nel vivo della polemica contro i donatisti e il pelagianesimo.
Quando Agostino, tornato in Africa, diventa vescovo (395-396) si assume le responsabilità del ruolo politico e istituzionale che la Chiesa sta progressivamente conquistando, in un mondo in cui sono incerti sia il potere centrale di Roma sia i poteri locali nelle province dell’impero.
Nell’Africa del Nord, in particolare, è presente il movimento scismatico dei donatisti (dal nome di uno dei suoi sostenitori, il vescovo di Casae Nigrae), di origine incerta, fortemente intollerante nei confronti di quanti vorrebbero rientrare nella Chiesa dopo averla abbandonata sotto le pressioni delle ultime sanguinose persecuzioni, precedenti al riconoscimento della religione cristiana da parte di Costantino. Agostino respinge decisamente le posizioni teologiche dei donatisti, cioè il rifiuto della validità del battesimo ricevuto fuori della Chiesa donatista, il rifiuto della validità dei sacramenti celebrati da sacerdoti indegni, l’interpretazione della Chiesa come istituzione composta di puri e santi, circondata da un mondo di peccato e corruzione.
Agostino, al contrario, difende l’idea di una Chiesa che contiene in sé anche le imperfezioni del mondo esterno e che trova la propria identità di gruppo nella consapevolezza della propria missione e non nella chiusura in se stessa. Non senza ironia osserva: “Le nubi del cielo affermano con voce di tuono che la casa di Dio sta costruendosi su tutta la Terra, e dalla palude alcune rane gracidano: ‘Noi soltanto siamo cristiani’” (Expositio in Psalmos 95, 11). Dopo una fase di confronto amichevole e dialettico con i donatisti, Agostino arriva anche ad ammettere l’uso della violenza da parte del potere statale come necessità imposta dalle condizioni storiche.
LETTURE
I terrori dell'anno Mille e l'Anticristo
Al monaco Pelagio (354 ca.- 427?), e ad altri teologi contemporanei di Agostino poi identificati genericamente come pelagiani, si attribuisce la tesi secondo la quale il peccato originale non si trasmetterebbe da Adamo a tutti i suoi discendenti e la natura umana avrebbe quindi la capacità di non peccare anche senza l’aiuto di Dio. A essi Agostino contrappone l’idea della trasmissione del peccato originale tramite la generazione carnale, con la conseguenza che ne sono investiti anche i bambini appena nati, della cui colpa rimane un segno nel piacere sessuale che ne accompagna il concepimento. Da un punto di vista filosofico è in gioco una complessiva visione antropologica che Agostino costruisce intorno all’idea di un uomo irrimediabilmente segnato dal male e dall’inutilità dei suoi sforzi per sollevarsi da solo. Ricompare tra i pelagiani l’idea dei puri, dei migliori, di quelli che sanno trovare in sé le risorse per farcela e ancora una volta Agostino respinge questa concezione, cadendo nell’estremo opposto di considerare l’insieme degli uomini come una massa dannata.
In quest’ultima fase della sua vita sembra ormai lontano l’Agostino del dubbio, del mutamento metodico di punto di vista, dell’analogia fra uomo e Dio. Agostino ora ha scelto di fare di questi discorsi degli strumenti di prassi politica, di organizzazione del consenso, di scontro ideologico, trasformandoli in veri e propri dogmi. Il peccato, il male, la morte, la salvezza diventano oggetti definibili, perdono il carattere relazionale di cui in precedenza erano portatori. Non abbiamo tuttavia di fronte un altro Agostino, ma sempre il pensatore dei dialoghi filosofici giovanili: posto davanti a quelle che ritiene le urgenze della Storia, egli sceglie di agire, mette in gioco la volontà di operare nel mondo e di difenderne tutta la complessità, come emerge dalle pagine del De civitate Dei.
Il 24 agosto del 410 Roma, la città che per il mondo classico si identificava con la storia, la civiltà, la cultura, veniva violata e saccheggiata dai Goti di Alarico. Non sappiamo quanto tempo fu necessario perché la notizia giungesse in ogni luogo dell’impero, ma l’effetto fu senza dubbio devastante e incommensurabile rispetto a qualunque nostra immaginazione. Nell’agosto del 410 non finì solo un ciclo storico, ma la storia; non tramontava una civiltà, ma la civiltà; non entravano in crisi una politica, un’economia, una cultura, ma la politica, l’economia, la cultura. “Se Roma può perire, che cosa può esservi di sicuro?” si chiede Gerolamo, santo e dottore della Chiesa in una delle sue lettere.
