Giugno 2015. Misurarsi con i problemi teorici associati al mondo della Rete significa addentrarsi su un terreno scivoloso, dove la cassetta degli attrezzi dell’autore rischia di essere messa a dura prova, e dove capita di andare incontro a défaillance, come è successo a Benedetto Vecchi in un recente saggio44. Vecchi non affronta di petto il tema annunciato nel titolo del libro, La Rete dall’utopia al mercato, ma si sforza di farlo emergere gradualmente, costruendo un mosaico fatto di decine di tessere, ognuna delle quali prende in esame le idee di uno dei tanti autori che si sono occupati di Internet dagli anni Novanta a oggi. Evitando di seguirlo in questo percorso, mi concentrerò sui nodi fondamentali del libro e, onde agevolare il compito al lettore, anticipo il punto di vista su cui si basa la mia analisi critica: le tesi postoperaiste – campo teorico nel quale si inscrive il contributo di Vecchi – scontano, fra gli altri, tre limiti associati ad altrettanti “lutti”.
Il primo lutto nasce dal tramonto delle speranze – liquidate dall’uso capitalistico dell’innovazione digitale – che l’utopia hacker aveva suscitato fra la fine degli anni Novanta e i primi anni del Duemila. Anche se il distacco di Vecchi da ciò che avrebbe potuto essere e non è stato (perché l’utopia si è fatta mercato) non è definitivo, per cui il retrogusto di quella speranza, ancorché oramai puramente immaginaria, continua ad aleggiare fra le righe, tanto da smentire il titolo del libro. Il secondo lutto riguarda un evento più lontano nel tempo, ma che, in barba alle smentite della storia, viene percepito ancora come attuale, tanto da sovradeterminare ogni passaggio del discorso. Mi riferisco al fatto che i postoperaisti restano abbarbicati al dogma secondo cui il lavoro vivo, lungi dall’essere strumento passivo dell’accumulazione capitalistica, ne determina costantemente la direzione di sviluppo. Di qui il disorientamento per il venir meno di una figura centrale dell’antagonismo di classe come l’operaio massa, e il tentativo di riesumarne la funzione raggruppando le proliferanti identità delle nuove classi subordinate sotto l’evanescente categoria di moltitudine. Infine il terzo lutto traspare dal disperato tentativo di tenere in vita la tesi formulata da Marx nei Grundrisse, secondo cui la contraddizione fra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione raggiungerà inevitabilmente il punto di rottura allorché la potenza del general intellect diverrà tale da svelare la miseria della legge del valore – momento che i nostri ritengono oggi raggiunto grazie all’avvento della “economia della conoscenza”. Discuterò i tre nodi in questione nell’ordine appena esposto.
A tratti Vecchi sembra ammettere che la transizione dall’utopia al mercato è un processo compiuto e irreversibile. Ciò avviene, per esempio, laddove afferma che, dietro a un cybercapitalismo che si basa sulle nuove tipologie di “lavoro libero”, si annida la realtà d’un modo di produzione in cui l’unica libertà concessa resta quella di vendere la propria forza lavoro. Oppure laddove evoca il “patto luciferino” che lega imprese e professional, accomunati dall’obiettivo di garantire con ogni mezzo l’aumento del valore delle azioni. O infine laddove, nel contesto di un’analisi del mondo Apple, parla di convivenza fra un lavoro servile e militarizzato e i knowledge workers (senza accennare però al conflitto di interessi fra questi due diversi strati di classe).
Malgrado queste prese d’atto Vecchi non riesce tuttavia a dare per chiusa la partita. Al contrario: è evidente quanto per lui restino potenti le seduzioni delle sirene anarcocapitaliste di Yochai Benkler45 e le utopie di democrazia diretta e partecipativa di Manuel Castells46. Così, quando si misura con il discorso di Benkler, non resta insensibile all’idea che la conoscenza sia divenuta il principale mezzo di produzione e che ciò comporti automaticamente la messa in discussione della sua appropriazione privata. Se Benkler vaneggia di transizione a un “capitalismo senza proprietà”, fondato sulla cooperazione/competizione fra piccoli produttori indipendenti, disponibili a condividere conoscenze sulla base di un’inedita “economia del dono”, Vecchi, pur non sposandone pienamente le tesi, condivide con lui l’opinione secondo cui le strategie di enclosure dei beni immateriali messe in atto dal capitalismo digitale «non riescono a bloccare la condivisione del sapere in quanto tratto distintivo di Internet». Inoltre si sforza di “nobilitare” il pensiero di Benkler traducendolo nel lessico marxiano, parlando per esempio di “intrinseca eccedenza” dei saperi rispetto ai rapporti di produzione.
