Carlo jr, come tutti i neonati, piangeva e piangeva. E io, come tutte le mamme, lo guardavo con gioia e apprensione. Ecco che la parola «pianto» – la memoria, si sa, salta di palo in frasca – mi evoca una rinascita, riportandomi a quel gennaio 1969 nella clinica ginevrina dove il dottor de Watteville aveva dato inizio alla mia nuova vita.
Sì, posso dire che sono nata una seconda volta il giorno in cui il mio primo bambino vide la luce. L’emozione di stringere tra le braccia quello che per anni era stato il mio desiderio più acceso mi travolse. Per godermela fino in fondo, o forse, chissà, per paura di svegliarmi da questo sogno meraviglioso, mi rinchiusi nella mia stanza. Stavo al caldo, mi sentivo al sicuro, io e lui, lui e io, in un nido soffice fatto di eterni sguardi, di latte, di carezze. Le infermiere ci coccolavano, ci accudivano, spazzavano via qualunque preoccupazione. Il mondo, che ci guardava da fuori, avido di spettacolo, non ci poteva davvero toccare. Certo, arginarlo non fu del tutto semplice. Ci volle il piglio di Carlo, la sua intelligenza, per dare loro quello che volevano tenendo il resto per noi.
Eravamo ancora nel pieno dello star system, e Carlo jr veniva trattato come un principino reale. Per la sua nascita, fuori dalla clinica si era assiepato un esercito di fotografi e operatori, arrivati da tutto il pianeta.
Gli annali riportano che i più chiassosi erano naturalmente gli italiani, i più accaniti gli inglesi, i più organizzati i tedeschi, con due elicotteri e un aereo privato, i più informati gli americani, i più furbi i giapponesi, che avevano affidato l’équipe alla direzione di una donna, per “penetrare” più facilmente nel mio cuore di mamma.
Fu indetta una conferenza stampa, per accontentarli tutti in un colpo solo: feci il mio ingresso nella sala gremita, trasportata sul mio letto di puerpera, con in braccio il mio bambino, gli occhi stanchi e finalmente felici. A fianco i miei paladini: da un lato Carlo, dall’altro mia sorella Maria, che era volata da Roma per il grande evento. Basilio, invece, si era perso da qualche parte in fondo alla nostra felicità, che era anche la sua.
I giornalisti mi bersagliavano di domande. Non so perché, ma mi illudevo che fossero un po’ emozionati anche loro. Del resto, l’emozione è contagiosa, e là dove c’è un neonato tutti respirano il profumo del miracolo.
«A chi assomiglia?»
«Da chi ha preso gli occhi?»
«E la bocca?»
«Quanto pesa?»
«Sophia, Sophia, come si sente?»
«Ha avuto paura?»
«È arrivato il latte?»
«È più o meno emozionante di un Oscar?»
«Quando pensa di tornare sul set?»
Io li osservavo sorridendo, ma poi tornavo a chinarmi su Cipi – così avevo cominciato a chiamarlo. “Quanto si’ bbello” pensavo, il viso tondo, le manine che mi stringevano il dito, un ingombro tiepido che sapeva di paradiso. Tutto il resto diventava sfocato, perdeva importanza, come se non mi riguardasse davvero.
Vivevo sospesa sulla mia esistenza che di colpo aveva acquistato un senso profondo, una stabilità fragile e appagante. Avevo paura di uscire, temevo che il piccolo prendesse freddo, non me la sentivo di tornare a casa. E così, giorno dopo giorno, mettevo radici nella mia camera bianca e pulita, protetta da ogni pericolo, rifiutandomi di pensare al domani.
Fu ancora lui, il mio dottore, a spingermi dolcemente fuori, dopo cinquanta giorni che a me parvero un soffio.
«Sophia, non può restare qui per sempre, la vita là fuori vi aspetta…»
Io lo fissai atterrita, ma poi a poco a poco mi arresi: «Come al solito ha ragione lei».
Dopo nove mesi di immobilità e quasi due di ovattato puerperio, era venuto il tempo di andare, di affrontare la realtà. Una realtà che, a differenza dei film, non aveva copione. La mia storia di mamma, la sua di bambino, erano tutte da inventare.
È strano come, con una creatura tra le braccia, ci si senta forti e vulnerabili al tempo stesso. È una sensazione inebriante, che fa girare la testa e ci si porta dentro per sempre.
Mi rendevo conto che avevo bisogno di qualcuno che mi aiutasse a uscire dal mio guscio per tornare nel mondo, ma tutte le ragazze che mi proponevano mi convincevano poco. Le potenziali nanny si presentavano troppo vistose, troppo discinte, tutte pizzi e merletti, come improbabili bellezze al bagno. “Ma dove credono di andare? Non è un provino a Cinecittà” mi dicevo, incredula davanti a tanta esuberanza. A me serviva una persona affidabile, tranquilla, che capisse la mia felicità e si concentrasse interamente sul bambino. E, soprattutto, che non si lasciasse prendere la mano da inutili colpi di testa.
Una mattina, affacciandomi alla finestra della mia camera, avevo intravisto una carrozzina in giardino, affondata nella nebbia invernale, spinta da una nurse a dir poco imprudente.
