Nel 529 due eventi possono essere presi, per la loro concomitanza, come segnali di una transizione dalla filosofia antica alla cultura altomedievale: la chiusura dell’Accademia platonica di Atene in seguito all’editto di Giustiniano, da una parte, e la fondazione dell’abbazia di Montecassino a opera di Benedetto da Norcia, dall’altra.
Dell’anno successivo è la composizione della Regula benedettina, il testo che disciplina la vita monastica e che lentamente si impone come modello per le abbazie dell’Europa occidentale. Soprattutto a partire dall’età carolingia, i monasteri assumono quel ruolo di centro culturale che le città hanno perduto: la conservazione e lo studio dei testi antichi passano ai monasteri e alle scuole monastiche, immerse nel silenzio della campagna e dei boschi. Queste scholae impongono, come prescritto dalla Regula, molte ore di lettura ai monaci: esse costituiscono dunque, nell’alto medioevo, il contesto privilegiato nel quale si svolge la vita intellettuale, almeno fino al XII secolo.
BOX
Atene, 529 d.C.: la fine dell'Accademia
La filosofia monastica vive di glosse e commenti, di trascrizioni e sintesi a partire dai frammenti superstiti della cultura classica. Ne sono un esempio opere di carattere enciclopedico come il De Universo di Rabano Mauro (IX secolo), e di esegesi – cioè di interpretazione del testo – quali l’Omelia di Giovanni Scoto Eriugena (IX sec.) sul Vangelo di Giovanni o il commento di Lanfranco di Pavia (XI sec.) alle lettere di san Paolo.
Tuttavia l’attività dei monasteri non si limita alla semplice conservazione del sapere antico. Nel monachesimo si viene formando uno specifico modello culturale, che presuppone quelle nuove istituzioni del sapere che sono i centri monastici; nuovi riferimenti culturali – le auctoritates – e una concezione del pensiero filosofico ben diversa da quella dell’età antica. Lo dimostra l’intensa attività degli scriptoria, dove i monaci sono impegnati nel lavoro di copiatura dei manoscritti custoditi dalle biblioteche abbaziali, in quello che si presenta come un vero e proprio esercizio spirituale quotidiano. Attraverso di esso, il monaco testimonia la propria devozione al testo sacro, di cui memorizza e interiorizza gli insegnamenti.
LETTURE
L’istruzione e i nuovi centri di cultura
ESERCIZIO
E14: L’Abbazia e la tradizione monastica
Nelle scuole abbaziali le discipline insegnate dai maestri seguono la struttura delle arti liberali, articolate in Trivio (dialettica, grammatica e retorica) e Quadrivio (aritmetica, geometria, musica e astronomia). Seguendo il modello tracciato da Agostino nel De ordine, lo studio delle arti liberali fa da preambolo alla conoscenza della Sacra Pagina, ovvero alla teologia. Il novizio apprende a leggere, scrivere e parlare il latino attraverso la ripetizione del Salterio (cioè la raccolta biblica dei Salmi), mentre lo studio dei classici latini (Sallustio, Cicerone, Quintiliano, ma anche poeti come Virgilio e Orazio) è imposto come un esercizio utile ad acquisire le competenze linguistiche e culturali per la comprensione delle Sacre Scritture, che rimangono il riferimento imprescindibile del sapere monastico insieme alle opere dei Padri della Chiesa, primo fra tutti Agostino. Identica funzione riveste la dialettica, che consiste nella cosiddetta logica vetus (“logica antica”), cioè nelle opere aristoteliche tradotte in latino da Severino Boezio (le Categorie e il De interpretatione), cui si aggiungono l’Isagoge di Porfirio, sempre nella traduzione di Boezio, e i Topici di Cicerone.
