5. Censure e condanne: per l’autonomia del sapere

di Federica Caldera

5.1 Lo scontro su Aristotele

Nella prima metà del XIII secolo a Parigi è in corso una complessa “battaglia” dottrinale sull’uso della filosofia di Aristotele come base per l’insegnamento universitario.

La prima censura antiaristotelica del Medioevo risale al sinodo di Parigi del 1210, che decreta la riesumazione del cadavere e la scomunica di Amalrico di Bène (assertore di una forma di panteismo ispirata a Giovanni Scoto Eriugena), il rogo dei Quaderni di Davide di Dinant (traduttore di Aristotele, difensore del materialismo e di un’interpretazione naturalistica dei miracoli biblici), e vieta la lettura, pubblica e privata, delle opere naturali di Aristotele e dei loro commenti. Nel 1215 il legato pontificio Roberto di Courçon detta i primi statuti dell’università parigina e regolamenta l’insegnamento alla facoltà delle Arti, mantenendo e precisando il divieto di far lezione sui libri naturali (tutte le opere non logiche, inclusa la Metafisica) di Aristotele. Nel 1231, con la bolla Parens Scientiarum, papa Gregorio IX sostiene che la semplice conoscenza dei libri proscritti è tollerabile perché non implica necessariamente la violazione dei decreti del 1210 e del 1215. Questi divieti provocano tuttavia un isolamento di Parigi dal resto del mondo intellettuale. Nel 1229, approfittando di uno sciopero, l’università di Tolosa cerca di attirare gli studenti parigini presso la propria sede, dove sono previste lezioni sulle opere aristoteliche. Allo scopo di porre fine allo sciopero, papa Gregorio IX nel 1231 ordina la ripresa regolare delle attività parigine e conferma le disposizioni di Courçon, intimando di non far lezione sui libri proibiti finché non siano stati esaminati a opera di una commissione d’inchiesta. Come ha ben sottolineato lo storico della filosofia Luca Bianchi, l’intento effettivo di Gregorio IX non è quello di arginare la querelle sull’aristotelismo (di cui forse nemmeno sospetta l’esistenza), ma di garantire la pace all’università di Parigi e di promuovere la riforma degli studi teologici, esortando i teologi a non “giocare a fare i filosofi”. Regolamentando l’attività didattica della facoltà delle Arti, Gregorio IX mira in realtà a scoraggiare i teologi dall’addentrarsi nell’insegnamento della fisica e della metafisica.

L’ingresso di Aristotele nel curriculum di studi

Il divieto temporaneo di far lezione su Aristotele viene esteso anche a Tolosa nel 1245 e rinnovato a Parigi nel 1263, ma già con la bolla Parens scientiarum si creano le condizioni favorevoli per l’introduzione del corpus aristotelicum nel curriculum della facoltà delle Arti. La nazione inglese dell’università di Parigi, nel 1252, decide che per diventare baccellieri alle Arti occorre obbligatoriamente seguire lezioni sul De anima. Nel 1255 uno statuto dell’intera facoltà delle Arti impone l’insegnamento regolare di tutte le opere di Aristotele, eccettuata la Politica, non ancora tradotta. L’adozione di Aristotele come base per l’insegnamento all’università di Parigi segna non solo una svolta per il pensiero medievale, ma anche un cambiamento netto nella storia della cultura europea: dal 1255 fino al XVII secolo infatti l’aristotelismo non solo non viene più vietato, ma cessa di essere una delle tante filosofie, per diventare la filosofia per eccellenza.

