INTRODUZIONE
1 Friedrich Nietzsche, Intorno a Leopardi, trad.it., il melangolo, Genova 1992, p. 69.
2 Ibid., p. 79.
3 Francesco De Sanctis, Schopenhauer e Leopardi, pp. 11-12.
4 Ibid., p. 85.
5 Ibid.
6 Cesare Galimberti, Un libro metafisico, Saggio introduttivo a G. Leopardi, “Operette morali”, Guida Editori, Napoli 1998, p. 24.
7 Mario Andrea Rigoni, Il pensiero di Leopardi, Nino Aragno Editore, Torino 2010, p. 84.
8 Massimo Cacciari, Magis Amicus Leopardi. Due saggi, Edizioni Saletta dell’Uva, Caserta 2008, p. 58.
9 Ibid., p. 59.
I. LEOPARDI E IL LIBERTINISMO: UNA CERTA IDEA DI PIACERE
1 G. Leopardi, Zibaldone (d’ora in poi Zib.), I, 165, Meridiani Mondadori, Milano 1997, p. 195.
2 “Noi siamo del tutto alienati dalla natura, e quindi infelicissimi” (ibid., I, 814, p. 597). “Perché, dopo che la ragione ha combattuta e sconfitta la natura per farci infelici, stringe poi seco alleanza, per porre il colmo all’infelicità nostra, coll’impedirci di condurla a quel fine che sarebbe in nostra mano” (ibid., I, 816, p. 598). Cioè, la natura ci impedisce di porre fine alla nostra vita – essa infatti si oppone con tutte le sue forze al suicidio, sempre secondo Leopardi. Non a caso quest’ultimo ci si profila come una scelta assai difficile, che nessuno può prendere a cuor leggero… per giungere alla quale, cioè, si deve essere in uno stato psichico particolare e tutt’altro che normale o equilibrato. Ma perché, si chiede il poeta, questa resistenza al suicidio da parte di un essere umano che si trovi in condizioni più o meno normali? Ciò dimostra una cosa sola, sempre ai suoi occhi: che la natura forma l’estremo delle nostre disgrazie appunto perché, dopo averci fatti prepotenti e aggressivi nei confronti di se medesima, nei confronti cioè di una natura che abbiamo sempre cercato di soggiogare e assoggettare ai nostri desideri, la medesima – rileva il poeta marchigiano – ci impedisce di porre fine a quella che si configura come una situazione di vera e propria “alienazione”. Ci impedisce cioè di spezzare il giogo che ci vincola all’esistere, per quanto da una condizione di irrimediabile ‘alienazione’. Noi ci sentiamo “altri” dalla Natura, ma rimanendo sempre nella Natura, in quanto, comunque, siamo sempre Natura, tutti noi… e vieppiù quando non riusciamo a tradurre tale estraneità in ‘separazione definitiva’. Ecco perché sempre la medesima Natura, pur avendoci resi estranei a sé, sì da rendere essa medesima, innanzitutto, estranea a sé – per quanto attraverso di noi –, ci tiene comunque vincolati a se medesima. E come potrebbe non farlo? verrebbe da chiedersi. Come potrebbe non farlo se, in noi, a parlare e ad esprimersi è sempre e comunque la Natura? Se noi cioè non siamo altro che la sua voce? Una voce che peraltro può essere quella che è solo negandosi nel sentimento di inadeguatezza che incombe sulle nostre esistenze. E dunque facendosi radicalmente opposta a se medesima; e proprio per questo riuscendo ad essere veramente quel che è. In conformità ad una ‘dialettica’ originariamente autolegittimantesi, e per ciò stesso perfettamente in-giustificata (se giustificare significa ricondurre ad un principio altro da quel che andrebbe appunto giustificato). E dunque perfettamente adeguata alla propria assolutezza. Ossia, all’assolutezza di una Natura che Leopardi pensa davvero come i cosiddetti presocratici – e non come semplice oggetto per il soggetto che ognuno di noi sempre anche è. Pensandola come ‘apertura’ trascendentale di ogni accadimento. Come a-peiron che tutto avvolge e abbraccia quale sua ineludibile espressione. Ossia, come ‘assoluto’.
3 Ibid., II, 4129, p. 2683.
4 Ibid.
5 Ibid., II, 4128, p. 2683.
6 Ibid.
7 J.O. de La Mettrie, L’uomo macchina, in “Opere filosofiche”, trad.it., Laterza, Roma-Bari 1992, p. 236.
8 D.A.F. de Sade, La filosofia nel boudoir, ovvero i precettori immorali, trad. it., ES, Milano 1992, p. 31.
9 Zib., I, 165, p. 195.
10 Ibid.
11 Ibid.
12 Ibid., I, 166, p. 196.
13 Ibid.
14 Ibid., I, 169, p. 199.
15 Nei versi di Il pensiero dominante Leopardi lo dice con la massima chiarezza. Perciò colei “della qual teco ragionando io vivo” – il poeta si sta rivolgendo al ‘pensiero dominante’ che (per dirla con Citati) pur valendo come sogno e palese error, funziona come “una mania, un delirio, e che, come i deliri che, secondo Platone, ci permettono di contemplare, in terra, le sovrumane forme dell’essere”, resiste al vero, anzi, in senso proprio, è l’unica “illusione che non gli cede” (Pietro Citati, Leopardi, Mondadori, Milano 2011, p. 379). Si tratta infatti di un pensiero dominante che consente alla donna amata di farsi finalmente ‘vaga’… di offrirsi, cioè, finalmente e provvidenzialmente, alla sacra “negazione” della sua stessa reale e concreta determinatezza. Di farsi quindi sovrumana imago… angelica sembianza. Di evaporare e diluirsi in quella nebulosa estetica che, sola, può consentire al poeta di vedere “gli occhi suoi più vago” (“Che chiedo io mai, che spero / Altro che gli occhi tuoi veder più vago?”). E di dare forma a quelle sacre e purificatrici immaginazioni la cui ‘illusorietà’ non implica affatto debolezza e neppure irrilevanza.
16 Ibid., p. 198.
17 Ibid.
18 D.A.F. de Sade, La filosofia nel boudoir, ovvero i precettori immorali, op.cit., p. 30.
19 Ibid., pp. 31-32.
20 Ibid., p. 38.
21 Ibid.
22 Zib., I, 168, p. 198.
23 Ibid.
24 Ibid.
25 Ibid., I, 99, p. 134.
26 Ibid., II, 3241-3245, pp. 2026-2029.
27 Ibid., II, 3238, p. 2025.
28 Ibid.
29 Ibid.
30 Ibid., II, 3229, p. 2025.
31 Ibid., II, 3240, p. 2026.
32 Ibid.
33 “L’uomo non esisterebbe se non provasse questo desiderio… un desiderio che non può aver fine in questo o quel piacere che non può essere infinito” (Zib., I, 165, p. 195).
34 Per Leopardi, infatti, noi troveremo sempre e solamente “un piacere particolare, e non astratto”; perciò, dal suo punto di vista, non essendo mai soddisfatto il vero desiderio da cui non possiamo non esser mossi, “il piacere appena è piacere, perché non si tratta di una piccola ma di una somma inferiorità ad desiderio e oltracciò alla speranza” (Zib., I, 166-167, p. 196).
35 “Quindi potrete facilmente concepire come il piacere sia cosa vanissima sempre” (Zib., I, 166, p. 196).
36 Una questione, questa, che connette direttamente il tema della ‘speranza’ alla struttura della temporalità per come quest’ultima si sarebbe venuta disegnando alla luce del senso biblico, o meglio ancora, del concetto vetero-testamentario della temporalità – quello stesso che, peraltro, risuona con forza ancora nelle pagine del nostro Il tempo della verità. Un volume in cui ci siamo innanzitutto proposti di mostrare come finanche quella che avevamo chiamato “aporia del fondamento” (cfr. Massimo Donà, L’aporia del fondamento, Mimesis, Milano 2008) potesse trovare la propria più concreta e affidabile condizione di esperibilità proprio nel “tempo” – concepito secondo un’articolazione teoretica che mostra una forte sintonia con l’esperienza della temporalità originariamente disegnata dalla tradizione ebraica.
37 Zib., I, 421, pp. 378-379.
38 G. Leopardi, Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto, in “Operette morali”, op. cit., p. 536.
39 Ibid., p. 537. Qui Leopardi sembra quasi anticipare la sentenza nietzschiana secondo cui l’errore sarebbe necessario alla vita quale condizione originaria del suo stesso costituirsi.