LETTURE
Severino Boezio
LETTURE
Agostino
La cultura monastica si muove attorno a due punti di riferimento, uniti dal comune presupposto dell’obbedienza: l’abate e il testo sacro. I monasteri – come Montecassino nella penisola italiana, Fulda in Germania o Cluny e Bec in Francia – sono comunità di uomini che scelgono la vita in comune (cenobio) per sostenersi reciprocamente nel cammino verso la salvezza dell’anima attraverso l’imitazione di Cristo; una famiglia di monaci devoti all’abate (da abbà, “padre”), scelto dai monaci stessi per dirigere la vita del cenobio. L’abate è insieme padre spirituale e maestro di studi. Modello di virtù cristiana, egli detta anche i modi e i tempi dell’assimilazione delle conoscenze: quali letture compiere, in che modo interpretare i testi, come tradurne in pratica gli insegnamenti. A lui si affida ciecamente il monaco, che, con questo abbandono totale di sé, segue e pratica la via dell’umiltà prescritta dalla Regola benedettina: “Salito dunque per tutti questi gradini dell’umiltà, il monaco arriverà subito a quell’amore di Dio che, ‘perfetto com’è, caccia via il timore’” (Regola, VII, 132-134).
Il testo fondamentale è la Bibbia: in una religione del libro come quella cristiana, è naturale l’idea che in un testo vada cercato il sapere e che la conoscenza stessa sia da immaginare come un esercizio di lettura, tanto che nel XII secolo il teologo Ugo di San Vittore scriverà che il mondo è un libro “scritto dal dito di Dio”. Così, ad esempio, come sillabario per apprendere le lettere dell’alfabeto e i rudimenti della lettura si utilizza il Salterio: ogni occasione è buona per insegnare i principi fondamentali della religione cristiana. Ciò comporta una serie di conseguenze: l’attenzione per la cura materiale dei testi (da cui il ruolo fondamentale dei monasteri nella conservazione del sapere antico); il valore morale e religioso attribuito alle attività pratiche di copiatura e rilegatura; l’idea che la pratica dell’apprendimento non possa procedere che attraverso strumenti quali glosse, commenti e collazioni; infine, una pedagogia centrata sulla lettura dei testi, dalla Bibbia alla Regola alle opere dei Padri della Chiesa.
LETTURE
Temi escatologici alla fine del millennio
Nel monachesimo, la Bibbia, la Regola e la figura dell’abate sono manifestazioni tangibili del principio fondamentale dell’auctoritas. Nei secoli medievali, per auctoritas si intende un autore, un testo o un’opinione acquisiti nel patrimonio culturale comune e ai quali si fa costantemente riferimento. Essi sono giudicati quindi “autorevoli”, e fungono da garanzia per stabilire ciò che è vero e ciò che è falso. Il principio dell’auctoritas è quindi il segno di un modo peculiare di intendere il rapporto tra pensiero e realtà, dove la verità è ciò che si ritiene sia vero e viceversa. Le opinioni diventano autorevoli, e quindi auctoritates, quando confermano la verità rivelata dalle Scritture e nella quale tutti credono, e che va solo correttamente intesa e interpretata: non soltanto fatti e opinioni vanno decifrati in relazione al criterio delle auctoritates, ma l’auctoritas stessa, secondo la definizione di Alano di Lille (XII sec.), “ha il naso di cera”, che quindi può essere storto in un senso o nell’altro perché il significato del testo vada nella giusta direzione e ci sia un accordo completo fra tutte le auctoritates e tra queste e l’ordine divino del mondo. Le opinioni sono tramandate se sono giudicate vere, e sono giudicate vere se concordano, o vengono fatte concordare, con la verità della Bibbia: la cultura monastica resta sempre fedele al motto non nova sed nove (insegnare non cose nuove, ma in modo nuovo).
Negli anni del disfacimento delle istituzioni romane, il sapere cristiano si diffonde in tutta Europa, nutrito dalle competenze che gli garantiva il sapere pagano e dal riferimento al Testo Sacro e alle opere dei Padri della Chiesa. I rivolgimenti e l’instabilità politica portano a delegare il problema della formazione e della cultura alle istituzioni locali, essenzialmente monastiche, legate alla Chiesa. Al loro interno, diversi intellettuali sentono l’esigenza di raccogliere il più alto numero di conoscenze provenienti da diverse tradizioni, per evitare che venga cancellata ogni traccia della cultura antica e patristica.