TESTO

T1: Gli statuti dell’università di Parigi: 1215 e 1255

La condanna di Tempier

L’affermazione dell’aristotelismo non avviene in maniera indolore: sin dal 1260 molti teologi (per lo più francescani) attaccano espressamente questa filosofia che, a loro avviso, propaga errori pericolosissimi per la fede cristiana. Un primo evento cruciale della “campagna antiaristotelica” è la condanna del 10 dicembre 1270, con cui il vescovo parigino Étienne Tempier censura 13 tesi (eternità del mondo, non ci fu mai un primo uomo, unità dell’intelletto, necessitarismo, determinismo ecc.), in odore di eresia. Nel 1272 alla facoltà delle Arti i conflitti filosofici si intrecciano a quelli accademici: la maggioranza della facoltà promulga uno statuto che restringe la trattazione di argomenti al confine tra fede e ragione. Questa nuova limitazione della libertà di insegnamento degli “artisti” esaspera la polemica, che culmina con un’altra censura di capitale importanza per la storia del pensiero medievale. Il 7 marzo 1277 ancora il vescovo Tempier decreta la condanna di 219 tesi, ispirate al peripatetismo greco-arabo, e ne vieta – sotto pena di scomunica – la diffusione e l’insegnamento. La condanna del 1277 non costituisce un rozzo attacco alla filosofia in quanto tale, ma un ammonimento volto ad evidenziare che la parziale verità della filosofia deve comunque risolversi entro l’assoluta verità del discorso teologico.

Il sillabo di Tempier, ossia l’elenco delle tesi sottoposte a censura, ha avuto vastissima circolazione manoscritta presso tutti i centri universitari europei: in molti autori scolastici si rileva un’altissima frequenza di citazioni e di riferimenti agli articoli censurati; diversi pensatori (Egidio Romano, Goffredo di Fontaines, Thomas di Sutton, Nicolas Trivet, Guglielmo di Ockham) sviluppano accurate riflessioni sulla legittimità dell’intervento di Tempier. La censura del 1277 resta in vigore per tutto il Trecento e oltre: l’annullamento ad opera di Stefano di Bourret degli articoli che coinvolgono Tommaso d’Aquino, spesso ignorato e talvolta contestato, non ne inficia l’autorità.

ESERCIZIO

E13: Censure e condanne

5.2 Verità razionali e verità di fede: oltre l’ancillarità della filosofia

Fra i tanti temi portati alla ribalta dalla condanna del 1277, quello dello statuto epistemologico del sapere razionale merita certamente un posto di spicco.

La posizione di Alberto Magno

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Alberto Magno: magister e teologo

Quando, nella seconda metà del Duecento, la facoltà delle Arti liberali diviene, di fatto se non di nome, una vera facoltà di filosofia, i maestri tentano di precisare il loro ruolo professionale e intellettuale rispetto ai colleghi delle altre facoltà. Ai fini della presa di coscienza delle differenze epistemologiche tra filosofia e teologia è decisivo il ruolo di Alberto Magno. Nelle sue parafrasi di Aristotele si avverte l’esigenza di distinguere l’indagine razionale dall’adesione sovrarazionale ai dogmi della fede e si considera fuori luogo qualsiasi appello al miracolo. Secondo Alberto, all’interno del suo ambito di discorso, la posizione di Aristotele è corretta: infatti, in rapporto ai problemi che si è posto e ai principi assunti, quasi tutte le sue conclusioni sono valide e derivano logicamente dalle premesse. Ciononostante, il suo pensiero non coincide con la verità assoluta, sia perché ci sono problemi (come la creazione o la felicità ultraterrena) che, in quanto estranei al suo contesto di riferimento culturale, Aristotele non ha affrontato; sia perché alcune sue dottrine, pur coerenti con i principi di partenza, sono false alla luce della fede. Alberto ritiene insomma che filosofia e teologia non forniscano risposte incompatibili alle stesse questioni ma risposte differenti a domande differenti: le conclusioni sono necessariamente diverse ma non per questo conflittuali.

L’atteggiamento albertino viene spinto alle estreme conseguenze dai maestri della facoltà delle Arti attivi tra il 1265 e il 1277, come Boezio di Dacia e Sigieri di Brabante, filosofi di mestiere incamminati sulla strada della professionalizzazione della loro disciplina. Boezio di Dacia è il pensatore che a quell’epoca, meglio di chiunque altro, ha preso coscienza delle implicazioni epistemologiche della crescente specializzazione del lavoro intellettuale.

Vita filosofica e felicità mentale: Sul sommo bene di Boezio di Dacia

Nel corso del XIII secolo, i maestri delle Arti sono impegnati nel rivendicare alla filosofia uno spazio di indipendenza contro la teoria della subordinazione ancillare alla teologia. Questa difesa dell’autonomia della filosofia si lega alla ripresa dell’ideale della vita filosofica, come era stato delineato da Aristotele nel X libro dell’Etica Nicomachea.

