Nell’XI secolo, l’esigenza di rinnovamento religioso che si esprime nella riforma del monachesimo benedettino è accompagnata da una progressiva elaborazione filosofica di questioni teologiche: la discussione verte sul ruolo dell’arte che insegna ad argomentare, distinguendo il vero dal falso, nei confronti della parola rivelata.
LETTURE
Le dispute eucaristiche
Pier Damiani (1007-1072) rappresenta una delle voci più autorevoli a difesa della fede contro le insidie della cultura profana, benché nelle sue opere si dimostri un profondo conoscitore delle arti liberali. L’incontro con alcuni monaci nell’abbazia di Monte Cassino, impegnati nel porre in discussione il dogma dell’onnipotenza divina sulla base di argomentazioni logiche, spinge Pier Damiani a denunciare gli esiti ereticali cui può condurre un utilizzo spregiudicato della dialettica, che deve essere sempre posta al servizio della Parola divina. In questo contesto, la disputa sul significato dell’eucarestia suscitata da Berengario di Tours sarà uno dei momenti più significativi della controversia sull’applicazione delle regole della logica alla speculazione teologica. La discussione sull’eucarestia, nata dall’esigenza di precisare il tipo di relazione che intercorre tra il corpo sacramentale e il corpo storico di Cristo, aveva già registrato infatti nel IX secolo la posizione di Pascasio Radberto, che teorizzava la realtà concreta della presenza del corpo di Cristo nel sacramento eucaristico, suscitando l’opposizione, tra gli altri, di Ratramno di Corbie, sostenitore della presenza spirituale del corpo di Cristo e dunque del valore simbolico del sacramento.
La discussione si riaccende due secoli più tardi. La posizione di Berengario, maestro di arti liberali a Tours, è l’espressione di un coerente realismo degli universali: proprio al fine di preservare l’immutabilità e la perfezione dell’autentica sostanza sacramentale, di cui pane e vino sono simbolo sacro, egli crede di dover interpretare in ottica simbolico-spiritualista il mistero eucaristico, negando quindi la trasformazione sostanziale del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo (teoria dello spiritualismo eucaristico).
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Il dono del libro
Riprendendo le nozioni aristoteliche di sostanza e accidente, Berengario afferma che se una sostanza scompare, scompaiono anche le sue proprietà, che sono intrinsecamente legate a essa: se nell’eucaristia la sostanza del pane e del vino scomparisse, dovrebbero scomparire anche le proprietà accidentali, come il sapore e il colore, cosa che è puntualmente contraddetta dai sensi. Di conseguenza, le sostanze del pane e del vino devono continuare a sussistere anche durante la consacrazione. Restando invariati gli accidenti visibili, non può venir meno – secondo il ragionamento di Berengario – la sostanza del pane e vino consacrati, dal momento che gli accidenti non possono sussistere senza il soggetto cui ineriscono. Il realismo di Berengario emerge anche da un altro argomento, questa volta di ordine grammaticale, che egli porta a sostegno della sua tesi: nella formula eucaristica “Hoc est corpus meum”, il pronome indica la sostanza del pane, che non può essere vanificata dal predicato, senza compromettere la validità dell’intera proposizione. Dopo aver subito una serie di condanne in numerose assemblee conciliari tra il 1049 e il 1079, per opera dei principali esponenti del partito riformatore, Berengario è costretto a rinnegare la propria dottrina e nel concilio di Bordeaux del 1080 deve sottoscrivere di credere che “dopo la consacrazione il pane diventa il vero Corpo di Cristo, quel corpo nato dalla Vergine e che il pane e il vino sull’altare, grazie al mistero della preghiera santa e delle parole del Nostro Salvatore, vengono convertiti in sostanza nel Corpo e Sangue del Signore Gesù Cristo”.