Il desiderio di preservare l’identità e il sapere della tradizione classica dalle difficoltà del secolo guida l’operato di Cassiodoro. Nobile romano, prima collaboratore dei sovrani goti e poi in contrasto con i nuovi dominatori bizantini, Cassiodoro fonda attorno al 550 una comunità religiosa e culturale, Vivarium, nell’attuale Calabria. La compresenza, nella sua formazione, di conoscenze tecniche fondate sulla tradizione greco-latina e di una solida fede cristiana, lo induce a improntare la vita della comunità a un fine eminentemente pedagogico, volto cioè a indirizzare i confratelli verso un ideale di sapiente cristiano, solido nella fede ed erudito nelle arti liberali. A tal fine, Cassiodoro compone le Istituzioni (Institutiones), una sintesi di tutte le informazioni indispensabili alla realizzazione di quell’idea di concordia tra saperi e sapienza. Il testo guida il lettore in un percorso bipartito, prima attraverso le Scritture poi attraverso i saperi profani.
L’accostamento è fondato, in Cassiodoro come in tutto l’alto medioevo, nella convinzione che ogni sapere, sacro o profano, è tale solo se deriva dall’unica fonte di ogni verità, che è Dio. La struttura delle Institutiones disegna dunque con precisione l’iter formativo del cristiano, a partire dalla lettura della Bibbia.
La conoscenza del Testo Sacro appare a Cassiodoro come un innalzamento dell’animo umano. Il Testo Sacro non è immediatamente intelligibile ma va analizzato percorrendo diversi livelli di comprensione della verità. È dunque necessario partire da una introduzione, affidata agli autori che facilitano un primo accostamento alle Scritture; è poi utile studiare tanto gli autori che hanno reso comprensibili i più densi misteri del Testo Sacro, quanto quelli che hanno affrontato singoli problemi. Infine, risultano proficui per lo studioso i repertori di citazioni bibliche e il confronto con i più sapienti tra gli anziani. Cassiodoro dedica la parte conclusiva del primo libro delle Institutiones, dedicato a descrivere cosa e come debba studiare il cristiano, a illustrare alcuni precetti strettamente pratici: egli non manca di ricordare ai suoi confratelli di impegnarsi con rigore e precisione nella riproduzione dei manoscritti. A tal fine, prosegue Cassiodoro, sarà necessario dotarli di manuali di ortografia, di operai per la rilegatura, di lucerne per il lavoro notturno e altri strumenti.
Il secondo libro consta di sette capitoli, tanti quante sono le artes liberali che si propone di illustrare: grammatica, retorica, dialettica, aritmetica, musica, geometria e astronomia che, descritte nei loro caratteri più generali, rientrano pienamente nel complesso di competenze utili alla formazione del vero cristiano. Le Institutiones di Cassiodoro mostrano dunque, con grande efficacia, due importanti aspetti dell’enciclopedismo altomedievale: da un lato, la finalità pratica che induce alla stesura di opere utili allo studio; dall’altro, il contesto di cultura religiosa nel quale esso si sviluppa.
La tradizione delle arti liberali, cui si è fatto riferimento con Cassiodoro, era viva da tempo nella cultura pagana e nelle sue opere. Tra queste spiccano Le nozze di Filologia e Mercurio (De nuptiis Philologiae et Mercurii) di Marziano Capella, autore pagano vissuto a Cartagine nel V secolo d.C. L’opera, che costituisce un esempio di enciclopedismo altomedievale non cristiano, descrive le sette artes in modo profondamente diverso da quello di Cassiodoro, inserendole in una cornice letteraria profana. Nei primi due libri dell’opera si narra di Mercurio che, in cerca di moglie, decide, dietro consiglio di Apollo, di sposare Filologia, la figlia della Saggezza. Giunta al senato degli dèi, Filologia incontra Mercurio, seguito da uno stuolo di personaggi illustri dell’antichità greca, e riceve in dono dal suo futuro sposo sette ancelle, vale a dire le artes. Nei restanti sette libri del De nuptiis Marziano presenta le sette discipline, ciascuna con una precisa simbologia: la grammatica, per esempio, porta con sé la cera utilizzata per le tavolette scrittorie.
