La tradizione ebraica si basa su un sistema di norme, un corpus giuridico che comprende le sentenze rabbiniche e la cui funzione è di fare da completamento al testo biblico. Inizialmente la Bibbia viene tramandata oralmente e successivamente viene codificata nel Talmud. Questa parte normativa della tradizione è detta halakah. Esiste anche una parte non normativa, la aggada (“racconto”), basata su racconti anche prodigiosi o detti sapienziali. Il Talmud si compone della Mishnah, ossia la ripetizione della legge (Torah), e della Gemarah, il commento scritto alla Mishnah. Esistono due commenti, da cui derivano due Talmud, quello babilonese e quello detto “di Gerusalemme”. Di fatto l’ebraismo nasce come una religione basata sulla vita pratica dell’uomo, una religione priva di dogmi e non fondata su una teologia o su spunti speculativi, ma piuttosto su un codice di azione e di comportamento. È questo il motivo principale per cui il Talmud, dal II al V secolo, prende le distanze dalla filosofia greca, la quale viene considerata come una sapienza straniera, da contrapporre allo studio della legge e della tradizione.
Le cose mutano attorno al VII secolo: nel 634 i musulmani d’Arabia invadono gli imperi bizantino e sassanide stabilendo un califfato con sede prima a Damasco e poi a Baghdad. Sotto questo dominio le comunità ebraiche godono di un clima di tolleranza e le tre religioni del libro (cristiana, islamica ed ebraica) entrano in contatto. Nel mondo islamico si sviluppa il kalam, un metodo di discussione teologica fondato sull’argomentazione razionale e dimostrativa con funzioni apologetiche nei confronti della religione. Parallelamente anche nel mondo giudaico si sviluppa un’esperienza simile, che i critici definiscono come una sorta di kalam ebraico. Tra i suoi esponenti spicca la figura di Saadia Gaon.
Generalmente conosciuto con il nome di Saadia Gaon, Saadia ben Yosef (882-942) nasce in Egitto da dove si sposta poi in Palestina, Siria e Iraq. Per Saadia l’argomentazione filosofica e scientifica e la rivelazione hanno un’origine comune. Per ogni problema viene, quindi, proposta una soluzione basata su una dimostrazione razionale che serva di sostegno ai passi biblici.
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Lo spazio sacro dell’ebraismo
L’esegesi biblica di Saadia ha l’intento di fornire la corretta lettura di alcuni elementi che, considerati nel loro senso letterale, sarebbero in contrasto con la ragione o produrrebbero comunque una contraddizione; così ad esempio, riguardo all’uso di attributi antropomorfici di Dio, termini come “occhio”, “orecchio”, “mano” e altri non devono intendersi come un’effettiva attribuzione a Dio di una fisicità (ciò non è possibile), ma un modo per parlare del divino: la mano, ad esempio, rappresenta la potenza divina.
In seguito all’esperienza apologetica del kalam, il pensiero ebraico medievale si caratterizza per il tentativo di conciliare la filosofia (o un sistema di pensiero razionalistico) e il testo rivelato. Gli aspetti razionalistici della riflessione ebraica trovano più di un punto di accordo, soprattutto nel X secolo, con l’aristotelismo dei commentatori arabi e con la loro particolare lettura del pensiero aristotelico intrisa di elementi neoplatonici. L’incontro-confronto tra le tematiche neoplatoniche e alcuni elementi fondamentali della tradizione giudaica solleva tuttavia alcuni problemi. Il principale elemento di discordia risiede nella immagine del Dio biblico: la sua volontà creatrice, l’intervento attivo nel mondo e la relazione diretta e pattizia con l’uomo, rendono la sua immagine irriducibilmente diversa dall’Uno neoplatonico che, impassibile, produce il mondo tramite un’emanazione indipendente dalla volontà.