LETTURE
Severino Boezio
ESERCIZIO
E2: L’intelligenza della fede: Berengario e Lanfranco
ESERCIZIO
E1: L’intelligenza della fede: Berengario e Lanfranco
Il più celebre avversario di Berengario è senza dubbio Lanfranco di Pavia (1005-1089), priore dell’abbazia del Bec in Normandia, maestro di Anselmo d’Aosta e suo predecessore sul seggio arcivescovile di Canterbury. La sua opera più famosa è il Liber de corpore et sanguine Domini (Libro sul corpo e sul sangue del Signore), in cui sferra un attacco duro a Berengario, accusato di manipolare le fonti, di non conoscere le regole della logica e di sottomettere la verità e il magistero della Chiesa alle argomentazioni dialettiche.
Lanfranco evidenzia l’insostenibilità della teoria dello spiritualismo eucaristico, facendo leva anch’egli sia sulle autorità cristiane che su ragioni dialettiche a esse conformi, al fine di mostrare in cosa debba consistere il contributo delle arti liberali e del sapere profano alla chiarificazione della fede cristiana. Lanfranco accusa Berengario di aver anteposto l’indagine logico-filosofica della natura del sacramento ai dati della rivelazione: la fede nel mistero eucaristico non può essere condizionata da alcun preconcetto razionale. Soltanto sulla solida base della fede è possibile, e anzi auspicabile, il ricorso agli strumenti filosofici, che aiutano a interpretare l’enunciato del dogma, senza pretendere di spiegare le condizioni della sua realizzazione. Una volta ripristinato il corretto rapporto tra la fede e la ragione, Lanfranco difende la dottrina della transustanziazione (la trasformazione della sostanza di pane e vino nel corpo e nel sangue di Cristo) facendo ricorso alla classificazione aristotelica delle specie di movimento, al cui interno individua un’unica modalità applicabile al caso dell’eucaristia, vale a dire l’alterazione della realtà naturale: essa, nel mondo sensibile, comporta l’immutabilità della sostanza e il variare degli aspetti accidentali. Sulla base del previo consenso alla verità di fede, Lanfranco può affermare che, per ragioni che superano la limitata capacità di comprensione dell’uomo, e che attengono in ultima istanza all’imperscrutabile principio dell’onnipotenza divina, nel caso dell’eucaristia avviene il contrario: le sostanze del pane e del vino si trasformano, mentre le apparenze accidentali non mutano. La formulazione dottrinale di Lanfranco, approvata durante il concilio lateranense III del 1079, diventerà dogma della fede nel concilio lateranense IV (1215), riaffermato più di tre secoli dopo contro i protestanti, nel concilio di Trento (1551).
AMBIENTE CULTURALE
Nel capitolo XX dell’Apocalisse attribuita a san Giovanni Evangelista si legge: “Vidi poi un angelo che scendeva dal cielo con la chiave dell’Abisso e una gran catena in mano. Afferrò il dragone, il serpente antico – cioè il diavolo, satana – e lo incatenò per mille anni; lo gettò nell’Abisso, ve lo rinchiuse e ne sigillò la porta sopra di lui, perché non seducesse più le nazioni, fino al compimento dei mille anni. Dopo questi dovrà essere sciolto per un po’ di tempo. Poi vidi alcuni troni e a quelli che vi si sedettero fu dato il potere di giudicare. Vidi anche le anime dei decapitati a causa della testimonianza di Gesù e della parola di Dio, e quanti non avevano adorato la bestia e la sua statua e non ne avevano ricevuto il marchio sulla fronte e sulla mano. Essi ripresero vita e regnarono con Cristo per mille anni; gli altri morti invece non tornarono in vita fino al compimento dei mille anni. Questa è la prima risurrezione. Beati e santi coloro che prendon parte alla prima risurrezione. Su di loro non ha potere la seconda morte, ma saranno sacerdoti di Dio e del Cristo e regneranno con lui per mille anni. Quando i mille anni saranno compiuti, satana verrà liberato dal suo carcere e uscirà per sedurre