La filosofia araba dell’islam medievale – detta falsafa – si produce dall’VIII al XIII secolo, in uno scenario che geograficamente va dalla Spagna all’Africa Settentrionale fino al corso del fiume Indo. In tale orizzonte la religione islamica unisce popolazioni diverse, portatrici ognuna di una propria cultura. L’arabo del Corano diventa la koiné (“lingua comune”) e i grandi centri urbani quali Baghdad, Damasco, Il Cairo, Bukhara vedono fiorire un’intensa vita culturale, dominata dalle esigenze del monoteismo islamico, ma anche aperta agli apporti scientifici prodotti dalle altre comunità religiose presenti, come quelle cristiane o quella ebraica.
Lo studio della falsafa comporta in primo luogo lo studio delle traduzioni arabe delle opere filosofiche greche e la conoscenza dei commenti arabi condotti su di esse. La tradizione filosofica platonica e aristotelica dalla Grecia classica passa al medioevo latino soprattutto, benché non solo, attraverso il momento arabo-musulmano. D’altra parte, lo studio delle opere originali dei falasifa, cioè dei filosofi arabi medievali, deve guidarci a individuare i caratteri peculiari della falsafa; in particolare il costante tentativo di conciliazione del pensiero greco pagano con la teologia islamica, rigidamente monoteista, e lo sforzo di far concordare il pensiero di Platone con quello di Aristotele.
A Baghdad, nei primi due secoli del califfato abbaside (che governò il mondo islamico dal 750 al 1258), vengono eseguite numerose traduzioni di testi filosofici dal greco e dal siriaco in arabo. La traduzione di testi filosofici greci non è solo il risultato della conquista musulmana delle province intellettualmente più avanzate dell’impero romano d’Oriente e dell’impero persiano come Antiochia, Edessa, Nisibe, Ḥarrān e Gondešapūr, in un’area compresa oggi fra Turchia, Siria e Iraq. Essa deriva anche della situazione politico-religiosa del mondo musulmano tra VIII e IX secolo. Il califfato abbaside, infatti, aderisce alla teologia mu‛tazilita che rappresenta il primo tentativo di discussione razionale delle questioni religiose inerenti all’islam e per questo suscita lo scandalo dei musulmani ortodossi e conservatori, legati alla lettera del Corano e della Sunna, cioè della tradizione dei detti e dei comportamenti del profeta Maometto. Con il sorgere di una vera e propria corrente di seguaci della falsafa, i falasifa considerano la filosofia greca la fonte suprema della verità universale, una sorta di Scrittura secolarizzata, ed è soprattutto questo che li rende desiderosi di impadronirsi dei testi greci, in uno sforzo senza precedenti.
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L’islam
Dapprima si distinguono alcune figure di intellettuali accomunati dallo stile di traduzione letterale, dall’area geografica (cioè Baghdad), e dal loro rifarsi alla filosofia di al-Kindi (morto nell’870 ca.). A questo primo circolo di traduttori si deve la versione in lingua araba di una vasta serie di trattati: dalla Metafisica di Aristotele al De caelo e ai Meteorologica, da alcune questioni di Alessandro di Afrodisia (II-III secolo) al suo De Providentia, fino a testi neoplatonici come la selezione di proposizioni tratte dagli Elementi di teologia di Proclo, nota in occidente come Liber de Causis e attribuita erroneamente ad Aristotele. Vengono inoltre tradotte le ultime tre Enneadi di Plotino, destinate a divenire la cosiddetta Teologia di Aristotele. Da queste opere i lettori arabi si formano una prima immagine della filosofia dei Greci, potente e pervasiva, destinata a viaggiare lontano: da Baghdad a Toledo e da Toledo fino a Parigi.