“Ma come si fa” avevo pensato “a portare fuori un neonato a quest’ora, con questo freddo? Siamo impazziti? Non affiderei mai mio figlio a una donna così.” Eppure…
Il giorno dopo il dottor de Watteville entrò da me trionfante. Aveva finalmente trovato la persona che mi poteva seguire e che mi avrebbe dato il coraggio di liberare la stanza per altre donne e altri bambini in procinto di nascere.
Dietro di lui, faceva capolino Ruth Bapst, un’infermiera dall’aria esperta e gentile. Appena la vidi, la riconobbi! “È lei” pensai, “quella matta della carrozzina nella nebbia…” La salutai con un certo distacco, senza alcuna curiosità. Nel mio cuore l’avevo già scartata.
Ruth non si lasciò scoraggiare e mi tese la mano, competente e professionale. Guardai quel suo sorriso franco, i modi semplici, lo sguardo diretto. Nei suoi occhi leggevo l’amore per i bambini, la voglia di lavorare. La mia calamita interiore, quella misteriosa capacità che ho sempre avuto di attirare e riconoscere le persone più giuste, più adatte a me, si mise a vibrare incrinando le mie certezze. «Proviamo» abbozzai, con la voce ancora un po’ titubante.
Ruth, nel lessico famigliare, è diventata Ninni e, dopo quarantasei anni, è ancora con noi. Mi ha aiutato a crescere i ragazzi e oggi coccola i loro figli, con lo stesso entusiasmo di allora.
Con lei al mio fianco, presi il coraggio a due mani e lasciai la clinica, Ginevra, la Svizzera. Destinazione, la nostra villa di Marino.
Villa Sara era un’antica tenuta persa tra gli ulivi dei Castelli. A mezzora da Roma, si presentava come un’oasi di calma e di silenzio che ci depurava da tutta la confusione della città, dei set, della vita pubblica, e ci restituiva a una dimensione di pace. Ovunque posassi gli occhi, mi inebriavo di bellezza. I pavimenti rivestiti di mosaici romani, i giardini rigogliosi con le fontane di marmo, mobili antichi e preziosi pezzi d’antiquariato a decorare le tante stanze, tutte da scoprire.
Quello che mi faceva davvero sognare erano le pareti affrescate. Grandi banchetti, scene di caccia, festoni di frutta e di fiori, mantelli e ghirlande, e ancora animali, alberi, stelle, nel dolce paesaggio italiano. Altro che cinema! Guardarmi attorno era sempre una festa.
Avevamo comperato la villa nel 1962 e, dopo importanti interventi di restauro, ci eravamo trasferiti lasciando l’appartamento di piazza D’Aracoeli, quello dove avevamo trascorso la mia notte da Oscar. Nel 1964 ci eravamo poi spostati a Parigi, ma tornavamo sempre lì, per brevi periodi, appena ci era possibile. Forse ero ancora troppo giovane per godermela a fondo, ma l’incrocio magico di arte e natura già mi regalava esperienze impagabili.
Niente, certo, se paragonato al miracolo di Carlo che cresceva, cominciava a fare i primi sorrisi, alzava le braccine per farsi sollevare in aria, si perdeva a guardare le foglie degli alberi mosse dal vento.
Ero finalmente felice, per la prima volta nella mia vita non mi mancava nulla. Se avessi potuto fermare il tempo, mi sarei fatta cogliere lì, ai bordi della piscina – che era nata asimmetrica per non sacrificare un bellissimo albicocco di cui Carlo si era innamorato –, dove il mio bambino spruzzava acqua dappertutto dal suo salvagente a paperella. Ai piedi della sdraio un copione, che mi richiamava al dovere. E io, abbandonata nei miei pensieri, che mi facevo cullare dalle due cascatelle artificiali messe lì apposta per tenermi compagnia.
Va detto che non mi ero abituata facilmente a tanta meraviglia. All’inizio lo sfarzo della villa mi metteva un po’ di soggezione, e mi rifugiavo spesso in camera mia, tra le mie riviste e i miei film. Era stato Carlo ancora una volta a trarmi d’impaccio.
«Sophia, le case sono come le persone, bisogna avvicinarsi piano piano, entrare in confidenza…»
E aveva ragione. Presto io e Villa Sara avremmo cominciato a capirci e a volerci bene.
Come ogni paradiso, la villa aveva il suo lato oscuro. Era un luogo isolato, non privo di pericoli, che faceva gola ai malviventi e attirava i balordi. Uno in particolare ci aveva spaventato. Scappato dal manicomio, una mattina si era intrufolato nel giardino arrivando quasi alla terrazza della piscina. Aveva in mano della carta, voleva dar fuoco a tutto. Urlava a squarciagola che Cipi era suo e che lui era venuto per portarselo via. «Voglio mio figlio, voglio mio figlio!» delirava, in preda alla sua follia. Si spinse fino alla porta di casa, e la colpì con un’ascia.