le nazioni ai quattro punti della terra, Gog e Magòg, per adunarli per la guerra: il loro numero sarà come la sabbia del mare. Marciarono su tutta la superficie della terra e cinsero d’assedio l’accampamento dei santi e la città diletta. Ma un fuoco scese dal cielo e li divorò. E il diavolo, che li aveva sedotti, fu gettato nello stagno di fuoco e zolfo, dove sono anche la bestia e il falso profeta: saranno tormentati giorno e notte per i secoli dei secoli. Vidi poi un grande trono bianco e Colui che sedeva su di esso. Dalla sua presenza erano scomparsi la terra e il cielo senza lasciar traccia di sé. Poi vidi i morti, grandi e piccoli, ritti davanti al trono. Furono aperti dei libri. Fu aperto anche un altro libro, quello della vita. I morti vennero giudicati in base a ciò che era scritto in quei libri, ciascuno secondo le sue opere. Il mare restituì i morti che esso custodiva e la morte e gli inferi resero i morti da loro custoditi e ciascuno venne giudicato secondo le sue opere. Poi la morte e gli inferi furono gettati nello stagno di fuoco. Questa è la seconda morte, lo stagno di fuoco. E chi non era scritto nel libro della vita fu gettato nello stagno di fuoco”.
Interpretato alla lettera, questo capitolo sembra dire che, a un certo punto della storia umana, Satana verrà imprigionato e per tutto il periodo in cui resterà prigioniero si realizzerà sulla terra il regno del Messia, a cui partecipano tutti gli eletti, premiati con una prima risurrezione. Questo periodo durerà i mille anni della cattività del diavolo. Poi Satana verrà liberato per un certo tempo, quindi di nuovo sconfitto. A questo punto Cristo in trono darà inizio al Giudizio Universale, la storia terrena si compirà e (siamo all’inizio del capitolo 21) ci sarà un nuovo cielo e una nuova terra, cioè l’avvento della Gerusalemme Celeste.
Il problema, per i cristiani dei primi secoli, è se i mille anni del regno messianico fossero ancora da venire oppure fossero quelli che stavano vivendo. Se era valida la prima interpretazione, si doveva attendere una Seconda Venuta del Messia e una sorta di età dell’oro (che d’altra parte era stata promessa da tante religioni antiche), poi un ritorno preoccupante del demonio e del suo falso profeta, l’Anticristo (come la tradizione gradatamente tenderà a chiamarlo, anche se l’Apocalisse cita in effetti solo un Falso Profeta). E infine il Giudizio e la fine dei tempi. E questa è la lettura che dominerà con alterne vicende sino ad Agostino.
Nel IV secolo prende piede l’eresia donatista, che nega validità agli atti liturgici di gran parte della Chiesa ufficiale (ritenuta indegna) opponendole la purezza di una comunità rigoristicamente virtuosa e illuminata dallo Spirito Santo (la Chiesa donatista); essa oppone una Gerusalemme Celeste (ventura) alla nuova Babilonia rappresentata dalla Chiesa.
La risposta di Agostino è che né la Città di Dio né il millennio sono eventi storici che si realizzeranno in questo mondo; sono eventi mistici. Il millennio di cui parlava Giovanni rappresenta il periodo che va dall’Incarnazione alla fine della storia, quindi è quello che si sta già vivendo, già pienamente attuato nella Chiesa.
Ma, così facendo, Agostino apre la strada a due suggestioni maestose. La prima concerne proprio la possibilità terrena di quella Città di Dio che egli aveva dimostrato non essere cosa di questo mondo. Accade ad Agostino, come a molti polemisti, che per confutare un argomento scrivono un libro destinato a un successo tale che l’argomento ne rimane non diremo rafforzato, ma in ogni caso pubblicizzato. Allo stesso modo vedremo, nel corso della storia successiva, il tema delle due città affascinare riformatori e rivoluzionari, tutti convinti che la città di Dio debba realizzarsi subito e a opera dei migliori: ergo, una grande battaglia, l’Armageddon in terra, una rivoluzione.