40 G. Leopardi, Dialogo di Tristano e di un amico, in “Operette morali”, op. cit., p. 496.
41 Ibid., p. 496.
42 Ibid.
43 G. Leopardi, Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto, in “Operette morali”, op. cit., p. 536.
44 Ibid., p. 530.
45 Zib., I, 422, p. 379.
46 Ibid., I, 423, p. 380.
47 Ibid., I, 423, p. 379.
48 G. Leopardi, Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto, in “Operette morali”, op. cit., p. 535.
49 Ibid., p. 533.
50 G. Leopardi, Dialogo di Tristano e di un amico, in “Operette morali”, op. cit., p. 497.
51 G. Leopardi, Dialogo di Plotino e di Porfirio, in “Operette morali”, op. cit., p. 459.
52 Zib., II, 3241, pp. 2026-2027.
53 Ibid., II, 3242, p. 2027.
54 Ibid.
55 Ibid., I, 168, p. 198.
56 Ibid., I, 1835, p. 1257.
57 Ibid.
58 Ibid., I, 169, p. 199.
59 Ibid., I, 1958, p. 1323.
60 Ibid., I, 2045, p. 1366.
61 Ibid., I, 4129, p. 2683.
62 Ibid., II, 4243, p. 2809.
63 Ibid., I, 170, p. 200.
64 Ibid., I, 171, p. 200.
65 Ibid., I, 1044, p. 756.
66 Ibid., I, 1465, p. 1045
67 Ibid., I, 1464, p. 1044.
68 Ibid., I, 271, p. 279.
69 Ibid., II, 4175, p. 2736.
70 Ibid., I, 99, p. 134.
71 Ibid., I, 172, p. 201.
72 Ibid.
73 Ibid., I, 173, p. 202.
74 Ibid., I, 51, p. 84.
75 Ibid., I, 532-533, pp. 445-446.
76 Ibid., I, 167, p. 197.
77 “In proporzione della grandezza e copia delle illusioni va la grandezza e copia de’ piaceri, i quali sebbene neanche gli antichi li trovassero infiniti, tuttavia li trovavano grandissimi, e capaci se non di riempirli, almeno di trattenerli a bada” (Zib., I, 169, p. 198).
78 Illusioni che il nostro poeta riconduce a “quei soavi inganni che costituiscono la nostra vita” (Zib., I, 101, p. 136).
79 Ibid., I, 99, p. 134.
80 Ibid., I, 51, p. 83.
81 Ibid., II, 4175, p. 2736.
II. L’ASEITÀ DEL MONDO E IL RAPPORTO CON IL CRISTIANESIMO
1 Un secolo – il Settecento – in cui l’attenzione scrupolosa per tutto ciò che riguarda le forme e le ‘geografie’ della sensibilità non poteva non condurre ad un’indagine articolata e disincantata degli intricati rapporti tra passione, felicità, piacere, sessualità e razionalità. È in questo secolo, peraltro che, accanto alle imprese sistematiche ed enciclopediche quali quella di Condillac, possiamo rinvenire una incredibile fioritura di romanzi licenziosi, in cui passioni indiscrete vocate ad un ‘sublime’ sacrificio della voluttà (secondo un’espressione di Sade) vengono scandagliate e minuziosamente indagate in una sorta di fenomenologia del viaggio esteriore od interiore alla ricerca del ‘limite inaccessibile’. Gli orizzonti dell’estetica settecentesca, dunque, radicalizzano l’universo di quella che appare come una nuova ‘sensibilità’: paradossalmente svelatasi conseguentemente al fortissimo impatto prodotto dal rigore analitico (peraltro ambiguo e già ‘minato’) delle prospettive cartesiane e leibniziane. Va comunque ricordato che già nel Medioevo la consapevolezza della potenza diabolica della voluttà e del piacere non poteva che risultare da una adeguata conoscenza dei medesimi – che, peraltro, non avrebbe avuto nulla da invidiare a quella del marchese de Sade o di Giacomo Casanova (anche a quest’ultimo, infatti, assai chiaramente sarebbero apparsi i radicali paradossi – esemplari incarnazioni di una mai appagata inquietudine dell’estremo – connaturati ad una vita tutta consegnata all’indiscusso dominio del ‘principio di piacere’).
2 È in questo testo che Freud prende coscienza del fatto che “la meta di tutto ciò che è vivo è la morte… queste vie errabonde che portano alla morte, fedelmente serbate dalle pulsioni conservatrici, si presenterebbero oggi a noi come l’insieme dei fenomeni della vita” (Sigmund Freud, Al di là del principio di piacere, trad. it., in “La teoria psicoanalitica”, Boringhieri, Torino 1984, p. 249). Ma non solo; Freud riconosce, più in generale, che “non è esatto parlare di un’egemonia del principio di piacere sul flusso dei processi psichici. Se tale egemonia esistesse, la stragrande maggioranza dei nostri processi psichici sarebbe accompagnata da piacere o porterebbe al piacere, mentre l’universale esperienza si oppone energicamente a questa conclusione” (ibid., p. 215).
3 Ci riferiamo a quell’accadere universale che Leopardi evoca con una sola parola: Natura. “O natura, o natura. / Perché non rendi poi / Quel che prometti allor? perché di tanto / Inganni i figli tuoi?” (A Silvia, vv. 36-39).
4 Agli occhi Schopenhauer, l’universale accadere degli eventi trova il proprio significato essenziale nel concetto di Volontà. Non a caso, il compito che Schopenhauer si propone di condurre a termine, nella seconda parte della sua opera fondamentale, è il seguente: “Se poi gli oggetti noti all’individuo come semplici rappresentazioni siano tuttavia, come il suo proprio corpo, fenomeni d’una volontà; questo è, come già fu detto nel libro precedente, il vero senso della questione intorno alla realtà del mondo esterno. Negare ciò, è seguire il pensiero dell’egoismo teoretico” (A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, trad. it., Laterza, Bari-Roma 1993, vol. I, p. 159).
5 Compito che caratterizza davvero, individuandone l’essenza più profonda, l’orizzonte della “tecnica”; e che fa di quest’ultima il più coerente compimento della forma mentis giudaico-cristiana. Ché, davvero, in perfetta sintonia con il dettato biblico, il pensiero della tecnica non sarebbe ciò che è, a prescindere da quella che potremmo definire ‘volontà’ che le cose abbiano un senso – anche il principio dell’infinito incremento della propria potenza (che per molti pensatori – non da ultimo Emanuele Severino – rappresenta la quintessenza del pensiero ‘tecnico’) non si spiegherebbe se non sulla base del presupposto secondo cui tutto ciò che è ‘significa’ qualcosa d’altro dal suo mero esserci, ossia corrisponde a quel volere interpretante di cui l’umano logos è sempre espressione. Un volere costituentesi come serbatoio necessario ad alimentare il processo di ‘capitalizzazione’ della potenza trasformatrice della ‘tecnica’. D’altro canto, come abbiamo fatto vedere in un nostro recente lavoro – dedicato ad una rilettura del tema della festa in accordo con la prospettiva disegnata dal testo biblico –, è già nel sospendere il proprio atto creativo che Dio consegna il cosmo all’essere umano, affidandoglielo affinché quest’ultimo possa farsi davvero somigliante ad una perfezione che non va certo confusa con quella da Lui creata nei sei giorni iniziali. Ma di quest’ultima dovrà costituirsi piuttosto come infinita “elaborazione”. Anche secondo la prospettiva biblica disegnata dal Genesi, dunque (la stessa che sarebbe stata poi ritualizzata in Esodo 20; 8-11 e in Deuteronomio 5; 12-15), la perfezione riconoscibile nella pura datità naturale (ossia nella perfezione comunque prodotta da Dio al termine dei sei giorni della creazione) deve essere da noi infinitamente elaborata per consentirci di diventare quello che mai ‘saremo comunque ancora diventati’. Quello a cui stiamo facendo riferimento è un saggio intitolato: Nel “tempo” di Dio, e contenuto nel volume “I comandamenti. Santificare la festa” (Massimo Donà, Stefano Levi Della Torre, il Mulino, Bologna 2010).