Questi equilibrismi teorici si fondano sulla tesi secondo cui esisterebbe una “assoluta ambivalenza” consustanziale alla cultura hacker. Tesi che viene chiamata in causa laddove Vecchi, dialogando con Castells, sostiene l’idea che lo spazio virtuale delle relazioni sociali mediate dalla Rete è il contesto in cui «prendono forma nuove procedure per la decisione politica al di fuori del monopolio dello Stato». Eppure Vecchi non ignora le analisi critiche di Evgenij Morozov47 e altri in merito alla presunta vocazione democratica della Rete; ma ciò non gli impedisce di sostenere che, pur essendosi convertita in una tecnologia di controllo sociale, Internet resta un ambiente sociale in cui è ancora possibile immaginare tanto una politica di riappropriazione della ricchezza quanto un modello alternativo di organizzazione politica. Immaginare è lecito, ma l’immaginazione si scontra qui con il fatto che gli algoritmi che governano lo spazio virtuale non sono strumenti neutri, dei quali basterebbe riappropriarsi per rovesciarne senso e funzione48.
Passiamo al secondo nodo. L’idea che la direzione di sviluppo dell’accumulazione capitalista sia interamente determinata dalle lotte operaie, è il dogma fondativo dell’operaismo, per cui è comprensibile che risulti difficile prendere atto della disfatta del lavoro vivo nei decenni successivi al ciclo di lotte conclusosi con gli anni Settanta del secolo scorso. Infatti, pur di non riconoscere che l’inversione del rapporto di forze fra lavoro vivo e capitale è stato il frutto, storicamente determinato e contingente, del modello produttivo fordista, ci si arrampica sugli specchi per indicare, di volta in volta, nuove figure in grado di incarnare la tendenza: operaio sociale, lavoratori della conoscenza, lavoro autonomo di seconda generazione sono stati nell’ordine convocati per recitare la parte del nuovo soggetto in grado di esercitare pratiche di “autovalorizzazione”.
Di fronte al polimorfismo della nuova forza lavoro globale, invece di analizzarne la composizione e di stabilire una gerarchia (sempre provvisoria) fra i diversi strati in base al tasso di conflittualità che ognuno di essi esprime, si preferisce ricorrere alla categoria passepartout di moltitudine. Un concetto privo di ogni concreta determinazione sociale e politica, in cui si tenta di insufflare vita attribuendole un’inesistente identità produttiva. Ciò emerge in modo evidente non appena si tenta di affrontare il nodo della produzione in Rete, e infatti Vecchi – consapevole dell’impossibilità di attribuire un ruolo di “avanguardia” alle docili schiere dei knowledge workers impiegati nel ciclo hi-tech – se la cava estendendo impropriamente il concetto di lavoro cognitivo, per cui la totalità delle relazioni sociali mediate dalla Rete diventa «cooperazione sociale produttiva di saperi sans phrases». Ma il concetto di produttività sociale diffusa è stato formulato da Marx secoli prima della rivoluzione digitale, senza che lo stesso Marx si sia sognato di riconoscervi il fondamento di un processo di soggettivazione antagonista.
Veniamo infine al terzo nodo. Come ho sostenuto in scritti precedenti49, sono convinto che, se c’è una categoria marxiana che merita di finire in soffitta, è proprio quella della presunta contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione. Residuo di una visione hegeliana della storia, e di una fiducia positivista nel ruolo progressivo della scienza e della tecnica, tale visione dovrebbe apparire superata a chiunque nutra una sia pur minima consapevolezza del fatto che le innovazioni scientifiche e tecnologiche, non solo non sfuggono alla sovradeterminazione da parte del dominio capitalistico sulle classi subordinate, ma lo incarnano in modo diretto ed esplicito. Nemmeno Lenin e Gramsci lo avevano capito, affascinati com’erano dall’organizzazione “scientifica” del lavoro, al punto da vedere nel taylorismo uno strumento di cui il proletariato avrebbe dovuto impadronirsi per volgerlo ai propri fini. Ancor meno lo capisce Vecchi, il quale partendo dal pregiudizio che l’innovazione – nella misura in cui oggi è il frutto d’un processo collettivo e sociale – sia di per sé positiva, sostiene che nemmeno l’impegno che Stati e imprese profondono nello sforzo di frenarla riuscirà a impedirle di esprimere il suo potenziale emancipatorio. Dal che discende che «la mossa migliore è sempre quella di stare dentro e contro il regime di accumulazione capitalistico». Detto altrimenti: l’ambivalenza dell’attuale modo di produrre genera continuamente le condizioni del suo superamento. Non saprei definire questa visione se non come un miscuglio di determinismo economico e ottimismo da nerd.
Dicembre 2016. Ho resistito all’impulso di commentare a botta calda l’esito del referendum del 4 dicembre scorso. Mi sono trattenuto dal manifestare tutta la mia gioia per la disfatta di un progetto di “riforma” la cui valenza reazionaria ha pochi precedenti nella storia italiana del secondo dopoguerra perché ritenevo che l’evento meritasse ragionamenti più approfonditi del cicaleccio mediatico con cui è stato celebrato. Provo ora ad abbozzare una riflessione a mente fredda.