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Giudizi universali
La seconda suggestione concerne l’avvento immediato del Giudizio Universale, e quindi l’attesa dell’anno Mille. Se il millennio non è una promessa, ma si svolge qui e ora, a interpretare rettamente l’Apocalisse la prima cosa che deve succedere è la fine del mondo. Che poi gli interpreti discordino sul computo matematico, se mille anni significhino una cifra indefinita o precisa, se vadano computati dalla nascita di Cristo, dalla sua Passione, dall’inizio o dalla fine delle persecuzioni, ciò non toglie che prima o poi la fine del mondo debba arrivare.
La storia dell’Apocalisse nel medioevo si muove tra queste due letture possibili con un senso di perenne attesa e tensione. Perché, o Cristo deve ancora arrivare per regnare mille anni in terra o è già arrivato ma in tal caso ci si deve attendere abbastanza presto un ritorno del Diavolo e la fine del mondo.
Il problema del millennio emerge in un commentario all’Apocalisse (In Apocalipsin libri duodecim) scritto da Beato di Liébana (730-785), cappellano della regina Osinda, moglie di Silo, re di Oviedo. Se l’Apocalisse conta poche decine di pagine, il commento di Beato ne conta parecchie centinaia. Non solo il commento è lunghissimo, ma nei secoli successivi i suoi manoscritti verranno arricchiti da miniature (di scuola mozarabica) prodotte tra l’inizio e la fine del X secolo, in una raffica impressionante di libri di favolosa bellezza che influenzeranno gran parte dell’arte figurativa medievale.
Beato aveva scritto il suo commento in particolare contro una vecchia eresia, l’adozionismo, che negava la divinità del Verbo, ridotto al rango di figlio adottivo del Padre. E Beato trovava nell’Apocalisse un testo adatto a mostrare un Cristo nel pieno della sua consustanziale divinità e figliolanza. Ma quello che lo affascina è che Cristo è venturus ad iudicandum (“colui che verrà per giudicare”), e quando arriva al capitolo 20 dell’Apocalisse esordisce addirittura con una invocazione a Dio affinché non gli permetta di cadere in errore. Egli sa che sta toccando un punto sostanziale.
Il testo giovanneo gli dice anzitutto che l’angelo chiude il diavolo nell’abisso “usque non finiantur mille anni” (“finché non passino mille anni”), poi dice che gli uccisi per testimonianza di Gesù e coloro che non adorarono la bestia “vixerunt et regnaverunt cum Christo mille annos” (“vissero e regnarono con Cristo per mille anni”). Poi specifica che questo regno è la “resurrezione prima” che è il battesimo, e conclude “et regnabunt cum eo mille annos” (“e regneranno con lui per mille anni”). Beato ammette che questi mille anni vanno computati dalla passione del Signore e sono pertanto quelli del regno terreno della Chiesa, come voleva Agostino. Ribadisce più volte che il millennio di cui si parla sia per il diavolo che per i beati è quello in cui lui e i suoi lettori stanno vivendo; Giovanni sta quindi parlando del millennio in corso e della fine di questo mondo. Agostino risolveva con eleganza la questione: si tratta di una espressione figurata per indicare il periodo in cui la Chiesa vive nel mondo. Beato invece obbliga il testo di Giovanni a esprimere letteralmente questo concetto attraverso ogni parola, ogni desinenza verbale, ogni avverbio. Pertanto chi leggeva il testo di Beato era messo di fronte alla scadenza del millennio come a un fatto storico incontrovertibile.
Attendendo il fatidico anno Mille, Beato è dominato dall’idea dell’Anticristo e legge l’Apocalisse come un trattato sull’Anticristo e sui modi di riconoscerlo. Dell’Anticristo gli parlavano i Vangeli e la prima lettera di Giovanni, di profezie sull’Anticristo era ricca la letteratura patristica, nonché altri testi più o meno spuri.