Filosofia e felicità mentale

Quella filosofica viene intesa come suprema forma di vita, occasione dell’unica vera felicità: la “felicità mentale” intensa che, muovendosi sul piano della contemplazione razionale, conduce a un appagamento assoluto e a un senso liberatorio di autosufficienza. Il filosofo del X libro dell’Etica Nicomachea si reincarna nel maestro delle Arti: cultore professionale del vero, fornito di un suo linguaggio specialistico, di tecniche argomentative e dimostrative, di un preciso bagaglio concettuale, membro di una comunità scientifica che va elaborando una propria identità culturale e corporativa e che ha preso consapevolezza del proprio ruolo sociale.

Il testo nel quale l’ideale della vita teoretica trova la sua più completa e incisiva espressione è il trattato Sul sommo bene (1273-1274), in cui Boezio di Dacia compie un’indagine razionale sul sommo bene e sostiene che il filosofo eccelle in questa ricerca di perfezione morale e intellettuale, innalzandosi dalla considerazione delle cause naturali fino alla contemplazione della Causa Prima e proponendosi come modello di tutte le virtù. Secondo Boezio, poiché il piacere della contemplazione è commisurato alla qualità di quello che si contempla, il filosofo che si dedica alla contemplazione di Dio raggiunge la massima gioia possibile sulla terra. Questa conquista razionale del sommo bene non esclude la beatitudine attesa per la vita futura, dalla quale tuttavia prescinde, presupponendo quella netta distinzione fra discorso filosofico e discorso teologico di cui Boezio è il massimo teorico.

Felicità terrena e felicità eterna

TESTO

T2: Boezio di Dacia, La filosofia come ideale di vita

In un solo passo dell’opera – ispirato al commento al X libro dell’Etica Nicomachea di Michele di EfesoBoezio accenna al rapporto fra la felicità in via (nella vita terrena) e in patria (ovvero nella patria celeste) asserendo che chi è più perfetto nella felicità speculativa terrena è anche più vicino alla beatitudine eterna. Gli storici hanno proposto due possibili interpretazioni di questa tesi. Secondo una prima interpretazione (forte), se solo chi possiede le virtù intellettuali e morali è sufficientemente disposto alla felicità ultraterrena, allora il possesso delle virtù intellettuali è condizione necessaria e sufficiente per accedere alla beatitudine celeste. Secondo un’altra interpretazione (più debole), il possesso delle virtù intellettuali è solo un’utile premessa e un’anticipazione della felicità ultraterrena. Nel primo caso, l’asserzione boeziana sarebbe chiaramente eretica, nel secondo caso invece perfettamente ortodossa perché il filosofo pregusta in terra una felicità contemplativa cui anche altri, nell’aldilà, avranno accesso.

I censori del 1277 guardano allarmati a questo “disegno averroista” di riduzione naturalistica dell’esistenza entro una prospettiva tutta terrena, estranea al destino trascendente dell’uomo perché erge la filosofia a prospettiva unica e totalizzante, facendone il fine ultimo dell’esistere, o, peggio, la precondizione necessaria e sufficiente della salvezza ultraterrena. In realtà, fra etica filosofica ed etica teologica non si danno contrasti ma solo differenze di prospettiva: l’intento degli “artisti” è infatti soltanto quello di approfondire e sviluppare la morale aristotelica che essi sono tenuti a insegnare, per dovere professionale, nella piena consapevolezza della sua relatività e non esaustività.

TESTO

T3: Boezio di Dacia, Parlare da filosofi

ESERCIZIO

E14: Censure e condanne

Teologi contro “artisti”

In questo contesto istituzionale emergono tensioni da tempo latenti. La riflessione sul da farsi in caso di contrasto tra conclusioni filosofiche e verità cristiana scatena aspri conflitti tra “artisti” e teologi. Questi ultimi, nella convinzione che la condanna del 1277 debba colpire ogni esercizio autonomo della ragione naturale, richiamandola non solo a riconoscere ma anche a corroborare le verità di fede (dimostrabili e non), sono allarmati dal fatto che gli “artisti” non concepiscono più il loro lavoro filosofico come ancillare rispetto a quello dei teologi, ma si mostrano anzi insofferenti verso le loro pretese di ingerenza. Li ammoniscono pertanto a risolvere la parziale verità della filosofia entro la verità assoluta del sapere teologico. Secondo molti teologi del XIII secolo, infatti, una conclusione filosofica contraria alla fede è un errore perché la verità è una sola e ogni vero è consonante col vero. La verità di fede è sempre criterio di misura della verità o falsità delle conclusioni filosofiche ed è necessario che gli stessi filosofi si impegnino a confutare ciò che è in contrasto con le verità di fede.

