1. Giovanni Duns Scoto

di Riccardo Fedriga

1.1 Vita e formazione di un maestro francescano

Giovanni Duns Scoto nasce tra il 1265 e il 1266 nel piccolo villaggio di Duns, sul confine scozzese con l’Inghilterra. In giovane età viene portato nel convento francescano di Oxford, dove entra a far parte dell’ordine e comincia la sua formazione filosofica. Ordinato sacerdote nel 1291, inizia a insegnare come baccelliere: tra il 1298 e il 1299, a Oxford, commenta i quattro libri delle Sentenze di Pietro Lombardo, testo base per l’insegnamento della teologia nelle università medievali. Tra il 1302 e il 1303 risiede a Parigi, ma per ordine di Filippo IV si vede costretto a interrompere bruscamente le sue lezioni e a lasciare la Francia, accusato di non aver voluto appoggiare il sovrano francese nel suo tentativo di deporre Bonifacio VIII. Duns Scoto trova rifugio a Oxford, ma nel 1304, alla morte del papa, torna a Parigi. Sempre a Parigi, nel 1305, riceve la licentia e svolge la prestigiosa funzione di magister regens, cioè il massimo grado dell’insegnamento della teologia, fino a quando, nel 1307, viene inviato dai propri superiori a insegnare nello studio generale francescano di Colonia. Qui, nel mese di novembre del 1308, muore improvvisamente all’età di 43 anni.

Duns Scoto magister

Le opere di Giovanni Duns Scoto sono per la maggior parte il frutto dell’attività di insegnamento, e nascono spesso dalla trascrizione di lezioni tenute dal maestro in sede universitaria. Le prime opere filosofiche di Scoto sono databili intorno agli anni Novanta del XIII secolo (1295 ca.), quando era ancora molto forte l’effetto della condanna del 1277 sulle tradizioni e le interpretazioni del pensiero aristotelico. Riunite sotto il titolo di Parva logicalia, sono commenti all’Isagoge di Porfirio e ad alcune opere di Aristotele, quali le Categorie, gli Elenchi sofistici e il De interpretatione. Risalgono allo stesso periodo un breve commento al De anima e il commento ai libri I-IX della Metafisica di Aristotele – le Quaestiones super libros Metaphysicorum Aristotelis – iniziato anch’esso a Oxford, ma in seguito ripreso, ampliato e corretto più volte.

LETTURE

Le università: un'invenzione medievale

Una parte consistente dell’opera di Duns Scoto è costituita dai suoi commenti alle Sentenze di Pier Lombardo. Scoto commenta il testo per la prima volta a Oxford come giovane baccelliere; questo commento, che porta il titolo di Lectura, è la sua prima opera teologica. In seguito, torna a lavorare sulla Lectura, con l’intenzione di correggerla e completarla per renderla adatta alla pubblicazione: è questa l’origine dell’Ordinatio, opera che resterà incompleta e a cui Scoto lavora a più riprese tra il 1300 e il 1307. Infine, una terza versione dello stesso commento è costituita dai Reportata Parisiensia, che raccolgono gli appunti presi dagli allievi durante le lezioni parigine. Tra i lavori più tardi, vanno infine segnalate due opere a carattere sistematico − il Tractatus de primo principio sull’esistenza di Dio e i Theoremata, anch’essi dedicati a questioni di fede − e le Quaestiones Quodlibetales, disputate nel 1306 o 1307.

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Un bestseller medievale: le Sentenze di Pietro Lombardo

1.2 L’anima umana e la conoscenza

Duns Scoto insegna, come molti pensatori medievali, che l’uomo è un composto di anima e corpo, e che l’anima razionale, con le sue facoltà di intelletto e volontà, costituisce la forma specifica dell’essere umano, vale a dire ciò che lo contraddistingue e lo rende tale, differenziandolo da tutte le altre creature.

Scoto specifica che le facoltà dell’anima non sono realmente distinte, né tra loro né dall’anima stessa: non si tratta di sostanze diverse, ognuna dotata di una propria esistenza autonoma, ma di potenze che ineriscono a un’unica sostanza e la costitui-scono. L’anima e le sue facoltà sono distinte solo formalmente, nel senso che sono irriducibili l’una all’altra e tuttavia si danno sempre insieme ed è impossibile che esistano separatamente: l’anima non si identifica con la volontà o con l’intelletto, né la volontà e l’intelletto si identificano tra loro, e tuttavia intelletto e volontà non esistono se non in quanto sono potenze dell’anima, così come l’anima umana non esiste se non in quanto è dotata di intelletto e volontà. Perciò, è l’anima tutta intera che pensa e desidera (e non una sua parte), ma lo fa in virtù di facoltà e operazioni formalmente distinte.

Notitia intuitiva e realtà

Duns Scoto sostiene che esistono due modalità con cui l’uomo può conoscere il mondo: l’“intuizione” (cognitio o notitia intuitiva) e l’“astrazione” (cognitio o notitia abstractiva).

LETTURE

Guglielmo di Ockham

La notitia intuitiva è la conoscenza diretta di un oggetto reale, che in quanto tale ne certifica l’esistenza e la presenza di fronte a noi; la cognitio abstractiva, invece, è la conoscenza di un oggetto in quanto conosciuto dalle facoltà dell’anima umana. In base all’esistenza reale o mentale dell’oggetto, cambia il modo della conoscenza. Ciò che differenzia le due modalità cognitive è perciò il modo di esistere dell’oggetto. La notitia intuitiva, poiché instaura un contatto diretto con l’oggetto reale, ci fa conoscere non solo la sua natura (per esempio il genere, la differenza specifica, le proprietà essenziali e accidentali), ma anche la sua esistenza concreta, ovvero il fatto che si tratta di un singolare esistente e presente qui e ora davanti a noi. Quando invece procediamo per via astrattiva, conosciamo la natura dell’oggetto, ma a prescindere dalla sua esistenza, vale a dire che sapremmo dare una definizione dell’oggetto, elencarne le caratteristiche, e tuttavia non sappiamo se quell’oggetto ha un’esistenza anche fuori dal nostro pensiero e se è realmente presente nel momento in cui lo pensiamo.