In un primo momento restammo annichiliti, ma per fortuna presto capimmo come prenderlo. Riuscimmo a calmarlo abbastanza facilmente ma lui, altrettanto facilmente, si lasciò di nuovo trascinare dalla sua ossessione e dopo poco si fece rivedere. Scappò varie altre volte dall’ospedale psichiatrico, mi tempestò di lettere, tornò a trovarci. Tenevamo d’occhio i suoi movimenti, senza lasciarci sopraffare. Eppure, mi rimaneva appiccicato un senso di paura, di profondo disagio, con cui faticavo a convivere. Anche perché l’Italia stava entrando nel periodo buio dei rapimenti, quelli veri, che spesso non lasciavano scampo.
A parte varie minacce rimaste senza seguito, Carlo stesso rischiò ben due volte, nei primi anni Settanta, di rimanerne vittima, e si salvò solo grazie alla prontezza dei suoi riflessi e al tempestivo intervento della polizia.
Una sera stava tornando a casa tardi dall’ufficio, lungo l’Appia Antica. All’improvviso, un’automobile messa di traverso lo costrinse a fermarsi. Gettando un’occhiata veloce nello specchietto retrovisore, vide che un’altra macchina lo aveva chiuso alle spalle. La portiera si aprì di colpo e saltò giù un uomo dal volto coperto, che si diresse di corsa verso di lui con il fucile spianato. Carlo era un uomo sicuro e molto reattivo, abituato a prendere decisioni rapide in situazioni di emergenza. Schiacciò il piede sull’acceleratore, partì sgommando e per poco non investì l’auto che gli sbarrava la strada. Il bandito da dietro cominciò a sparare, ma lui, chinandosi sul volante, non si fece intimorire. Quando finalmente arrivò a casa, la sua Alfa Romeo era crivellata di colpi, neanche fossimo in guerra.
La polizia non poté far niente se non metterlo in guardia per il futuro.
«Dotto’, non esiti ad avvisarci quando sa che tornerà a casa tardi.»
Fu così che la seconda volta, sempre sull’Appia, avvistò uno strano incendio non molto lontano e cominciò a preoccuparsi. Quando poco dopo un’automobile lo affiancò cercando di farlo uscire di strada, una volante della polizia si materializzò immediatamente dal buio mettendo in fuga i sequestratori. Di questo in effetti si trattava. A Villa Sara, nascosto tra gli arbusti, trovarono un pulmino senza targa, con il motore acceso. Nel bagagliaio, corde, scotch da pacchi, siringhe e cloroformio. Tutto quello che serviva per un rapimento in grande stile. Era troppo anche per noi. Con i bambini, che a quel punto erano diventati due, nel 1974 decidemmo di trasferirci a Parigi.
Del resto anche a New York, qualche anno prima, mi ero già presa un brutto spavento, con Cipi piccolo piccolo. Era l’ottobre 1970, stavamo in una suite al ventiduesimo piano della Hampshire House, nel cuore di Manhattan, le grandi finestre affacciate su un Central Park sfolgorante dei colori autunnali. Ci abitava Alex, il figlio di Carlo, e anche Greta Garbo, che purtroppo non riuscii mai a incrociare. Andavo continuamente all’ascensore, sperando di incontrarla, ma rimasi sempre delusa.
Eravamo in America per il lancio dei Girasoli, con Vittorio e Marcello. Carlo era tornato all’improvviso a Milano: suo padre, a cui era profondamente legato, stava morendo. Io ero rimasta sola con Ines, Ninni e Cipi.
La mattina dopo la sua partenza, fui svegliata da strani rumori, che mi parvero urla soffocate. Non capivo che cosa stesse avvenendo, ero ancora mezzo addormentata, pensavo fosse un sogno. Mi sfilai dalle orecchie i tappi con cui avevo l’abitudine di dormire e sentii di nuovo quelle urla, questa volta più chiare. Mentre cercavo di orientarmi tra la veglia e il sonno, irruppero nella mia stanza due uomini: uno era il concierge dell’albergo, con un voluminoso mazzo di chiavi e la faccia di uno che viene dall’oltretomba; l’altro, dietro di lui, portava con sé un arnese che in un primo momento presi per uno stetoscopio. “Oddio, il bambino non sta bene” mi suggerì il mio cuore di mamma. In realtà si trattava di una rivoltella.
«Questa è una rapina» abbaiò l’uomo, come in un poliziesco di serie B.
Feci finta di non capire, rendendolo ancora più nervoso.
Mi appoggiò la canna alla tempia ringhiando: «Pochi scherzi!». Era una situazione surreale. Davanti a me un ladro che sembrava vestito da carnevale, con la parrucca, i baffi finti e gli occhiali da sole. Puntata alla testa, un’arma che non sembrava affatto un giocattolo. Nei miei occhi, i suoi, più blu di quelli di Paul Newman. A pochi metri, nell’altra stanza, il mio bambino, fragile e inerme.
«Datti una mossa e tira fuori i gioielli!» urlò il ladro mentre rovistava dappertutto alla ricerca del bottino. La gioielleria Van Cleef & Arpels mi aveva prestato una parure da indossare al galà Rockefeller di quella sera. “Come fa a saperlo?” mi chiesi confusa, in balìa della paura. Il pensiero di Cipi mi spinse a confessare: «Sono in una borsa nel cassetto più basso del comò». L’uomo dagli occhi azzurri seguì istericamente le mie istruzioni, trovò il braccialetto di diamanti e rubini, con la collana e gli orecchini, e se li infilò in tasca, ma ancora non era quello che cercava. Strillava come un indemoniato, così forte che era difficile comprendere quello che diceva.