Il primo aspetto di cui va preso atto è il clamoroso fallimento della casta dei comunicatori (giornalisti, sondaggisti, spin doctor) chiamati ad alimentare e sostenere la campagna elettorale renziana: come già avevano dimostrato Brexit ed elezioni presidenziali Usa, la loro capacità di manipolare l’opinione pubblica si è ridotta quasi a zero, malgrado il ricorso all’arma di dissuasione di massa del terrorismo economico (se votate in un certo modo farete la vostra rovina). Eppure, mentre i cittadini si sono dimostrati impermeabili a lusinghe e minacce, lo stesso non si può dire per i militanti impegnati nella campagna per il No, molti dei quali hanno fino all’ultimo momento temuto di perdere, a testimonianza del fatto che anche le componenti politiche più sane di questo Paese faticano a interpretare gli umori della propria base sociale.
Un secondo aspetto che balza agli occhi è, assieme alla partecipazione di massa al voto, la sua composizione sociale, generazionale e regionale. Hanno votato sì i vecchi e i benestanti che vivono nei centri storici (soprattutto al Nord), hanno votato no i giovani (oltre l’80%), le periferie, le regioni meridionali (in blocco), proletari, precari, classi medie impoverite. In barba alle elemosine e alle promesse renziane, in barba alla retorica sulle startup e sui giovani delle professioni emergenti, in barba ai tentativi di scatenare la guerra fra giovani e vecchi, fra garantiti e precari, fra uomini e donne, in barba al tentativo di valorizzare le riforme sui diritti civili per far dimenticare l’attacco a diritti sociali, welfare, salari e occupazione, in barba alla retorica nuovista e al tentativo di bollare come conservatori coloro che si battevano per difendere dall’attacco del capitale globale la nostra Costituzione (che genera irritazione nei vertici dei colossi della finanza come JP Morgan perché ha il difetto di contenere “elementi di socialismo”).
Come dicevo poco sopra siamo rimasti tutti piacevolmente sorpresi del risultato. Ma perché stupirsi? Non c’erano forse anche da noi condizioni simili a quelle che negli Stati Uniti hanno indotto le masse dei perdenti al gioco della globalizzazione a votare per Sanders alle primarie e poi per Trump alle presidenziali, o che in Inghilterra hanno indotto le periferie delle metropoli deindustrializzate a votare Brexit? Avremmo dovuto intuire che si sarebbe vinto. Ciò detto ora è il momento di capire meglio perché non poteva andare altrimenti, e di ragionare sulle sfide che questa vittoria ci consegna. Provo a farlo prendendo spunto dalle polemiche che il mio ultimo libro50 ha scatenato a sinistra, concentrandomi su tre temi: 1) crisi del processo di globalizzazione; 2) populismo e sovranità popolare come terreno dello scontro di classe; 3) ridefinizione del soggetto della lotta anticapitalista.
Una delle tesi che ha suscitato più scandalo è quella secondo cui la sovranità popolare e nazionale tornano a essere terreno strategico dello scontro fra capitale e classi subordinate. A parte le accuse di “rossobrunismo” rivoltemi da alcuni imbecilli (studiassero la storia: il rossobrunismo è un episodio della storia tedesca fra le due guerre che presenta caratteristiche del tutto contingenti e peculiari, irripetibile nelle attuali condizioni), l’obiezione più ricorrente è stata quella secondo cui la sovranità, intesa come possibilità di un popolo di decidere del proprio destino, è oggi resa impossibile dalle “leggi” del mercato globale. Si tratta di un argomento condiviso da una schiera di intellettuali che va dalla destra ordoliberista alle sinistre radicali – schieramento che, per quanto caratterizzato da profonde differenze ideologiche, appare unanimemente schierato in difesa dell’Europa contro le insorgenze populiste, liquidate in blocco come nazionalismi di destra.
Si tratta di una visione “economicista” che, pur richiamandosi al marxismo, poco ha a che fare con Marx, il quale analizza il capitalismo come prodotto dei rapporti di forza fra classi sociali e non di presunte “leggi” economiche. È una visione che interpreta la globalizzazione come un processo oggettivo e lineare, rispetto al quale non riesce a concepire controtendenze. Controtendenze che, viceversa, appaiono oggi evidenti agli occhi delle élite dominanti: vedi l’intervista rilasciata da Francis Fukuyama al «Corriere della Sera», nella quale si associa il declino dell’egemonia americana a una disintegrazione dell’ordine postbellico che minaccerebbe la stessa sopravvivenza della democrazia liberale; vedi anche un articolo dell’«Economist» in cui, da un lato, si ammette che il processo di globalizzazione è la causa fondamentale degli intollerabili livelli di disuguaglianza che hanno favorito la Brexit e il trionfo di Trump, dall’altro, si afferma che la risposta al trumpismo dev’essere cercata sul piano politico e non su quello economico.