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Le scuole neoplatoniche
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Plotino
In questo primo gruppo di lavoro non solo viene elaborata una terminologia coerente per la falsafa, ma si concepisce il primo progetto metafisico originale, come si vede bene dalla principale opera di al-Kindi, la Filosofia Prima (al-Falsafa al-Ūlā). In essa al-Kindi propone un’ontologia compatibile con la fede di quanti aderiscono al tawḥīd (il principio dell’unicità di Dio) della religione coranica, ossia di quanti, come lui, credono in un Dio che è causa prima ed intelletto primo e che ha voluto creare dal nulla l’universo fisico nel tempo. Con al-Kindi infatti la filosofia, intesa aristotelicamente come ricerca delle cause, viene corretta in senso platonico nell’analisi della causa prima, il motore immobile. Esso, per essere armonico con il Dio del Corano, non può certo rimanere immobile conoscenza di sé, estraneo al mondo del divenire, principio di un universo che in realtà esiste eternamente. Egli deve piuttosto essere creatore al modo del demiurgo del Timeo di Platone. Deve pensare cioè a ogni ente particolare, svolgere un’azione benefica ed esercitare sul suo creato un’azione provvidente. Al-Kindi sostituisce alla concezione aristotelica di un primo motore che è puro intelletto, il modello cosmico neoplatonico di processione e di partecipazione di tutti gli esseri all’Uno. In questa lettura la paternità degli elementi principali del neoplatonismo islamico è attribuita ad Aristotele: la trascendenza del principio primo, l’emanazione o processione delle cose da esso, il ruolo della ragione, strumento di Dio, nella creazione e la concezione dell’anima come orizzonte tra mondo sensibile ed intelligibile.
Anche per quanto riguarda l’indagine sull’uomo, al-Kindi propone una lettura concordista della tradizione platonica e aristotelica. Nella sua Epistola sull’intelletto (Risāla fī l-’aql), tradotta in latino, al-Kindi sostiene che secondo Aristotele vi sono quattro gradi di intelletto: l’intelletto potenziale (la predisposizione ad accogliere gli intelligibili, come ad esempio il concetto di “bene”, “vero”, “uomo” ecc.), l’intelletto in habitu (cioè quell’intelletto che ha acquisito la capacità di pensare gli intelligibili), l’intelletto in atto (ovvero l’intelletto quando pensa di fatto gli intelligibili ed è quindi in azione) e l’intelletto separato (che, agendo sull’uomo, consente all’intelletto in habitu di divenire attivo e quindi di pensare gli intelligibili). La conoscenza umana, secondo al-Kindi, procede dalla percezione sensibile fino all’immagine che delle cose si produce nell’anima; tuttavia, l’intelletto umano può conoscere anche le forme immateriali, inaccessibili ai sensi, poiché ne condivide la natura intelligibile. L’intelletto umano, mentre conosce le forme intelligibili, diviene una sola cosa con esse e così facendo si attualizza, diventa intelletto in atto. Ma per ogni realtà che passa dalla potenza all’atto è necessario un principio già in atto: l’intelletto separato, sempre in atto e quindi detto anche “agente”, fonde in sé in primo luogo la dottrina del motore immobile come pensiero di pensiero, poi l’assunto aristotelico secondo cui nel conoscere oggetti immateriali vi è identità tra principio conoscente, cosa conosciuta e atto di conoscere, e infine i caratteri del nóus di Plotino.
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L’apogeo delle scienze matematiche islamiche
Nel secolo successivo all’elaborazione della filosofia di al-Kindi, il filosofo Abu Nasr al-Farabi torna con interesse nuovo alla teoria dell’intelletto, ora disponibile dalla traduzione araba del trattato Sull’intelletto (210 ca.) di Alessandro di Afrodisia, e consegna una dottrina il cui lascito è tanto nei suoi correligionari Avicenna e Averroè, quanto in Maimonide, Domenico Gundisalvi, Ruggero Bacone, Bonaventura, Alberto Magno e Tommaso.