Ma Beato, una volta detto che l’Anticristo deve venire, che distruggerà la comunità dei fedeli, che i santi avranno bisogno di tutto il loro spirito di martirio e perseveranza per resistergli, inizia un canto disteso per mostrare che l’Anticristo cercherà di restaurare la legge giudaica e sarà in definitiva un ebreo – riprendendo un tema consueto a tutti i trattatisti apocalittici, certo, ma dimenticando che in quegli anni il suo paese è invaso dai musulmani. Inoltre egli non solo imporrà la circoncisione ma avrà anche la caratteristica di non bere vino (il che sembrerebbe alludere ai musulmani) oltre a quella di non gradire gli amplessi femminili (cosa su cui i maomettani avrebbero dissentito). E infine – accenno che non funziona né per maomettani né per ebrei – l’Anticristo, pur essendo impurissimus, sedurrà le genti predicando la sobrietà e la castità, col che Beato sembra piuttosto alludere a qualche eresia rigorista dei tempi passati.
Il successo della figura dell’Anticristo è certamente dovuto alle ansie millenaristiche, per capire meglio le quali occorre chiamare in causa anche ragioni materiali, legate allo stato di crisi in cui vivevano i secoli dell’alto medioevo. Beato non stava raccontando ai propri lettori quanto sarebbe potuto accadere tra pochi o mille anni, ma quanto l’uomo dei secoli ancora oscuri stava sperimentando ogni giorno. Basti leggere quanto racconta Rodolfo il Glabro nei suoi Historiarum Libri, parlando di eventi che accadevano quando il millennio era già scaduto da trent’anni, appena prima del 1033. E ci descrive una carestia dovuta a un tempo così inclemente che non si riusciva a trovare il momento propizio né per la semina né per il raccolto. La fame aveva reso tutti smunti, poveri e ricchi, e – quando non vi furono più animali da mangiare – tutti dovettero risolversi a cibarsi di ogni tipo di carogne e “di altre cose che destano ribrezzo al solo parlarne”, sino a che alcuni si ridussero a divorare carne umana. I viandanti venivano aggrediti, uccisi, tagliati a pezzi e messi a cuocere, e coloro che si mettevano in viaggio nella speranza di sfuggire alla carestia, durante la notte venivano sgozzati e divorati da chi li aveva ospitati. C’era chi attirava i bambini mostrando un frutto o un uovo per poterli scannare e cibarsene. Insomma, “tanto dilagò quell’insano furore, da lasciare più al sicuro dal rischio di sequestri il bestiame abbandonato che l’uomo”.
In effetti sui terrori dell’anno Mille la letteratura è vastissima e contraddittoria. Molti storici hanno confutato la leggenda secondo la quale, nella notte fatale del 31 dicembre 999, l’umanità avrebbe vegliato nelle chiese attendendo la fine del mondo. I testi dell’epoca non recano alcuna traccia dei terrori, ed espressioni sui documenti come appropinquante fine mundi (“avvicinandosi la fine del mondo”) erano formule retoriche. Infine, la datazione dalla nascita di Cristo e non dal preteso inizio del mondo, anche se già in voga da circa tre secoli, non era ancora di uso corrente: vale a dire che la gente del popolo non sapeva affatto di vivere nell’anno Mille.
