Anicio Manlio Torquato Severino Boezio (480 ca.-525) è un uomo politico di primo piano nonché un intellettuale la cui attività lascia una profonda impronta nei secoli successivi. La sua vicenda biografica lo consegna alla storia come un romano perseguitato dai barbari, le sue opere lo consacrano come uno dei fondatori del pensiero medievale.
La carriera politica di Boezio (console nel 510 e maestro di palazzo nel 523) si svolge al servizio di Teodorico, re degli Ostrogoti, che all’epoca dominano l’Italia, ed è volta al tentativo di conciliare le popolazioni romana e ostrogota, divise da rivalità, religione e provenienza. L’aristocrazia romana, tuttavia, non vede di buon occhio la presenza e il ruolo degli Ostrogoti in Italia e rivolge le sue simpatie al pontefice e all’imperatore romano d’Oriente. Quando i rapporti tra i Goti e l’impero romano d’Oriente divengono più tesi a causa della scoperta della corrispondenza tra il senatore romano Albino e l’imperatore d’Oriente, anche la fortuna di Boezio viene meno: per i suoi legami col senato romano viene accusato di lesa maestà e condannato a morte.
Boezio appartiene a una famiglia patrizia e a un circolo culturale legato alla famiglia degli Anici. In questo ambiente è vivo il ricordo della grandezza di Roma ed è avvertita la necessità di incrementare e rinsaldare la cultura latina con la composizione di opere nuove e la traduzione di testi antichi. Boezio, incarnando questo orientamento, concepisce l’impegno politico e l’impegno culturale come due aspetti di una medesima missione, la rei publicae cura, la cura dello Stato.
VIDEO
Armonia delle sfere
LETTURE
La Musica e l'anima sinfonica
LETTURE
Boezio e la scienza della musica
Il De institutione musica di Boezio è un trattato che ha avuto un’enorme fortuna: esso è infatti il principale fondamento della teoria musicale nei secoli medievali. In quest’opera, Boezio stabilisce che la musica è la scienza del numero relazionato al suono, e che la consonanza, cioè la fusione armonica dei suoni, è l’oggetto indagato nella scienza musicale. Il numero è infatti inteso come il principio fondante dell’organizzazione razionale del mondo, e la conoscenza scientifica è tale se la mente riesce a cogliere gli aspetti numerici che stanno alla base del manifestarsi delle cose sensibili. Dunque anche il mondo dei suoni, nella sua pluralità e diversità di espressioni, può essere indagato scientificamente.
Secondo Boezio, che fa riferimento alla filosofia platonica, il fenomeno fisico del suono e della musica è solo un aspetto di ciò che la musica è realmente. Musica è infatti la totalità dei fenomeni naturali nei quali sono presenti ordine e armonia, a cominciare dall’espressione più alta di tale ordine, cioè il moto regolare dei cieli. Questa idea è formalizzata nel De institutione musica dividendo la musica stessa in tre grandi generi, cioè musica del cosmo (mondana), dell’uomo (humana) e degli strumenti (instrumentalis); tre diverse realtà, tutte e tre connesse dal “potere dell’armonia”.
La musica umana è l’armonia dell’anima e del corpo, a sua volta riflesso dell’armonia cosmica, secondo la dottrina esposta da Platone nel Timeo e nella Repubblica. Di questi due generi di musica Boezio annuncia una trattazione più ampia, che non ci è pervenuta, ma le poche affermazioni rimaste sulla musica cosmica susciteranno in età medievale un grande interesse, che ruota appunto attorno al tema della musica delle sfere celesti.
Per Boezio la musica dei corpi celesti è sonora e presenta un rapporto armonico tra i suoni corrispondente all’ordine razionale che determina il moto dei pianeti. Insieme alla realtà celeste, per Boezio anche la realtà terrena presenta armonia fra le sue componenti: infatti i quattro elementi che formano ogni sostanza materiale (terra, aria, acqua e fuoco) sono in equilibrio e proporzione. E anche il corso ciclico del tempo scandito dalle rotazioni celesti presenta armonia e concordia, manifestata sulla Terra dall’alternarsi delle stagioni.