6 Basti ricordare le parole con cui Ermete Trismegisto indica la ragione che rende stra-ordinaria la natura umana. L’uomo “è posto nella più fortunata posizione di intermediario, in modo che ama gli esseri che sono al di sotto di lui ed è amato da quelli che sono al di sopra. Cura la terra, si unisce agli elementi, grazie alla velocità del suo pensiero, discende nelle profondità del mare con l’acutezza della sua mente. Tutto a lui è permesso: il cielo non gli sembra troppo alto, perché lo misura quasi da vicino, grazie al suo ingegno. La vista acuta della sua mente non è offuscata da alcuna caligine dell’aria; la compattezza della terra non impedisce il suo lavoro, la grande profondità delle acque marine non ostacola la sua vista. Egli al tempo stesso tutte le cose e dappertutto” (E. Trismegisto, Asclepio, in “Corpo Ermetico, Asclepio”, trad. it., Mimesis, Milano 1989, p. 175).
7 Ibid., II, 3654-3655, p. 2277.
8 Ibid., II, 3659, p. 2279.
9 Ibid., II, 3665-3666, p. 2283.
10 Rimando, per un approfondimento della questione, ad un lavoro in cui ho svolto il tema della conoscenza come ‘vocazione’ all’illimite, a partire dalla rilettura dantesca dell’eroe omerico – M. Donà, L’Ulisse dantesco e la voragine del limite, in “Anfione-Zeto”, n. 4-5, Pagus, Paese-Treviso 1990.
11 Prometeo incatenato, 235.
12 Prometeo incatenato, 59.
13 Prometeo incatenato, 108.
14 Prometeo incatenato, 263.
15 Prometeo incatenato, 248.
16 Prometeo incatenato, 250.
17 Cfr. Prometeo incatenato, 443.
18 Cfr. Prometeo incatenato, 445-470.
19 Prometeo incatenato, 275.
20 Prometeo incatenato, 499.
21 Prometeo incatenato, 501.
22 Prometeo incatenato, 506.
23 Prometeo incatenato, 336.
24 Prometeo incatenato, 514.
25 Prometeo incatenato, 198
26 Perché, come l’accidia petrarchesca, anche la melanconia, che non è ancora noia, ma la prepara, nasce – come sottolinea efficacemente Cacciari in un bellissimo volume che raccoglie due lucidissimi saggi dedicati a Leopardi –, là dove una spessa nebbia comincia ad avvolgere il ‘furor’ dell’homo faber; o, per dirla con il filosofo veneziano, là dove si comprenda come il nostro sapere e il nostro operare “non possano ‘pacificarsi’ in opere ‘felici’, ma non siano che un perenne iniziare di nuovo” (Massimo Cacciari, Magis Amicus Leopardi. Due saggi, Edizioni Saletta dell’Uva, Caserta 2008, p. 24).
27 Zib., I, 1691, p. 1177.
28 Ibid., I, 1815, p. 1246.
29 Ibid., I, 1989-1990, pp. 1338-1339.
30 Ibid., I, 1990, p. 1339.
31 Ibid., I, 1989, p. 1338.
32 Ibid., I, 2220, p. 1452.
33 Ibid.
34 Ibid.
35 Ibid.
36 Ibid.
37 Ibid.
38 Ibid., I, 2220, p. 1451.
39 Ibid., II, 2433, pp. 1570-1571.
40 Ibid., II, 2434, p. 1571.
41 Ibid., II, 4306, p. 2882.
42 Ibid.
43 Ibid., II, 4306, p. 2882.
44 Ibid., II, 3713-3714, p. 2313.
45 Ibid., II, 3714, p. 2314.
46 Ibid.
47 Ibid.
48 Ibid., II, 2434, p. 1571.
49 Ibid., II, p. 2314.
50 Ibid.
51 Ibid.
52 Ibid., I, 1691, p. 1177.
53 Ibid.
54 Ibid., II, 4043, p. 2597.
55 Ibid.
56 Ibid.
57 G. Leopardi, Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare, in “Operette morali”, op. cit., p. 225.
58 Ibid., p. 227.
59 Ibid., pp. 227-228.
60 Ibid., p. 222.
61 Ibid.
62 Zib., II, 4043, p. 2597.
63 È interessante sottolineare uno straordinario paradosso connesso alla presente questione. Si cominci col domandarsi: come è possibile che il processo di infinitizzazione dell’umana potenza subisca una evidente accelerazione (e raggiunga, con sempre maggior celerità, vette sino a qualche tempo prima pressoché impensabili) in seguito alla caduta dell’impostazione geocentrica propria della scienza astronomica pre-copernicana? Come è possibile che l’uomo raggiunga risultati davvero sorprendenti rispetto alle proprie naturali potenzialità solo dopo essersi ‘lateralizzato’ nel contesto dell’ordine cosmico? Ché, dovrebbe essere accaduto il contrario; persa la propria centralità, cioè, l’essere umano avrebbe dovuto assistere ad una progressiva caduta della propria potenza – non essendo più centro intorno a cui tutto il resto si muove, la pretesa di ricondurre alle proprie ‘ragioni’ movimenti misurabili solo in relazione alla propria immobilità, avrebbe dovuto subire un radicale scacco. Svelatosi l’arcano – ossia il fatto che l’esistente non diviene, non si muove ‘in relazione’ a me, ma piuttosto non è ciò che appare (diveniente, moventesi) se non in relazione ad una combinazione di movimenti miei e suoi (sì che nessuno dei due – soggetto ed oggetto – sia esclusivamente ed univocamente ‘dipendente’ dall’altro) –, è evidente, ci si sarebbe dovuti arenare in una palude in virtù della quale io non potessi verso l’altro “più di quanto” l’altro non potesse verso di me. E invece no; perduta la propria centralità, l’uomo sarebbe riuscito a sperimentare con sempre più solide conferme la superabilità di diritto di qualsivoglia ostacolo. Un tale paradosso, però, ha una sua ragione – e non marginale od occasionale. Una ragione che potremmo indicare nel seguente modo: nel contesto del sistema tolemaico-aristotelico, la potenza dell’umana capacità trasformatrice non avrebbe potuto svilupparsi oltre certi limiti per il fatto che la medesima capacità sarebbe rimasta inderogabilmente fondata su di un’unità di misura che, in quanto umana e ‘ferma’ (ossia: irremovibile) su se stessa, sarebbe apparsa necessariamente fondata (dipendendovi in modo radicale) su ‘parametri’ sempre e comunque ‘determinati’. Se non altro in quanto coincidenti con le strutture di una soggettività pensata nella forma di una determinata ‘armonia’, fatta di proporzioni determinate, di scopi e moventi determinati, di finitudine ed imperfezione comunque ignare del proprio fondamento trascendentale. Laddove, in un contesto quale quello post-copernicano, ‘la misura’, cioè la condizione di qualsivoglia forma di operatività, avrebbe iniziato a fare i conti con la perfetta ‘indeterminatezza’ delle sue articolazioni – sempre giocate, appunto, nell’orizzonte di una reciproca relazionalità costituentesi quale manifestazione del semplice fatto che nessun limite ‘determinato’ avrebbe potuto mai essere evocato come se si trattasse ‘del limite’ (sempre afferente piuttosto alla relazione stessa tra un’umanità vocata allo sviluppo suo proprio, ciò che, rispetto a tale sviluppo, non avrebbe potuto darsi come risultato di una semplice ‘costruzione’ a partire da regole determinate – inscritte appunto nella costitutiva ‘finitudine’ dell’uomo). Il limite, infatti, in tale situazione, non è risolvibile nella forma di un questo o di un quello. Il ‘limite’ è ciò che mai potrà presentarsi quale ‘oggetto’ di un’esperienza possibile. E proprio per ciò, finisce per coincidere con la sempre ricostituentesi infinitudine di una ‘potenza operativa’ che in senso proprio non è mai ‘del’ soggetto… ma piuttosto del perenne trasformarsi di ciò che in questo o in quel modo, comunque, ‘è’.
64 Zib., II, 3648, p. 2273.
65 Ibid., II, 3650, p. 2275.
66 Che, per Leopardi, secondo una forma allora in voga del linguaggio filosofico, sta ad indicare quello stesso che noi chiamiamo “principio di non contraddizione”.