Agostino si era impegnato a costruire e consolidare un riferimento istituzionale e ideologico che fosse in grado di resistere alle bufere che il mondo latino stava per affrontare. Di fronte agli avvenimenti del 410, egli capovolge il ragionamento di quanti accusano il cristianesimo di essere causa dell’indebolimento di Roma e della sua cultura; esso è invece la novità che può dare nuovo vigore all’impero romano, la cui decadenza si deve piuttosto ai suoi vizi, alle sue ipocrisie, alla sua incapacità di essere fedele alle grandi virtù descritte dai suoi letterati.
Questo impegno di difesa del cristianesimo si colloca entro un’opera grandiosa, il De civitate Dei, composto tra il 412 e il 427 sulla scia del sacco di Roma, secondo quanto Agostino stesso ricorda negli ultimi anni della sua vita: “Nel frattempo Roma era stata distrutta dalla violenta e disastrosa irruzione dei Goti, guidati dal re Alarico. I cultori di molti e falsi dèi che siamo soliti chiamare pagani, nel tentativo di imputare alla religione cristiana la distruzione della città, incominciarono con maggiore asprezza ed animosità del solito a bestemmiare il vero Dio. Ardendo di zelo per la casa di Dio, decisi di scrivere dei libri sulla città di Dio, per controbattere i loro errori blasfemi” (Retractationes 43.1). Nelle sue pagine la storia di Roma si trasfigura quasi nella storia dell’umanità: in essa convivono, mescolati in modo inestricabile, gli uomini che mettono al primo posto la ricerca di Dio, cioè dell’assoluto e della virtù (i cristiani) – riuniti in quella che Agostino chiamerà la “città di Dio” (civitas Dei) –, e gli uomini che mettono l’amore per se stessi davanti a ogni altra cosa, cercando solo di soddisfare i propri desideri terreni – cioè la “città degli uomini” (civitas hominum). Si tratta di due città che mai vengono identificate con Stato e Chiesa, ma rappresentano due modelli di vita che in ogni caso sulla terra sono destinati a convivere.
BOX
Le due spade: il pensiero politico medievale da Agostino a Giovanni di Salisbury
I grandi valori della tradizione romana sono fondati su quelli della città terrena, sulla sete di dominio – libido dominandi – e sull’arrogante ricerca dell’ammirazione e della lode. Il De civitate Dei è una lunga e articolata riflessione sui rapporti fra cristianesimo e cultura pagana e sulla funzione anche provvidenziale della storia di Roma per l’affermarsi e il diffondersi della religione cristiana. È il primo complesso tentativo di proporre entro la nuova cultura una filosofia della storia, che Agostino riesce a costruire grazie alla capacità di pensare l’umanità come un unico organismo vivente, con una propria legge di sviluppo, e l’intero corso della storia come dotato di significati comprensibili e governato da un’ordinata successione di età. Secondo Agostino in ogni epoca gli uomini si orientano intorno alle due città, in una tensione presente fin dall’inizio nello scontro fra Caino e Abele, che si ripropone in circostanze diverse, anche alle origini della civiltà romana, nello scontro emblematico fra Romolo e Remo.