Fra le élite dominanti si va insomma diffondendo la consapevolezza che il mondo sta attraversando una crisi analoga a quella che segnò la fine della prima grande globalizzazione all’inizio del Novecento. Una crisi tutta politica, nel senso che, dopo quarant’anni di guerra di classe dall’alto, la disuguaglianza ha raggiunto livelli tali da minare seriamente la capacità del sistema liberal-democratico di ottenere consenso. In altre parole, il capitale incontra crescenti difficoltà a fronteggiare la caduta del saggio di profitto – che lo perseguita dagli anni Settanta del secolo scorso – continuando a usare gli strumenti dei quali si è finora servito, cioè attraverso la distruzione sistematica di welfare, salari, diritti sociali, sindacati ecc. E ciò avviene nel momento in cui il sistema imperiale fondato sull’egemonia americana vacilla, mentre altre potenze (Cina su tutte) le contendono il primato, acuendo i conflitti interimperialistici. Come un secolo fa si aprono tre strade: 1) protezionismo/lotta per la spartizione delle aree coloniali (oggi neocoloniali)/fascistizzazione/guerra; 2) tentativo di “incivilire” la globalizzazione attraverso una serie di accordi fra potenze e qualche concessione alle classi subordinate; 3) intensificazione della lotta di classe e apertura di scenari di transizione a società postcapitaliste.
Lottare per riconquistare sovranità popolare e nazionale significa arrendersi al primo scenario, o è piuttosto un passaggio obbligato per accelerare l’avvento del terzo? Le sinistre hanno accantonato ogni riflessione sulla questione nazionale a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, quando sembrava che le lotte di liberazione dei popoli del Terzo mondo fossero giunte a compimento, né sono tornate a occuparsene quando nuove forme di dominio coloniale e semicoloniale sono venute emergendo. I “classici” – tanto Marx quanto Lenin – hanno sempre affrontato la questione in modo pragmatico, mettendola cioè in relazione ai concreti contesti storici, culturali e sociali. Né Marx né Lenin sono stati assertori di una concezione astratta dell’internazionalismo, avendo costantemente cura di distinguere fra cosmopolitismo borghese e internazionalismo proletario: il primo teso all’abbattimento dei confini per promuovere l’internazionalizzazione della produzione e degli scambi commerciali e finanziari, il secondo concepito come costruzione di solidarietà fra lotte nazionali, perché la lotta di classe può svilupparsi solo a tale livello. Chi oggi rinnega quest’ultimo punto ignora il fatto che la lotta di classe è anche conflitto fra luoghi (territori) e flussi (di capitale, merci, informazioni, élite) che colonizzano e sfruttano i luoghi, per cui finisce per dare per scontata una (inesistente) convergenza di interessi fra mobilità dei capitali e mobilità della forza lavoro.
Posto che solo gli imbecilli parlano ormai del neoliberismo come fine dello Stato, visto che a tutti è evidente come lo Stato abbia svolto e svolga un ruolo determinante nella costruzione – anche qui tutta politica – del sistema ordoliberista, la questione riguarda piuttosto il divorzio fra i due termini del binomio Stato-nazione: ad andare in pensione non è lo Stato, che deve promuovere e garantire il funzionamento del mercato e indottrinare la popolazione con la narrazione dell’individuo imprenditore di se stesso, oltre a smantellare tutti gli strumenti di autodifesa delle classi subordinate, bensì la nazione in quanto ambito giuridico, economico e politico in cui è possibile far valere i diritti collettivi di un popolo. Ecco perché il superamento dello Stato-nazione è un regresso storico, e non un progresso, come sostengono (quasi) tutte le sinistre che regalano stupidamente alle destre il monopolio della lotta per la riconquista della sovranità. È vero che questa lotta rischia di mettere sullo stesso piano populismi di destra e di sinistra, ma le concezioni di sovranità degli uni e degli altri sono radicalmente diverse: da un lato, un immaginario etnico improntato alla endiadi sangue e suolo, dall’altro una visione della sovranità nazionale e popolare come mezzo di inclusione, di reintegrazione nello Stato di una cittadinanza che se ne sente sempre più esclusa a mano a mano che vengono indebolite o spazzate via le istituzioni di partecipazione e rappresentanza politiche. Una sovranità concepita come arma di lotta del popolo contro le oligarchie, dei molti contro i pochi, dei poveri contro i ricchi. Il che ci porta al tema del soggetto della lotta e della forma politica che essa assume.