67 Zib., I, 1627, p. 1140.
68 Ibid.
69 In questa prospettiva si colloca anche il pensiero fichtiano – che, a ben vedere, non ha forse alcun bisogno di rispondere alla critica mossagli dallo Hegel. Il fatto è che il suo dialettismo riesce ad indicare una prospettiva già immune dall’accusa di ‘astrazione’; perciò il ‘concreto’ hegeliano nulla può contro la sua reale aporeticità. Si obietterà: come risolvere allora la situazione – evidentemente inequivocabile – secondo cui, se per un verso nell’ottica hegeliana il “fare” è già da sempre risolto nel suo ‘risultato, in Fichte l’infinitudine è connessa ad una dialettica solo apparentemente risolutiva? Il fatto è che proprio tale irrisolutezza dovrebbe imporci di ripensare con più attenzione il concetto di ‘infinito’. Che non vadano accolte con troppa sicurezza e pressapochismo le indicazioni hegeliane è opportuno per lo meno in base alle seguenti considerazioni: non è forse quello di ‘infinito’ un concetto dichiaratamente negativo? E dunque, non è necessario risolversi ad accettare il fatto che di esso non si possa avere esperienza se non nella forma di una particolare disposizione nei confronti della finitezza? Riuscendo nello stesso tempo a riconoscere, di fronte ad ognuna delle sue (della finitezza, appunto) determinazioni, la ‘voce’ di ciò che altrimenti non potrebbe che essere esperito come ‘infinito silenzio’. Il fatto è che, di là da queste voci (costituentisi come i volti di una finitezza costitutivamente compiuta proprio nel suo non poter fare a meno di ‘chiamare’ al fingimento di un’esclusione sempre anche “comprendente”), il silenzio non potrebbe neppure costituirsi come metafora dell’infinito. Là dove ciò accade, infatti, è proprio la voce della finitezza (vera parola ‘del limite’ – leopardianamente esperibile come stormir tra queste piante) a consentire da un lato il riconoscimento di una esclusione del ‘guardo’ (ossia di una in-compiutezza – esperienza dell’evidente irrisolutezza del fenomenico) dalla possibilità di un ultimo orizzonte, e dall’altro ad insinuare l’idea che, proprio in tale esclusione, quell’ultimo (“il limite” – l’infinito ‘presente’) si costituisca, sia pur nella finzione di un pensiero poetante ed immaginativo, quale risultato di una ‘comparazione’ che nega l’astratta alterità dello stesso ‘silenzio’. Insomma, in un senso forse più autenticamente fichtiano di quanto si sia mai sospettato, anche Leopardi sembra riconoscere che l’infinito ‘in atto’ si dà sempre e solamente nell’esperienza dell’insuperabile – ma proprio perciò ‘perfetta’ – in-compiutezza caratterizzante qualsivoglia limite determinato. Quella propria di ogni finito (che è veramente tale, quindi, solo nel suo costituirsi come possibilità di uno svolgimento in cui l’andare si produce solo come esperienza del non essere mai andati – laddove Hegel avrebbe detto appunto: esperienza dell’essere già da sempre andati… cfr. Scienza della Logica, paragrafo dedicato al ‘divenire’), e dunque di ognuna delle determinatezze che Fichte avrebbe sicuramente concepito in relazione all’originaria (ossia incondizionata) condizionatezza caratterizzante il terzo principio della Dottrina della scienza.
70 Zib., II, 2392-2393-2394, pp. 1547-1548.
71 Ibid., II, 2394-2395, pp. 1548-1549.
72 Ibid., I, 1627, pp. 1140-1141.
73 Ibid., I, 1626, p. 1140.
74 Ibid., I, 1622-1623, p. 1137.
75 Ibid., I, 1620, p. 1136.
76 In relazione al paradosso costituito dall’assoluta alterità di Dio (tanto più radicalmente concepito, quanto più ci si rende conto della sua ‘umanità’), il Cristianesimo è riuscito a fare della struttura della ‘fede’ “la forma del vero filosofare” – a nessun’altra religione è stato concesso di pervenire ad un tale risultato con il medesimo rigore speculativo. Ed è proprio in questo contesto che la linea Cusano-Hegel trova in Leopardi, o meglio nel suo ‘problematico anticristianesimo’, una delle più alte testimonianze di tale consapevolezza.
77 Zib., I, 830, p. 605.
78 Ibid., I, 830-831, p. 606.
79 Ibid., I, 833, p. 607.
80 Ibid., I, 833-834, p. 607.
81 Ibid., I, 836, pp. 608-609.
82 Ibid., I, 407, p. 369.
83 Ibid.
84 Ibid., I, 407, p. 370.
85 Ibid.
86 Ibid.
87 Ibid., I, 408, p. 370.
88 Ibid.
89 Ibid.
90 Ibid., I, 409, p. 371.
91 Ibid.
92 Ibid., I, 426, p. 381.
93 Ibid., I, 425, p. 381.
94 Ibid., I, 409, p. 371.
95 Ibid., I, 410, p. 371.
96 Ibid., I, 409-410, p. 371.
97 Ibid., I, 410, pp. 371-372.
98 Ibid., I, 410, p. 372.
99 Ibid.
100 Ibid.
101 Ibid.
102 Ibid., I, 411, p. 372.
103 Ibid., I, 416, p. 376.
104 Si legga a questo proposito la prima delle “Operette morali”: Storia del genere umano. In essa viene riletto dal poeta recanatese il mito cristiano del peccato. È facilmente rilevabile in che senso l’idea leopardiana del ‘peccato’ si distingua tanto da quella greca quanto da quella cristiana – per lui non si tratta infatti né dell’infrazione di un divieto divino né di un dono inopportunamente consegnato ai mortali. Per Leopardi, insomma, la natura dell’uomo, quale a noi è nota, non è originaria – ossia indipendente dal peccato, come per i cristiani (d’altro canto, il ‘peccato’ ha, nell’orizzonte della rivelazione biblica, ben altre conseguenze) – e neppure dipende da un dono divino. Per lui si tratta piuttosto di una erronea, ma naturale, evoluzione a partire da un’origine incontaminata. “Narrasi che tutti gli uomini che da principio popolarono la terra, fossero creati per ogni dove a un medesimo tempo, e tutti bambini, e fossero nutricati dalle api, dalle capre… nondimeno gli uomini compiacendosi insaziabilmente di riguardare e di considerare il cielo e la terra, maravigliandosene sopra modo e riputando l’uno e l’altra bellissimi e, non che vasti, ma infiniti… crescevano con molto contento, e con poco meno che opinione di felicità… e venuti in età più ferma, incominciarono a provare alcuna mutazione… e ciascuna parte della vita giornaliera… non riusciva loro di gran lungo così dilettevole e grata come a principio… e i più di loro si avvidero che la terra, ancorché grande, aveva termini certi, e non così larghi che fossero incomprensibili…” (G. Leopardi, Storia del genere umano, in “Operette morali”, Feltrinelli, Milano 1996, p. 59).
105 Anche a questo proposito il nostro è molto chiaro – “il totale rivolgimento della loro fortuna e l’ultimo esito di quello stato che oggi siamo soliti di chiamare antico, venne principalmente da una cagione diversa… era tra quelle larve, tanto apprezzate dagli antichi, un a chiamata nelle costoro lingue Sapienza” (ibid., p. 65. Da qui la tragedia; “per la qual cosa deliberò non solo di mandare la Verità fra gli uomini a stare, come essi chiedevano… perocché laddove agl’immortali ella dimostrava la loro beatitudine, discoprirebbe agli uomini interamente e proporrebbe ai medesimi del continuo dinanzi agli occhi la loro infelicità” (ibid., pp. 66-67).
106 Zib., I, 1682, p. 1172.
107 Ibid., I, 1613, p. 1132.
108 Ibid., I, 1612, p. 1131.
109 A questo proposito si leggano le pagine, teoreticamente straordinarie, del saggio freudiano dedicato a Le pulsioni e i loro destini e compreso in “Metapsicologia” (1915). “La meta di una pulsione è in ogni caso il soddisfacimento che può esser raggiunto soltanto sopprimendo lo stato di stimolazione alla fonte della pulsione… Oggetto della pulsione è ciò in relazione a cui, o mediante cui, la pulsione può raggiungere la sua meta…” (Sigmund Freud, Pulsioni e loro destini, trad. it., in “La teoria psicoanalitica”, Boringhieri, Torino 1984, p. 99).