Gli autori di maggior spessore sono Isaac Israeli (850 ca.-932 ca.), Shelomoh ibn Gabirol (1021 ca.-1054 ca.), Bahya ibn Paquda (XI sec.), Abraham ibn Ezra (1089–1164). Isaac Israeli, attivo soprattutto in Egitto, è noto per le sue opere di medicina; egli è il primo pensatore a recuperare, integrandole nel pensiero ebraico, fonti filosofiche tardoantiche. Non privo di alcuni elementi aristotelici, il suo pensiero è particolarmente orientato al recupero della tradizione neoplatonica, al dialogo con la filosofia di al-Kindi ma anche di Plotino. Del neoplatonismo, tuttavia, Israeli non sposa il concetto di emanazione non volontaria del mondo, ma sostiene invece la tesi tradizionale della creazione dal nulla. La sua cosmologia prevede un creatore, Dio, al posto dell’Uno plotiniano, una materia prima e una forma prima dalla cui unione viene l’intelletto, e un’anima nella quale sono tre funzioni, la vegetativa, la razionale e l’animale. L’anima umana è emanazione dell’intelletto, che è pura luce, e deriva dalla congiunzione della materia prima con la forma prima. Grazie a questo legame, l’anima può risalire il processo dell’emanazione dalla quale è stata prodotta, e giungere così all’estasi.
Ibn Gabirol è invece un poeta religioso e mistico. Tra le sue opere ricordiamo anzitutto il Fons Vitae (in ebraico Meqor Hayyim), scritto in arabo e successivamente tradotto in ebraico, poi in latino per mano di Giovanni Ispano e Domenico Gundisalvi (XII sec.); notevole è anche la Corona regale, lungo poema scritto in ebraico (Keter Malkut). Il pensiero di ibn Gabirol ha una certa influenza tra i pensatori cristiani. La sua opera presenta elementi aristotelici ma anche neoplatonici e si caratterizza per il ruolo che viene dato alla nozione di volontà.
Nell’essere ci sono tre cose: la materia e la forma insieme, la sostanza prima (Dio) e la volontà che è concepita come intermediario tra le due. Ogni grado dell’essere, al di là della sostanza prima, è composto di materia e forma; esiste una materia universale, comune a tutte le cose, ed una forma universale. Di materia e forma dunque sono composte anche le tre sostanze semplici, in relazione tra loro tramite un processo di emanazione: queste sono l’intelletto, l’anima (suddivisa in razionale, animale e vegetativa) e la natura. Dalla natura proviene la sostanza corporea. Tra i latini il nome di ibn Gabirol ricorre con frequenza nel contesto della discussione sull’ilemorfismo, cioè la teoria secondo la quale ogni ente è composto da una forma e una materia, e della quale Gabirol diventa sostenitore esemplare.
Il fine ultimo della vita umana è la scienza, intesa come conoscenza del mondo (della materia e della forma) e della volontà, mentre Dio è inconoscibile per l’uomo; attraverso la conoscenza l’uomo è in grado di abbandonare la prigione nella quale, platonicamente, l’anima è rinchiusa nel mondo corporeo, e risalire, quindi, alla propria fonte: Dio. In virtù di una corrispondenza e di una connessione esistente tra l’anima umana e la struttura dell’universo, l’anima conosce se stessa e, contemporaneamente, arriva a conoscere il cosmo e tutte le cose.
Altra figura di grande rilievo è quella di Judah ha-Levi (1075-1141). La sua opera maggiore è il Sefer ha-Kuzari. Seguendo una linea dialogica che non sarà estranea agli autori più aperti della tradizione latina (come Abelardo e il Dialogo tra un ebreo, un cristiano e un filosofo o il Libro del Gentile e dei tre saggi di Raimondo Lullo) il Kuzari narra come il re dei Cazari si converta al giudaesimo al termine di una discussione con un filosofo, un cristiano, un musulmano e un rabbino.
Argomento principale della discussione è l’atto religioso. Diversamente dall’onnipotenza volontaristica del Dio biblico, il Dio del filosofo – da identificare con Avempace (morto nel 1138) – è un Dio che conosce solo se stesso. Conoscere qualcosa di diverso da se stesso, infatti, sarebbe segno di una sua imperfezione; ne deriva che Dio non conosce l’uomo né può imporgli degli atti.
Partendo dall’assunto che il Dio ebraico non è il Dio universale dei filosofi, perché si rivela nella storia tramite un solo popolo e una sola lingua, Judah ha-Levi conclude che solo la religione ebraica, comparsa all’improvviso e rivelata da Dio, ha un’origine propriamente divina.