L’ascensione di Cristo e le pie donne al sepolcro, 400 ca., Monaco, Bayerisches Nationalmuseum
TESTO
T6: Agostino, Città di Dio e città degli uomini
ESERCIZIO
E1: Agostino
ESERCIZIO
E6: Agostino
Agostino ha sempre ammesso l’idea di un’azione di Dio sull’uomo: quando ne parla, come nel De magistro, in termini di illuminazione interiore, sembra sviluppare un discorso sulle categorie della conoscenza; quando invece ne parla nel contesto delle dispute religiose su salvezza e dannazione, sembra sviluppare un discorso sulla necessità del destino, sulla impossibilità di farcela senza un oggettivo aiuto da parte di Dio. Compare con tutta la sua drammaticità il tema della grazia e della predestinazione. Nel succedersi di numerosi scritti, fra cui si possono ricordare De gratia et libero arbitrio, De corruptione et gratia, De sanctorum praedestinatione (tutti composti tra il 426 e il 430), questi concetti si irrigidiscono e diventano armi di scontro anziché ipotesi di ricerca. Già il neoplatonismo ammetteva una comunicazione continua attraverso i gradi gerarchici dell’essere e, in questo quadro, la grazia altro non è che l’operazione per mezzo della quale gli uomini sono spinti a conoscere e amare Dio; la grazia è la piena realizzazione dell’anima, intesa sia come sede della vita spirituale sia come centro della attività conoscitiva. Se il desiderio si disperde nella ricerca delle soddisfazioni terrene, si ha il disordine, perché viene meno il legame analogico tra umano e divino. Ma il legame viene meno anche quando viene spezzato, per così dire, sull’altro versante, quando cioè l’azione di Dio non è più armonicamente connessa con il modo in cui l’uomo la pensa. Allora l’uomo non può sapere perché alcuni si salvano e altri non si salvano; è come se un oggetto – dice Agostino – chiedesse all’artigiano che lo ha fabbricato perché lo ha fatto in quel modo, o una bestia chiedesse a Dio i motivi per cui non è stata fatta uomo. E allora, mentre i Goti saccheggiano Roma e i Vandali si avvicinano a Ippona, mentre la civiltà romana sembra tramontare e il cristianesimo si profila come ultima ancora di salvezza, Agostino sceglie il ruolo di guida della comunità, offrendo ai suoi fedeli non più dubbi ma certezze.
ESERCIZIO
E4: Agostino
AMBIENTE CULTURALE
L’uomo medievale vive in un mondo popolato di significati, rimandi, sovrasensi, manifestazioni di Dio nelle cose, in una natura che parla continuamente un linguaggio araldico, in cui un leone non è solo un leone, una noce non è solo una noce, un ippogrifo è reale come un leone perché come quello è segno di una verità superiore.
Lastra con la croce e animali affrontati, IX sec., Modena, Duomo.
Per spiegare questa tendenza mitica possiamo forse pensare al simbolismo medievale come a un parallelo popolare e fiabesco di fuga dalla realtà. Gli “evi bui”, gli anni dell’alto medioevo, sono gli anni della decadenza delle città e del deperimento delle campagne, delle carestie, delle invasioni, delle pestilenze, della mortalità precoce. Fenomeni nevrotici come i terrori dell’anno Mille non si sono verificati nei termini drammatici ed esasperati di cui ci dice la leggenda, ma se la leggenda si è formata è perché la alimentava una condizione endemica di angoscia e di insicurezza fondamentale. Il monachesimo fu un tipo di soluzione sociale che offriva garanzie di concretezza comunitaria, di ordine e di tranquillità: ma l’elaborazione di un repertorio simbolico può aver costituito una reazione immaginativa al sentimento della crisi. Nella visione simbolica la natura, persino nei suoi aspetti più temibili, diviene l’alfabeto col quale il creatore ci parla dell’ordine del mondo, dei beni soprannaturali, dei passi da compiere per orientarci nel mondo in modo ordinato ad acquisire i premi celesti. Le cose possono ispirarci sfiducia nel loro disordine, nella loro caducità, nel loro apparirci fondamentalmente ostili: ma la cosa non è ciò che appare, è segno di qualcos’altro. La speranza può dunque ritornare nel mondo perché il mondo è il discorso che Dio rivolge all’uomo.
Il cristianesimo primitivo aveva educato alla traduzione simbolica dei principi di fede; lo aveva fatto per motivi prudenziali, celando ad esempio la figura del Salvatore sotto le spoglie del pesce per sfuggire attraverso la crittografia ai rischi della persecuzione: ma aveva comunque prospettato una possibilità immaginativa e didascalica che risulta congeniale all’uomo medievale. E se da un lato è facile ai semplici convertire in immagini le verità che riesce loro di cogliere, via via saranno gli stessi elaboratori della dottrina, i teologi, i maestri, a tradurre in immagini le nozioni che l’uomo comune non avrebbe afferrato se le avesse avvicinate nel rigore della formulazione teologica. Di qui la grande campagna per educare i semplici attraverso il diletto della figura e dell’allegoria, attraverso la pittura “che è la letteratura dei laici”, ovvero degli indotti, come dirà Onorio di Autun, secondo le decisioni prese sin dal 1025 dal sinodo di Arras. Così la teoria didascalica si inserisce nel tronco della sensibilità simbolica come espressione di un sistema pedagogico e di una politica culturale che sfrutta i processi mentali tipici dell’epoca.