Il testo avrà grande fortuna per tutto il medioevo e testimonia per un verso l’esigenza di una manualistica di base, per un altro le spiccate competenze degli intellettuali medievali più colti, capaci di districarsi all’interno di un testo ostico e di difficile comprensione come quello di Marziano.
LETTURE
Cultura cristiana, artes liberali e saperi pagani
GALLERY
Dialogo e lezione
In questo contesto, dove l’auctoritas per eccellenza è la Bibbia, pensare significa innanzitutto accogliere la parola di Dio. Obbedienza, ascolto e silenzio: su questi valori si fonda la pratica intellettuale del monaco. Le prime parole della Regola benedettina sono un richiamo al dovere di porsi in ascolto, di attendere la sapienza e la salvezza dell’anima dall’abbandono a Dio: “Ascolta, o figlio, gli insegnamenti del maestro e piega l’orecchio del tuo cuore; accogli volentieri l’ammonimento di un padre amorevole e mettilo in pratica risolutamente, affinché tu ritorni con la fatica dell’obbedienza a colui dal quale ti eri allontanato con l’inerzia della disobbedienza” (Regola di San Benedetto, Prologo, 1). L’obbedienza non è solo un precetto della Regula: essa è anche e principalmente abbandono a un ordine superiore e divino, che trascende il destino del singolo, lo comprende e gli dà significato. Un ordine che è possibile comprendere, se si è in grado di decifrare gli infiniti rimandi simbolici e le allegorie di cui il mondo è costituito, e che rimanda alla perfezione di una realtà trascendente che non ci si può esimere dal cercare.
Obbedire significa ascoltare e percepire le parole dell’unico vero maestro, cioè Dio, espressa nelle Sacre Scritture. Il monaco si accosta al Testo Sacro attraverso l’ascolto della lettura altrui o leggendo lui stesso. Egli ripete parole e frasi, le scandisce lentamente e le ripone nella memoria, dove l’intelletto potrà recuperarle per meditarle e comprenderle e consentire alla volontà, così facendo, di rivolgersi verso Dio come prima si era aperta sulle cose del mondo: è un meccanismo conoscitivo che riprende il modello di Agostino, fondato sull’azione delle tre facoltà di memoria, intelletto e volontà.
La filosofia monastica prevede una comprensione lenta e profonda dell’insegnamento delle Scritture, perché ciò che cerca non è il sapere ma la saggezza, cioè quella conoscenza che possa condurre il monaco a vivere secondo il modello indicato dall’esempio di Cristo.
BOX
Agostino e la filosofia della conoscenza
La lettura è una pratica fondamentale nella vita del monastero, sancita come un dovere dalla Regula. Ciò comporta un continuo esercizio di esegesi, accompagnato da commenti, glosse, interpretazioni. La lettura della parola sacra è il modello di ogni approccio al testo e il modo con cui sono letti i libri della Bibbia orienta le altre letture. Nel IX secolo, ad esempio, il teologo Rabano Mauro indicherà nel suo De clericorum institutione alcune regole tassative per l’uso dei testi, sia cristiani che pagani: tutto ciò che alla lettera non appaia conforme ai dogmi della fede deve esservi ricondotto rileggendo il testo alla luce di un significato allegorico che va individuato; sarà riconosciuto come senso autentico del passo, e quindi come vero, quello che meglio si accorderà con la verità delle Sacre Scritture.