ESERCIZIO

E1: Giovanni Duns Scoto

Astrazione e intelletto

Scoto specifica poi che il nostro intelletto, per sua natura, è perfettamente in grado di esercitare entrambe le modalità cognitive, e che tuttavia il viator – cioè l’uomo terreno, che, vivendo in questo mondo, è “in cammino” verso la sua patria celeste – si trova in una condizione tale che non riesce a esercitare la conoscenza intuitiva in forma piena e completa, ma deve accontentarsi di conoscere il mondo per astrazione. L’intelletto del viator, infatti, non riesce nello stato presente a dirigersi direttamente sull’oggetto concreto ed esistente, e a conoscerlo in tutte le sue caratteristiche, come richiederebbe la notitia intuitiva. Per conoscere gli oggetti ricorriamo sempre all’astrazione (notitia abstractiva): i cinque sensi (vista, udito, olfatto, gusto e tatto) percepiscono il mondo esterno, raccogliendo i dati sensibili che vengono poi elaborati dall’anima sensitiva ed espressi in un phantasma, cioè una “immagine mentale”, che presenta l’oggetto in tutte le sue caratteristiche sensibili; è precisamente questa immagine – e non l’oggetto reale e concreto – su cui si dirigono gli atti dell’intelletto. Essi saranno pertanto sempre atti di astrazione. Il che comporta due conseguenze: la prima è che, nello stato attuale in cui l’uomo si trova, cioè nella sua vita mortale e contingente, la conoscenza non può non cominciare dalla percezione di un mondo che comunque esiste fuori di noi; la seconda conseguenza è che rientra nelle possibilità cognitive dell’intelletto solo ciò che viene colto dalle facoltà inferiori.

Teologia e limiti della conoscenza nel XIV secolo

A partire dalle riflessioni di teologi come Giovanni Duns Scoto, Durando di san Porziano e Giovanni di Bassoles, si diffonde l’idea dell’impossibilità di una teologia cristiana scientifica e la disciplina, intesa come scienza pratica, si orienta su valori qualitativi e personali. Per autori come Roberto Graystanes (1330 ca.), per esempio, la teologia non solo non è una scienza, ma dipende dall’intensità dell’atto individuale di credere e su di essa misura: la fede di un teologo si distingue così da quella di un’anima semplice, come quella di una vetula (“vecchietta”), solo per la quantità dello studio e non per la qualità, l’intensità o la forza della fede stessa. Ammettere, come fa Duns Scoto, la possibilità di un agente che è in grado di saltare l’ordine della cause producendo un effetto a proprio piacimento significa mettere radicalmente in discussione l’ordine delle cause e degli effetti su cui si regge il mondo fisico. Diversamente, sostenere come Pietro Aureolo che comunque esiste una scientificità della teologia costringe a ridefinire la capacità descrittiva della scienza, orientandone l’impresa sotto il segno della probabilità e dell’esperienza: per Aureolo, l’onnipotenza si può dimostrare perché vi è chi ha assistito direttamente al dispiegarsi del potere di Dio. L’affermazione ha ben poco a che fare con l’idea di scienza ma, per il teologo francescano, è propria di molte altre discipline che non si esita a definire scientifiche: “se si obbietta che i miracoli sono stati contestati dai filosofi, e che non si può basare una dimostrazione sui miracoli, perché avvengono in modo irregolare e non sono percepiti da tutti nello stesso modo […] dico tuttavia che allo stesso modo non tutti i medici hanno sperimentato l’efficacia di tutte le medicine: in molti casi la presuppongono credendo alla testimonianza dei predecessori” (Scriptum In I Sent.).

Tali esiti probabilistici, che legano l’uso delle capacità razionali ai limiti e alle possibilità della conoscenza umana, saranno presenti anche nel pensiero di autori di tradizione nominalista come Giovanni di Mirecourt e soprattutto Nicola di Autrecourt (1300-1350 ca.).

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Cura e caritas

LETTURE

Teorie della sostanza e dei suoi mutamenti

1.3 La teologia: una scientia pratica

A differenza di molti suoi predecessori, Scoto sostiene con molta chiarezza che fede e ragione si collocano su due piani distinti e che non sono sovrapponibili.

Il pensiero di autori quali Tommaso d’Aquino o Enrico di Gand è teso allo sforzo di integrare teologia e filosofia: dal momento che la verità è una sola, il discorso teologico e il discorso filosofico non possono contraddirsi, e se un argomento razionale è contrastante con il dato rivelato da Dio, ciò è prova evidente del fatto che si tratta di un paralogismo, un errore che va smascherato e corretto. Con Scoto, invece, viene messa in dubbio l’opportunità di usare gli strumenti della ricerca filosofica di derivazione aristotelica in ogni ambito del sapere umano, e in particolare nelle cose divine: la filosofia ha un suo metodo e un suo ambito di indagine specifico, distinti da quelli del discorso teologico. Le contraddizioni tra ragione e fede non sono certo sintomo dell’esistenza di due verità distinte e persino contrastanti, ma non vanno neanche necessariamente spiegate come un errore del discorso filosofico: esse discendono piuttosto dal fatto che teologia e filosofia si pongono su due piani autonomi e discontinui, e pervengono a risultati differenti ognuna con il proprio linguaggio e con il proprio metodo.

TESTO

T1: Giovanni Duns Scoto, La controversia tra filosofi e teologi

ESERCIZIO

E3: Giovanni Duns Scoto

Secondo Scoto la teologia è una scienza pratica, ovvero direttiva e regolativa dell’azione. La teologia non insegna la verità affinché meramente la si contempli, ma affinché si viva secondo la verità. Scoto da un lato afferma che la teologia non è necessaria per la salvezza umana, dato che Dio è libero di scegliere se salvare anche chi è privo di fede, dall’altro ritiene che soltanto mediante la rivelazione si raggiunga quella conoscenza necessaria a soddisfare il nostro fine soprannaturale. Grazie alla rivelazione dunque è possibile concepire una teologia, ma, avverte Scoto, essa è – secondo la sua definizione – theologia nostra: e ha per oggetto soltanto quello che l’uomo, attraverso la rivelazione, può conoscere di Dio.