La musica umana, secondo genere in cui Boezio divide la totalità della musica, è riflesso di questa cosmica armonia: essa si percepisce attraverso un’analisi interiore dalla quale emerge che l’anima, il corpo e la loro combinazione nel composto umano sono componenti strutturati in mirabile proporzione. Boezio dimostra anche in questo di seguire l’idea platonica di armonia macro e microcosmica esposta nel Timeo, ma non tralascia di citare apertamente Aristotele e il De anima (III, 9,) nel momento in cui sottolinea che le due componenti dell’anima, razionale e irrazionale, devono essere in perfetto equilibrio per la giusta armonia psichica.
Grazie anche alla sua attività politica, Boezio è un intellettuale profondamente consapevole del momento storico in cui vive ed elabora un progetto culturale proprio in funzione di esso. Di fronte alla decadenza del sapere che va di pari passo con l’erosione dell’impero d’Occidente, Boezio si propone di rendere disponibili al mondo latino le opere dei maggiori pensatori del mondo greco, Aristotele e Platone, e il sapere scientifico sviluppato nei campi dell’astronomia, della musica, della matematica. Egli concepisce l’idea di un grandioso progetto di traduzione delle opere dei due grandi filosofi, accompagnate da commenti che le rendano comprensibili ai lettori, ed è sorretto dal desiderio di mostrare la compatibilità tra le loro filosofie.
Non è improbabile che già all’epoca di Boezio le opere di Aristotele fossero difficili da reperire e ciò dà allo sforzo di Boezio non solo un particolare valore di recupero del pensiero filosofico, ma anche di conservazione materiale dei testi antichi.
Accanto a questa attività, Boezio ne sviluppa una più strettamente teorica, scrivendo una serie di trattati e opuscoli su materie scientifiche (il De institutione arithmetica e il De institutione musica, insieme a un trattato sulla geometria e a uno sull’astronomia andati perduti) e teologiche che completano il profilo di un intellettuale dai moltissimi interessi.
A dispetto dell’ampiezza del progetto, le traduzioni e i commenti realizzati da Boezio sono pochi. Di Aristotele egli traduce il De Interpretatione, le Categorie, gli Analitici primi, una versione degli Analitici secondi che ebbe scarsa circolazione ed è andata perduta, i Topici e le Confutazioni sofistiche. Traduce inoltre l’Isagoge di Porfirio, della quale redige un commento in cinque libri. Un precedente commento era stato condotto sulla traduzione dell’Isagoge fatta dal grammatico Mario Vittorino, che però non doveva essergli parsa soddisfacente. Anche le altre traduzioni sono accompagnate da commenti: due all’Isagoge, due all’Interpretazione, uno ai Topici – e anche ai Topici di Cicerone – e alcune glosse agli Analitici primi. Nel caso delle Categorie concepisce accanto al primo, destinato agli inesperti, un secondo commento, di cui non sappiamo nulla, più avanzato del primo. È la spia del fatto che il progetto di Boezio ha il valore pedagogico di diffusione e insegnamento ai latini del sapere greco. A ciò si accorda anche lo stile della traduzione. All’eleganza Boezio preferisce infatti la precisione, traducendo in modo letterale, cercando di seguire l’ordine delle parole presente nell’originale greco e di rendere nel dettaglio persino le particelle di quella lingua.
Possiamo chiederci perché Boezio abbia scelto di partire da queste opere e non da altre. Accanto a eventuali supposizioni legate all’effettiva reperibilità dei testi di Aristotele e Platone, dobbiamo prendere in considerazione le prassi e i programmi di insegnamento comuni all’epoca. La logica di Aristotele ha infatti una sua collocazione all’interno di un percorso di istruzione neoplatonico, stabilito da Porfirio. Il commento delle Categorie di Aristotele è pratica diffusa, condivisa tra gli altri da Porfirio stesso, Giamblico e Ammonio. Allo stesso modo, la conciliazione tra la filosofia di Aristotele e quella di Platone è un ideale sentito ancora da Porfirio e da Simplicio. Perciò Boezio si inserisce in un modo di procedere comune nella sua epoca. La scelta di Boezio, infine, riflette l’ideale di un percorso formativo nel quale occorre procedere dai temi inferiori a quelli superiori. Così la logica precede la metafisica (allo stesso modo in cui la grammatica precede la logica).
