Che Leopardi sia stato un grande pensatore lo ha detto, anzi scritto, prima di ogni altro studioso o storico della letteratura, niente meno che Nietzsche.
Si leggano le seguenti poche righe.
“Se l’uomo stesso fosse un’opera d’arte, l’artista sarebbe sorto? Non dimostra proprio, la presenza dell’arte, che ogni cosa quaggiù è un fenomeno inestetico, cattivo e serio? Si ponderi dunque, una volta, che cosa dice un vero pensatore: Leopardi! Sarebbe veramente desiderabile che gli uomini non avessero bisogno dell’arte.”1
Nietzsche, insomma, sapeva bene che la poesia di Giacomo Leopardi, così come la sua produzione in prosa, avevano rappresentato uno dei vertici speculativi del Diciannovesimo secolo. Ma il teorico dell’eterno ritorno riconosceva molto lucidamente anche la qualità stilistica della prosa leopardiana; nel proprio secolo riteneva esserci stati solo quattro uomini molto rari e veramente creatori di poesia, che avrebbero raggiunto un magistrale dominio nella prosa; prescindendo da Goethe, sottolinea Nietzsche, “vedo solo Giacomo Leopardi, Prosper Mérimée, Ralph Waldo Emerson e Walter Savage Landor… degni di essere chiamati maestri della prosa”.2 Anzi, per lui Leopardi era stato il più grande stilista del secolo ancora in corso.
Ma… zoomiamo il nostro obiettivo su un’altra parte dell’Europa. Spostiamoci in Italia. Ecco, solo qualche anno prima, nel nostro Paese, un insigne intellettuale come Francesco De Sanctis si mostrava fermamente convinto del fatto che alla filosofia credono solo i ragazzi, e che dunque, “come oggi ridiamo delle puerili spiegazioni che gli antichi filosofi davano del mondo, così rideranno i posteri di tutto questo fracasso che si fa attorno all’idea. La teologia e la filosofia sono destinate a sparire innanzi al progresso delle scienze naturali, com’è sparita l’astrologia, la magia, ecc. Più s’avanza l’osservazione, e più si restringe il cerchio della speculazione. Molte cose appartenevano alla teologia ed alla filosofia, che ora appartengono alla fisica, alla chimica, all’astronomia, alle matematiche. Il sole un giorno era Apollo, e faceva parte della mitologia; poi con Pitagora entrò in filosofia, e diventò musico e ballerino. Un buon telescopio ha posto fine a tutte queste sciocchezze”.3
Sembra di leggere uno dei tanti “scientisti” del nostro tempo, animati da una baldanza a dire il vero alquanto ‘risibile’, soprattutto perché fondata su una sostanziale ignoranza della tradizione filosofica.
Ecco, questo “insigne” intellettuale riteneva poi che, per quanto Leopardi s’incontrasse nei punti sostanziali della sua dottrina con Schopenhauer, il suo pensiero fosse per molti aspetti inferiore a quello del tedesco; perché l’autore dell’Infinito avrebbe esposto la propria dottrina in versi, e, si sa, gli uomini comunemente “non prestano fede ad una dottrina esposta in versi; ché i poeti hanno voce di mentitori”.4
Certo, De Sanctis sapeva bene che Leopardi aveva filosofato anche in prosa; ma, a differenza di Nietzsche, riteneva che Leopardi non avesse propriamente filosofato; “ché a filosofare si richiede metodo. E questo è una delle glorie di Schopenhauer. E non certo di Leopardi (aggiungiamo noi)”.5
Così andavano le cose nel nostro Paese; in Germania, di lì a poco (si tenga presente che il testo dedicato da De Sanctis a Schopenhauer e Leopardi era stato pubblicato nel 1858), un dionisiaco come Nietzsche avrebbe intuito con grande lungimiranza quello che in Italia si sarebbe cominciato a comprendere solo grazie all’importante esercizio ermeneutico di intellettuali come Antonio Prete e Cesare Galimberti, nella seconda metà del Novecento. E, più in là ancora, grazie a due densissimi volumi dedicati a Leopardi da un filosofo della statura di Emanuele Severino.
Soprattutto Galimberti (senza nulla togliere, comunque, al significativo lavoro di Prete e alla sua illuminante tematizzazione del ‘pensiero poetante’ leopardiano) sarebbe riuscito a cogliere l’intima unione di poesia e filosofia in Leopardi, e la grandezza del suo ‘pensiero’, perché innanzitutto consapevole della forza conoscitiva propria del testo poetico, “che non è riducibile a mero veicolo di un pensiero già compiuto, ed è invece capace di costituire un suo proprio senso che, al limite, può persino contraddire il significato del messaggio esplicito”.6
Quello ossessivamente tentato da Leopardi sarebbe stato in ogni caso un imperioso e insieme tragico gesto filosofico; potremmo anche dire “autenticamente metafisico”. Quello stesso che avrebbe reso ‘filosofi’ molti dei grandi protagonisti del pensiero occidentale, e che continua ad alimentare ancora alcune (anche se, a dire il vero, non molte) testimonianze del nostro tempo – come, ad esempio, quella del già citato filosofo bresciano. Leopardi, cioè, avrebbe ossessivamente tentato di decifrare l’enigma del “vero”.