Logica, discorso e realtà: il pensiero dei “modisti”

Negli ultimi decenni del XIII secolo, la riflessione sulle categorie linguistiche e soprattutto sulla sintassi vede il contributo originale di alcuni maestri dell’università di Parigi, detti “modisti” poiché tendono a mostrare la perfetta corrispondenza tra le parti del discorso (modi significandi, ad esempio nomi, verbi, avverbi, congiunzioni), le categorie logiche (modi intelligendi, cioè i concetti come “uomo” o “albero”) e le strutture della realtà (modi essendi, come la capacità di muoversi o l’immobilità). Questi tre modi sono connessi da una relazione di corrispondenza o di derivazione: le proprietà delle cose, comprese dall’intelletto, sono significate dalle parole.

Il testo di riferimento delle loro ricerche sono le Quaestiones super Priscianum Minorem (o Modi significandi) di Boezio di Dacia, che costituiscono un commento degli ultimi due libri, dedicati alla sintassi, delle Institutiones grammaticae di Prisciano, l’auctoritas di riferimento per gli studi di grammatica. Di Boezio, dopo la condanna del 1277, si perdono le tracce; ma benché le sue opere abbiano avuto in generale scarsa diffusione, la sua influenza sul pensiero dell’epoca si fa sentire grazie alla fortuna delle sue Quaestiones, che offrono uno dei più rappresentativi esempi della tradizione di ricerca nota come “grammatica speculativa”. Insieme alla logica e alla filosofia, essa si propone di indagare le proprietà del linguaggio, sia dal punto di vista del significato (semantica), sia dal punto di vista della struttura delle proposizioni (sintassi), e di superare l’impostazione di Prisciano, per il quale la grammatica era scienza della buona formazione del discorso linguistico. Per i modisti, primo compito della grammatica è dimostrare la realtà dei propri oggetti: da qui il principio fondamentale per cui i modi significandi sono proprietà delle parole fondate sui modi essendi, che sono proprietà reali delle cose.

Intorno al 1270, la corrente modista si afferma all’università di Parigi (e più tardi anche in altri centri, come Erfurt e Bologna) nell’ambito dell’insegnamento grammaticale, dove, in polemica con la precedente tradizione dei commenti alle Institutiones grammaticae di Prisciano, i modisti assumono l’ideale della scienza aristotelica (universale e necessaria) come fulcro per una ridefinizione dello statuto epistemologico della grammatica. Tra i maestri modisti (grammatici e logici) si annoverano Martino e Boezio di Dacia, Matteo da Bologna, Pietro d’Alvernia, Giovanni di Dacia, Michele di Marbais, Gentile da Cingoli, Simone di Faversham, Rodolfo il Bretone, Sigieri di Courtrai e Tommaso da Erfurt. Il loro contributo si rivela di fondamentale importanza in almeno due direzioni. Anzitutto, i modisti propongono programmaticamente una teoria della grammatica universale, valida per tutte le lingue. In secondo luogo, essi collocano la grammatica all’interno del sistema medievale delle scienze, come scienza speculativa e ausiliaria: speculativa, perché il suo scopo non è quello di insegnare la lingua ma di descriverla e di spiegarne natura e struttura; ausiliaria, perché la grammatica, come la logica, non riguarda direttamente il mondo, ma la riflessione su di esso attraverso le nostre descrizioni. I modi significandi, sui quali si concentra l’attenzione dei modisti, sono tutti quegli elementi del significato i quali costituiscono categorie grammaticali, come nomi, verbi, tempi, casi ecc. Essi servono quindi a definire, all’interno del linguaggio, quelle classi di parole (parti del discorso), che, al di là del loro specifico significato lessicale, “cosignificano” anche alcuni caratteri degli oggetti significati, caratteri che non appartengono alla definizione stessa degli oggetti. Ad esempio, il termine animal significa l’animale e al contempo cosignifica (cioè significa indirettamente, o implicitamente) l’azione che egli compie, poiché è al nominativo. I modi significandi rappresentano quindi un livello di significazione diverso da quello puramente lessicale: sono dei modi di presentare il significato delle parole. Sono inoltre essenziali per strutturare sintatticamente il linguaggio, perché trasformano i suoni (voces) in unità linguistiche dotate di significato (dictio) e li predispongono quindi per svolgere le loro diverse funzioni all’interno della proposizione linguistica.

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Le arti meccaniche nel medioevo

1.4 La metafisica

La metafisica è, secondo Duns Scoto, scienza teoretica per eccellenza, esattamente come la teologia è scienza pratica per eccellenza. Soggetto proprio della metafisica, e oggetto proprio dell’intelletto, inteso come facoltà conoscitiva dell’anima, è l’ente in quanto ente. Per quanto la definizione appaia tradizionale, come in ogni sua affermazione Scoto assume una posizione originale e profondamente innovativa sia rispetto alle tradizioni agostiniane sia rispetto a quelle di matrice più spiccatamente aristotelica. Tale posizione si contrappone all’applicazione in teologia del metodo dimostrativo aristotelico, pienamente sviluppato da Tommaso d’Aquino e centrato in particolare sulla analogia entis, ovvero sull’idea che l’ente si possa predicare di Dio e delle creature solo in modo analogico. In contrasto con tale impostazione, Scoto elabora la teoria della univocità dell’ente. L’ente è univoco nel senso che è predicabile di Dio e delle creature con il medesimo significato. Questa definizione dell’ente è molto importante perché dà modo all’intelletto umano di trascendere via via i concetti, formati sempre a partire dall’esperienza sensibile, fino a raggiungere le sue determinazioni più generali.