A partire dalla lettura dei testi aristotelici, filtrati attraverso i commentari neoplatonici, Boezio elabora alcune delle dottrine più significative della sua filosofia. Possiamo qui concentrarci su due delle riflessioni più importanti di Boezio, riguardanti la natura degli universali e la discussione sui futuri contingenti. Oltre che intriganti per il loro contenuto filosofico, entrambe sono in grado di mostrare il modo di procedere di Boezio a partire dai testi aristotelici.
L’autore degli scritti che formano il corpus dionisiano o areopagitico (Gerarchia celeste, Gerarchia ecclesiastica, Nomi divini, Teologia mistica, Lettere) si presenta come quel Dionigi, membro del tribunale dell’Areopago, che sarebbe stato convertito ad Atene da Paolo nel I secolo. L’identità di Dionigi non sarà quasi mai messa in dubbio nel medioevo; oggi sappiamo che l’appartenenza del corpus all’età apostolica è una leggenda, e che è ragionevole piuttosto indicare per tutti gli scritti che ne fanno parte una data di composizione intorno al 500.
Tra gli scritti appartenenti al corpus, è nella Gerarchia celeste e nei Nomi divini che si trova l’esposizione più completa del pensiero filosofico dello Pseudo-Dionigi.
La Gerarchia celeste descrive le proprietà e le funzioni dei nove gruppi di angeli nominati nell’Antico Testamento e da san Paolo. I nove gruppi sono suddivisi in tre gradi gerarchici, ciascuno dei quali è a sua volta ripartito in tre ordini. Vi sono, pertanto, il grado inferiore, formato da angeli, arcangeli e principati; il grado intermedio, formato da potestà, potenze e dominazioni; il grado superiore, formato da troni, cherubini e serafini. Gli angeli sono intelligenze pure e potenze immateriali, che tuttavia nella Scrittura sono descritti per mezzo di disparati simboli sensibili, dai più umili (come, per esempio, l’acqua o gli animali) ai più elevati (come la luce). Dio ha voluto ciò per venire incontro alle limitate capacità dell’intelligenza umana, ma anche per celare la verità ai profani; e lo sforzo che la mente umana deve compiere è andare oltre i simboli sensibili, interpretando allegoricamente la Scrittura. Oltre ai caratteri posseduti da ogni classe di essenze angeliche, nella Gerarchia celeste sono descritte anche le leggi che regolano i loro rapporti reciproci. L’ordine angelico più elevato riceve la luce che gli conferisce essere, vita e intelligenza direttamente da Dio; quindi la trasmette all’ordine immediatamente inferiore, e ciò facendo lo purifica, lo illumina e lo rende perfetto, in quanto lo inizia ai misteri di Dio. Allo stesso modo agiscono gli ordini intermedi sugli inferiori. Sembra che la luce divina, nella sua discesa lungo la scala gerarchica, vada affievolendosi, ma in realtà ciò è dovuto non a una debolezza della luce stessa, bensì alla crescente incapacità degli ordini inferiori a riceverla nel modo adeguato. Analogamente, tutti gli ordini angelici aspirano a rendersi simili a Dio, ma ciascuno di essi realizza questo fine nella misura consentita dalla propria natura.
Nei Nomi divini, che è il trattato più esteso del corpus dionisiano, sono esaminati gli appellativi di Dio che compaiono nella Scrittura. Considerato in sé, nel suo stato di permanenza, Dio è in realtà del tutto inconoscibile e innominabile. Dio può essere nominato e conosciuto solo attraverso i suoi effetti, ossia attraverso ciò che da lui procede nella realtà: i nomi divini corrispondono pertanto alla manifestazione divina nel mondo. Con questi presupposti è interpretata una trentina di termini, tra i quali “bene”, “luce”, “bellezza”, “amore”, “essere”, “vita”, “intelligenza” ecc.