Gli attacchi più duri al mio discorso sul populismo come forma attuale della lotta di classe sono arrivati dagli intellettuali postoperaisti. A Franco Bifo Berardi occorre riconoscere il merito di avere sintetizzato le loro posizioni in un recente articolo sulla rivista online «Alfabeta2». Anche lui coglie analogie con la situazione di un secolo fa (cioè con la fine della prima globalizzazione), ma dà per scontato l’esito catastrofico che poco sopra ho definito come il primo scenario, cioè la fascistizzazione. Questo perché, sostiene, i tentativi democratici di sottrarsi alla governance neoliberale sono falliti, per cui il corpo sociale, non essendo in grado di opporsi all’astrazione finanziaria, reagisce tentando di recuperare delle identità “antiglobali”. Si tratta, come si vede, d’un punto di vista che ipostatizza la potenza dell’astrazione finanziaria, una visione ultra economicista che traspare anche dalla convinzione che la rivoluzione digitale e il capitalismo “immateriale” (ciò che Bifo chiama “Silicon Valley globale”) rappresentino l’unico possibile terreno di un’inversione di tendenza.
Insomma la missione di sbarrare la strada alla fascistizzazione viene affidata alla classe cognitiva, in quanto è lei che programma la macchina globale e le permette di evolversi e di funzionare, per cui solo lei è in grado di mettere in moto un processo di trasformazione reale. La lotta per riconquistare la sovranità è inutile e insensata perché il vero problema è smantellare e riprogrammare l’algoritmo tecnolinguistico che sta al cuore della macchina sociale. In conclusione: «dobbiamo ragionare sul programma come alternativa algoritmica all’algoritmo dominante». I postoperaisti hanno mandato in soffitta molti dogmi marxisti ma, come dimostrano queste farneticazioni, hanno conservato quelli più vetusti e meno difendibili: 1) l’idea secondo cui la rivoluzione è possibile solo se e quando le forze produttive siano sufficientemente sviluppate; 2) l’idea che la coscienza antagonista si concentra negli strati sociali vicini al punto più alto dello sviluppo capitalistico; 3) l’idea che la scienza e la tecnica siano “neutrali”, incorporino cioè una potenza di emancipazione di cui è possibile appropriarsi con facilità. È una visione immanentista che presume che le energie della trasformazione siano tutte interne al rapporto di capitale – una visione che induce chi la adotta a perdersi in estatica contemplazione del culo del capitale scambiandolo per il radioso sol dell’avvenire.
Ancora peggio: è una visione aristocratica che identifica nelle tecnoélite l’unico soggetto in grado di evitare il disastro della fascistizzazione e che, al tempo stesso, nutre un profondo disprezzo, se non odio, nei confronti delle classi inferiori: gli operai impoveriti che vanno dietro a Trump come i topi dietro al pifferaio magico, sono pronti a iscriversi a un “nazional operaismo” emulo del nazional socialismo (ci risiamo con il rossobrunismo). Bifo arriva a parlare di «trumpismo alimentato dalla rabbia impotente del popolo demente». A meno che il suo non sia un lapsus, gli segnalo che questa battuta lo iscrive a quell’ignobile club di cui fanno parte i Sarkozy (ricordate la sua battuta sulla racaille delle banlieue?), gli Hollande (con il suo disprezzo per gli “sdentati”), le Hillary Clinton e i Renzi prodighi di insulti per la “feccia” populista. Per tutti costoro il popolo è demente se e quando non adotta modelli di comportamento che ne confermino le analisi e ne compiacciano i desideri. Un atteggiamento che giustifica quanto ha scritto il mio amico Gigi Roggero sul suo profilo Facebook: «Non eravate voi quelli che non si fa politica con i No ma solo con i desideri, che la rabbia è una passione triste, che il quinto Stato trionferà (…) che tutta la composizione di classe al di fuori dai vostri salotti è plebaglia reazionaria?».
Veniamo ora al nodo del soggetto e delle nuove forme politiche della lotta di classe. Per evitare di annoiare me stesso, oltre che i lettori, ripetendo quanto già scritto altrove, riprenderò qui di seguito alcuni passaggi di un intervento di Mimmo Porcaro sul suo blog51 dove ha postato quello che considero il commento più approfondito che mi sia capitato di leggere sul mio libro:
A parere di Formenti, (il soggetto) non può essere dedotto da categorie sociologiche, non può essere desunto dalle dinamiche generali del capitale, può essere individuato solo in seguito a un’analisi concreta della situazione concreta, condotta in ciascuna specifica congiuntura della lotta di classe. Non si può quindi prevedere quale sia il soggetto (o, meglio, la convergenza di diversi soggetti) che di volta in volta diviene protagonista dei conflitti: la rivolta e le sue forme sono per definizione imprevedibili proprio perché fuoriescono dalla routine della riproduzione del capitalismo.