LETTURE

Tommaso d'Aquino

L’ente e le sue determinazioni

Prima di svilupparli, è utile richiamare i principali punti della metafisica scotista fondata sul concetto di ente: (1) si nega che negli esseri finiti ci sia un’unica composizione che comprenda essere ed essenza; (2) viene identificato il principio di individuazione nella differentia individualis; (3) si sviluppa un nuovo modello di distinzione (la distinzione formale) per spiegare la relazione tra il genere e la differenza specifica e tra la natura comune e la differenze.

L’ente cui Scoto si riferisce è l’ente come già era stato concepito da Avicenna, che non è soltanto essenzialmente univoco, ma anche neutro rispetto alle sue determinazioni particolari e/o alla verità o falsità delle proposizioni che ne parlano. Questo significa che l’intelletto è certo in grado di considerare gli enti nella loro universalità o singolarità, ma può considerarli anche senza alcuna determinazione. È a partire da questa posizione che Scoto elabora la teoria della natura comune, base delle relazioni di somiglianza tra le cose. Essa non è né individuale né universale, quanto piuttosto indifferente, pertanto può determinarsi come individuale negli esseri reali, quando acquista un’esistenza reale, e come universale grazie all’azione astrattiva dell’intelletto, che le conferisce in tal modo un’esistenza mentale. La natura o essenza di una cosa, dunque, è universale nella mente e individuale negli esseri reali. D’altro canto, non potrebbe essere diversamente, dato che, di per sé, non è né l’uno né l’altro.

Il passaggio alla singolarità: l’haecceitas

Il passaggio alla singolarità, a un determinato individuo particolare (questo particolare Socrate, ad esempio), è uno dei punti più difficili affrontati dal filosofo, e segna nettamente la distanza (o meglio, l’opposizione) tra Scoto e Tommaso. Secondo Scoto ciò che determina tale passaggio è una realtà sostanziale, cioè più ricca di determinazione di quanto non lo sia la rappresentazione concettuale. Tale realtà sostanziale positiva è la differenza individuale. Essa è considerata come un processo di “maturazione” in ordine all’essere, che intensifica l’attualità della natura comune senza modifiche formali. Questo processo di “incremento ontologico” può essere descritto anche come perfezionatore e singolarizzante.

ESERCIZIO

E2: Giovanni Duns Scoto

Il principio in grado di trasformare, o per così dire di “contrarre”, secondo la terminologia di Scoto, la natura comune negli esseri individuali, è ciò che, con un neologismo, Scoto definisce haecceitas, dal pronome dimostrativo latino haec, che significa “questa” e che individua e mostra la singola cosa esistente: ogni cosa di cui si possa dire “questa” è tale in virtù della sua haecceitas.

La distinzione tra natura comune e differenza individuale non è reale, ma formale: essa consente di distinguere – da cui il termine distinctio formalis – come possano aversi più individui di una stessa specie senza che si moltiplichi l’essenza che li determina. Si può dire che due cose siano distinte formalmente quando, pur costituendo insieme un’unica realtà, l’una non necessita dell’altra come proprio elemento costitutivo. La distinzione formale indica esclusivamente la possibilità che un dato ente venga a esistere, possibilità che quindi può anche non realizzarsi e restare puramente logica; differentemente, nella tradizione aristotelica la possibilità, coincidente con la potenza, implicava necessariamente il passaggio all’atto e quindi alla realtà fattuale.

1.5 Contingenza e libertà

Prima della creazione, tutte le cose sono già presenti nella mente di Dio. L’intelletto divino produce in sé le idee di tutte le cose possibili; l’atto della creazione segna il passaggio, per alcune di queste idee, da un’esistenza puramente intelligibile a un’esistenza reale, vale a dire un’esistenza autonoma, esterna alla mente di Dio. Scoto sottolinea però che, dal momento che Dio è onnipotente, le creature che Egli chiama all’esistenza creando questo mondo finito rappresentano solo una parte della serie infinita delle possibilità logiche inizialmente aperte a Dio.

Non solo la potenza di Dio è infinita, ma la sua volontà è assolutamente indeterminata e libera da ogni costrizione esterna; è perciò con un atto assolutamente libero e incondizionato che Dio sceglie di creare questo mondo tra tutti gli infiniti possibili. Nel momento in cui vuole e crea questo ordine, Dio potrebbe volerne uno diverso; ciò vuol dire che il mondo è contingente, perché riceve l’esistenza grazie a un atto totalmente libero della volontà divina. “Si dice contingente ciò che, mentre accade, potrebbe non accadere o accadere diversamente” (De Primo Principio, cap. 4, concl. 4).

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Onnipotenza divina e mondi possibili

Dalla contingenza della causa prima, deriva la contingenza di tutto l’universo; anche le cause seconde agiscono in modo contingente: esse sono infatti cause intermedie, che muovono solo in quanto sono mosse a loro volta; ma se sono mosse in modo contingente, alla stessa maniera produrranno il loro effetto contingentemente. Ma ciò significa anche, diversamente dalla tradizione metafisica per cui ogni cosa è orientata verso un sommo principio in sé necessario e perfetto, che la contingenza, e quella del mondo in particolare, non è una imperfezione. L’insistenza di Scoto sulla radicale contingenza del creato rivela la sua preoccupazione di evitare una visione deterministica del mondo, salvaguardando al contempo l’onnipotenza e la libertà di Dio.

Una nuova teoria della volontà

La libertà dell’essere umano è per Scoto l’espressione più alta della contingenza del creato. Tale libertà segue a sua volta da un libero atto di creazione volontaria da parte di Dio e, pertanto, la caratteristica fondamentale della volontà umana è la libertà. Che rapporto ha la libertà con le funzioni conoscitive dell’animo umano? L’intelletto agisce in modo naturale o determinato: quando un certo oggetto cade nel raggio della sua attenzione, l’intelletto non può astenersi dal conoscerlo, e, quando si trova di fronte a una verità evidente, non può non giudicarla e non riconoscerla come vera; in questo senso, la facoltà intellettiva è sempre condizionata dal proprio oggetto. La volontà, al contrario, è assolutamente libera e capace di autodeterminarsi perché può decidere se desiderare o meno il proprio oggetto e, anche una volta effettuata la scelta, resta libera di revocarla e di optare per quella contraria.