Nella Baghdad tra IX e X secolo, in piena decadenza del califfato abbaside, nasce un circolo di filosofi e traduttori, cristiani e musulmani, che si dedicano allo studio della filosofia di tradizione greca. Il filosofo Abu Nasr al-Farabi è uno dei maestri del circolo. Nella sua riflessione la filosofia aristotelica viene collocata in un nuovo sistema delle scienze capace di integrare tra loro l’eredità scientifico-filosofica greca e le scienze autoctone della civiltà islamica. Al-Farabi, inoltre, vuole ridefinire il ruolo stesso del filosofo nella società arabo-islamica attraverso il recupero della filosofia politica platonica, armonizzata con le scienze tradizionali destinate a regolare le azioni della comunità religiosa e politica.
La scienza della politica per al-Farabi è quella degli antichi e in particolare della Repubblica e delle Leggi di Platone. L’obiettivo della scienza politica è il governo virtuoso, ossia l’arte di chi governa, stabilisce regole e conserva virtuosa la città: il suo fine infatti è la vera felicità, che è raggiunta grazie ad azioni buone, nobili e virtuose. Si tratta dunque di comprendere cosa bisogna intendere per piena felicità dell’uomo. Nell’Accesso alla felicità (Taḥsil al-Sa’āda) al-Farabi afferma che Platone e Aristotele concordavano nel ritenere che ciò che conduce alla perfezione dell’uomo, e quindi alla sua felicità, è la vera filosofia. Essa consiste nella conoscenza dell’essenza e delle cause di ciascuno degli enti, e in un certo stile di vita, descritto come vita virtuosa. In questa prospettiva il filosofo è l’uomo perfetto e felice per eccellenza, dato che egli è colui che possiede quel tipo di conoscenza e conduce quel tipo di vita. Il governo virtuoso è dunque quello il cui principio ispiratore è la realizzazione della piena felicità dell’uomo in quanto uomo, che consiste nella perfezione di quella facoltà dell’anima umana che è specifica dell’uomo, ossia la sua ragione. L’uomo deve essere portato a disciplinare i propri desideri e a svolgere la propria attività specifica, che è quella di conoscere le realtà naturali e divine. Tale disciplina e tale sapere tuttavia non possono essere conseguiti pienamente se non da pochissimi individui, naturalmente dotati, che vivono in favorevoli condizioni politiche.
Nell’Accesso alla felicità l’uomo perfetto viene chiamato “filosofo”, “governatore supremo”, “principe”, “legislatore” e “imam”. Il suo intelletto in potenza, astraendo le forme dalle cose sensibili, è divenuto progressivamente in atto rispetto ad ogni forma intelligibile, è divenuto cioè intelletto acquisito, ormai indistinguibile rispetto agli intelligibili che conosce. Esso costituisce il massimo grado possibile per l’uomo di assimilazione all’intelletto agente.
Le forme presenti nelle cose sensibili preesistono nell’intelletto agente, prive di materia, poiché l’intelletto agente è “ciò che le introduce come forme nelle materie e poi cerca di avvicinarle a poco a poco alla separazione fino a che si realizza l’intelletto acquisito”. Il fine stesso della creazione delle cose sensibili è così quello di porre in essere degli oggetti da cui abbia inizio l’attività cognitiva dell’uomo. Solo grazie a essa l’uomo nella sua vera sostanza, che è appunto l’intelletto, raggiunge il proprio scopo, la propria felicità e perfezione. Il suo intelletto non solo diviene pieno di forme, autoconoscente, ma contempla le sostanze superiori, del tutto separato dalla materia. Oltre agli intelligibili esistenti in potenza nelle cose sensibili e a quelli esistenti in atto nell’intelletto vi sono infatti anche degli intelligibili separati per natura dalla materia e sussistenti di per sé, ossia delle “intelligenze”. Per conoscere queste intelligenze bisogna acquisirle grazie a un’intuizione intellettuale diretta, di cui solo l’intelletto acquisito è capace. Queste intelligenze sono gerarchicamente ordinate a partire dal principio primo fino all’intelletto agente, che fra esse è l’ultima, ma che gode dell’eterna visione di tutte le intelligenze a lui superiori.