Il Dio dionisiano è la causa unica e universale che precontiene, sebbene in forma semplice e indistinta, tutti i suoi effetti; e il creato, di conseguenza, non è altro che manifestazione integrale di un Dio che, senza intermediari, crea per un atto di amore e di volontà. Ecco perché è possibile applicare a Dio un duplice discorso: quello che procede per negazioni, la cosiddetta teologia o via negativa (detta anche “apofatica”), che consiste nella progressiva eliminazione dei nomi e delle descrizioni di Dio precedentemente accolti. Ma anche quello che procede per affermazioni, la cosiddetta teologia o via affermativa, nella quale a Dio si attribuiscono dei nomi per poi sottoporli a un’analisi allegorica capace di condurre oltre il loro significato sensibile. Giunti a questo punto, occorre negare persino le stesse negazioni, riconoscendo così che Dio è superiore a qualsiasi possibilità di conoscenza e di denominazione. È infatti compito di una via ancora superiore a quella negativa (la cosiddetta via superlativa) condurre al di là delle affermazioni e delle negazioni, per approdare infine, come testimonia il breve trattato della Teologia mistica, al silenzio mistico e alla misteriosa tenebra dell’ignoranza. Essa è superiore a qualsiasi forma di conoscenza. Come è accaduto a Mosè sul monte Sinai, l’entrata nella tenebra significa dunque l’assenza totale di parole e di pensieri; nell’unione mistica con Dio, ignoranza suprema e conoscenza suprema coincidono.
La riflessione sugli universali, infatti, riguarda la natura di generi e specie (animale, uomo, cavallo ecc.) e pone l’alternativa se essi siano delle realtà o dei concetti. Boezio esclude dalla sua analisi la posizione platonica, perché non prende in considerazione l’esistenza di enti ideali, modelli delle cose, e propende per la natura concettuale degli universali. Tuttavia la cosa è piuttosto complessa. Boezio parla infatti degli universali non come concetti costruiti dalla mente, ma come qualcosa di ricavato per astrazione dai singoli individui. Egli sembrerebbe allora ricadere in una posizione realista e platonica. Una posizione che può essere avvicinata ad alcune parti dell’ultima e più nota opera di Boezio, la Consolazione della filosofia, e i concetti universali apparirebbero allora una sorta di costrutto della mente che ha una capacità di spiegare la realtà maggiore di quella dei sensi, che hanno una portata conoscitiva limitata. Da questo difficile percorso interpretativo si ricavano due considerazioni: rispetto al suo tempo, Boezio si rivela un commentatore pronto a muoversi tra molte sfumature interpretative; rispetto al medioevo, si dimostrerà una fonte imprescindibile per ogni riflessione sull’argomento.
ESERCIZIO
E7: Boezio
Un altro tema di logica su cui Boezio si esprime in modo interessante è costituito dai futuri contingenti. Anche in questo caso la trattazione parte da un testo, il De interpretatione di Aristotele, e da una questione interpretativa: possiamo applicare anche alle frasi concernenti il futuro il principio di bivalenza applicato alle altre proposizioni, secondo il quale esse sono o vere o false? Boezio interpreta la posizione di Aristotele e conclude che queste sono vere o false ma in modo indefinito, cioè non ancora vere né false. Si apre a questo punto il campo delle interpretazioni rispetto alla posizione di Boezio. Probabilmente Boezio intende dire che esse saranno vere o false, ma non si può dire ora che cosa saranno, perché verrebbe meno il loro carattere contingente e si introdurrebbe la necessità. Anche in questo caso, perciò, Boezio si comporta da commentatore, ma la sua posizione, o le interpretazioni di essa, possono essere il punto di partenza o di appoggio per le riflessioni di altri autori.
Il ruolo di traduttore e commentatore di Boezio non deve oscurare l’importanza delle altre opere del filosofo romano. Tra queste vi sono senza dubbio alcuni testi “teo-logici”. Le questioni affrontate da Boezio in tali opere riflettono la sua formazione e il suo interesse per la logica, perché il loro scopo consiste in una serie di chiarimenti concettuali.