Leggere, nella cultura monastica, significa praticare la ruminatio, “ruminazione” materiale e intellettuale della parola. Il monaco “mastica” lentamente le parole del testo, le scandisce e le ripete incessantemente, in maniera sommessa o a voce alta a seconda di ciò che la Regola stabilisce per i diversi momenti quotidiani della lettura. La lettura e meditazione delle Sacre Scritture (lectio divina, cioè “lettura della parola di Dio”) è al contempo un ascolto. La parola scritta diventa suono e, attraverso il suono, penetra nell’interiorità dell’uomo: qui, la percezione fisica del corpo sonoro delle parole e la loro ripetizione ritmica spezzano il testo sacro e lo riducono alle sue parti elementari, come nella masticazione, consentendo di recuperarne il sapore, cioè il significato originario, in un esercizio che è al contempo fisico e spirituale. È una dinamica circolare che si muove tra mondo e anima, tra esterno e interno: il mondo e il suo ordine divino penetrano nell’anima attraverso la parola di Dio, e l’uomo, tramite la parola della preghiera, restituisce all’esterno la comprensione e l’adesione a questo ordine. Da qui anche l’importanza, nella spiritualità benedettina, della musica, che segue uno schema analogo: il canto gregoriano, che dal VI secolo accompagna le funzioni liturgiche nei monasteri, è la parola divina che, scesa nel mondo attraverso la rivelazione, risale a Dio come canto di lode e come restituzione da parte delle creature, in forma di preghiera, del dono del Verbo.
Leggere (lectio), meditare (meditatio) e infine contemplare Dio e l’ordine divino del mondo (contemplatio): questi sono, dunque, i tre esercizi spirituali richiesti al monaco, in un contesto dove la lettura non è solo una delle pratiche che scandiscono quotidianamente i tempi della vita monastica, ma un autentico modo di vivere.
ESERCIZIO
E13: La tradizione monastica
Toccata solo marginalmente dalla colonizzazione romana e dalla diffusione del cristianesimo, l’Irlanda viene evangelizzata a partire dalla prima metà del V secolo, grazie soprattutto all’attività missionaria di san Patrizio. Egli tenta di conciliare la necessità di leggere e comprendere il Testo Sacro e l’esigenza di dare una forma stabile all’organizzazione ecclesiastica e alla pratica liturgica. Si moltiplicano così le fondazioni di monasteri, organizzati secondo una rigida morale e una stretta obbedienza all’abate; essi si distinguono per lo studio intenso delle Scritture e della lingua latina, entrambe sconosciute sull’isola. Grazie alla fama dei suoi monasteri, l’isola diventa meta, reale o anche solo immaginata, di pellegrinaggi: diverse testimonianze descrivono il viaggio in Irlanda come esperienza di formazione, e lo stesso Alcuino di York, maestro di corte di Carlo Magno, ricorda la gente irlandese come celebre per la sua erudizione scolastica.
È indubbio che l’Irlanda dei secoli centrali dell’alto medioevo abbia costituito un punto di riferimento nel processo di sviluppo della cultura cristiana. È proprio dall’isola, a partire dalla metà del VI secolo, che muovono iniziative volte alla diffusione del messaggio cristiano in Scozia, in Britannia e, al fine, anche sul continente. Per i Padri irlandesi la vita del monaco è una fuga dal mondo e dalle sue tentazioni per praticare le virtù cristiane e conquistare la salvezza dell’anima.
LETTURE
Il monachesimo insulare e la sua influenza sulla cultura medievale
Alla pratica ascetica, condotta con particolare rigore, il monachesimo celtico unisce la missione dell’evangelizzazione dei popoli non cristiani e della diffusione del messaggio cristiano. È in questo contesto che nasce la pratica della peregrinatio, la peregrinazione nel mondo così caratteristica del monachesimo d’Irlanda e che appare come il più alto sacrificio da offrire a Dio in nome dell’evangelizzazione. La più celebre è quella di san Brandano (484 ca.-578 ca.), che insieme ad alcuni discepoli compie per sette anni una peregrinazione tra le coste di Irlanda e Scozia, alimentando il mito poi narrato nella Navigatio Brandani. Un altro esempio di peregrinatio è quello del monaco Colombano, che alla fine del VI secolo parte dalla terra d’origine in Irlanda per fondare sul continente monasteri ispirati al modello irlandese e dove è fatto obbligo ai monaci lo studio delle Scritture. Dalla sua esperienza nasce anche il celebre monastero di Bobbio, nei pressi di Piacenza, e da quella di un suo seguace sorge invece il cenobio di San Gallo, nell’odierna Svizzera. Quando partono dall’Irlanda, i pellegrini possiedono buone conoscenze di grammatica, necessaria alla corretta comprensione del testo, ottime tecniche da scribi e una discreta erudizione esegetica. Essi poi hanno modo di ampliare il proprio bagaglio culturale grazie all’incontro con la cultura cristiana diffusa nel continente. Ne è testimonianza la figura di un grande filosofo come Giovanni Scoto Eriugena, appunto di provenienza irlandese, fiorito all’interno di un contesto come quello carolingio tra VIII e IX secolo, nel quale altissima era l’attenzione per i problemi della formazione del cristiano e della tradizione dei testi.