Porcaro sottolinea poi come la mia attenzione si rivolga verso gli strati bassi della società, verso le resistenze alla modernizzazione piuttosto che verso il vertice della modernizzazione stessa; verso la periferia, il “fuori” dal capitalismo, una periferia che non si identifica con i rapporti sociali precapitalistici, ma «può essere il prodotto del movimento incessante della modernizzazione che sempre distrugge o rende periferiche le forme di vita precedenti (anche quelle già capitalistiche ma non più confacenti alle aumentate esigenze dell’accumulazione)». Aggiungo che questa mia attenzione verso il “basso” non è dovuta al fatto che lo ritenga la sede “naturale” dell’antagonismo, ma perché oggi è su questo terreno che nasce la rivolta. Il populismo è di per sé in grado di raccogliere questa sfida per indirizzarla verso esiti progressivi? I lettori onesti sanno che non ho mai affermato qualcosa del genere. Semplicemente per me, come chiarisce ancora Porcaro:
il populismo non è un nemico da esorcizzare ma è piuttosto la forma storicamente determinata della lotta di classe, è un campo nel quale bisogna situarsi senza timore, per meglio condurre una battaglia per l’egemonia finalizzata a trasformare il populismo stesso in una direzione coerentemente anticapitalista e socialista, sconfiggendone le inevitabili e ben radicate tendenze di destra (…) se la compattezza sociologica della classe è stata programmaticamente dissolta, se l’efficacia politica della sua lotta è stata consapevolmente ostacolata, se i grandi partiti di massa sono stati visti come la ragione di ogni male e se gli spazi di espressione democratica si sono drasticamente chiusi a svantaggio dei lavoratori, è assolutamente inevitabile che la stessa lotta di classe si presenti come populista.
Come collegare quanto fin qui argomentato alla situazione del dopo referendum? Chiarisco subito che, secondo me, anche se la sconfitta segna una battuta di arresto per le élite neoliberiste, non le indurrà in alcun modo a rinunciare al progetto di de-democratizzare il Paese. Infatti, se vogliono sopravvivere, impedendo che si realizzino il primo o il terzo scenario (la fascistizzazione o il ritorno dello spettro socialista), devono insistere in tale progetto. Il loro obiettivo era, è e resterà quello della governabilità, cioè del dominio di una minoranza sulla maggioranza. È possibile che la paura di ulteriori perdite di consenso li induca a più miti consigli in materia di austerità, attacco al welfare, smantellamento dei diritti sociali ecc. (lo scenario due, ovvero la globalizzazione “dal volto umano”), ma ciò non intacca la necessità di esorcizzare la minaccia populista.
Qual è in questa situazione il compito delle forze che si sono impegnate nella campagna per il No da una prospettiva coerentemente anticapitalista? Occorre costruire un fronte politico e sociale in grado di saldare le lotte contro le controriforme degli ultimi trent’anni alla battaglia per l’uscita dell’Italia dalla Ue; occorre integrare il conflitto di classe con quelli innescati dalle nuove forme di esclusione che colpiscono larghi strati di classe media, lavorando alla costruzione di un sindacalismo sociale che restituisca rappresentanza alle classi subordinate, abbandonate dai sindacati confederali. Sul medio lungo periodo, l’obiettivo è invece saldare in un blocco unitario – cui occorrerà garantire un’adeguata direzione politica – l’opposizione ai tre volti (regime politico, controriforma sociale, vincolo europeo) di quello che è un unico avversario integrato nelle istituzioni del capitalismo globale.
Febbraio 2017. Correva l’anno 1981 quando il «Manifesto» recensì il mio primo libro52. Era una stroncatura che non ne impedì il successo e, alla lunga, risultò più imbarazzante per il quotidiano che per l’autore. Quel breve saggio, uscito nella collana “Opuscoli marxisti” di Feltrinelli, analizzava gli effetti delle tecnologie informatiche sull’organizzazione capitalistica del lavoro e prevedeva – cogliendo con notevole anticipo alcune tendenze di fondo – che la nuova rivoluzione industriale avrebbe drasticamente ridotto il peso delle tute blu nei Paesi occidentali favorendo i processi di terziarizzazione del lavoro, e avrebbe consentito un massiccio decentramento della produzione industriale nei Paesi del Terzo mondo. Il recensore (di cui non ricordo nemmeno il nome) liquidò queste tesi come una ridicola profezia sulla fine della classe operaia. Sappiamo com’è andata a finire…
Si trattò di un incidente di percorso irrilevante rispetto al ruolo che «il manifesto» svolgeva a quei tempi, quando ancora ospitava un confronto alto fra le migliori intelligenze della sinistra italiana (e non solo). Oggi la sua capacità di assolvere questo compito si è esaurita, eppure una caduta di livello come quella della recensione che Marco Bascetta ha dedicato al mio ultimo lavoro53 fa lo stesso un certo effetto.