Presi nel loro complesso, questi testi suscitano nel lettore una domanda: come si concilia l’influenza neoplatonica e aristotelica (relativamente alla logica) di Boezio con temi che hanno esplicitamente un punto di partenza non razionale, ossia la rivelazione e la fede? Una domanda, beninteso, che vale per tutti gli autori cristiani, ma che nel caso di un pensatore cresciuto in un contesto nel quale l’adesione al cristianesimo non era scontata si pone con ancora maggior forza. Possiamo rispondere che per Boezio si tratta di applicare una logica rigorosa alle verità di fede. Definizioni chiare, argomentazioni stringenti, uso di nozioni aristoteliche e neoplatoniche: tutto avviene non contro la fede cristiana, ma al suo interno, per meglio chiarirla e contestare le posizioni eretiche. Facciamo qualche rapido esempio. Per mostrare la differenza tra la bontà di Dio e quella delle cose create da Dio, Boezio distingue tra esse (“essere”) e id quod est (“ciò che è”), sostenendo che Dio conferisce l’essere alle cose, dando loro esistenza e bontà, mentre egli stesso è sia esse che id quod est. Inoltre risolve il mistero della Trinità, affrontandolo sul piano della relazione (categoria aristotelica) e rilevando come i relati (Padre, Figlio e Spirito Santo) siano distinti solo in quanto soggetti della relazione, e non nella sostanza. Infine, per contestare le tesi eretiche a proposito della natura umana o divina di Cristo, ridefinisce i concetti di natura e di persona.
La filosofia tardoantica è dominata dalla nuova interpretazione del pensiero di Platone proposta da Plotino e rielaborata da autori quali Porfirio e Giamblico. Una tappa ulteriore e decisiva è rappresentata dalla fondazione, all’inizio del V secolo, della Scuola neoplatonica di Atene. Partendo dalla riflessione sulle dottrine dei maestri citati, gli scolarchi ateniesi (Plutarco di Atene, Siriano, Proclo, Marino, Isidoro, Egia e Damascio) propongono un piano di studi che comprende tutte le parti della filosofia, studiate secondo una progressione che conduce da Aristotele a Platone, e da Platone alle fonti stesse della teologia, cioè le rivelazioni degli dèi.
BOX
Atene, 529 d.C.: la fine dell'Accademia
Accanto a questo aspetto sistematico, occorre menzionare anche il risvolto politico che gli scolarchi riconoscono alla filosofia. Proclo, sul modello di Platone, accanto all’attività di carattere teorico, pratica la virtù politica dell’evergetismo (vale a dire della pratica di elargire doni alla collettività da parte di privati cittadini), che si manifesta nella partecipazione alle riunioni pubbliche sugli affari della città e nel rapporto epistolare con le classi dirigenti delle città-stato greche.
L’autorità politica bizantina, da sempre attenta al potenziale sovversivo dei filosofi, opera dunque per mettere sotto controllo l’insegnamento della filosofia, prima istituendo ad Atene delle cattedre finanziate direttamente dall’imperatore, poi creando nel 425 un unico polo d’eccellenza – la cosiddetta università di Costantinopoli – allo scopo di oscurare gli antichi centri di insegnamento.
I continui scambi di docenti confermano la forza del legame fra le scuole ateniesi e quelle alessandrine: ad esempio Damascio, successore di Proclo alla guida della Scuola di Atene, aveva ricevuto la sua prima educazione filosofica proprio ad Alessandria. La vera differenza fra le due scuole sta piuttosto in un diverso atteggiamento nei confronti dei problemi politici e religiosi: meno ostili al cristianesimo e addirittura, per esempio con Giovanni Filopono, apertamente cristiani, gli esponenti della Scuola alessandrina si mostrano dal punto di vista politico più prudenti e concilianti nei confronti del potere centrale rispetto ai loro colleghi ateniesi, tenacemente pagani e propugnatori di una società diversa, basata sul modello della Repubblica platonica.
Nell’elaborazione dei Padri della Chiesa, che si sviluppa parallelamente all’attività delle scuole ateniesi e alessandrine, è la vita cristiana nella sua interezza a essere intesa come “vera” filosofia. L’attributo di “filosofi” viene infatti riconosciuto di preferenza a gruppi che realizzano concretamente, in modo esemplare, tale ideale: cioè i martiri e successivamente i monaci, tanto che, all’interno della letteratura bizantina, la parola filosofia diventa addirittura sinonimo di “amore della quiete”, elemento caratteristico, appunto, della vita monastica.