Secondo autori come Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, la facoltà dell’intelletto, poiché esprime sulle cose un giudizio di valore che le qualifica come bene o male, determina la volontà a volere oppure a rifiutare gli oggetti esterni: una volta riconosciuto un certo oggetto come un bene, non possiamo non desiderarlo. Duns Scoto invece abbraccia la tesi opposta, secondo la quale la volontà è superiore all’intelletto. La superiorità della volontà sull’intelletto risulta evidente sotto due aspetti: in primo luogo, è la volontà che determina l’intelletto al proprio atto e non viceversa, perché, se è vero che la volontà ha bisogno dell’intelletto per conoscere il proprio oggetto, è altrettanto vero che essa può volgere o distogliere la nostra attenzione dagli oggetti, determinandone così la conoscenza; in secondo luogo, la volontà può decidere di ignorare o contraddire i giudizi dell’intelletto, come quando desideriamo ciò che è male, pur riconoscendolo come tale.

LETTURE

Tommaso d'Aquino

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Alberto Magno: magister e teologo

Legge naturale e legge positiva

L’azione moralmente virtuosa segue da una scelta volontaria, in base alla quale è l’uomo che sceglie liberamente e responsabilmente di perseguire il bene, cioè tutto ciò che è orientato a Dio. In quale modo, allora, l’uomo può conoscere quali sono i beni da perseguire e come può riconoscere le azioni correttamente ordinate da quelle che non lo sono? In altri termini, che cosa determina il valore etico dell’agire? L’azione umana è guidata in tal proposito della legge. Scoto distingue la legge naturale da quella positiva. La prima raccoglie regole morali che sono evidenti per se stesse e che pertanto si impongono a tutti gli individui, in tutti i luoghi e in tutti i tempi; questa legge universale include i primi tre comandamenti, che, imponendo l’obbligo di amare e rispettare Dio, rappresentano l’essenza stessa dell’atto moralmente buono. La forza della lex naturalis è tale che neanche lo stesso Dio può dispensarci dal rispettarla: Dio non può ordinarci di non amarlo o di non avere fede, perché si tratta di un comando che ripugna sia la volontà divina, sia la natura delle creature, che, in quanto tali, sono naturalmente tese al proprio creatore.

La legge positiva, invece, è quella sancita da un legislatore e la sua validità è circoscritta al momento e al luogo in cui viene emanata. La qualifica di legislatore spetta in primo luogo a Dio (ad esempio, i restanti sette comandamenti che non rientrano nella legge naturale possono essere considerati diritto divino positivo), che però conferisce questo potere anche alla Chiesa e, indirettamente, allo Stato. La legge positiva non discende necessariamente da quella di natura, quasi fosse un suo corollario o una sua esplicitazione; si tratta di due leges diverse, per l’origine, la portata e gli ambiti di competenza. Tuttavia, la legge positiva è in un certo senso vincolata al diritto naturale, perché, data la sua universalità, non può emanare precetti che contraddicono le leggi naturali.

Etica e filosofia della persona in Duns Scoto

Come quella divina, seppure collocandosi su un diverso piano, anche la volontà umana secondo Duns Scoto è una facoltà libera e capace di autodeterminarsi. La volontà è libera per essentiam e pertanto il suo desiderio non è determinato né dall’oggetto esterno, né dal giudizio dell’intelletto, ma scaturisce in modo contingente dalla scelta volontaria. Si capisce bene, dunque, come Scoto, sottolineando l’assoluta indeterminatezza della volontà, sia portato a insistere fortemente, in campo etico, sulla libertà della persona umana e di conseguenza sulla responsabilità morale che l’uomo ha in ogni sua scelta.

È proprio dalla libertà che nasce la moralità delle azioni. Dal punto di vista metafisico, tutte le cose e tutti gli atti sono buoni, perché sono manifestazioni del creato e della perfezione dell’essere; e un atto è tanto più buono quanto più è perfetto il soggetto che lo compie. Dal punto di vista morale, però, un atto può essere buono, cattivo o indifferente, in base all’oggetto cui è diretto e al fine per cui lo si compie. Presupposto indispensabile della moralità dell’atto intenzionale è in ogni caso che il soggetto che lo compie sia razionale e libero, cioè dotato di intelligenza e volontà: la moralità dell’azione nasce in virtù del fatto che essa è frutto di una scelta responsabile, fondata su una deliberazione razionale e su un atto volontario.

Perché un atto morale sia buono, occorre che l’oggetto perseguito sia un bene o un valore, e che l’individuo lo riconosca come tale e lo desideri proprio in quanto è un bene, dove con bene Scoto intende tutto ciò che è ordinato a Dio: questo è il fine supremo dell’agire umano. Basta che venga meno una delle condizioni perché l’atto cada fuori dalla sfera della bontà morale. Perciò, diversamente ad esempio da quanto sostiene Abelardo, se un uomo persegue un male, ma è convinto di fare del bene, il suo atto non è moralmente buono, nonostante la bontà dell’intenzione, perché il giudizio sul quale si fonda è sbagliato; allo stesso modo, colui che agisce onestamente, ma non lo fa nell’amore di Dio, non compie un atto realmente virtuoso. In entrambi i casi ci troviamo di fronte ad azioni moralmente indifferenti: non sono azioni riprovevoli (è cattiva solo l’azione che mira deliberatamente al male, proprio in quanto è male), e tuttavia restano al di sotto della sfera della bontà morale.