Più che di una recensione, si tratta di una tirata ideologica contro i populismi che esprime il punto di vista d’una sinistra “globalista” allineata di fatto con i liberisti. Ma torniamo al libro: anche in questo caso l’intenzione è stroncatoria, ma la disarmante superficialità con cui ne vengono criticate le tesi stride con lo spazio dedicato all’impresa: una pagina intera per liquidare un saggio che viene definito confuso, contraddittorio e pretenziosamente ambizioso!? Non sarebbe bastato un colonnino o, meglio ancora, non era semplicemente il caso di ignorarlo? Evidentemente, c’è chi giudica le mie idee pericolose al punto da giustificare tanto impegno. Purtroppo il killer non si è dimostrato all’altezza del compito, limitandosi a stiracchiare quattro ideuzze che avrebbero potuto stare comodamente in venti righe. Mi sono chiesto se valesse la pena di spendere energie per replicare. Alla fine ho deciso di farlo, perché ritengo che le ideuzze di cui sopra rispecchino una visione che merita di essere contrastata.
Prima ideuzza: Formenti è cattivo, insiste nell’adottare quello stile corrosivo della polemica politica tipico di una certa sinistra, ma questa modalità reattiva (tornerò fra poco sul senso di questo aggettivo) “col passare del tempo” (stiamo parlando di mode letterarie?) ha finito per “prendere di aceto”. Analoga accusa mi era stata rivolta tre anni fa da Bifo, a proposito di un precedente lavoro54: Formenti è antipatico, perché fa le pulci a tutti. È una critica che rispecchia la mentalità di quei seguaci della “svolta linguistica” nelle scienze sociali che rifiutano a priori la possibilità di sostenere la “verità” di un punto di vista di parte. Per costoro il conflitto non è mai ontologico, oppone solo opinioni soggettive, “narrazioni” che non competono per l’egemonia ma per “in-formare” il mondo (una concezione “debole” dell’egemonia gramsciana, tipica dei cultural studies).
Seconda ideuzza: a questa modalità reattiva del discorso, corrisponde una pratica politica fondata sul rancore e sul risentimento che «sono il contrario esatto di ogni attitudine costituente». Purtroppo Bascetta non ci illumina in merito a quale dovrebbe essere un’“attitudine costituente”, in compenso ci fa capire: 1) che l’odio di classe e il rancore per i torti subiti sono incompatibili con un progetto di trasformazione sociale; 2) che chi crede di poter indicare i colpevoli dei torti in questione è destinato a finire nelle braccia dei demagoghi fascisti. Questo doppio passaggio è significativo in quanto, sul piano filosofico, implica l’abbandono della prospettiva marxista in favore di quella nietzscheana (da qui le pippe contro il risentimento e la natura reattiva dell’odio sociale), sul piano politico, implica la negazione dell’esistenza stessa di un nemico di classe.
Ma perché, secondo Bascetta, la visione antagonista del conflitto porta acqua al mulino dei fascisti? Perché – terza ideuzza – chi ne è sedotto è portato ad affidare il proprio riscatto alla figura di un redentore, a un capo carismatico. Ergo, il populismo è un incubatore del fascismo. Nei giorni precedenti «il manifesto» aveva pubblicato un interessante dossier su Podemos, seguito da un bell’articolo di Loris Caruso sul congresso di Vistalegre; invece Bascetta non fa sostanziali distinzioni fra populismi di destra e di sinistra, al punto che, anche se ciò non viene esplicitamente detto, il lettore potrebbe dedurne che Trump e Sanders, Marine Le Pen e Podemos, Alba Dorata e M5S vanno messi tutti sullo stesso piano. Non a caso, Bascetta tace, sia sulla mia analisi delle teorie sul populismo di Laclau e Mouffe (che io reinterpreto alla luce delle categorie gramsciane), sia su quella che dedico alle rivoluzioni bolivariane, a Podemos e alla campagna presidenziale di Sanders.
Per farla breve: i rancorosi e gli odiatori, quelli che oppongono alto e basso, popolo ed élite, che cercano a tutti costi un nemico, che vogliono ricostruire comunità riunificando le membra di un corpo sociale fatto a pezzi dalla ristrutturazione tecnologica e dalla finanziarizzazione, invece di compiacersi delle libertà e dei diritti che la realtà attuale regala a un’esigua minoranza di “cognitari” e ai suoi intellettuali organici, non sono altro che una massa indifferenziata di bruti, un popolo bue (“demente” lo ha definito Bifo, riferendosi agli operai e alla classe media impoverita che hanno votato Trump in America e Brexit in Inghilterra) pronto a militare sotto le insegne del “nazional operaismo” (ancora Bifo dixit). È però arrivato il momento di prendere congedo dalle ideuzze di Bascetta e di avviare un ragionamento più ampio sulle responsabilità politiche delle “sinistre fighette” che odiano le masse plebee che si fanno egemonizzare dai populisti. A tale scopo, seguirò la linea tracciata da Nancy Fraser in alcuni suoi interventi sul tema55.