Un tema fondamentale è costituito dal tentativo di un recupero cristiano della saggezza pagana: alcuni pensatori cristiani individuano infatti nelle riflessioni dei saggi greci i prodromi della rivelazione divina. Tale processo non avviene senza contrasti; è anzi osteggiato da numerosi esponenti dell’élite intellettuale legata agli ambienti ecclesiastici.
Nonostante la grande profusione di mezzi retorici dispiegata contro la filosofia – in ciò si distingue particolarmente Giovanni Crisostomo (IV sec.) – non sono pochi gli ambiti in cui ci si richiama apertamente all’autorità di Platone e di Aristotele. A un avvicinamento formale alla dialettica si perviene tuttavia soltanto sulla base degli strumenti logici e terminologici che un altro grande Padre della Chiesa, Giovanni Damasceno (VII-VIII sec.), individua nella sua Dialettica, rendendone disponibile l’applicazione alla sfera teologica.
LETTURE
Le scuole neoplatoniche
La predilezione per Aristotele e quella per Platone si alternano nel cosiddetto primo umanesimo bizantino del IX secolo. Con lo storico e filosofo Michele Psello (XI sec.) l’alternativa tra i due filosofi antichi perde però di intensità, con la massima ammirazione rivolta ai neoplatonici come Proclo e Giamblico, e dunque con una indubbia preferenza per Platone, il quale non soltanto sarebbe stato in accordo con la sapienza dell’Oriente pre-greco, ma anche con i dogmi essenziali del cristianesimo. Per contro, la dottrina aristotelica secondo cui il mondo non ha un inizio viene condannata, in quanto inconciliabile con il dogma cristiano.
LETTURE
Filosofia a Bisanzio
Che cosa resta del Boezio commentatore e traduttore nella Consolazione della filosofia, la sua opera più famosa? La Consolazione, scritta in carcere nel periodo finale della sua vita, mette in scena un dialogo tra Filosofia e Boezio.
Il filo rosso che attraversa le pagine di quest’opera è la comprensione degli eventi umani, da quelli personali di Boezio al piano che regge la storia, al Dio che conosce questo stesso piano. A partire da tale asse portante si diramano le domande sulle motivazioni dell’agire umano, sulla natura del male, la libertà dell’uomo e la conoscenza di Dio. Ognuno dei cinque libri è dedicato a un argomento: alle sventure politiche di Boezio, alla fortuna e alla felicità interiore, al sommo bene, al male, alla prescienza divina e alla libertà.
TESTO
T7: Severino Boezio, L’incontro con Filosofia
L’immagine di Boezio che emerge dalla Consolazione della filosofia è quella di un intellettuale aperto ad assorbire le molteplici tradizioni che attraversano la riflessione tardoantica; questa apertura stimolerà gli autori dei secoli successivi a servirsi del lessico filosofico di Boezio, a riprenderne gli argomenti e a leggere e trasmettere senza sosta le immagini poetiche di quella straordinaria “opera aperta” che è la Consolatio.
ESERCIZIO
E9: Boezio
La Consolatio Philosophiae, in cinque libri, è l’opera che Severino Boezio scrive in carcere attorno al 523, poco prima della sua morte. In una prosa raffinata intervallata da componimenti poetici, Boezio immagina che la Filosofia, impersonificata nell’allegoria di “una donna di aspetto venerando”, venga a confortarlo in carcere, mostrandogli come tutte le sofferenze cui lo ha sottoposto la Fortuna facciano comunque parte del grande piano del Creatore universale, e vadano accettate con la fermezza d’animo propria del saggio.
Il primo libro è dedicato all’apologia politica di Boezio, che si difende dalle accuse dei suoi avversari. Il secondo libro tratta del ruolo della Fortuna nelle vicende terrene, a partire dalle circostanze drammatiche nelle quali Boezio si trova e dal proprio smarrimento interiore.
I temi più espressamente filosofici sono esaminati negli ultimi tre libri. Il terzo libro, in particolare, si interroga sulla natura della vera felicità umana, giungendo alla conclusione che essa coincida con l’aspirare a Dio, sommo bene e regolatore dell’universo. Nessuno dei beni del mondo, infatti, è realmente tale: le ricchezze, la gloria, gli onori portano con sé grandi sofferenze e possono essere facilmente perduti, mentre l’uomo che tende al cielo finisce in certo modo per deificarsi e conseguire uno status sovraumano di gioia perfetta.