La mentalità simbolistica si inserisce curiosamente nel modo di pensare dell’uomo medievale, abituato a procedere secondo una interpretazione genetica dei processi reali, secondo una catena di cause ed effetti. Si è parlato di “corto circuito dello spirito”, del pensiero che non cerca il rapporto tra due cose seguendo le loro connessioni causali, ma lo trova con un brusco salto. Questo corto circuito stabilisce ad esempio che il bianco, il rosso, il verde siano colori benevoli, mentre il giallo e il nero significano dolore e penitenza; o indica il bianco come simbolo della luce e dell’eternità, della purezza e della verginità. Lo struzzo diviene simbolo della giustizia perché le sue penne perfettamente uguali risvegliano l’idea di unità. Una volta accettata la notizia tradizionale per cui il pellicano nutre i figli strappandosi col becco brani di carne dal petto, esso diviene simbolo di Cristo che dona il proprio sangue per l’umanità, e la propria carne come cibo eucaristico. L’unicorno, che si lascia catturare se attirato da una vergine nel grembo della quale andrà a poggiare il capo, diviene doppiamente simbolo cristologico, come l’immagine del Figlio unigenito di Dio nato nel seno di Maria; e una volta assunto a simbolo diviene più reale dello struzzo e del pellicano.
Coccodrillo e Idra da un Bestiario del XIII sec., Londra, British Library
Queste immagini sono allegorie e l’allegoria è un discorso che potrebbe anche essere preso in senso letterale, se non fosse stato spiegato che sotto a quella storia si cela un altro senso: il testo dice sempre qualcosa di diverso da ciò che sembra dire.
Anche i Greci interrogavano allegoricamente Omero. Che un testo poetico o religioso si regga sul principio per cui aliud dicitur, aliud demonstratur ( cioè “una cosa è quella detta, un’altra è quella che viene intesa”) è idea assai antica e questa idea viene comunemente etichettata sia come allegorismo sia come simbolismo.
Due eremiti con animali, miniatura da “Cynegetica” di Oppiano, XI sec., Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana
Il simbolismo metafisico ha dunque radici sin nell’antichità e i medievali hanno presente il filosofo e astronomio romano del V secolo Macrobio, secondo il quale le cose riflettevano, nella loro bellezza, come in altrettanti specchi, il volto unico della divinità (In Somnium Scipionis I, 14). Una simile dottrina doveva avere naturalmente fortuna nell’ambito del pensiero neoplatonico. Chi propone al medioevo il simbolismo metafisico nella sua forma più suggestiva è, sulla falsariga dello Pseudo-Dionigi, Giovanni Scoto Eriugena. Per lui il mondo appare come una grandiosa manifestazione di Dio attraverso le cause primordiali ed eterne, e di queste attraverso le bellezze sensibili: “Credo che non ci sia alcuna cosa visibile e corporale che non significhi qualcosa di incorporeo e di intelligibile” (De divisione naturae V, 3, PL 122, col. 865-866).
In Ugo di San Vittore (1096 ca.-1141), priore e direttore della scuola parigina da cui prende il nome, troviamo un altro interprete del simbolismo metafisico. Per il mistico del XII secolo il mondo appare quasi quidam liber scriptus digito Dei, “quasi un libro scritto dal dito di Dio” (De tribus diebus, PL 176, col. 814) e la sensibilità alla bellezza propria dell’uomo è tesa essenzialmente alla scoperta del bello intellegibile. Le gioie della vista, dell’udito, dell’odorato, del tatto ci aprono alla bellezza del mondo per farci scoprire in essa il riflesso di Dio: “Tutti gli oggetti visibili ci sono proposti per la significazione e dichiarazione delle cose invisibili, istruendoci, attraverso la vista in modo simbolico, cioè figurativo [...] Poiché infatti la bellezza delle cose visibili consiste nella loro forma [...] la bellezza visibile è immagine della bellezza invisibile” (In Hierarchiam coelestem expositio, PL 175, col. 978 e 954).