1.6 Il potere politico e lo Stato in Scoto

Scoto lega l’origine del potere politico al peccato originale: nello stato di innocenza, la moderatezza degli appetiti umani permetteva la comunione dei beni, ma, dopo la corruzione e la caduta del genere umano si rende necessaria l’istituzione della proprietà privata. Così, viene revocato il precetto dello ius naturale (“diritto naturale”) che sanciva che ogni cosa fosse condivisa tra tutti gli uomini e viene istituito il diritto positivo che regola l’appropriazione e la separazione dei beni. L’origine della proprietà porta con sé, infatti, la nascita della legge positiva, che vuole difendere la proprietà, e dell’autorità politica, che ha il compito di far rispettare la legge.

Il potere dello Stato sorge, secondo Scoto, a partire dal potere del pater familias: l’autorità paterna è sancita dalla legge naturale, ma quando i gruppi familiari diventano più numerosi e complessi e si fondono tra loro, si riconosce l’insufficienza del diritto familiare e gli stessi componenti del gruppo decidono il passaggio dell’autorità dal patriarca familiare a un nuovo capo politico, che può essere un singolo, come un monarca o un principe, oppure una communitas. L’insistenza di Scoto è in ogni caso sul fatto che, qualunque sia la forma di governo scelta, la sua fondazione si basa sul consenso: è la comunità che conferisce l’auctoritas al governatore, ed è solo in virtù di questa autorità che l’attività del legislatore acquista validità (Ordinatio IV, d. 15, q. 2).

AMBIENTE CULTURALE

Il dibattito sulla povertà

Un nuovo approccio al problema della ricchezza nella società cristiana

La seconda metà del XIII secolo si caratterizza per un’intensa attività economica e politica che si concentra nelle città europee, animate dal fiorire dei commerci e dal dinamismo culturale delle università. La prosperità economica non cancella la differenza tra ricchezza e povertà, ma fa del denaro non più un peccato bensì un valore che costringe a porre in termini nuovi il problema della ricchezza e della povertà nella società cristiana. Da una parte, la tradizionale diffidenza della Chiesa nei confronti del denaro (quello che Lutero definirà “lo sterco del diavolo”) e della ricchezza (“Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio” e “guai a voi, ricchi […] perché sarete afflitti e piangerete”, Luca, 6, 20-25) lascia progressivamente spazio a posizioni più sfumate e sostanzialmente a una maggiore tolleranza verso la ricchezza stessa, purché usata correttamente a favore dei bisognosi. Dall’altra, le forti differenze sociali fanno sì che si recuperi la tradizione della Chiesa primitiva, quella dei primi secoli dopo Cristo, nella quale i beni erano in comune e la povertà individuale portava con sé l’uguaglianza di tutti. Questo è il contesto che porta, tra Duecento e Trecento, a un dibattito serrato sul valore della povertà.

L’insegnamento di Francesco d’Assisi Il richiamo alla povertà e all’uguaglianza della comunità apostolica era stato un luogo comune di molti dei movimenti pauperistici e di riforma della Chiesa, dalla pataria milanese ai seguaci di Pietro Valdo, ma è certamente con Francesco d’Assisi (1182 ca.-1226) che l’appello a seguire letteralmente il precetto evangelico “va, vendi ciò che possiedi e dona il ricavato ai poveri” (Matteo, 19-21) fa della povertà qualcosa di più di una condizione contingente di disagio. Essa diventa scelta fondamentale nella vita del cristiano: farsi povero vuol dire tornare alla natura umana quale Dio l’aveva creata. La povertà non è un accidente sociale ma una qualità essenziale e naturale di ogni uomo, attraverso la quale è possibile assimilarsi al Cristo. Con una buona parte della popolazione europea in condizione di oggettiva miseria, fare della povertà un modello morale significava attribuire a quelle persone uno status, cioè il riconoscimento di un valore.

Già la prima Regola scritta da Francesco (Regula non bullata, 1221) impone la povertà e la rinuncia a qualsiasi proprietà come valore fondante del modello di vita francescano: “La regola e vita dei frati è questa, cioè vivere in obbedienza, in castità e senza nulla di proprio, e seguire la dottrina e l’esempio del Signore nostro Gesù Cristo” (I, 4). A imitazione di Cristo, spogliatosi degli attributi divini per assumere la povertà dello stato umano, il francescano è chiamato a privarsi di qualsiasi bene per entrare nell’ordine.

La diffidenza nei confronti del denaro e del commercio, che Francesco conosceva bene dopo gli anni di apprendistato nella bottega del padre mercante, è altrettanto netta: “nessun frate, ovunque sia e dovunque vada, in nessun modo prenda con sé o riceva da altri o permetta che sia ricevuta pecunia o denaro” e “se troveremo in qualche luogo del denaro, non curiamocene, come della polvere che si calpesta, poiché è vanità delle vanità e tutto è vanità” (VIII, 28).

La povertà per i francescani: la disputa tra conventuali e spirituali La Regola francescana, approvata definitivamente da papa Onorio III nel 1223, insiste sull’ideale della povertà assoluta. Ma proprio sul modo di intendere e di vivere la povertà si accende presto una disputa, tra i più pragmatici francescani (o “frati minori”) “conventuali”, graditi alla Chiesa e propensi a privilegiare l’attività predicatrice nelle città, e i più intransigenti e ascetici “spirituali”, come Pier di Giovanni Olivi (1248-1298) o Ubertino da Casale (1259-post 1329), i quali si richiamano al passo della Regola nella quale si vieta la proprietà di qualunque bene. Gli spirituali, pur non costituendo un gruppo omogeneo, condividono l’ideale della povertà assoluta e rigorosa: essa deve farsi testimonianza del distacco dal mondo, e la predicazione francescana diventa annuncio di una nuova epoca dello Spirito, in accordo con le visioni millenaristiche di Gioacchino da Fiore (1135-1202).