Con il Kuzari Judah ha-Levi si propone di attaccare e confutare la filosofia, intesa come l’aristotelismo di al-Farabi e Avicenna, per sostenere il primato della rivelazione sulla ragione; questa confutazione avviene per mezzo di metodi dimostrativi (come fa in ambito islamico anche al-Ghazali).
L’affermarsi di un vero e proprio aristotelismo nella filosofia ebraica si ha nel XII secolo. Le caratteristiche specifiche di questa lettura del filosofo greco sono la mediazione della filosofia attraverso il pensiero tardoantico e islamico; lo sviluppo di tesi in contrapposizione al neoplatonismo; la ricerca di una conciliazione con il testo biblico attraverso una lettura allegorica. Il filosofo più significativo di questa tradizione è senz’altro Moshè ben Maimon (1138-1204), detto Maimonide. Maimonide nasce a Córdoba, città dalla quale deve fuggire a seguito delle persecuzioni per rifugiarsi in Egitto, dove esercita la professione di medico e scrive opere giuridiche e religiose; tra queste, le principali sono il Mishnhe Torah e La guida dei perplessi.
Maimonide propone un’esegesi razionalistica della Bibbia, della quale cerca una interpretazione allegorica che vada oltre il senso letterale. Maimonide opera una lettura della pagina sacra alla luce della Fisica e della Metafisica di Aristotele cercando, nel contempo, di demitizzare la tradizione e instaurare un dialogo tra esegesi della pagina sacra e filosofia. Maimonide conosce Aristotele attraverso i commenti di Alessandro di Afrodisia, al-Farabi e Ibn-Sina (Avicenna). Ciononostante, un certo esoterismo è sempre presente nell’esposizione maimonidea, nell’idea che le verità religiose debbano essere celate ai più; anche la Bibbia, infatti, nasconde il vero senso dietro il senso letterale.
L’opera più conosciuta di Maimonide è la Guida dei perplessi. Essa non si presenta come un’opera sistematica, ma è, anzi, volutamente disordinata. Se ne possono estrarre tuttavia alcune tematiche di particolare importanza, a partire dalla questione della creazione del mondo. Maimonide espone le diverse tesi e la contrapposizione tra la verità biblica, la creazione dal nulla, e la tesi aristotelica dell’eternità del mondo. Non si dà una soluzione al problema e, sebbene molti abbiano visto Maimonide propendere per la tesi aristotelica, la questione in realtà non del tutto è chiara. Maimonide sostiene infatti che la tesi dei religiosi non è dimostrabile e la tesi dell’eternità può fungere da premessa per un ragionamento filosofico che affermi l’esistenza, l’unità e l’incorporeità di Dio. A fronte di questa lettura “filosofica”, tuttavia, è la creazione dal nulla a essere oggetto di fede.
Particolarmente interessante è l’analisi della relazione tra pensiero filosofico, ordine del mondo, e profezia. Maimonide la espone servendosi di una parabola: in un palazzo sta chiuso il sovrano, e i sudditi sono in parte fuori e in parte dentro la città; alcuni volgono le spalle al palazzo, altri vi si dirigono, altri ancora ne sono all’interno e vagano per le stanze. I filosofi raggiungono l’interno del palazzo, ma vi è un’élite, i profeti, che raggiunge la stanza dove risiede il sovrano in persona. Qual è dunque la relazione tra filosofia e profezia? La profezia è un’emanazione di Dio nell’intelletto dell’uomo tramite l’intelletto agente, e investe la facoltà razionale, quella immaginativa o entrambe. Vi sono così diversi gradi di profezia: secondo Maimonide, per arrivare a possedere il dono della profezia sono sì necessari studio e preparazione, ma il volere divino può stabilire di non concedere questo dono, nonostante la predisposizione e l’impegno.
Per quanto concerne la conoscenza umana, all’uomo viene riconosciuta da Maimonide piena conoscenza del mondo sublunare, mentre limitata è la conoscenza del mondo celeste e, naturalmente, preclusa è la conoscenza di Dio, del quale si ha solo una conoscenza negativa.