Nel tentativo di contrapporsi alla sopravvalutazione gnostica del Nuovo Testamento, a totale detrimento dell’Antico, Clemente di Alessandria (150 ca.-211/215) pone una distinzione e una complementarità tra i due Testamenti, e Origene (185-253 ca.) perfezionerà la posizione affermandone la necessità di una lettura parallela. L’Antico Testamento è la figura del Nuovo, ne è la lettera di cui l’altro è lo spirito, ovvero in termini semiotici è l’espressione retorica di cui il Nuovo è il contenuto. A propria volta il Nuovo Testamento ha senso figurale in quanto è la promessa di cose future. Nasce con Origene il “discorso teologale”, il quale non è più – o soltanto – discorso su Dio, ma sulla sua Scrittura.
Già con Origene si parla di senso letterale, senso morale (psichico) e senso mistico (pneumatico). Di lì la triade “letterale”, “tropologico” e “allegorico” che lentamente si trasformerà nella teoria dei quattro sensi della scrittura: letterale, allegorico, morale e anagogico.
Wiligelmo, Storie della Genesi, prima lastra. 1099 ca. Modena, Duomo
Da un lato è la lettura “giusta” dei due Testamenti che legittima la Chiesa come custode della tradizione interpretativa, e dall’altro è la tradizione interpretativa che legittima la giusta lettura: circolo ermeneutico che ruota in modo da eliminare tendenzialmente tutte le letture che, non legittimando la Chiesa, non la confermino come autorità capace di legittimare le letture stesse.
Sin dalle origini l’ermeneutica (ossia la tecnica di interpretazione del testo biblico) di Origene, e dei Padri in genere, tende a privilegiare, sia pure sotto nomi diversi, un tipo di lettura che in altra sede è stata definita “tipologica”: i personaggi e gli eventi dell’Antico Testamento sono visti, a causa delle loro azioni e delle loro caratteristiche, come tipi, anticipazioni, prefigurazioni dei personaggi del Nuovo. Di qualunque pasta sia questa tipologia essa prevede già che ciò che è figurato (tipo, simbolo o allegoria che sia) sia una allegoria che non riguarda il modo in cui il linguaggio rappresenta i fatti, bensì riguarda i fatti stessi. Si affronta qui la differenza tra allegoria in verbis e allegoria in factis. Non è la parola di Mosè o del Salmista, in quanto parola, che va letta come dotata di sovrasenso, anche se così si dovrà fare quando si riconosca che essa è parola metaforica: sono gli eventi stessi dell’Antico Testamento che sono stati predisposti da Dio, come se la storia fosse un libro scritto dalla sua mano, per agire come figure della nuova legge.
Chi affronta decisamente questo problema è Agostino e lo può fare perché egli è il primo autore che, sulla base di una cultura stoica bene assorbita, fonda una teoria del segno. Agostino distingue segni che sono parole e cose che possono agire come segni perché egli sa e afferma che “il segno è ogni cosa che ci fa venire in mente qualcosa d’altro al di là dell’impressione che la cosa stessa fa sui nostri sensi” (De doctrina christiana II, 1, 1). Accanto ai segni prodotti dall’uomo per significare intenzionalmente ci sono anche cose, personaggi ed eventi (ed è il caso della storia sacra) che possono essere assunti come segni o possono essere soprannaturalmente disposti come segni affinché come segni siano letti.
Capitello con scena del Diluvio universale, 1127-1145, Pamplona, Cattedrale
Agostino affronta la lettura del testo biblico fornito di tutti gli strumenti linguistico-retorici che la cultura della tarda latinità poteva fornirgli e cerca di distinguere i segni oscuri e ambigui da quelli chiari, a dirimere la questione se un segno debba essere inteso in senso proprio e in senso traslato. Egli sa benissimo che una metafora si può chiaramente riconoscere perché se fosse presa alla lettera il testo apparirebbe o insensato o infantilmente mendace. Ma cosa fare per quelle espressioni che potrebbero avere senso anche letteralmente e a cui l’interprete è invece indotto ad assegnare senso figurato (come per esempio le allegorie)?
Agostino ci dice che dobbiamo subodorare il senso figurato ogni qual volta la Scrittura, anche se dice cose che letteralmente hanno senso, pare contraddire la verità di fede, o i buoni costumi. La Maddalena lava i piedi al Cristo con unguenti odorosi e li asciuga coi propri capelli. È possibile pensare che il Redentore si sottometta a un rituale così pagano e lascivo? Certo no. Dunque la narrazione raffigura qualche cosa d’altro.