«Questa è tutta robetta… L’anello, voglio l’anello, quello della tv…»
Finalmente realizzai il terribile equivoco e maledissi la mia vanità. Durante la lunga intervista che avevo concesso a David Frost insieme a Marcello qualche sera prima, avevo sfoggiato un vistoso diamante, sempre di Van Cleef & Arpels, che però avevo prontamente restituito. E ora questo inutile vezzo, che valeva più o meno cinquecentomila dollari, metteva a rischio la mia vita, e quella di mio figlio. Cercai di spiegarmi, di dirgli la verità, lui mi afferrò per i capelli e mi scaraventò a terra.
«Dov’è il bambino?» urlò subito dopo, gelandomi il sangue.
Fui presa dal panico, e non capii neppure che il compare che faceva il palo nell’altra stanza, troppo spaventato per avere pazienza, aveva gridato: «Andiamo!». Mentre fuggivano con i gioielli di Van Cleef & Arpels in tasca gettai loro addosso una borsa con tutti i miei gioielli personali. Non so perché lo feci, forse un gesto catartico, o una provocazione. O forse solo una preghiera, che li portasse il prima possibile lontano da noi.
Corsi da Cipi e lo strinsi forte, crollando in un pianto dirotto. Giurai a me stessa che non avrei mai più indossato alcun gioiello prezioso all’infuori delle braccia di mio figlio.
Presto a Carlo jr si sarebbe aggiunto Edoardo, raddoppiando quella felicità che avevo pensato irripetibile. Un altro dei misteri insondabili della maternità.
Rimasi incinta del mio secondogenito mentre giravo L’uomo della Mancha, con Peter O’Toole. Fu il primo e unico musical della mia vita (all’infuori di una piccola parte nel recente Nine), tratto da un grandissimo successo di Broadway di Dale Wasserman. Racconta di Miguel de Cervantes che, imprigionato dall’Inquisizione, distrae i suoi compagni di cella mettendo in scena la storia di don Chisciotte e il suo amore per la serva Aldonza, che lui trasfigura nella nobile e principesca Dulcinea.
Peter era un attore straordinario, un uomo dall’intelligenza imprevedibile e trasgressiva, spiritoso come un grande comico e intenso come un personaggio da tragedia. Era bello lavorare accanto a lui, ricordo che pendevo dalle sue labbra piena di ammirazione: quando recitava sembrava che cantasse. Eppure, quando doveva cantare, aveva anche lui le sue difficoltà. Né io né lui eravamo cantanti di professione, e ne eravamo perfettamente consapevoli. A dir la verità, eravamo morti di paura…
Si registrava per lo più in studio, ma dovevamo cantare anche sul set, perché, come in ogni musical che si rispetti, le canzoni erano tutt’uno con l’azione. Una mattina, al momento delle riprese, mi ritrovai completamente senza voce e senza parole, peggio di Marlon Brando davanti alla gelida furia di Chaplin. Peter mi prese da parte e, dall’alto della sua illimitata sapienza, sentenziò: «È inutile che ti agiti, Sophia, questa è chiaramente una forma di laringite psicosomatica…».
Cercai di difendermi ma il suo sguardo sornione non concedeva scampo. Quando però l’infermiera mi diede il termometro da cui risultò che avevo 39 di febbre, trovai la forza di oppormi.
«Lo vedi, Peter, altro che psicosomatica, ho l’influenza!» riuscii a sussurrare, in qualche modo rassicurata sulla mia salute mentale.
Ma lui non demorse: «Che dici, Sophia! È paura, paura di cantare davanti a tutta questa gente».
Aveva ragione e due giorni dopo, nell’intimità dello studio, fui in grado di arrivare in fondo senza problemi. Fu lui invece che, a furia di giocare con Freud, restò intrappolato nel suo nervosismo. Quando venne il momento di cantare The Impossible Dream, tema dominante del film diventato nel tempo un celebre standard interpretato da Sinatra e da Elvis Presley, da Jacques Brel e da Plácido Domingo, mi volle vicino.
Eravamo compagni di gloria e di sventura e rimanemmo uniti fino alla fine. Nelle pause del set, mi scatenavo a sfidarlo a Scarabeo. E, ironia della sorte, benché lui fosse un colto shakespeariano e io una napoletana in trasferta, lo distruggevo, senza concedergli neanche un punto. Forse dipendeva dal fatto che, nonostante avessi smesso presto di studiare, avevo fatto in tempo ad assaggiare i primi rudimenti del latino, che mi permettevano di inventare e, spesso, di azzeccarci. Quanto ci siamo divertiti! O, forse meglio, quanto mi sono divertita a sue spese!