ESERCIZIO
E4: La filosofia dell’islam
Ancora una volta siamo di fronte a una lettura concordista della tradizione greca che fonde la dottrina aristotelica già menzionata, secondo cui l’intelletto divino pensa se stesso, e quella per cui nelle realtà immateriali non c’è distinzione fra gli oggetti conosciuti e la facoltà che li conosce. Ma la visione farabiana dell’intelletto sarebbe inspiegabile senza il tema neoplatonico dell’identità di natura fra l’intelletto e gli intelligibili.
Con Ibn Sina, il cui nome latinizzato sarà Avicenna (980-1037), la falsafa nell’Oriente musulmano raggiunge la sua maturità tanto nella speculazione metafisica quanto in ambito gnoseologico.
Nella sezione dedicata alla Scienza delle cose divine del Libro della guarigione (Kitāb al-Shifāʾ), Avicenna distingue in tutte le cose esistenti l’essenza dall’esistenza, la cosa dall’esistente. Su un piano logico, infatti, cosa ed esistente sono due concetti distinti: a una certa cosa si attribuisce una certa essenza o una certa “quiddità”, a un esistente invece un’esistenza attuale e oggettiva. Prova ne è che se costruiamo una proposizione in cui l’essenza è il soggetto e l’esistenza il predicato, la proposizione risultante non è tautologica (per esempio “Il cane è un animale esistente”).
Avicenna applica questa distinzione a diversi ambiti d’indagine e in primo luogo alla distinzione tra Dio e le sue creature. Tutto ciò che viene a essere è contingente, o meglio è soltanto possibile e diviene necessario solo in virtù della causa che lo pone in essere, il primo principio, cioè Dio. Dio, che in quanto causa prima pone in essere tutte le cose, ha come proprio carattere essenziale la necessità. Dio è quell’esistente necessario in cui esistenza ed essenza si identificano fino a coincidere. Anche la dottrina degli universali dipende in Avicenna dalla distinzione tra essenza ed esistenza: l’universale per Avicenna non è che un attributo dell’essenza, dotato di una modalità di esistenza puramente intellettuale. Infine, la stessa dottrina delle quattro cause aristoteliche (materiale, formale, efficiente e finale) viene reinterpretata da Avicenna alla luce della distinzione tra essenza ed esistenza: nonostante la causa finale venga ad esistere solo dopo le altre tre, essa detiene tuttavia il primato dal punto di vista dell’essenza.
Nell’elaborazione di questa dottrina fondamentale del pensiero di Avicenna confluiscono ancora una volta fonti diverse di tradizione greca e ormai anche araba: la dottrina aristotelica dell’universalità dell’essenza rispetto alla particolarità dell’esistenza e l’identificazione della causa prima con il grado puro dell’essere tipica del neoplatonismo arabo. L’essere necessario è infatti per Avicenna il grado supremo dell’essere che per sovrabbondanza di sé effonde bene, ossia dona l’essere a tutte le cose che sono. La molteplicità tuttavia non deriva direttamente da lui, ma dal suo primo effetto contingente, l’intelletto primo, separato e immateriale, che ha la molteplicità in sé in quanto ha in sé un contenuto intelligibile. Tuttavia, poiché, in questo intelletto immateriale, principio conoscente e oggetto conosciuto coincidono, la molteplicità è la più unitaria possibile. Quest’intelletto è elemento di mediazione tra Dio e il mondo.
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Aristotele
Da questo intelletto primo derivano tutte le intelligenze fino alla decima intelligenza celeste, cioè l’intelletto agente, che come dator formarum (principio che dona forma alle cose) è causa dell’intellezione propria dell’uomo. Avicenna propone un’analisi articolata del processo di attualizzazione dell’intelletto umano. Dapprima tabula rasa, l’intelletto materiale diviene poi intelletto in habitu in possesso degli intelligibili primi – ossia gli assiomi logico-matematici e i concetti come esistente, cosa, necessario e uno – dai quali muove per acquisire gli intelligibili secondi. Una volta acquisiti, diviene intelletto in atto: esso cioè possiede gli intelligibili, ma non li pensa ancora. Solo se l’intelletto umano, in connessione con l’intelletto agente, pensa in atto gli intelligibili, allora raggiunge il suo massimo grado di perfezione come intelletto acquisito.