Nel quarto libro Boezio solleva il problema decisivo del male, che non dovrebbe essere tollerato da un Creatore sommamente giusto, il quale sembra anche permettere che i malvagi conseguano ogni soddisfazione nella vita terrena. La risposta di Filosofia presuppone la tesi di Agostino d’Ippona, secondo cui il male non ha un reale statuto ontologico, ma rappresenta in realtà il puro nulla che è il contrario del Bene: i malvagi, allontanandosi da quest’ultimo e quindi da Dio, non solo non possono raggiungere la propria felicità, ma si applicano inoltre a qualcosa che non esiste, finendo per perdere la loro condizione umana e infine il loro stesso essere.
Una comprensione più attenta del problema implica, per Filosofia, la distinzione fra Fato e Provvidenza: esiste una regola universale che presiede allo svolgimento di tutti gli eventi, la quale prende il nome di Provvidenza (da pro, “dinnanzi, prima”, e videre, “vedere”) intesa proprio nel senso di “pre-visione” delle cose che possono accadere o che accadranno, se considerata dal punto di vista divino eterno, onnicomprensivo e atemporale, mentre è definita Fato quando viene riferita alle creature soggette alle temporalità. Gli uomini, il cui strumento conoscitivo è la ragione (ratio), non possono conseguire la più perfetta visione del tutto propria del divino, nella quale l’esistenza del male conosce una profonda quanto insondabile spiegazione; finché non si avvicinano a Dio, quindi, non potranno comprendere i segreti equilibri del creato. Questo approccio per gradi, il cui lontano ispiratore è il sesto libro della Repubblica di Platone, è un altro dei tanti elementi filosofici che, attraverso il De Consolatione raggiungono le tradizioni dei secoli medievali.
Il concetto di Provvidenza solleva un ulteriore problema etico-metafisico, che viene esaminato nel quinto e ultimo libro del capolavoro di Boezio. Se Dio osserva e conosce ogni cosa, senza possibilità di fallire in quanto perfetto, è necessario che si avveri quanto la Provvidenza divina prevede per il futuro: tutti gli atti umani sarebbero quindi determinati, e senza libertà non avrebbe senso supporre che esistano premi per gli uomini buoni e castighi per quelli malvagi. È il problema dell’incompatibilità tra la prescienza divina e il libero arbitrio umano, già presente in autori come Origene e Agostino per esempio, e che avrà notevoli sviluppi nella storia delle tradizioni filosofiche medievali e moderne. Anche in questo caso, Boezio sottolinea l’impossibilità umana di comprendere le cose da una prospettiva superiore: nell’eterno presente divino, gli atti liberi verrebbero previsti in quanto liberi, e quelli necessari in quanto necessari. La pura visione delle cose fuori dal tempo non comporterebbe dunque alcun condizionamento su di esse.
VIDEO
Boezio, De Consolatione Philosophiae
Di recente lo storico del pensiero tardoantico John Marenbon ha proposto una diversa chiave di lettura del rapporto esistente in Boezio tra la prescienza divina e la libertà umana: di fronte all’argomentazione di Boezio prigioniero – se Dio prevede in anticipo tutte le cose e non può sbagliare, allora si verificherà necessariamente ciò che la Provvidenza ha stabilito – il principio che permette di risolvere il problema non è il ricorso all’atemporalità, ma alla semplicità del pensiero di Dio. Partendo dal principio per cui le stesse cose sono conosciute in diversi modi a seconda delle differenti facoltà dell’anima, cioè secondo le capacità conoscitive di chi le apprende, nel dialogo con Boezio, Filosofia sostiene che poiché Dio è semplice, la sua conoscenza sarà altrettanto semplice e immutabile: per essa, gli eventi futuri e quelli passati saranno conosciuti come se fossero presenti, e quindi assolutamente necessari nel momento in cui accadono. Ne consegue che è la conoscenza divina ad avere carattere di necessità, e non le cose, che rimangono contingenti garantendo, in tal modo, la libertà del volere.
ESERCIZIO
E8: Boezio