Il monaco calabrese profetizzava, dopo la prima età (del Padre o della Legge) e dopo la seconda (del Figlio o del Vangelo), una terza età dello Spirito, che sarebbe durata mille anni e che Gioacchino prevedeva imminente (la data era il 1260). In tale contesto la ripresa delle teorie gioachimite è occasione per criticare la Chiesa istituzionale e le disparità sociali in nome dell’ideale di una comunità di uguali.

La rapida crescita dell’ordine francescano porta ad allentare i vincoli della Regola e quindi l’ideale evangelico della povertà, per rendere possibile l’attività della complessa organizzazione dell’ordine, che comprende anche la gestione dei beni materiali richiesti dall’attività evangelica e dalla cura spirituale. Già dal 1247 papa Innocenzo IV nomina dei procuratori per la gestione dei beni e delle attività economiche dei frati minori. Di fronte alle critiche che cominciano a levarsi contro i francescani, accusati di praticare una povertà solo apparente, Bonaventura da Bagnoregio, ministro generale dell’ordine dal 1257, difende nella Apologia dei poveri contro il calunniatore (1270) l’ideale della povertà. Benché critico nei confronti della Chiesa istituzionale, che egli vede come realtà puramente mondana, Bonaventura tiene tuttavia le proprie posizioni ben distinte da quelle degli spirituali, propensi a restringere i beni d’uso al minimo necessario per la sopravvivenza: la povertà è semplicemente vivere “usando di fatto” e non “possedendo” i beni necessari al sostentamento e alle attività dei frati.

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I terrori dell'anno Mille e l'Anticristo

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Bonaventura da Bagnoregio

Nel 1279 papa Niccolò III interviene nel dibattito con la bolla Exiit qui seminat: egli ribadisce per i francescani il valore e l’obbligo della povertà, ma distingue anche tra la “proprietà” e il “semplice uso di fatto” dei beni necessari per vivere, dichiarando quest’ultimo legittimo e in sintonia con la Regola francescana. La bolla si chiude attribuendo alla Chiesa di Roma il possesso dei beni, da considerare ceduti in usufrutto ai frati minori. Ma la polemica non si placa, a causa dell’intransigenza della corrente francescana più spirituale, che insiste per un’accezione rigoristica (definita poi “uso povero”) del concetto di “uso di fatto” andando incontro anche a violente persecuzioni da parte dell’ordine. Anzi, il dibattito si estende anche al di fuori del movimento francescano. Il domenicano Giovanni da Parigi (morto nel 1306), infatti, argomenta a favore della posizione francescana quando, nel pieno della controversia tra il re di Francia Filippo il Bello e Bonifacio VIII, ribadisce che i beni donati alla Chiesa non trasmettono ad essa i diritti di possesso, che sono solo di Dio in quanto creatore di ogni cosa, ma vanno intesi semplicemente come ciò che consente il sostentamento della comunità ecclesiale.

Negli anni compresi tra la fine del Duecento e i primi anni del Trecento, la controversia si sposta dal tema della povertà dei francescani a quello della povertà di Cristo e degli apostoli: l’affermazione che Gesù non aveva posseduto niente dovrebbe comportare un’analoga rinuncia nel suo rappresentante in terra? Il richiamo francescano alla povertà diventa implicitamente un atto di accusa alla corruzione e alla ricchezza della Chiesa. Il problema coinvolge quindi l’intera cristianità, il ruolo della Chiesa e la natura dei poteri di chi ne è a capo: è legittimo che il pontefice, erede della missione spirituale di Cristo, detenga anche il potere assoluto sui corpi e sulle cose? E come va inteso il carattere “assoluto” di questo potere nei confronti dell’ordine stabilito dalle leggi?

La povertà e il dibattito teologico-politico sui poteri

La disputa sulla povertà si intreccia con le riflessioni teologiche sulla natura del potere di Dio, che si distingue in una potentia ordinata, come ordine stabilito dalla volontà divina oppure come ordine scelto realmente e reso effettivo da Dio, e in una potentia absoluta, intesa come potere di sospendere l’ordine del mondo e di agire al di là di esso o come capacità logica di volere molte possibilità; e le questioni teologiche sono a loro volta strettamente legate a quelle politiche che cercano di definire il ruolo e i confini del potere papale. Il primo ad applicare la distinzione tra potentia ordinata e potentia absoluta Dei al potere papale è Enrico di Susa (1194 ca.-1271). Alla domanda se il papa possa sollevare il monaco dal voto di povertà, Enrico risponde che attraverso la plenitudo potestatis (pienezza di potere) il papa può farlo di potentia absoluta, come potere straordinario e assoluto. Ma è Giovanni Duns Scoto (1265-1308) a rielaborare nel modo più compiuto i due concetti, trasponendo nel dibattito teologico una distinzione propria della tradizione giuridico-canonistica. In Scoto la potentia absoluta diventa un intervento divino oltre e al di sopra della legge: agire de potentia ordinata significa quindi agire secondo la legge stabilita, mentre la potentia absoluta indica un’azione “di fatto”, indipendente dalla legge. Il più lucido nell’intravedere i problemi e le implicazioni politiche di una interpretazione del genere è Guglielmo di Ockham (1285-1347/9). Nella polemica, al contempo teologica e politica, con Giovanni XXII, egli difenderà l’interpretazione della potentia absoluta come pura possibilità logica e negherà il diritto di attribuire al papa la plenitudo potestatis come potere assoluto che gli consenta di agire oltre la legge.

Avignone, 1327: lo scontro con il papaNel 1322 il dibattito sulla povertà giunge a una svolta decisiva: in quell’anno infatti il capitolo generale dell’ordine francescano, riunitosi a Perugia sotto la direzione di Michele da Cesena, stabilisce come “sana” e “cattolica” l’affermazione che Gesù e i suoi apostoli non avevano posseduto nulla, e conferma la scelta di povertà dei frati minori a imitazione di Cristo. In tutta risposta, papa Giovanni XXII prima revoca, con la decretale (cioè un documento che stabiliva una norma di diritto canonico) Ad conditorem canonum (1322), il provvedimento di Niccolò III, restituendo all’ordine francescano il pieno possesso dei beni in uso; poi, con la bolla Cum inter nonnullos (1323), condanna l’affermazione della povertà di Cristo e degli Apostoli come eretica.