Anche se differiscono per ideologia e obiettivi, sostiene la Fraser riferendosi alle elezioni presidenziali americane e alla Brexit, «questi ammutinamenti elettorali condividono un bersaglio comune: sono tutti dei rifiuti della globalizzazione delle multinazionali, del neoliberismo e delle istituzioni politiche che li hanno promossi». Ma la vittoria di Trump, aggiunge, «non è solo una rivolta contro la finanza globale. Ciò che i suoi elettori hanno respinto non era il neoliberismo tout court, ma il neoliberismo progressista». Ed ecco la definizione che dà di tale concetto: «Il neoliberismo progressista è un’alleanza tra correnti mainstream dei nuovi movimenti sociali (femminismo, antirazzismo, multiculturalismo, e diritti LGBTQ), da un lato, e settori di business di fascia alta “simbolica” e basati sui servizi (Wall Street, Silicon Valley e Hollywood), dall’altro». Attraverso questa alleanza, scrive ancora facendo eco alle tesi sostenute da Boltanski e Chiapello56, le prime prestano il loro carisma ai secondi: «Ideali come la diversità e la responsabilizzazione, che potrebbero in linea di principio servire scopi diversi, ora danno lustro a politiche che hanno devastato la produzione e quelle che un tempo erano le vite della classe media».
L’assalto alla sicurezza sociale viene così nobilitato attribuendogli un presunto significato emancipatorio e, mentre le classi subordinate sprofondano nella miseria, il mondo brulica di discorsi su diversità, empowerment, non-discriminazione. L’emancipazione viene identificata con l’ascesa di una élite di donne, minoranze e omosessuali di talento nella gerarchia dei vincenti. «Queste interpretazioni liberal-individualiste del “progresso” gradualmente hanno sostituito le interpretazioni dell’emancipazione più espansive, antigerarchiche, egualitarie, sensibili alla classe, anticapitaliste che erano fiorite negli anni Sessanta e Settanta».
Nemmeno dopo che il Partito Democratico ha scippato la candidatura a Sanders, spianando la strada alla vittoria di Trump, questa sinistra ha aperto gli occhi: continua ad alimentare il mito secondo cui costui avrebbe vinto a causa di un “branco di miserabili” (razzisti, misogini, islamofobi e omofobi) aiutati da Vladimir Putin, invece di riconoscere la propria colpa, che è stata quella di «sacrificare la causa della tutela sociale, del benessere materiale, e della dignità della classe lavoratrice a false interpretazioni dell’emancipazione in termini di meritocrazia, diversità e empowerment».
Bascetta e soci sono ben lontani dal recitare un simile mea culpa. Così come restano incapaci di distinguere fra mondializzazione dei mercati (che è caratteristica immanente al capitalismo fin dalle origini) e globalizzazione, che è la narrazione legittimante su cui si fonda l’egemonia ordoliberista, per cui arrivano al punto di paragonare (come fa Bascetta nell’ultima parte del suo pezzo) l’apprezzamento di Sanders nei confronti del ripudio dei trattati di libero commercio da parte di Trump, e l’accettazione della Brexit da parte di Corbyn, al voto a favore dei crediti di guerra dei socialisti della Prima Internazionale (!?). Manca solo che aderiscano al manifesto con cui Zuckerberg si erige a campione dell’opposizione liberal a Trump e del globalismo dal volto umano, o che si mettano a inneggiare a Tony Blair, che minaccia di tornare per strappare la guida del Labour a Corbyn, o che sostengano la campagna promossa da media, caste politiche ed élite finanziarie contro le fake news veicolate dalla Rete infiltrata dai populisti. In attesa che l’ideologia politically correct assurga a neolingua e che chi, come il sottoscritto, sparge l’aceto della polemica venga definitivamente messo a tacere.
Continua…
44 Cfr. B. Vecchi, La Rete dall’utopia al mercato, manifestolibri, Roma 2015.
45 Cfr. Y. Benkler, op. cit.
46 M. Castells, op. cit.
47 E. Morozov, The Net Delusion, PublicAffairs, New York 2011.
48 Sulla critica della presunta neutralità degli algoritmi, cfr. quanto scrivo in La variante populista, cit.
49 Cfr. C. Formenti, Utopie letali, Jaca Book, Milano 2013. Vedi anche C. Formenti, La variante populista, cit.
50 C. Formenti, La variante populista, cit.
51 Consultabile all’indirizzo http://www.socialismo2017.it/
52 Cfr. C. Formenti, La fine del valore d’uso, Feltrinelli, Milano 1980.
53 C. Formenti, La variante populista, cit.
54 C. Formenti, Utopie letali, cit.
55 Cfr. N. Fraser (conversazione con Gloria Goggi), Che cosa significa essere marxisti oggi, «MicroMega», n. 1, 2016. Vedi anche Fortunes of Feminism. From State-Managed Capitalism to Neoliberal Crisis, Verso, London-New York 2016.
56 Cfr. L. Boltanski, E. Chiapello, op. cit.