Si è fatta strada recentemente l’ipotesi che i terrori ci siano stati, endemici ma sotterranei, in ambienti popolari sobillati da predicatori in odore d’eresia, e che i testi ufficiali non ne parlassero per ragioni di censura. Però non solo non è facile trovare un testo dell’epoca che tratti esplicitamente dei terrori ma i primi che ne fanno cenno sono Tritemio, nei suoi Annales Hirsaurgenses, scritti a inizio Cinquecento (ed è probabile che si tratti di interpolazione degli editori successivi nel XVII secolo), e Cesare Baronio (nei suoi Annali ecclesiastici del 1590). Tutta la letteratura sui terrori dipenderebbe quindi da queste due tardissime fonti. E inoltre non c’erano ragioni perché la Chiesa tacesse sui terrori, solo per non dare fiato a presunte idee eretiche: l’idea che il mondo dovesse finire nell’anno Mille non era eretica per nulla, perché poteva basarsi addirittura su una lettura di Agostino.
Se i terrori non ci sono stati esattamente nella notte del 31 dicembre 999, essi si trasferiranno in modo altrettanto ossessivo nei secoli seguenti.
Nel XIII secolo, per esempio, pagano il loro tributo all’esegetica apocalittica i grandi della scolastica, da Tommaso a Bonaventura, e si sofferma a lungo sui temi dell’Anticristo e del Giudizio il massimo enciclopedista dell’epoca, Vincenzo di Beauvais, in cui troviamo per esempio questa descrizione dei segni precursori della fine del mondo: “Dopo la morte dell’Anticristo, non ci sarà immediatamente il giudizio universale ma – secondo quel che fa intendere il libro di Daniele – per gli eletti che in quella persecuzione si saranno mostrati titubanti, saranno concessi 45 giorni per fare penitenza. Il tempo preciso poi della venuta del Signore lo si ignora completamente. Gli emissari dell’Anticristo in quei giorni godranno, facendo nozze, allestendo conviti e giochi di ogni genere e dicendo: ‘Anche se il nostro Capo è morto, ora comunque abbiamo pace e sicurezza!’ Mentre diranno simili cose, si abbatterà improvvisa su di loro la morte. Il giudizio finale sarà preceduto da molti segni che ci sono indicati dai Vangeli. Nella storia che s’insegna nelle scuole si leggono i segni di 15 giorni che san Gerolamo ha trovato negli Annali degli ebrei, ma non dice se questi giorni saranno continui o intramezzati. Nel primo giorno il mare si alzerà di quaranta cubiti sopra le montagne e si ergerà dalla sua superficie come un muro. Nel secondo sprofonderà tanto che a stento si potrà vedere. Nel terzo i mostri marini apparendo sulla superficie del mare manderanno ruggiti fino al cielo. Nel quarto il mare e le acque tutte prenderanno fuoco. Nel quinto le erbe e gli alberi manderanno una rugiada di sangue. Nel sesto crolleranno gli edifici. Nel settimo le pietre cozzeranno fra di loro. Nell’ottavo ci sarà un terremoto universale. Nel nono la terra sarà livellata. Nel decimo gli uomini usciranno dalle caverne e andranno vagando come impazziti senza potersi parlare. Nell’undicesimo risorgeranno le ossa dei morti. Nel duodecimo cadranno le stelle. Nel decimoterzo moriranno i viventi superstiti per risorgere coi morti. Nel decimoquarto cielo e terra bruceranno. Nel decimoquinto ci sarà un cielo nuovo e una terra nuova e tutti risorgeranno” (Speculum Historiale, XXXI, 111).
Il Medioevo è epoca di sofferenze e inquietudini, ma se le inquietudini venivano prima sofferte passivamente da una umanità affamata e abbandonata a se stessa, dopo il Mille la società si organizza, le città si definiscono come comuni indipendenti; si disegna tutta una gamma di differenze sociali, ricchi, potenti, guerrieri, clero, artigiani, contadini, e masse sottoproletarie. Queste masse cominciano a leggere l’Apocalisse in modo attivo, come se riguardasse un futuro migliore che esse devono ottenere con un impegno diretto. Ovviamente non si tratta di movimenti sociali organizzati a fini esclusivamente economici, bensì di reazioni anarchico-mistiche, dalle sfumature imprecise, dove rigorismo e dissolutezza, sete di giustizia e banditismo spicciolo si riuniscono sotto una comune, visionaria, esaltata matrice millenaristica.