Negli anni in cui il monaco irlandese Colombano fonda alcuni tra i più importanti monasteri del continente, in Britannia, già romanizzata ed evangelizzata, si svolge la missione un altro monaco, inviato dal pontefice a rievangelizzare l’isola: si tratta di Agostino, che diverrà poi primo arcivescovo di Canterbury (e per questo sarà noto come Agostino di Canterbury). Tra la fine del VII e l’inizio del VIII secolo, la nuova evangelizzazione comincia a dare i suoi frutti, risvegliando l’attività culturale dell’isola. Nelle scuole monastiche si studia la grammatica e la retorica per l’esegesi del Testo Sacro, ma anche l’astronomia per il calcolo dell’anno liturgico e la cultura latina in generale. Intensa è anche l’attività di copiatura dei manoscritti antichi, cristiani e pagani, raccolti dai monaci nelle loro peregrinazioni sul continente e a cui essi affiancano miniature sempre più raffinate. Ne sono splendidi esempi il Libro di Durrow e il Libro di Kells, realizzati tra il VII e l’VIII secolo.
Parallelamente alla vocazione missionaria, il monachesimo anglosassone produce quindi anche un forte impegno culturale, come dimostra la figura e l’opera di Beda (672-735), detto il Venerabile. Egli dimostra, nell’ampio insieme delle sue opere, una cultura vastissima, coltivata nella vita monastica. Le sue opere spaziano in diversi campi, dalla retorica alla grammatica, dalla filosofia della natura ai problemi del computo. Le opere esegetiche di Beda non perseguono l’originalità, ma si preoccupano di selezionare, all’interno della tradizione patristica, i testi più utili e che meglio illustrano i passi biblici, al fine di produrre una silloge intelligente ed utile al contempo. Lo stesso studio della natura, perseguito nel De rerum natura, non ha pretese scientifiche, ma vuole mostrare che la corretta analisi dell’universo, così come la lettura delle Scritture, conducono parimenti al riconoscimento del più generale ordine naturale e provvidenziale. La necessità di stabilire il calendario liturgico lo porta, inoltre, a studi di aritmetica, astronomia e meteorologia, tanto da assicurargli la fama di computator mirabilis, ovvero grande esperto nelle operazioni di calcolo.
ESERCIZIO
E15: La tradizione monastica
Il rapporto del monaco con la parola segna la sua diversità rispetto al filosofo antico. La parola più alta, nella cultura monastica, è infatti il silenzio. “Parlare e insegnare spetta al maestro”, prescrive la Regola, e anche in Agostino, che rimane un riferimento fondamentale per la tradizione benedettina, il silenzio rappresenta il superamento della comprensione razionale e delle sue mediazioni per entrare direttamente in contatto con Dio. Il silenzio non è solo una pratica sociale, funzionale alla vita in comunità, ma è soprattutto una virtù dell’anima, perché comporta uno sforzo della volontà che frena la naturale tendenza dell’uomo alla parola. L’astenersi dalla parola – ad esempio in quella forma singolare di canto sacro che è lo iubilus, esplosione sonora fatta di vocalizzi senza parole – rappresenta quindi non la negazione bensì la sublimazione della parola stessa, perché testimonia la nullità del linguaggio umano di fronte alla parola autentica e vera, il Verbo divino. In questo modo si costituisce uno spazio interiore – come un “chiostro dell’anima” – nel quale la verità può manifestarsi: nel luogo mentale del silenzio, una volta messe a tacere le parole umane, diventa possibile l’ascolto della parola di Dio, che conduce l’anima umana a cogliere la verità delle cose.
ESERCIZIO
E16: La tradizione monastica
TESTO
T9: Benedetto da Norcia, Il silenzio e la regula