Ma dobbiamo subodorare il secondo senso anche quando la Scrittura si perde in superfluità o mette in gioco espressioni letteralmente povere. Queste due condizioni sono mirabili per sottigliezza e modernità, anche se Agostino le trova già suggerite in altri autori. Si ha superfluità quando il testo si sofferma troppo a descrivere qualcosa che ha letteralmente un senso, senza che però si vedano le ragioni di questa insistenza descrittiva, come accade anche con l’insistenza su nomi propri, numeri e termini tecnici, che stanno evidentemente per altro.
Quando parla delle parole Agostino sa dove trovar le regole, e cioè nella retorica e nella grammatica classica: non c’è difficoltà particolare in questo. Ma Agostino sa che la Scrittura non parla solo con parole, in verbis, ma anche attraverso i fatti, in factis, e quindi richiama il suo lettore alla conoscenza enciclopedica (o almeno a quella che il mondo tardo antico poteva provvedergli).
Se la Bibbia parla per personaggi, oggetti, eventi, se nomina fiori, prodigi di natura, pietre, se mette in gioco sottigliezze matematiche, occorrerà cercare nel sapere tradizionale quale sia il significato di quella pietra, di quel fiore, di quel mostro, di quel numero.
Ed ecco perché a questo punto il medioevo inizia a elaborare le proprie enciclopedie dove appunto si spiega il senso soprannaturale dei fiori, delle pietre, degli animali.
Di qui nasce quello che chiameremo allegorismo universale, e che può essere riassunto da una affermazione di Riccardo di San Vittore, altro priore della scuola parigina: “Ogni corpo visibile presenta una rassomiglianza con un bene invisibile” (Benjamin major, PL 196, col. 90).
LETTURE
Le enciclopedie antiche
LETTURE
Le enciclopedie medievali come modelli del sapere
In tal senso il medioevo porta alle estreme conseguenze il suggerimento agostiniano: se l’enciclopedia ci dice quali sono i significati delle cose che la Scrittura mette in scena, e se queste cose sono gli elementi dell’ammobiliamento del mondo, di cui la Scrittura parla (in factis), allora la lettura figurale si potrà esercitare non solo sul mondo quale la Bibbia lo racconta, ma direttamente sul mondo quale è. Leggere il mondo come accolta di simboli è il modo migliore di realizzare la lezione dello Pseudo-Dionigi Aeropagita e poter elaborare e attribuire nomi divini (e con essi moralità, rivelazioni, regole di vita, modelli di conoscenza).
A questo punto ciò che si chiama indifferentemente simbolismo o allegorismo medievale prende vie diverse; ma questi modi di fatto si compenetrano di continuo, specie se si considera che anche i poeti tenderanno a parlare come le Scritture.
Ancora una volta la distinzione tra simbolismo e allegorismo è di comodo. La pansemiosi metafisica è quella che nasce coi Nomi divini di Dionigi, suggerisce la possibilità di rappresentazioni di tipo figurale, ma di fatto si risolve in una visione dell’universo in cui ogni effetto è segno della propria causa. Per quanto riguarda l’allegorismo scritturale in factis – considerando che la lettura delle Scritture si complica anche dell’attenzione a quanto in esse vi appare di allegorismo in verbis – l’intera tradizione patristica e scolastica è lì a testimoniare di questa interrogazione infinita del Libro Sacro come selva scritturale (come l’aveva definita Origene), o misterioso oceano divino, labirinto (come dirà Gerolamo, santo edottore della Chiesa). E come dirà il monaco del XII secolo Gilberto di Stanford (Tractatus super cantica canticorum, Prologo): “La Sacra Scrittura, come un fiume rapidissimo, tanto colma le profondità della mente umana da straripare continuamente; disseta coloro che ne bevono, ma rimane inesauribile. Da essa sgorgano gli abbondanti flutti dei sensi spirituali e quando passano gli uni, altri sorgono”.