Il ricordo più vivo che ho di lui, però, si concentra in un’immagine nitida e precisa. Una sera, bussò alla porta della mia suite, dove stavo con Ninni e Cipi. Andammo ad aprire e ce lo trovammo davanti vestito con un’improbabile tunica verde, le braccia tese come una specie di Gesù Cristo sceso dalla croce. «Posso entrare a farvi compagnia?» Era matto da legare, di quella follia creativa e affettuosa che ti cambia il modo di guardare il mondo.
Alla fine delle riprese, che ebbero luogo interamente a Roma, scoprii di essere incinta di Edoardo. La notizia mi colse molto più preparata della volta prima. Sapevamo tutto degli estrogeni, e le punture me le fece la sarta di scena. Smisi di lavorare soltanto al quinto mese e, nel settembre 1972, presi l’aereo per Ginevra.
Trascorsi mesi tranquilli, senza troppa pressione. Leggevo, cucinavo, guardavo la televisione. E facevo spazio dentro di me all’arrivo di un altro grande amore. Perché, se anche tutto il contesto era più sereno, l’emozione era la stessa della prima volta. Nonostante il bambino fosse ben posizionato, de Watteville optò di nuovo per il cesareo, non voleva correre inutili rischi, visto il mio passato. Avevo paura, quella sana paura che coglie ogni madre prima di partorire. Una paura fatta di eccitazione e di stupore davanti al più grande miracolo della natura. Come quella di Carlo, la nascita di Edoardo fu il regalo più bello che mi potesse fare la vita. Fino all’arrivo dei miei nipotini…
A proposito di regali, Peter non si smentì neanche questa volta. Quando, il 6 gennaio 1973, Edo si affacciò al mondo, bello come il sole, il mio don Chisciotte si presentò con uno straordinario uovo di struzzo autografato: «With all my love, Peter». Lo tenni a lungo sul comodino, ricordo surreale di un amico caro e decisamente eccentrico.
A proposito di cari amici un po’ eccentrici, quella stessa primavera del 1973 a Villa Sara arrivò un ospite d’eccezione, che rallegrò e per certi versi complicò la nostra routine. Richard Burton era stato chiamato da Carlo per recitare accanto a me nel Viaggio che sarebbe stato l’ultimo film di De Sica.
Una mattina di aprile, avevo appena smesso di allattare e mi godevo sulla terrazza il timido arrivo della primavera. Edo, finalmente sazio, dormiva, mentre Cipi esigeva insistentemente la mia attenzione per compensare quella presenza del fratellino che forse, da qualche parte, lo faceva soffrire di gelosia. Fu allora che Ines mi passò una strana telefonata.
«Sophia? Is it you? This is Richard speaking.»
«Richard?»
«Yes, Richard, Richard Burton!»
Non ci eravamo mai visti, e non mi aspettavo la sua chiamata, ma fui felice dei suoi modi diretti, della sua trasparenza. E poi, che voce. Bucava il telefono, se così si può dire.
Sapevo naturalmente che avremmo lavorato insieme, e non vedevo l’ora di conoscere uno degli dèi del mio Olimpo. Ma lui non si accontentò e fece un passo più in là.
«Se siete d’accordo, verrei a stare da voi prima dell’inizio del film. Sai, devo rimettermi in forma e non me la sento di vivere in albergo… Non mi lascerebbero respirare.»
In effetti, la sua tormentata storia con Elizabeth Taylor era su tutti i rotocalchi, e cronisti e paparazzi non si sarebbero fatti sfuggire una preda così ghiotta. Del resto, Villa Sara aveva una bella foresteria, che ci permetteva di ospitare amici e parenti senza che ci si intralciasse a vicenda.
«Sei il benvenuto, Richard» risposi senza esitare, contenta di potergli essere utile.
Arrivò con il suo entourage, comprensivo di medico, infermiera e segretaria. La verità è che stava cercando di disintossicarsi dall’alcol, oltre che dall’amore per la sua bella Cleopatra dagli occhi viola. Non riusciva a parlare d’altro che di lei, e io lo ascoltavo con pazienza. Spesso pranzava con me e i bambini a bordo piscina, e presto diventammo amici. Cipi se ne innamorò, insieme facevano una strana coppia.
Dal baule dei segreti, ormai quasi vuoto, spunta una sua bellissima fotografia in vesti di scena, che mandò al suo piccolo amico qualche anno dopo.
To my beloved “Cipi”,
this is Uncle Richard when he was a bit younger and you and Edoardo and E’en So were not even born! Que cosa incredible!*
Richard
Bastano queste poche parole a restituirmi la sua voce, il suo calore, la sua intelligenza.
Gallese, penultimo dei tredici figli di un minatore, era arrivato a frequentare Oxford e a studiare recitazione. Sempre diviso tra il cinema e il teatro, sciupafemmine e gran bevitore fin da giovane, si era innamorato di Elizabeth sul set di Cleopatra e poco tempo dopo, nel 1964, aveva lasciato la moglie per sposarla. Proprio in questi primi mesi del 1973, il loro matrimonio era arrivato a una crisi che di lì a un anno li avrebbe portati al divorzio. Divorzio che non avrebbe loro impedito di risposarsi nel 1975, e divorziare definitivamente nel 1976. Ogni anno scandito da una sorpresa.