110 Zib., I, 1613, p. 1132.
111 Ibid.
112 Lo sa bene Leopardi, che non a caso narra di come Giove non potesse “comunicare la propria infinità colle creature mortali, né fare la materia infinita, né infinita la perfezione e la felicità delle cose e degli uomini” (G. Leopardi, Storia del genere umano, op. cit., p. 61). Ennesima conferma del fatto che l’infinità divina è di tutt’altra specie rispetto a quella cui anela ‘necessariamente’ (anche se de-lirando) l’uomo – incapace di cogliere in ogni ‘limite’ la presenza ‘del limite’. Perciò, all’uomo, Giove non poteva far altro che donare una semplice ‘estensione’ del suo mondo. “Ben gli parve conveniente di propagare i termini del creato, e di maggiormente adornarlo e distinguerlo.” (Ibid., p. 61).
113 Zib., I, 814, p. 597.
114 Ibid., I, 815, p. 598.
115 Si tratta dunque di una hybris di cui l’uomo non può liberarsi per il semplice fatto che non può fare a meno di crescere – l’età edenica sembra coincidere infatti con la fanciullezza di un’umanità non ancora fattasi adulta (narrasi che tutti gli uomini che da principio… e tutti bambini). Ma crescere significa per l’appunto diventare raziocinanti, e quindi consapevoli di sé – ossia della irriducibile distanza che separa il proprio essere soggettivo da ciò che, in quanto oggetto, viene sempre e comunque vissuto come limite che ci renderebbe strutturalmente ‘imperfetti, incompiuti, e dunque inevitabilmente condannati ad una dialettica autenticamente fichtiana. E per ciò stesso ‘storici’.
116 Zib., I, 407, p. 369.
117 Ibid., I, 407, p. 370.
118 Ibid., I, 1619, pp. 1135-1136.
119 Ibid., I, 1621-1622, pp. 1136-1137.
120 Ibid., I, 1619, p. 1136.
121 Ibid., I, 1622, p. 1137.
122 Ibid., I, 1626, pp. 1139-1140.
123 Ibid., I, 1616, p. 1133.
124 Ibid.
125 Anche se per Hegel (si tenga presente che mentre il primo volume della Logica hegeliana esce nel 1812, il frammento leopardiano qui in questione è del 1821) l’originarietà dell’esser-ci andrebbe più propriamente intesa come originarietà della sua determinatezza. “Per quanto l’essere determinato è, per altrettanto è desso un non essere, ossia è determinato” (G.W.F. Hegel, Scienza della logica, trad. it., Laterza, Roma-Bari 1974, I, p. 105).
126 Inefficace come assolutamente inefficaci sono le parole che insistentemente la Terra rivolge alla Luna nell’operetta intitolata Dialogo della Terra e della Luna. Certo, dalla Terra ci si può proporre qualsiasi fine in rapporto alla Luna (alla Natura), ma la Luna, comunque le ci si rivolga, non intenderà. Così la Luna alla Terra, infatti,: “in cambio di voltarti a me, che non ti posso intendere, sarà meglio che ti facci fabbricare dagli uomini un altro pianeta da girartisi intorno” (G. Leopardi, Dialogo della Terra e della Luna, in “Operette morali”, op. cit. p. 94).
127 Non è un caso che per Leopardi i cicli naturali costituiscano un enigma agli occhi dell’umana esistenza; essi sono un’ennesima prova, infatti, del privilegio del ‘naturale’. Essi sì, dunque, sanno essere imago del prius divino, della sua ‘eternità’, del suo incommensurabile primato, della sua perfetta ‘aporia’. Ché, se il divino è per Leopardi (in questo senso rigorosamente cusaniano) perfetta coincidentia oppositorum, allora è evidente che, là dove Kronos ed Aion non si escludono secondo l’astratta normativa istituita dal logos aristotelico – ossia nello svolgersi dei cicli naturali (ad esempio lì dove alla notte segue sempre un nuovo giorno, e dunque la temporalità, la finitezza dell’evento, ‘non escludono’ il ritorno dello ‘stesso’, ossia, il manifestarsi in uno della non-finitezza di ciò che sembrava aver esaurito la propria ‘determinatezza’) –, a parlare è l’Inizio. Quell’immemorabile inizio di cui mai potremo estinguere la nostalgia, e che continueremo dunque a desiderare di là da ogni ‘smentita’ e perentorio scacco. “Voi, collinette e piagge, / Caduto lo splendor che all’occidente / Inargentava della notte il velo, / Orfane ancor gran tempo / Non resterete; che dall’altra parte / Tosto vedrete il cielo / Imbiancar novamente, e sorger l’alba; … Ma la vita mortal, poi che la bella / Giovinezza sparì, non si colora / D’altra luce giammai, né d’altra aurora. / Vedova è insino al fine…” (Il tramonto della Luna, vv. 51-66). Ma aspirare a tale condizione – ossia a farsi ‘natura’, di là dal fingimento poetico e dall’immaginifica rimembranza (questione che costituirà il centro delle riflessioni sviluppate nella seconda e nella terza parte di questo lavoro) – è vana utopia. Non a caso, l’anelito con cui si chiude il Canto notturno è immediatamente ricondotto alla sua giusta dimensione (che è quella dell’a-topia) dalla lucida consapevolezza del poeta (che pur si trova nel cuore della finzione artistica) – “O forse erra dal vero, / Mirando all’altrui sorte, il mio pensiero: …” (Il canto notturno, vv. 139-140). Come a dire che, molto probabilmente, anche questa persuasione – che l’esser natura possa forse salvarci – rappresenta un inganno della ‘ragione’… anzi, il suo estremo inganno: quello consistente nel farci credere che una possibilità di salvezza comunque vi sia.
128 Zib., I, 1617-1618, p. 1135.
129 Ibid., I, 1619, p. 1135.
130 Ibid.
131 Ibid., 1619, p. 1135.
132 In questo senso val la pena sottolineare come, a differenza di quanto sembravano credere tanto Leibniz (secondo il quale la ragion sufficiente riguarda solo le verità di fatto – quelle il cui opposto sarebbe stato senz’altro possibile, ma il cui accadimento è comunque necessario, sia pur solo all’interno del mondo in questione, secondo una necessità che Leibniz definisce appunto necessità ipotetica – e non riguarda invece le verità di ragione, valide, esse sì, per tutti i mondi possibili; ed è tra queste ultime che ritroviamo il principium firmissimum) quanto Schopenhauer (secondo il quale tale principio, nelle sue quattro declinazioni, esprime semplicemente i modi della causalità), le forme del principio di ragion sufficiente non escludono, ma includono il ‘principio di non contraddizione’. Ché anch’esso vale appunto come ‘ragione’ del fatto che ogni cosa sia ciò che è, e non sia altro da ciò che la sua determinatezza dice della medesima.