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Potenza assoluta e potenza ordinata di Dio

La polemica si inasprisce negli anni successivi, anche se non mancano i tentativi di mediazione: nel De altissima paupertate (1323), ad esempio, Ubertino ribadisce come i frati possano rinunciare ai diritti sulle cose stabiliti dalla legge, ma non a quelli rappresentati dal diritto naturale alla proprietà comune dei beni mondani, proprio dello stato di natura e che è da considerare come semplicemente sospeso dopo il peccato originale e l’istituzione del diritto civile. Michele da Cesena, invece, schieratosi con l’imperatore Ludovico il Bavaro nel conflitto tra questi e Giovanni XXII, dichiara il papa apostata, eretico e nemico di Cristo, e come tale deposto dalla carica pontificia per decreto dell’autorità imperiale (1324).

Nel 1327, il papa convoca ad Avignone Michele per discutere la questione e tentare forse un ultimo accordo. Di fronte all’irremovibilità del pontefice (e probabilmente alla minaccia del carcere e della denuncia come eretici) Michele e i membri del suo seguito fuggono nella notte del 26 maggio 1328 dal convento francescano di Avignone, superano la sorveglianza alle mura della città e giungono al porto di Aigues Mortes; da lì raggiungono l’Italia per rifugiarsi poi a Monaco, in Germania, ponendosi sotto la protezione dell’imperatore. Tra i fuggitivi c’è anche Guglielmo di Ockham: convocato presso la corte papale per rispondere delle proprie teorie teologiche, il filosofo inglese aveva infatti accolto le tesi antipapali divenendo, insieme a Marsilio da Padova (1280 ca.-1342 ca.) e Bonagrazia da Bergamo (morto nel 1340), uno dei più accesi sostenitori della povertà evangelica e dell’opposizione al potere assoluto del pontefice.

La reazione di Giovanni XXII non si fa attendere: destituisce Michele dalla carica di generale dei francescani, lo scomunica e ne ordina l’arresto insieme ai compagni di fuga. La posizione di Michele e dei suoi sostenitori si fa progressivamente più debole, finendo per dipendere dagli interessi politici dell’impero. Con la nomina a ministro generale dell’ordine francescano di Gerardo di Odone, nel 1329, lo scontro sulla povertà con il papa può dirsi pressoché concluso: i francescani (anche i fuggitivi da Avignone, come Francesco d’Ascoli) tornano nell’alveo della Chiesa, mentre Michele e Guglielmo di Ockham continuano la loro battaglia per un ritorno alla semplicità delle prime comunità cristiane contro la corruzione della Chiesa, in una polemica che assumerà sempre più i contorni di una disputa teologico-politica sui limiti e il significato dei poteri del papa rispetto a diritti e prerogative del potere civile.

Guglielmo di Ockham e la povertà

Coinvolto in prima persona nello scontro sulla povertà, Guglielmo di Ockham compone nel 1333-1334 l’Opus nonaginta dierum (Opera dei Novanta Giorni), con la quale interviene nel dibattito ribattendo punto per punto le argomentazioni di Giovanni XXII. Tornerà sulla questione con la Lettera ai fratelli minori (1334), inviata ai confratelli riuniti ad Assisi per il capitolo generale dell’ordine.

Diversi documenti papali (che il filosofo inglese esamina puntigliosamente argomento per argomento) nonché le stesse Sacre Scritture, scrive Ockham, affermano la legittimità della povertà assoluta come via verso la perfezione cristiana, e le argomentazioni di Giovanni XXII si rivelano, sia all’esame dell’auctoritas delle Scritture sia a quello della ragione, come “frutto di una fervida fantasia” ed “eretiche” (Lettera ai fratelli minori).

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Il papato avignonese

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Il credito e la moneta

Ockham distingue tra diritto naturale e diritto civile, e in quest’ultimo fa rientrare la proprietà, in quanto sancita esclusivamente dalla legge. La proprietà è quindi un possesso esclusivo di qualcosa che non può essere al contempo proprietà d’altri. Al contrario, nello stato di di natura il diritto alle cose da parte di ognuno non era tale da escludere da tale diritto tutti gli altri. La proprietà privata, il denaro e anche il potere politico, quindi, non sono che conseguenze alla caduta originaria e non hanno altro significato che rimediare alla conseguente debolezza dell’uomo: il richiamo alla povertà è un invito a riscoprire la purezza della natura umana, incorrotta prima del peccato originale. Come Cristo e gli apostoli, dunque, i francescani hanno scelto legittimamente di non possedere nulla e di limitarsi a fare uso di ciò che viene donato loro: un “uso di fatto”, precisa Ockham, che non comporta alcun diritto legale sul bene che viene usato.

Negli scritti di Ockham la controversia mostra di aver mutato la propria natura, e da dibattito teologico sul principio della povertà si è trasformata in una serrata critica che pone in discussione i poteri del papa in materia temporale e spirituale, fino a giungere in Ockham alla formulazione di una tesi estrema: in opposizione alla teoria della plenitudo potestatis papale, “la risoluzione di ogni questione di fede – sostiene il filosofo inglese – non è di esclusiva pertinenza del papa, del concilio generale o dei prelati o di tutti i membri del clero, ma spetta anche ai laici”, dal momento che “ciò che riguarda tutti deve essere approvato da tutti” (Lettera ai fratelli minori). Alla Chiesa visibile, coinvolta “nelle cose di denaro e di potere”, Ockham contrappone la povertà francescana come prefigurazione di una chiesa diversa, umile e spirituale: l’ideale di una “Chiesa invisibile” che attraverserà con accenti diversi i movimenti di riforma della Chiesa, passando per Wycliffe (1328-1384) fino a giungere all’età moderna.

Roberto Limonta