Questo, l’‘impossibile’ ossessivamente mirato dal poeta recanatese. Lo stesso che la grande metafisica europea aveva sempre cercato di fare proprio, per quanto in forme sempre diverse, al modo di un costante, e a dire il vero non meno ossessivo, anelito alla totalità. Secondo Mario Andrea Rigoni – mirabile studioso impegnato a sottolineare con forza la natura titanica e disperata dell’impossibile enciclopedismo caratterizzante l’opera del poeta recanatese – anche il pensiero di Leopardi “mirava al Tutto, ma non poteva non restare frammento – come lui stesso sapeva. Poiché, se le cose sono tutte unite fra loro da un sistema di relazioni, in compenso il sistema, e le singole cose stesse, proprio per l’infinità di tali relazioni, restano trascendenti e inaccessibili rispetto allo sforzo conoscitivo del soggetto. Nel fallimento – tutto romantico e moderno – della Totalità alla quale lo Zibaldone aspira risiede una ragione ulteriore del suo fascino e della sua grandezza”.7
Non so se Leopardi mirasse al “tutto”.
Di sicuro il nostro ebbe costantemente presente, davanti ai propri occhi, quell’incondizionato che ogni ‘essente’ invero “è”, pur determinandosi ogni volta solo in relazione a quella parte delle sue condizioni che il nostro intelletto riesce a catturare grazie alle proprie categorie. Di là dalle quali ne rimarranno sempre altre, che la conoscenza non avrà ancora visto e catturato.
Insomma, Leopardi aveva già perfettamente capito – come e meglio di Hegel – che l’incondizionatezza di cui parla ogni realtà finita, e in quanto tale condizionata, non è (per dirla con Cacciari) un “quid tremendum al di là di ogni senso, ‘qualcosa’ di totalmente estraneo agli schemi dell’intelletto”,8 ma il fondo stesso da cui le categorie che ci consentono di de-terminare il mondo proverrebbero, e di cui sarebbero dunque originaria espressione. Forse aveva già chiarissimamente compreso, l’autore dell’Infinito, che in tali categorie (le forme a priori dell’intelletto, ma anche quelle della sensibilità, per dirla con Kant) “si agita sempre quel mare che pauroso abbraccia l’isola dell’intelletto”;9 e che dunque il nulla di senso (altro nome dell’incondizionatezza caratterizzante ogni cosa “an sich”) che parla nel mondo e nelle sue vane vicissitudini – affidandoci alle quali non possiamo che “naufragare”! – si annuncia nelle cose tutte come ciò in cui solo l’anima del poeta può sentirsi davvero a casa.
Ma se tutto questo è vero, una cosa, almeno, possiamo dire di saperla: che tornare a confrontarsi con questo ‘gigante’ del pensiero significa misurarsi con una filosofia costitutivamente e radicalmente ‘paradossale’.
Ed è proprio a partire da tale consapevolezza che riteniamo valga senz’altro la pena provare a rimettere in questione, e quindi ri-discutere, alcune tra le più importanti interpretazioni dell’opera leopardiana, e soprattutto provare a liberare la sua ‘metafisica’ dagli ancora troppo numerosi luoghi comuni che a nostro parere continuano a ostacolarne una piena comprensione.
Perciò abbiamo ritenuto di dover tornare a soppesare: 1) lo strettissimo rapporto della sua visione della natura con l’humus illuministico e libertino in cui s’era comunque venuta a formare; 2) la contraddittoria e tutt’altro che astrattamente negativa visione del ‘Cristianesimo’ maturata dal poeta nel corso di complesse e soprattutto mai risolutive riflessioni a questo proposito; 3) la reale concezione leopardiana della poesia, e più in generale dell’opera d’arte, nonché del ‘piacere’ alle stesse enigmaticamente connesso; 4) e, da ultimo, la radicale aporeticità caratterizzante il “nulla” tematizzato anche dal nostro poeta-filosofo… e, non a caso, tanto inviso al filosofo, quanto amato dal poeta.
Insomma, se Leopardi s’è davvero dimostrato grande filosofo anche per essersi saputo confrontare da gigante con il ‘problema dei problemi’ – lo stesso intorno a cui s’era un tempo giocato il destino della filosofia occidentale –, ciò che va sin da subito tenuto presente è che parlare del nulla in filosofia significa, come sapeva molto bene il nostro recanatese, non tanto riferirsi a qualcosa che a noi, in quanto soggetti di un’esperienza possibile, sarebbe destinato a rimanere ignoto e incomprensibile (perché radicalmente altro dall’ambito da noi esplorabile), quanto piuttosto di ciò che ci viene incontro ovunque qualcosa di determinato e reale, per quanto mai perfettamente definibile, ci faccia ancora una volta assaporare il gusto acre ma insieme intenso della vita.