133 Zib., I, 1627, p. 1140
134 Ibid., I, 1341, p. 971.
135 Ibid., I, 1979, p. 1333.
136 Ibid., I, 1978, p. 1333.
137 Ibid., I, 1981, p. 1335.
138 Ibid., I, 1979, pp. 1333-1334. Potremmo anche sospettare che proprio in tale estrema contraddizione si manifesti, e forse nella forma più radicale, la radice ‘divina’ del naturale – di quel naturale che, se per un verso ci condanna a non poter sopportare la costitutiva infelicità di cui non possiamo in alcun modo venire a capo, per altro ci impedisce di toglierci la vita. Leopardi, sapendo bene – come appare chiaramente dalle parole di Porfirio nel Dialogo già citato – che chi non si toglie la vita, è trattenuto, in tale proposito autoannientante, da un ‘semplice e manifestissimo errore di computo e di misura” (ibid., p. 222) (ossia da un errore nel calcolare, paragonandoli, gli utili e i danni conseguenti alla scelta di abbracciare la vita), sa anche che proprio in tale ‘incongruenza’ si manifesta fino in fondo la verità divina, ossia la verità della contraddizione, la verità secondo cui ciò che è vero è necessariamente anche falso. Per questo Leopardi può parlare di una sola ragione del tutto: la fattualità della cosa (“indipendentemente da ogni… cosa di fatto, che in realtà è la sola ragione del tutto” (cfr. Zib., I, 1341, p. 971). Quella in forza della quale si dovrà riconoscere che solo l’esistere fonda l’universo dell’esistente – un esistere che, in quanto puramente fattuale, e dunque mai ‘necessariamente’ determinato, non nega le possibilità apparentemente escluse dalla determinatezza con cui di volta in volta l’esserci di fatto si presenta. Non le nega, perché le comprende tutte insieme nell’assoluta contingenza di ogni esserci; che, dunque, in quanto tale, è sempre anche ciò che sarebbe potuto essere diversamente da come è. Ma ciò significa che ogni cosa, in quanto ‘esistente’, rinvia a quel divino in cui tutto viene contraddittoriamente reso identico. E nel cui orizzonte la perfezione, proprio in quanto infinita, “si nega come assoluta e si afferma come relativa” (Zib., I, 1621, p. 1136). Ossia ‘relativa’ alla legge determinata secondo cui l’essente di volta in volta si manifesta, e soprattutto ‘relativa’ in se stessa, in quanto costitutivamente ed intrinsecamente ‘relazionale’, in quanto in essa e per essa ogni determinatezza è tale solo nel suo originario ‘non-essere ciò che è’, ossia nel suo essere già in se stessa “relazione identitaria” tra finito e non/finito (davvero, infatti, ogni suo modo determinato si costituisce come vero e proprio specchio della divinità solo in quanto perfettamente ‘contingente’, ossia in quanto essente non solo così come di fatto ci sembra di percepirlo, ma sempre anche così come di fatto ‘non’ lo stiamo percependo). Perciò, se la natura – tramite la facoltà razionale di cui ‘naturalmente’ disponiamo – ci conduce a comprendere che l’unica vera liberazione dal male di vivere è quella che ci viene offerta dalla possibilità di ‘morire’, non sarebbe potuto non accadere che tale chance fosse nello stesso tempo dalla medesima natura sempre anche condannata. In ciò un’esperienza che, se colta in tutte le sue reali valenze, è davvero sempre dominata dal principio divino che in essa comunque si estrinseca – da Leopardi individuato nella forma della perfetta contraddizione. Una contraddizione che ci destina ad amare e odiare sub eodem il semplice fatto dell’esistere nostro e altrui. Una contraddizione che, sola, rende possibile da un lato quell’infinita perfezione che non potrebbe non costituire l’unica vera e propria qualità del Principio, ossia dell’Inizio, e dall’altro la gratuità di un esistere individuale che, in quanto proprio di ogni determinazione ontica, esprime quello stesso Principio-divino che in ogni parola e in ogni cosa continua comunque di fatto a parlare… sia pur per il tramite di un ‘dire-disdire’ che mai potrà davvero quietarsi. D’altro canto, va anche rilevato che, se non vivessimo la contraddizione lamentata da Porfirio, il Principio non sarebbe davvero il principio che di fatto sempre continua ad essere.
139 Ibid., I, 1979, p. 1334.
140 Ibid., I, 1979, p. 1333.
141 Ibid., I, 1626, p. 1140.
142 Ibid., I, 1464, p. 1044.
143 Ibid., I, 1341, p. 971.
144 Ibid.
145 Ibid.
146 Ibid.
147 Ibid., I, 1341-1342, p. 971.
148 Sergio Givone, Storia del nulla, Laterza, Roma-Bari 1995.
149 Ibid., p. 138
150 Ibid., p. 143.
151 Ibid., p. 148.
152 Ibid., p. 148.
153 Zib., I, 1089, p. 788.
154 Sergio Givone, op.cit., p. 142.
155 Zib., I, 945, p. 681.
156 Emanuele Severino, Il nulla e la poesia, Rizzoli, Milano 1990, p. 28.
157 Ibid., p. 50.
158 Zib., I, 1616, p. 1133.
159 G. Leopardi, Cantico del gallo silvestre, in “Operette morali”, op. cit., p. 189.
160 G. Leopardi, Dialogo di Plotino e di Porfirio, in “Operette morali”, op. cit., p. 219.
III. IL CANTO DELLA MIMESI
1 Zib., I, 1619, pp. 1135-1136. Leopardi scrive queste parole nel settembre del 1821.
2 D’altro canto l’uomo non potrebbe fare a meno di lasciarsi catturare da tale de-lirante anelito, se non altro in quanto vocato al conoscere, ossia a pretendere dall’irremovibile aseità del tutto una “ragione” non risolvibile nel suo stesso semplice ed ‘irragionevole’ esser-ci.
3 Molto acute, a questo proposito, le pagine in cui Alberto Caracciolo individua la presenza di un’idea del ‘religioso’ nel nichilismo leopardiano – un’idea tale che, proprio in quanto lontana dal senso che a Dio è stato attribuito dalla religione tradizionale, può significare “la scoperta di una figura più autentica dello stesso” (Alberto Caracciolo, Leopardi e il nichilismo, Bompiani, Milano 1994, p. 62). Già in Leopardi, come poi nella grande riflessione novecentesca sul nichilismo, secondo Caracciolo si dischiuderebbe una coscienza “palesemente inserita nel e aperta al contesto del mondo, ma palesemente anche aperta a uno spazio che trascende la totalità cosmica, se in quella coscienza può sorgere l’idea che il cosmo, nella sua struttura, così come l’uomo lo esperimenta, potrebbe anche non essere o essere – proprio per struttura ed essenza – diverso”… ossia aperta ad uno spazio che “non è semplicemente l’abisso senza confini, il Vuoto, in cui si fa contingente, e così in qualche modo si nientifica, il cosmo, ma è lo spazio in cui si costituisce e da cui discende il giudizio del mondo e cui sale al tempo stesso l’invocazione ontologica del mondo”… uno spazio che è “lo spazio trascendentale di Dio” (ibid., pp. 71-72).
4 Zib., I, 1620, p. 1136.
5 Ibid., I, 1619, p. 1136.
6 Ma, rileva giustamente Alberto Folin: “anche lo snaturamento è naturale: poiché la ‘cosa’ di per sé è originariamente mitica, il suo discoprimento autentico consiste nel mantenerla in un naturale nascondimento, e cioè nella sua unità di visibile e invisibile” (Alberto Folin, Pensare per affetti. Leopardi, la natura, l’immagine, Marsilio, Venezia 1996, p. 24.)
7 Antonio Prete, Le ‘Operette morali’: un libro poetico ovvero morale, Introduzione a G. Leopardi, “Operette morali”, Feltrinelli, Milano 1996, p. 12.
8 Mostra bene Cesare Galimberti come tale idea sia perfettamente articolata da Leopardi in Storia del genere umano. Dove, come in un testo gnostico, si narra di “una Caduta o di ricorrenti Cadute da una condizione di totalità indifferenziata, da una sorta di pleroma secolarizzato” (Cesare Galimberti, Un libro metafisico, Saggio introduttivo a G. Leopardi, “Operette morali”, Guida, Napoli 1998, p. 37).
9 Cfr. il già ricordato Nel “tempo” di Dio, contenuto nel volume “I comandamenti. Santificare la festa” (Massimo Donà, Stefano Levi Della Torre, il Mulino, Bologna 2010).
10 Zib., I, 420, p. 378.
11 Va comunque tenuta presente l’origine più lontana delle idee aristoteliche di ‘virtù’ e ‘giustizia’; che giusto fosse lo stare nel ‘giusto mezzo’, poteva esser ritenuto per vero da Aristotele solo sulla base di un’antica tradizione risalente perlomeno ad Esiodo. In questo senso la rilettura leopardiana dell’idea di decadenza a partire da un’origine incontaminata e felice è davvero molto più greca che cristiana – anzi, diremmo che è radicalmente greca. Si pensi solamente all’innegabile affinità esistente tra il mito esiodeo delle razze (si legga a questo proposito l’illuminante saggio di J.P. Vernant, Il mito esiodeo delle razze, in “Mito e pensiero presso i greci”, trad. it., Einaudi, Torino 1998) e la Storia del genere umano di Leopardi. Così come per Esiodo la successione delle razze, corrispondente ad una progressione di metalli sempre meno preziosi, dice un progressivo prevalere della hybris su dike (anche a proposito del mito di Prometeo, “Esiodo riassume questa lezione nella formula: ascolta la ‘giustizia’, dike, non lasciar crescere ‘la smisuratezza’, hybris”, ibid., p. 15), allo stesso modo anche per Leopardi il processo di decadenza avrebbe una delle sue decisive ragioni, prima che nella definitiva sventura costituita dalle promesse della larva chiamata Sapienza, nella natura – sempre più chiaramente esplicitantesi come ‘tracotante’ – dell’umana genìa. Giove, racconta Leopardi, sapeva bene che agli uomini “non può bastare, come agli altri animali, vivere ed essere liberi da ogni dolore e molestia del corpo; anzi, che bramando sempre e in qualunque stato l’impossibile, tanto più si travagliano con questo desiderio da se medesimi, quando meno sono afflitti dagli altri mali” (G. Leopardi, Storia del genere umano, op. cit., p. 62).