Accanto all’atteggiamento di apertura dei falasifa nei confronti di un sapere di cui si conosceva bene l’origine straniera rispetto alle scienze coraniche, ci fu anche chi come al-Ghazali (1057-1111) rifiutò la filosofia di tradizione greca e la falsafa che da essa aveva tratto ispirazione, poiché le avvertì entrambe come un sapere contrario e alternativo alla rivelazione. Al-Ghazali, considerato dalla tradizione arabo-islamica il principale avversario della falsafa, individua diverse possibili categorie di persone in grado di attingere la verità: tra questi, anche i filosofi.
Dapprima, infatti, al-Ghazali si rivolge fiducioso allo studio della falsafa. Essa tuttavia non è in grado di fornire conoscenze vere intorno alla divinità e alla fede, anzi i falasifa concedono troppo al pensiero antico, il quale in realtà distrugge i fondamenti del credo rivelato. Secondo al-Ghazali, i falasifa si possono dividere in tre categorie: i materialisti che negano l’idea di Dio e della creazione; i naturalisti o deisti che ammettono l’esistenza di un creatore sapiente, ma negano l’immortalità dell’anima; i teisti, gli unici con cui ha senso confrontarsi.
Nell’Incoerenza dei filosofi (Tahāfut al-falasifa), al-Ghazali prende in considerazione al-Farabi, Avicenna e la loro fonte privilegiata, l’Aristotele neoplatonizzato da al-Kindi. Al-Ghazali individua alcune tesi di metafisica e di fisica contenute nelle loro opere contro cui è necessario argomentare e mettere in guardia il credente. Questi filosofi hanno infatti sostenuto l’eternità del mondo negandone la creazione così come il giorno del giudizio; hanno limitato la conoscenza di Dio agli universali, negando il fatto che Dio possa svolgere un’azione provvidente nei confronti delle realtà individuali; inoltre, essi hanno negato la resurrezione dei corpi e prodotto dottrine eretiche su Dio e i suoi attributi, insistendo sulla necessità di cause seconde, come se la volontà di Dio non bastasse, e facendo dell’anima una realtà composta e non semplice.
Ibn Rušd (nato a Córdoba nel 1126 e morto a Marrakesh nel 1198), il cui nome latino sarà Averroè, risponde alle critiche di al-Ghazali nell’Incoerenza dell’Incoerenza (Tahāfut al-tahāfut), unica opera personale tradotta in latino con il titolo Destructio destructionis. Il trattato di al-Ghazali aveva scatenato nell’Oriente musulmano una forte reazione antifilosofica che Averroè teme possa prodursi anche in al-Andalus, la Spagna musulmana.
Per Averroè, il ragionamento dimostrativo proprio della falsafa non può condurre a conclusioni diverse da quelle rivelate dal Corano. L’eventuale contrasto tra la lettera della parola coranica e una conclusione filosofica è soltanto apparente, anzi tale apparente contrasto è segnale del fatto che spetta al faylasuf elaborare su quel passo un’interpretazione allegorica.