Durante il soggiorno a Marino, Richard era un fascio di nervi, forse per la dieta disintossicante a cui si stava sottoponendo. Ma era comunque simpatico, brillante, affettuoso, un vulcano di idee e di citazioni. Il suo amore per la letteratura trapelava da ogni parte e rendeva la sua compagnia un’esperienza unica.
Eppure – lo so, non è facile da accettare – anche lui cadde vittima della mia abilità a Scarabeo. Nonostante la vasta cultura e la ricchezza del suo vocabolario, dovette cedere, come Peter, alla mia supremazia. Restava senza parole davanti all’evidenza e mi guardava sconcertato. Io ridacchiavo soddisfatta, godendomi il trionfo.
Giocavamo per ingannare il tempo, in attesa del primo ciak. Quando stavamo per iniziare le riprese del Viaggio, però, le condizioni di salute di De Sica peggiorarono e lo costrinsero a un’operazione che rimandò di un mese l’avvio del film. Richard ormai era di casa, Cipi lo chiamava zio, Edoardo lo guardava a bocca aperta, con lo stupore tipico dei neonati. Benché fossimo entrambi molto in pena per Vittorio, coltivavamo questa nostra amicizia domestica, fatta di giochi, scherzi e confidenze. E lui sembrava aver trovato un equilibrio, che però era destinato a non durare.
Il venerdì precedente all’inaugurazione del set, arrivò, fatale, una telefonata di Liz da Los Angeles.
«Mi operano domani. Richard, devi assolutamente venire.»
“Sta scherzando?” mi venne da dire, ma mi fermai in tempo. In fondo, non erano affari miei e facevo bene a non impicciarmi.
Lui forse mi lesse nel pensiero e mi rispose in silenzio, con gli occhi impotenti: “Che vuoi che faccia? Certo non posso dirle di no!”.
Carlo capì la situazione e, come al solito, tagliò la testa al toro: «Vai, vai pure, basta che lunedì mattina tu sia sul set».
Richard partì, volò quindici ore all’andata e quindici al ritorno solo per tenerle la mano qualche minuto. Ma compì il suo dovere, si mise in pace con la coscienza e si fece trovare puntuale al primo ciak.
Liz lo raggiunse a Roma poche settimane dopo, stando un po’ da noi, un po’ in albergo. Un’onda anomala, un elettrone libero, una freccia scagliata dritta al suo cuore sofferente: ecco cos’era per lui.
Quando cominciammo Il viaggio, Richard era lì, ma con la mente viaggiava altrove. Alla ricerca di una soluzione ai suoi problemi che, al momento, sembrava impossibile da trovare.
La trovò forse, anche se solo provvisoria, qualche tempo dopo, e non esitò a dirmelo. Ci stavamo preparando a tornare insieme sul set di Breve incontro, un remake di un famoso film di David Lean che avremmo girato in Inghilterra nel 1974 sotto la direzione di Alan Bridges, quando mi scrisse questa lettera, in cui scherza come al suo solito ma sa anche parlare di sé in modo autentico e profondo e gioire dell’amicizia che ci lega:
Dearest Dost and Divine Ashes, [gioco di parole tra Richard e Sophia],
ho letto il copione. Che cosa diavolo può aver mai persuaso qualcuno a farlo senza di me? Incredibile impertinenza. Ci vediamo tra una settimana. Ti voglio bene, naturalmente, ma questo è anche un ottimo copione, e per quanto io ti ami, non avrei mai accettato di fare il lavoro altrimenti.
Il metteur-en-scene sembra un tipo a posto ma anche molto nervoso. Ce la faremo a lavorare con lui? Mi aspetto che gli inglesi facciano un po’ di confusione, lasceremo che ci pensino Frings e gli altri imbecilli. Ti voglio bene.
Mi sono completamente ripreso dalle mie ultime pazzie e raramente mi sono sentito così contento. Elizabeth non uscirà mai dalle mie ossa ma finalmente è fuori dalla mia testa e l’amore che avevo si è trasformato in compassione. È un disastro assoluto e non c’è nulla che io possa fare per lei senza distruggere me stesso. Ti voglio bene.
Non vedo l’ora di vederti, non sto nella pelle. E anche di vedere Cipi e Eduardo e Inez e Pasta e Carlo e perfino l’Inghilterra. È molto che non ci torno. Sono quasi sorpreso da quanto.
Questa volta sarò un bravo attore per te. L’ultima volta sono stato un fottuto cretino.
Ci vediamo tra una settimana
tuo Richard
Mi sono dimenticato di dirti che ti voglio bene.
Quattro anni prima del Viaggio, appena diventata mamma, ero tornata al lavoro sul set dei Girasoli. Era l’autunno del 1969 e, mentre nel mondo impazzava la contestazione, noi giravamo tra Milano e la Russia. Io però mi sentivo in famiglia, nel giardino di casa. I tre moschettieri erano di nuovo insieme: Vittorio, Marcello e io. Special guest, Carlo jr, nel ruolo di se stesso, mio figlio, nella vita e nel film. Così piccolino, era il compagno di viaggio ideale. Me lo portavo ovunque, e non riuscivo a stargli lontana per più di poche ore.