Il sogno di Guillaume de Lorris e Narciso da un manoscritto del “Roman de la Rose”, 1340 ca., Londra, British Library
Il medioevo riconosce un’altra forma di allegorismo, che definiremo “artificiale”, non identificato, per così dire, nel tessuto stesso del mondo, ma prodotto dall’uomo. È di tal genere l’allegorismo liturgico, dove vesti o gesti devono anch’essi essere interpretati come riferiti a realtà spirituali, ed è tale l’allegorismo poetico. Lo si potrebbe sintetizzare nei versi attribuiti ad Alano di Lilla (1120-1202/1203), versatile maestro della scuola porretana: “Ogni creatura dell’universo, / quasi fosse un libro o un dipinto, / è per noi come uno specchio; / della nostra vita, della nostra morte, / della nostra condizione, della nostra sorte / fedele segno. / La rosa rappresenta il nostro stato, / leggiadra glossa della nostra condizione, / interpretazione della nostra vita; / che mentre è fiorente nel primo mattino, / fiorisce, sfiorito fiore, / con la vecchiaia della sera”. (Rhythmus alter, PL 210, col. 579)
La concezione allegorica dell’arte procede di pari passo con la concezione allegorica della natura. Riccardo di San Vittore elabora una teoria che tiene conto di questi due aspetti: tutte le opere di Dio sono create per fornire indicazioni di vita all’uomo; tra quelle dell’industria umana alcune tendono a organizzarsi allegoricamente e altre no. Le arti letterarie danno facilmente origine all’allegoria, mentre le arti plastiche creano allegorie derivate imitando le personificazioni dell’arte letteraria. Ci accorgiamo però che gradatamente l’allegoricità dell’industria diviene più sentita di quella della natura e si perviene, senza teorizzarle, a posizioni opposte a quella di Riccardo: l’allegoricità delle cose si fa sempre più pallida, dubbia, convenzionale, mentre l’arte (comprese le arti plastiche) è vista anzitutto come elaborata costruzione di sovrasensi. Il senso allegorico del mondo muore gradatamente e il gusto allegorico della poesia rimane, familiare e radicato. Il XIII secolo, nelle sue manifestazioni di pensiero più evolute, rinuncia definitivamente all’interpretazione allegorica del mondo, ma produce il prototipo dei poemi allegorici: il Roman de la Rose. E accanto alla produzione di allegorie troviamo sempre viva la lettura allegorica dei poeti pagani, in particolare Virgilio.
Strage degli innocenti, miniatura, XII sec., Hildesheim, Basilica di San Gottardo, Salterio di Sant’Albano
Questo modo di fare arte e di vedere l’arte è quello che riesce più ostico all’uomo moderno, così che si tende a interpretarlo come una manifestazione di aridità poetica, di intellettualismo paralizzante. Ma interpretare allegoricamente i poeti non voleva dire sovrapporre alla poesia un sistema di lettura artificioso e arido: significava aderire a essi considerandoli come stimolo del massimo diletto concepibile, il diletto appunto della rivelazione per speculum et in aenigmate.
La poesia stava tutta dalla parte dell’intelligenza. Ogni epoca ha il proprio senso della poesia, e non possiamo usare il nostro per giudicare quello dei medievali. Probabilmente non riusciremo mai più a riprodurre in noi il diletto sottile col quale il medievale scopriva nei versi del mago Virgilio mondi di prefigurazioni: ma non capire che egli provava una gioia effettiva in questo esercizio, significa inibirsi la comprensione del mondo medievale. Nel XII secolo il miniaturista del Salterio di Sant’Albano di Hildesheim rappresenta l’assedio di una città fortificata, ma pensando che l’immagine non possa risultare abbastanza piacevole, o abbastanza legittima, nota: ciò che l’immagine rappresenta corporaliter (“in modo materiale”), voi potete leggerlo spiritualiter (“in modo spirituale”), richiamandovi alla mente, attraverso il combattimento rappresentato, le lotte che sostenete assediati dal male. È chiaro che il pittore presuppone che questo tipo di fruizione sia più pieno e soddisfacente di quello puramente visivo.
Con il pieno sviluppo dell’arte gotica e attraverso la grande azione animatrice dell’abate Suger, la comunicazione artistica tramite allegoria assume veramente la sua più ampia portata. La cattedrale, che rappresenta la somma artistica di tutta la civiltà medievale, diviene un surrogato della natura, vero liber et pictura organizzato secondo regole di leggibilità orientata che in realtà alla natura difettavano.