L’attribuzione ad Averroè di una dottrina della doppia verità, come verrà canonizzata, non coglie nel segno: per Averroè la verità filosofica non è alternativa a quella della religione, ma si serve di un linguaggio più raffinato e di un ragionamento più elevato per veicolare la stessa verità ai sapienti. Al filosofo musulmano sarà ricondotta la corrente definita “averroismo latino” (o anche “aristotelismo difficile”), che nella seconda metà del XIII secolo si diffonderà presso i Maestri delle Arti (“artisti”) di Parigi. In realtà, come nel caso di Averroè, anche nei Maestri delle Arti non è affatto possibile ritrovare la famigerata teoria della doppia verità. Boezio di Dacia, che insieme a Sigieri di Brabante è l’“artista” più importante, non si nasconderà dietro la scappatoia della doppia verità per negare sul piano filosofico quelle verità rivelate che doveva dichiarare di accettare come credente: lavorerà piuttosto entro una prospettiva concordista per scongiurare conflitti fra sapere razionale e credenze religiose. A suo avviso sarà contemporaneamente lecito affermare la creazione del mondo dal punto di vista della teologia e negarla dal punto di vista della filosofia naturale: le scienze infatti, secondo Boezio, sono fondate su principi che ne determinano le potenzialità e i limiti.
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Vita fislosofica e felicità mentale: Sul sommo bene di Boezio di Dacia
Se nell’Occidente latino gli scritti originali di Averroè, ad eccezione dell’Incoerenza dell’incoerenza, non vengono tradotti, numerosissime sono le versioni latine dei commenti averroisti alle opere di Aristotele. Averroè sembra essere almeno in parte consapevole del fatto che nell’ambito delle riflessioni filosofiche sorte nel mondo islamico, Aristotele non è più che una maschera dietro la quale si sono sovrapposte tutta una serie di dottrine greche, non solo aristoteliche ma anche platoniche o riconducibili alla tradizione medio-platonica e neo-platonica. Tale maschera aveva garantito nell’islam l’unità delle scienze razionali sotto l’egida della filosofia, ma lo studio meticoloso del testo aristotelico mostrava quanto esso fosse distante dall’Aristotele storico.
Anche per questa ragione Averroè ripropone il commento per lemmi, il che significa che in ogni commento il testo aristotelico in traduzione araba viene diviso in parti di lunghezza variabile, corredati ciascuno da una parafrasi-commento. I lemmi sono introdotti dalla formula “disse Aristotele”, e nel commento che li accompagna vengono esposte ordinatamente una dopo l’altra le frasi del testo ed affrontati, in brevi excursus, secondo un metodo chiaramente didattico, i problemi testuali e dottrinali che si presentano.
Il commento per lemmi a testi aristotelici quali il De anima o la Metafisica diviene inevitabilmente il luogo in cui Averroè elabora le proprie dottrine originali destinate ad essere discusse e ridiscusse dalla scolastica latina, come ad esempio quella dell’intelletto materiale unico e separato per tutti gli uomini. Se per i pensatori della falsafa che hanno preceduto Averroè l’intelletto agente è l’ultima delle sostanze intellettuali separate, mentre ogni singolo uomo ha il proprio intelletto materiale che giunge alla propria perfezione grazie all’illuminazione che proviene dall’intelletto agente, secondo l’Averroè del Commento grande al De anima l’intelletto materiale non appartiene a ogni singolo uomo. Esso è la perfezione universale dell’uomo, ossia di tutti gli uomini insieme: è eterno, come lo è l’umanità in quanto specie. Ogni uomo, quando pensa, attualizza l’intelletto che è proprio dell’intera specie umana: infatti le forme che il singolo individuo astrae dalla materia, dette “forme immaginate” perché si devono alla capacità di astrarre propria della facoltà immaginativa, sono principi che realizzano la potenzialità di conoscere propria dell’intelletto materiale. Come la visione dipende sia dagli oggetti visibili sia dalla luce, così rendere attuale questa potenzialità dipende anche dall’intelletto agente.
TESTO
T5: Averroè, L’unità dell’intelletto
La teoria dell’unità dell’intelletto materiale porta come conseguenza l’impossibilità della sopravvivenza individuale dopo la morte. Infatti al singolo individuo appartengono in senso proprio soltanto le forme immaginate individuali, che non sfuggono alla corruzione del corpo: l’immortalità appartiene solo all’intelletto universale e non è una proprietà individuale.
TESTO
T4: Avicenna, L’uomo volante
ESERCIZIO
E6: La filosofia dell’islam