12 Quando dice ‘poeta’, Leopardi pensa in realtà all’artista in quanto tale; e ciò risulta chiaramente dal fatto che le pagine dedicate alle ‘opere di genio’ e alla loro capacità di consolare, scritte da Leopardi il 5 ottobre del 1820, sono precedute nello Zibaldone da altre pagine, scritte due giorni prima, in cui si inizia ad affrontare il tema dell’arte e della poesia – ossia il medesimo tema – riferendosi invece più in generale alle ‘belle arti’ (“Bisogna distinguere in fatto di belle arti, entusiasmo, immaginazione…” Zib., I, 257, p. 269), e riferendosi nelle ultime righe del medesimo frammento al ‘poeta o artefice’, rivelando con tutta chiarezza che ciò che viene detto del poeta può essere indifferentemente riferito anche all’artista dedito ad altre pratiche specifiche.
13 Zib., I, 259, pp. 270-271.
14 A questo proposito citiamo, per tutte, le parole di Brioschi, fermamente convinto che la poesia, per il ‘materialista’ Leopardi, indichi “adesione patetica alla fragile trama di illusioni, speranze…” – che lui chiama “apparenze d’infinito”, in quanto “si tratta di una disposizione a guardare il mondo sorretta da uno slancio vitale breve e caduco…” corrispondente ad una poetare corrispondente all’ “utopia di un’integralità umana cui la sorte non consente” (F. Brioschi, La poesia senza nome, Il Saggiatore, Milano 1980, pp. 161-162). Ma potremmo anche aggiungere le parole, tratte dalle pagine conclusive del saggio di Antonio Prete su Finitudine e Infinito, relative alla necessaria finzione di là dalla quale la parola poetica sembra non poter ‘immaginare’ né il nulla né l’infinito. “Ma questa infinità del nulla non può esistere se non nell’immaginazione, nel pensiero, nella lingua… è l’immaginazione che toglie i confini del cosmo: il fanciullo, il selvaggio, il primitivo credono che il mare non abbia confini e che le stelle non si possano contare… da questa stessa disposizione alla finzione e all’eccesso della finzione era nata la prima, la più arrischiata, meditazione leopardiana sull’infinito…” (Antonio Prete, Finitudine e Infinito, in “Leopardi e il pensiero moderno” (a cura di C. Ferrucci), Feltrinelli, Milano 1989, p. 64). Insomma, per questi e molti altri lettori leopardiani rimane fermo che la poesia sarebbe tale in quanto in grado di stravolgere, nella finzione della sua poiesis immaginativa, il vero che i sensi (con l’avvallo della visione ‘razionale’) ci mostrano in tutta la sua intollerabilità. Essa e le sue ‘illusioni’ ci farebbero vedere quel che non-è, ciò che sussisterebbe insomma solo nelle parole di una lingua irrevocabilmente incapace di stare alle cose e al loro insostenibile ‘vero’. Cosa oltremodo improbabile, se non altro per il fatto che oggetto della rappresentazione artistica (del suo fare mimetico) è appunto quello stesso nulla delle cose, quella stessa insensatezza (o ‘infinitudine’ – che per Leopardi è l’analogon di “insensatezza” o “indifferenza”, e non di “estensione senza-limiti” del cosmo o dell’essere… solo di quest’ultima, infatti, vorremmo suggerire a Prete, si può dire che non esiste se non nelle parole di una lingua ‘malata’ e incapace di unire la ragione all’immaginazione) che ogni vero sistema filosofico sa riconoscere come dolorosa cifra del ‘vero’.
15 Vorremmo mettere in luce l’estrema debolezza del modo in cui Emanuele Severino si propone di rendere ragione di tale caratterizzazione del ‘poetico’. E dunque delle opere che proprio in virtù di tale caratterizzazione vengono definite da Leopardi “opere di genio”. Come abbiamo già visto, l’ermeneutica del filosofo bresciano – che costituisce il cuore di un’opera in due volumi dedicata a Leopardi, che rimane in ogni caso una delle più significative interpretazioni del pensiero del poeta marchigiano – si fonda sulla distinzione tra la verità resa manifesta dalla filosofia, ma separata dalla poesia, e la verità resa manifesta dalla filosofia, ma unita alla poesia. Sì che, per lui, per quanto sia vero che “la verità (che è misera e fredda), una volta conosciuta, non può più essere dimenticata” (Emanuele Severino, Cosa arcana e stupenda. L’Occidente e Leopardi, Rizzoli, Milano 1997, p. 312), è anche vero che “l’unione della verità alla poesia è una forma di dimenticanza della verità in quanto separata dalla poesia” (ibid., p. 312). Insomma, nell’opera di genio, ciò da cui ci si libera sarebbe costituito “dalla verità in quanto separata” (ibid.). E solo in quanto capace di realizzare tale unione della verità con la poesia, l’opera di genio, costituendosi appunto come dimenticanza del contenuto della verità ‘in quanto separato dalla poesia’ (o, che è lo stesso, in quanto verità astratta), riuscirebbe a ravvivare il cuore e a produrre nobiltà d’animo. Consentendo all’anima di “avvertire il proprio vedere e il proprio stare nell’essere” (Emanuele Severino, Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, Rizzoli, Milano 1990, p. 144). In modo tale che questo avvertire prevalga nell’animo sulla nullità della cosa che essa fa comunque sentire. E dunque prevalga sulla noia – stante che la noia altro non è che “questa nullità in quanto sentita” (ibid., p. 145). Ecco, per Severino, sarebbero proprio l’indifferenza e insensibilità della noia – in cui è comunque superata l’angoscia per il nulla (quella che richiede “una forza che l’esistenza in quanto è invasa dal nulla non può possedere”, ibid.) – ad essere rimosse “dalla contemplazione dell’opera del genio, che ci rende sensibili alla nullità delle cose” (ibid.). Ma è questo il punto. Nel ragionamento di Severino, ciò di cui non si riesce a rendere ragione è proprio questo prevalere reso possibile dall’opera di genio. Quel che non si capisce è insomma per quale ragione l’unione della verità con la poesia dovrebbe “realizzarsi nella verità e liberarci dalla noia” (ibid., p. 146). O meglio, per quale ragione “la fondazione filosofica che mostra la verità come verità – dove l’essenza di questa fondazione è la posizione dell’evidenza originaria e della certezza indubitabile del divenire e della nullità di tutte le cose” (ibid.), dovrebbe aprire il cuore e ravvivare, stante che il contenuto è il medesimo – ossia, quello che, veduto nella realtà delle cose, accora e uccide l’anima. Certo, Severino rileva che “soddisfazione e consolazione non provengono dalla visione del nulla, in quanto visione del nulla” (ibid., p. 149). Ciò non avrebbe senso; egli precisa cioè che quella consolazione proverrebbe piuttosto “dalla forza e vitalità della visione del nulla – che sono sì forza e vitalità di tale visione, ma proprio per questo differiscono da essa, poiché sono la purezza della verità della visione, e il suo riverbero nell’anima” (ibid.). Per tale visione l’anima si sentirebbe al di sopra del passare, ossia si sentirebbe eterna. Precisa Severino che “l’elemento centrale di tutte queste espressioni è il sollevarsi dell’uomo al di sopra del nulla e della finitezza, verso l’eterno, è il porsi nella dimensione dell’eterno” (ibid.). Restando totalmente ingiustificata, però, l’identificazione, operata appunto da Severino, di quel porsi al di sopra con il sollevarsi verso l’eterno. D’altronde, come potrebbe la lucida visione della verità consentire l’illusione costituita dalla convinzione di ritrovarsi nell’eterno? Per Severino, fermo restando il suo saper bene che non vi è nulla di eterno, Leopardi saprebbe anche che “questo sapere, tuttavia, non può separarsi dall’illusione di essere eterni” (ibid., p. 150). Ma perché mai – questo Severino non lo spiega affatto – il sapere la nullità di tutto si ritroverebbe nell’impossibilità di separarsi dall’illusione di essere eterni? Insomma, cosa renderebbe la conoscenza del vero indistricabilmente connessa (nella forma di una implicazione necessaria) al costituirsi dell’illusione secondo cui quel medesimo vero, sembra poter essere comunque contraddetto dalla convinzione e della sensazione di eternità? Nulla. Almeno, nel discorso di Severino, e del ‘suo’ Leopardi. Anche perché, in ogni caso, Leopardi non connette mai – almeno, esplicitamente – tale sensazione di ritrovata vitalità a qualcosa che abbia a che fare con il nostro ‘sentirci eterni’.