ESERCIZIO
E5: La filosofia ebraica
Se fino al XII secolo la produzione culturale di parte ebraica ha il suo maggiore sviluppo in ambiente arabo, nei secoli successivi è soprattutto tra Provenza e Italia che le comunità ebraiche trovano un clima culturale più favorevole; nella Spagna del XII secolo cominciano infatti le persecuzioni ad opera degli Almohadi (che governarono sul Maghreb e sulla Spagna musulmana dal 1147 al 1269). Tra i filosofi provenzali ricordiamo Gersonide (1288-1344). In Italia non si parla arabo e alla conoscenza dei testi filosofici contribusce il lavoro di traduzione soprattutto ad opera della famiglia dei Tibbon. Oltre alle opere filosofiche ebraiche scritte in arabo, si traducono opere di filosofi islamici e testi commentati della filosofia greca. In Italia i filosofi ebrei entrano in contatto con la tradizione latina, integrandosi nell’ambiente culturale locale, per esempio alla corte di Federico II (1194-1250) dove operavano diversi traduttori ebrei.
In Spagna invece la situazione è meno rosea a causa delle persecuzioni, che portano infine all’espulsione degli ebrei dalla Spagna cristiana, nel 1492. Tra i commentatori quattrocenteschi di Maimonide ricordiamo Yosef Albo (?-1444) e Hasdai Crescas (?-1412).
La cabbala (kabbalah) sorge come tecnica di lettura e interpretazione del Testo Sacro, per coglierne, al di sotto della lettera, il significato profondo e occulto. Si sviluppa in Renania, in Spagna e in Provenza a partire dal XII secolo. Il termine significa “tradizione ricevuta”, e infatti la corrente vuole ricollegarsi alla tradizione ebraica e, in particolare, a un testo scritto tra il III e il VI secolo, il Sefer Yetzira (Libro della creazione). Si è soliti distinguere una cabbala speculativa, o teosofica, e una estatica.
I temi sviluppati dalla cabbala speculativa sono principalmente la dottrina dell’En Sof (l’“infinito”, l’aspetto nascosto del divino) e delle sefirot (“numero”, “sfera”), tramite le quali Dio si manifesta. Le sefirot sono dieci e non sono propriamente emanazioni di Dio ma costituiscono una sorta di sua topografia interna. Tutti i temi centrali nella speculazione cabbalistica sono ripresi e sistematizzati in un testo del XIII secolo, il Sefer ha-Zohar (Libro dello splendore), opera attribuita a Mosheh ben Shemtob de Leon.
La cabbala estatica si propone invece la ricerca di un senso nascosto e più profondo dietro al testo scritto tramite alcune tecniche di permutazione delle lettere dell’alfabeto ebraico; è sovente legata alla lettura della Torah, della quale si presenta come esegesi. A titolo esemplificativo delle tecniche, il notariqon è un procedimento simile all’acrostico, nel quale si utilizzano le singole lettere di una parola come iniziali di altre parole, come nel caso della parola agla, le cui lettere formano la benedizione “Atha Gibor Leolam Adonai” (“tu sei onnipotente in eterno, o Signore”); nella gematriah si attribuiscono valori numerici alle lettere e quindi alla parola o a parti di essa; nella temurah si scambia l’ordine delle lettere per trasformare la parola. Tramite questi procedimenti si stabilisce una corrispondenza tra parole volta a rivelare un nesso intrinseco alla loro stessa natura. Tali tecniche possono condurre a un’esperienza estatica. Notevole, a tal proposito, è la figura di Abraham Abulafia (1240-?), il quale, per testimoniare la propria esperienza estatica, elabora anche tecniche legate all’uso della respirazione e della musica, e descrive esperienze visionarie.
L’interesse per le tematiche mistiche della cabbala estatica di Abulafia – come anche del pensiero di Leone Ebreo (Yehudah Abrabanel) e dei suoi Dialoghi d’amore, vero e proprio best-seller dell’epoca – influenza anche filosofi appartenenti alla tradizione cristiana, attivi soprattutto a Modena, Reggio Emilia, Mantova e Firenze, mentre a Ferrara ci si interessa di sviluppare una base, comune a più tradizioni, di studi astrologici. Ne sono esempio sommo le figure di Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494), allievo dell’averroista ebreo Elia Delmedigo (1460-1493), e quella di Marsilio Ficino (1433-1499). Sia in Pico che in Ficino si riscontra un vivo interesse per il misticismo e la cabbala, nella ricerca di una concordanza di queste tematiche con il pensiero cristiano e neoplatonico.