I girasoli tornava alla guerra che avevamo conosciuto in Italia per poi ampliare lo sguardo fino alla Russia, alla grande ritirata, al soldato Antonio che, quasi assiderato, viene salvato da una ragazza del posto con cui costruisce una nuova famiglia. La moglie italiana lo va a cercare, e per sfortuna lo trova. Ed ecco l’incontro struggente tra due donne travolte dallo stesso dolore. In mezzo un Mastroianni che, ancora una volta, incarna al meglio un uomo senza qualità. Come Dummì del Matrimonio all’italiana, come Carmine distrutto dai troppi figli in Ieri, oggi, domani, come don Mario nella Moglie del prete, una commedia dolceamara che ci avrebbe visti di nuovo insieme un anno dopo, diretti da Dino Risi.
Vittorio non stava bene, dentro di lui la malattia ai polmoni scavava lentamente la sua strada. Ma non aveva perso la sensibilità per i particolari, l’amore per i bambini – russi o napoletani che fossero –, il gusto di descrivere il quotidiano lavoro delle donne, lo strazio degli addii alla stazione, i sentimenti frustrati dalla violenza della vita.
Cipi – non faccio per dire – aveva recitato benissimo e il film era piaciuto molto, soprattutto negli Stati Uniti. Rivisto oggi, quel giallo intenso dei girasoli, concimati dai corpi di milioni di soldati russi, italiani, tedeschi, mandati a morire chissà per chi, sembra un ultimo appello alla vita, un soffio di speranza, un tocco di colore in un mondo che si va lentamente spegnendo prima del grande viaggio.
E proprio Il viaggio si intitola l’ultimo film di De Sica, girato tra l’ottobre 1973 e il gennaio 1974, che vede in scena me e Richard, ormai amici dopo mesi di convivenza. Il film prendeva spunto da una novella di Pirandello, giocata tra la Sicilia, Napoli e Venezia all’alba della Prima guerra mondiale. Una storia di amore e morte, un classico melodramma all’italiana. Vittorio stava male, Richard pensava ad altro, e io ero più mamma che attrice. Eppure era una bella vicenda, che seppe commuovere il pubblico e, di nuovo, piacque molto all’estero.
Due giorni prima di finire, feci una cosa che non avevo mai fatto prima. Sfogliando con De Sica le foto del set, me ne capitò tra le mani una sua, bellissima.
«Vitto’, guarda che bella foto, scrivimi una cosa carina!»
Lui mi sorrise, intenerito, e ubbidì: Sofia Sofì, a quinnicianne me diciste: Sì.
Non è un caso se è proprio una delle prime foto da cui è partito questo mio lungo viaggio nella memoria.
Finite le riprese nel gennaio 1974, continuai a lavorare alacremente, passando da L’accusa è: violenza carnale e omicidio, con Jean Gabin, a quel Breve incontro, ancora con Richard, che ho già ricordato, fino a rincontrare Marcello nella Pupa del gangster. Ma il pensiero di Vittorio non mi lasciava mai.
Quando quel 13 novembre sentii la voce di Carlo al telefono pensai quasi di mettere giù, con una scusa qualunque. Non avevo voglia di ascoltare quello che aveva da dirmi e che dentro di me già sapevo. Eppure era così, De Sica era morto, a Parigi, a pochi chilometri da casa mia. Eravamo vicini e lontanissimi, su due lati dello stesso fiume dove scorreva la nostra storia insieme.
Era morto all’American Hospital e la famiglia aveva dato precisi ordini riguardo alla riservatezza, che coinvolgevano perfino gli amici più cari. Chiamai María Mercader ma non mi rispose, mi sentii impotente, congelata nel mio dolore, non sapevo dove girarmi, cosa fare, come trovare sollievo. Di certo, però, non potevo restare a casa, così, senza salutarlo prima che ripartisse per Roma.
Chiamai l’ospedale una, dieci, cento volte, e la risposta era sempre la stessa. «Mi dispiace, signora, non si può.»
Alla fine, dopo mille tentativi, trovai un varco e mi intrufolai. L’impiegato accondiscendente mi scortò fino alla camera mortuaria, che però era serrata. Dalla finestra, guardavo incredula la bara già chiusa. Di fianco, c’era una brandina, dove era stato il suo corpo fino a poco prima. All’altezza della testa, notai una macchia più scura. Sentii il profumo della sua brillantina e cominciai a piangere, come non avevo pianto mai.
Pensavo che senza De Sica non avrei più lavorato. O, meglio, che forse avrei recitato ancora, ma non avrei mai più trovato una parte che mi conquistasse e mi facesse volare. Invece la vita è imprevedibile e ti riserva delle occasioni speciali, che tu sia un’attrice o una massaia stinta che vive per rassettare la casa tirando su alla meglio una schiera di piccoli balilla. Se Vittorio fosse stato ancora vivo sono certa che, vedendomi in Una giornata particolare, sarebbe stato fiero di me. Del resto, non avrei mai potuto essere Antonietta senza prima essere stata Cesira, Adelina, Filumena.