Allineandosi alle richieste dei teologi “conservatori”, il 1 aprile 1272 la maggioranza della facoltà delle Arti, aveva già emanato uno statuto che disponeva che i baccellieri e i maestri non potessero sconfinare sul terreno teologico; che, nel caso in cui si affrontassero temi al confine fra filosofia e teologia, chiunque sostenesse tesi contrarie alla fede sarebbe stato considerato eretico e radiato dall’università a meno che ritrattasse umilmente; che l’“artista” che si trovasse a confrontarsi con passi difficili e apparentemente distruttivi della fede avrebbe dovuto confutare gli argomenti contrari alla fede, oppure ammettere che quei passi fossero “assolutamente falsi e totalmente erronei”, oppure ancora omettere in toto tali passi.

Alcuni “artisti” reagiscono polemicamente contro le disposizioni del 1272. Sigieri di Brabante rivendica il diritto-dovere di presentare il pensiero dei filosofi nella sua effettiva consistenza, senza edulcorarlo o alterarlo. Boezio di Dacia, nel suo scritto Sull’eternità del mondo, teorizza l’estensione universale della filosofia; ritiene che rifiutare le conclusioni filosofiche in contrasto con le verità di fede non significhi falsificarle ma relativizzarle; rifiuta infine la strategia del silenzio, convinto che il credente debba studiare le prove a favore dell’eternità del mondo per saperle confutare.

In un periodo in cui è largamente diffusa la tesi della subordinazione della filosofia alla teologia, molti teologi francescani (Bonaventura, Guglielmo di Baglione, Ruggero Bacone) attaccano gli “artisti”, accusandoli più o meno apertamente di eterodossia. Nelle Collationes del 1267, 1268 e 1273 Bonaventura inveisce contro il distorto uso della pratica filosofica in voga alle Arti, asserendo che la filosofia è solo il primo gradino dell’ascesa verso la scienza gratuita e gloriosa che è la teologia: è via che conduce ad altre scienze, ma chi vi si arresta cade nelle tenebre.

Nelle Collationes in Hexaemeron Bonaventura presenta il pensiero di Aristotele come una sequela di errori dedotti gli uni dagli altri: dalla negazione dell’esemplarismo seguono la negazione della scienza e prescienza divina, il determinismo, la negazione della responsabilità morale e della distinzione tra premi e pene ultraterrene. Di qui derivano poi altri tre gravi errori (la “triplice caligine”): l’eternità del mondo, l’unicità dell’intelletto, l’assenza di pene ultraterrene. Per rimediare a questi mali, secondo Bonaventura, è possibile una sola strategia: la filosofia può essere accettata solo se viene integrata entro un sapere superiore e posta sotto il controllo dei teologi.

LETTURE

Bonaventura da Bagnoregio

VIDEO

Crisi aristotelica e atomismo

La libertas philosophandi

Con il trattato Sull’eternità del mondo (1270-1277), Boezio di Dacia si pone quale massimo teorico della distinzione fra discorso filosofico e discorso teologico: egli muove da una particolare concezione della gerarchia delle discipline, ragiona sui metodi, gli oggetti e la funzione della ricerca e giustifica l’autosufficienza del mestiere del filosofo. Si oppone infatti alle pretese del controllo teologico, che giudica insensate poiché fede e scienza si collocano su due piani differenti e fra loro non interferenti. Varie clausole limitative, adottate da Boezio nel suo testo e da altri maestri (“parlando da fisico”, “parlando da filosofo naturale” ovvero loquens ut naturalis), oltre che come mezzo di difesa, fungono da tecnica esegetica per valutare favorevolmente le dottrine di Aristotele e affermare l’autonomia del sapere filosofico rispetto alle verità di fede. Lo scopo di Boezio è di delimitare il territorio protetto entro cui la nuova figura dell’intellettuale possa muoversi con piena indipendenza, rivendicando perentoriamente la propria libertà di filosofare.