Così vediamo nel XII secolo in Fiandra le bande di Tanchelmo e in Bretagna quelle di Eone o Eudo de Stella, gruppi di irrequieti e violenti, agitati da stralunate speranze. Eudo si proclama “re dei re” e si definisce come colui che deve venire a giudicare i vivi, i morti e il mondo col fuoco. Partecipano alle Crociate bande di poveri, i Tafurs, che si dedicano a massacri e rapine; ne fan le spese, in questi come in altri raid, gli ebrei, correntemente associati con l’Anticristo anche da parte di dottori ortodossi.
Per altri gruppi protestatari invece l’Anticristo è il clero e questa idea attraverserà tutta la Riforma protestante, in particolare le sue frange apocalittiche, come gli anabattisti. Tipico di queste masse diseredate che si scelgono un capo carismatico e si identificano coi veri membri della città divina è poi il rifiuto dello Stato e comunque dell’autorità costituita.
L’eresia che preoccuperà i dottori medievali e che genererà i maggiori consensi e le più spregiudicate interpretazioni sarà quella di Gioacchino da Fiore. E sui legami tra l’universo gioachimita e quello dell’Apocalisse non ci sono dubbi. Il suo profetismo trae nutrimento dalla dottrina agostiniana delle due città e ha il senso di sviluppo storico che l’Apocalisse suggerisce: dopo l’epoca del Padre (o della Legge), l’epoca del Figlio (o del Vangelo), è ora della terza epoca, quella dello Spirito; è questo il vero millennio, in corso mentre Gioacchino parla, vicino alla fine tanto da poterne prevedere la scadenza nel 1260.
È difficile dire se il pensiero apocalittico esprima sempre e soltanto aspirazioni mistico-visionarie o non si presti piuttosto ad analisi e progetti sulla situazione sociale. Nel millenarismo gioachimita la Chiesa dei Santi è una comunità dell’eguaglianza che instaurerà un’età dell’oro. Nei vari gioachimismi che si impadroniscono del messaggio dell’abate calabrese, il passaggio all’età dell’oro si disegna spesso come una opposizione al potere costituito e alla società ufficiale basata sulla divisione delle ricchezze.
In questo modo tendenze populistico-comunistiche si inseriscono, tramite gli echi apocalittici, nei più svariati movimenti di popolo, da Cola di Rienzo a Savonarola. E vari rami ereticali rampollano da Gioacchino, come i rigoristi francescani, i cosiddetti fraticelli, o i chiliasti del XIV secolo legati a fra Dolcino.
Sono di ispirazione apocalittica i movimenti dei flagellanti che nascono in Italia nel XIII secolo, in clima di ortodossia, e si trasferiscono in Germania come movimento anarchico-mistico a sfondo rivoluzionario. Di chiara derivazione apocalittica saranno i Fratelli del Libero Spirito o “begardi”, che si diffonderanno per l’Europa dal XIII secolo in avanti, e gli amauriani, seguaci di Amalrico di Bène.
Il medioevo è attraversato da queste ventate di rivolta in cui un gruppo si identifica con l’unica Chiesa, che si legittima attraverso il proprio rigorismo (che curiosamente, spesso, sfocia nella licenza, come se la coscienza della propria perfezione spirituale consentisse una maggiore spregiudicatezza nel trattare le miserie della carne). Verso il finire del XIV secolo il millenarismo apocalittico si apparenterà sempre di più a movimenti politico-religiosi più consistenti: gli storici i queste tendenze parlano espressamente di apocalittismo per l’ala radicale hussita in Boemia (i taboriti), per tutta la predicazione di Thomas Müntzer, sino alla tragedia finale della rivolta dei contadini, e per la ripresa degli ideali di Müntzer nella Münster anabattista di Giovanni di Leida.