Era il 1977 quando Ettore Scola, un grande regista, rigoroso, coerente, idealista, presentò a Carlo il soggetto. La storia sembrava scritta apposta per me e Marcello. Una storia delicata e profondamente umana, che ancora una volta parlava della nostra vita, parlava di noi.
La “giornata particolare” è il 6 maggio 1938, in cui una Roma travestita da capitale dell’impero accoglie il Führer con una grande parata carnevalesca. Tutta la città scende per strada. Tutta, o quasi. C’è qualcuno che preferisce non uscire, nel caseggiato di viale XXI Aprile, un grande edificio popolare che trasuda conformismo e normalità. Lì, tra le pieghe del regime, restano impigliati Gabriele, annunciatore radiofonico appena licenziato per le sue idee antifasciste e la sua omosessualità, destinato al confino, e Antonietta, una casalinga stanca, madre e moglie fascista, consumata da una solitudine di cui neanche si rende conto.
Basta poco per incontrarsi, basta seguire un merlo indiano scappato dal balcone, basta osare più in alto, sulla terrazza, tra le lenzuola che asciugano al sole, per illuminare un cielo sbiadito di nuovi colori. È, il loro, un incontro intenso e trattenuto, che lascia intravedere dietro le occhiaie, i fianchi pesanti, i passi di rumba solo accennati, i chicchi di caffè sparpagliati per terra, il desiderio di provare altre emozioni, di uscire dagli stereotipi, di cambiare anche solo di un soffio la propria vita. Magari con un ricciolo sbarazzino, approntato davanti allo specchio all’ultimo minuto.
Mentre Gabriele e Antonietta si sfiorano, confessando i propri limiti e le proprie impotenze, la radio, il terzo protagonista del film, manda in diretta la cronaca martellante della parata e la portinaia veglia rabbiosa perché tutto resti uguale a com’è. Eppure anche lei, custode meschina del grande palazzo, si accorge che questo timido incontro, come ogni incontro, porta con sé una dose di verità che è per forza di cose trasgressiva.
Se l’unico hobby di Antonietta è quello di attaccare su un album le foto del Duce, Gabriele le confessa di non corrispondere a nessuno dei modelli fascisti in cui lei crede di credere. Con la sua dolcezza imprendibile, le sussurra di non essere né soldato, né marito, né padre. È solamente un uomo, di cui questa donna invecchiata e avvilita si innamora.
Carlo fece fatica a trovare i finanziatori, ma alla fine li recuperò in Canada, e potemmo cominciare a girare. Certo, era una scommessa calare due attori come noi, simboli di bellezza e gioventù, in personaggi volutamente emarginati e sottotono. Scola era molto amico di Marcello, e su di lui non aveva dubbi. Su di me invece sì. Temeva che la mia fisicità esuberante non riuscisse a entrare nel ruolo di una donna struccata e smunta, con la sua vestaglietta di cotonina.
Avvertii subito questa sua diffidenza iniziale e i primi giorni di riprese non furono facili. Sentivo che il personaggio mi apparteneva ma avevo comunque bisogno della sua fiducia per trovare la chiave d’accesso.
Dopo qualche giorno, Carlo, a mia insaputa, chiamò Ettore.
«Scola, ciao, sono Ponti. Che succede? Hai fatto piangere Sophia…»
«Io?» disse lui. «E perché?»
«Forse si sente a disagio, forse quei panni…»
Scola non arretrò di un centimetro.
«Sophia è una grande attrice: è lei che deve entrare in questi panni, non i panni che vanno cambiati.»
Carlo dovette riconoscersi d’accordo. Era stato lui per primo a vedermi dietro la vestaglia di Antonietta, e non era un uomo che cercava compromessi là dove non servivano. Credeva nella storia, credeva nel regista, credeva in me. Questo gli bastava.
Forse quella telefonata servì comunque a darci un po’ di fiato, a far capire a tutti che il processo di immedesimazione di un attore nel suo personaggio è delicato, e ha bisogno di pazienza.
Passò ancora qualche giorno e mi innamorai definitivamente di quella donna così normale, e così particolare. La mia gratitudine a Ettore rimarrà in eterno. Il film fu un trionfo, si portò dietro una valanga di premi, conquistò il pubblico e la critica, e un posto molto speciale nel mio cuore.
Fu durante le riprese di Una giornata particolare che Riccardo Scicolone morì.
Una mattina, mia sorella mi telefonò sul set, in lacrime: «Sofi’, vieni subito, papà sta male».
Corsi all’ospedale e intorno al suo letto trovai le donne della sua vita. Mammina, Maria, la sua ultima compagna tedesca. Mi avvicinai e gli strinsi la mano. Lui mi fissava. E io sostenevo il suo sguardo, come paralizzata. Gli sorrisi, poi mi allontanai verso la finestra dove c’era Maria che piangeva. Guardai fuori. Visti dall’alto, macchine, passanti, biciclette sembravano nient’altro che giocattoli. Cercai di piangere anch’io ma non ne fui capace.
* «Al mio adorato “Cipi”, questo è zio Richard quando era un po’ più giovane e tu e Edoardo non eravate neppure nati! Che cosa incredibile! Richard.»