Aristotelismo radicale

La censura di alcune tesi dei Maestri delle Arti da parte di Étienne Tempier getta un alone di sospetto sull’insieme delle loro opere. Semplicemente arguendo dalle reazioni suscitate dal suo insegnamento, alcuni storici avevano già identificato Boezio come il principale leader del cosidetto “averroismo latino” o aristotelismo radicale. La qualifica di “radicale” attribuita a questo orientamento dottrinale dipenderebbe dal fatto che tale approccio si avvale del pensiero di Aristotele senza curarsi della sua compatibilità con la rivelazione cristiana. Proprio a partire da questi presupposti, la filosofia viene concepita come disciplina autonoma. Da qui l’accusa, rivolta soprattutto a Boezio di Dacia, di trincerarsi dietro la facile scappatoia della “doppia verità”: Boezio avrebbe cioè prospettato la possibilità di negare sul piano filosofico quelle verità rivelate che, per convenienza più che per convinzione, dichiarava di accettare come credente. Tuttavia la storiografia recente ha ormai dimostrato che nell’opuscolo di Boezio non si trova affatto questa famigerata teoria.

Eternità del mondo

Nel suo scritto, infatti, Boezio difende la creazione del mondo all’inizio del tempo. Egli crede che sia verità cristiana e anche verità in senso assoluto l’affermazione che il mondo sia “nuovo” (che abbia cioè cominciato a esistere) e confuta quindi tutti gli argomenti, a suo dire eretici, che affermano la coeternità del mondo e di Dio. Boezio insiste ripetutamente sul primato della verità rivelata, denunciando l’atteggiamento di chi rifiuta di credere ciò che non è razionalmente comprensibile; afferma che il mondo esiste ed è conservato in essere grazie all’intervento di Dio. Convinto che il problema della durata temporale dell’universo non sia razionalmente decidibile ma che possa trovare una risposta definitiva solo grazie agli insegnamenti biblici, Boezio lavora per trovare una concordia tra sapere razionale e credenze religiose. La sua soluzione agnostica viene però fraintesa e censurata nel sillabo del 1277. Al contrario di quello che gli mette in bocca Tempier, Boezio non dice affatto che il filosofo naturale deve negare assolutamente la novità del mondo perché si appoggia su cause naturali. Piuttosto, a suo avviso, è contemporaneamente lecito affermare la novità del mondo e del primo moto e la loro non novità per cause naturali; ed è contemporaneamente possibile che il mondo e il primo moto siano nuovi e che il fisico dica il vero quando nega che lo siano loquens ut naturalis. Boezio afferma insomma che la tesi dell’eternità del mondo è assolutamente falsa, ma logicamente corretta, e dunque vera in relazione ai principi fisici.

Pluralismo epistemologico e autonomia della filosofia

La categoria che meglio esprime il senso della soluzione boeziana è quella di “pluralismo epistemologico”: etichetta con la quale si designa la constatazione che le scienze sono costruite su un insieme di principi che ne stabiliscono l’ambito di pertinenza. Muovendo da questo pluralismo, Boezio trae le sue conclusioni agnostiche che confermano l’assenza di conflitto fra fede e filosofia. Nella chiusa dell’opuscolo, Boezio si fa portavoce di una appassionata difesa della filosofia e della sua autonomia. Lancia infatti una veemente invettiva contro alcuni non meglio precisati non intelligentes (“persone che non comprendono”) che vedono insanabili conflitti fra ragione e fede, laddove il cristiano che usa il suo intelletto non è costretto dalla sua religione a distruggere i principi della filosofia, ma preserva la fede e la filosofia. Se fra i non intelligentesBoezio colloca quasi certamente Tempier e i suoi collaboratori, che ritiene privi delle competenze per intervenire nelle controversie filosofiche e teologiche, il maestro danese ha forse in mente anche altri obiettivi polemici: quei suoi colleghi “artisti” che il 1 aprile 1272 avevano promulgato uno statuto fortemente restrittivo per la libertà di insegnamento.

F. C.