16 Se non altro per un motivo: ossia per il fatto che in quelle filosofie, comunque, il ‘vero’, cioè la sua perfetta contraddittorietà e dunque ‘insensatezza’ (stante che il senso, da un punto di vista logico e razionale – l’unico che il nostro ‘dire’ riesca ad articolare – è sempre e comunque fondato su una facoltà discernente, o comunque rinviante al nomos, inevitabilmente non-contraddittorio, della ‘distinzione’), sono inevitabilmente ricondotti ad una grammatica del dire che non può fare a meno di trasfigurarle in figure del ‘senso’ (magari di un senso autocontraddittorio, autonegantesi… ma comunque ‘determinantesi’ come tale). Ciò riguarda le esigenze del ‘dire’ filosofico tout-court, evidentemente; e non solo questa o quella forma filosofica, quasi si trattasse di errori che queste ultime avrebbero davvero potuto evitare. Ciò non concerne invece il dire leopardiano, in quanto originariamente ‘poetico’, immaginativo, e dunque costituentesi come straordinaria ed inedita ‘rinuncia’ al logos, secondo quanto verremo spiegando nel seguito del presente lavoro.
17 Zib., I, 140, pp. 170-171.
18 Ibid., I, 1226, p. 889.
19 Ibid., I, 1228, p. 891.
20 Ibid.
21 Ibid., I, 1234, p. 895.
22 Ibid.
23 Ibid., I, 1235, p. 896.
24 Ibid.
25 Ibid., I, 1838, pp. 1258-1259.
26 Ibid., I, 1836, p. 1258.
27 Ibid.
28 Ibid., I, 1838, p. 1259.
29 Ibid., I, 1089, p. 788.
30 Ibid., I, 1090, p. 788.
31 Ibid., I, 583, p. 473.
32 Ibid., I, 584, p. 473.
33 Ibid., I, 584, p. 474.
34 Ibid., I, 584-585, p. 474. A proposito della vexata quaestio relativa al ‘Leopardi-filosofo’ ci sembra opportuno spendere almeno qualche parola sulla posizione – peraltro più avvertita di molte altre, pur del medesimo segno – del Luporini. Anche per quest’ultimo, infatti, la questione – da lui considerata oziosa, “se posta astrattamente” (C. Luporini, Leopardi progressivo, Editori riuniti, Roma 1993, p. 3) – può essere risolta rilevando come “non appare possibile inserire il ‘pensiero’ di Leopardi in quella connessione problematica e critica, sempre rinnovantesi storicamente, della indagine sulla realtà, per cui con risultati nuovi e fecondi ogni generazione torna a leggere e a interpretare i dialoghi di Platone o il Discorso del metodo o la Logica hegeliana” (ibid., pp. 3-4). Affermazione quanto mai sconcertante, innanzitutto per l’assoluta mancanza di giustificazione con cui viene posta. In che senso, vorremmo infatti sapere, “il pensiero di Leopardi rimarrebbe escluso da tale connessione, che è poi quella del puro momento conoscitivo nel processo critico dell’umana costruzione della verità, il momento della scientificità, intrinseco alla filosofia” (ibid., p. 4)? Di quale scientificità mancherebbe il theorein leopardiano? Di quella platonica? Di quella cartesiana? Di quella hegeliana? Nessuna di queste, peraltro – ben dovrebbe saperlo il Luporini –, è riconducibile a quella che Leopardi stesso condanna in quanto ‘scientificità’ astratta, e dunque costretta nelle maglie della mera precisione. Dovrebbe dirci, il Luporini, cosa intende per scientificità. Se allude alla nozione moderna di scientificità, connessa al processo di matematizzazione del nostro tempo, allora si tratta innanzitutto di comprendere che nessuno dei filosofi (eccetto, forse, Cartesio – se non altro in relazione all’immagine ‘impropria’ che del filosofo del ‘dubbio’ è ormai passata attraverso la manualistica ordinaria) da lui stesso citati vi è in alcun modo riconducibile. Se di ciò si tratta, allora, ci si metta il cuore in pace, non solo “Leopardi non fu filosofo” (ibid., p. 4), ma neppure Hegel, Platone, e forse neppure Cartesio. Che poi di Leopardi non si continui a parlare, di generazione in generazione, così come si continua a parlare di Platone e di Hegel, è Luporini stesso a smentirlo con i suoi lavori critici (e con lui una ormai nutritissima schiera di validi studiosi, letterati o filosofi che siano).
35 Zib., I, 586, p. 475.
36 Ibid., I, 583, p. 473.
37 Ibid.
38 Ibid., I, 1839, p. 1259.
39 Ibid., I, 1838, p. 1259.
40 Ibid., I, 1839, p. 1259.
41 Ibid. Ha ragione M. Cacciari, dunque, quando, in uno dei due saggi leopardiani contenuti nel già citato volumetto intitolato Magis amicus Leopardi, mostra, con estremo rigore esegetico-speculativo, l’essenziale platonismo del ‘fingimento’, del mythos, ossia del pensiero dominante leopardiano. Nel saggio in questione, infatti, Cacciari propone una radicale rilettura del senso della vera illusione che il pensiero non può non produrre nel proprio ineludibile ‘errare’, mossa da un ineludibile ‘amore’ per l’Idea, unica ‘favola’ capace di costituirsi come “quell’essenziale sistema di riferimento in base al quale è possibile criticare non solo il carattere illusorio e ipocrita della filosofia di questo mondo, del secol “sciocco” proprio perché “superbo” delle sue sorti (La Ginestra), ma anche l’aporia che informa di sé tutto il pensiero dell’Europa o Cristianità” (Massimo Cacciari, Magis Amicus Leopardi. Due saggi, op. cit., pp. 33-34 – il medesimo saggio, intitolato Leopardi platonicus?, era comunque già stato pubblicato in un volume edito in Francia e intitolato “Dran”, Èditions de l’éclat, Combas 1992; in quest’ultima versione la medesima citazione si trovava alle pp. 121-122). Insomma, anche per Cacciari si tratta di reinterpretare radicalmente, ossia di intendere adeguatamente il senso dell’immaginare leopardiano – ossia di ciò che fa della vera poesia l’analogon di quella vera contemplazione a cui anche il filosofo kantiano sa di dover approdare per ‘esperire’ lo stesso fondamento-infondato del suo sensibile intelligere.
42 Su questa questione rinviamo all’importante studio di Cesare Galimberti Linguaggio del vero in Leopardi (L.S. Olschki, Firenze 1986). Galimberti ha mostrato con estrema lucidità critica quale sia il ruolo e la funzione della ‘negazione’ nel linguaggio leopardiano. A questo proposito Cesare Galimberti svolge una articolata analisi dei modi del ‘negativo’, così come essi sono reperibili nei Canti e nelle Operette Morali, nella ferma e fondamentale convinzione che “il linguaggio leopardiano del ‘vero’ è tutt’altra cosa dal linguaggio della ragione, matematico, algebrico, francesizzante, metodicamente censurato nello Zibaldone, perché tutt’altra cosa è il ‘vero’ del Leopardi dalle verità illuministiche” (Cesare Galimberti, Linguaggio del vero in Leopardi, op. cit., p. 94).’ È già Galimberti, d’altro canto, a ricordarci che, a differenza del Foscolo, Leopardi fa del nulla e del sentimento dell’infinito non qualcosa di fronte a cui ritrarre gli occhi atterriti, ma piuttosto il centro stesso delle sue ‘ossessive’ meditazioni – sempre pervase (in ciò lo ‘stra-ordinario’), nel loro costituirsi comunque come riflesso dello “scacco della ragione di fronte a una realtà oscura e nemica”, dall’innocente meraviglia per una sempre possibile “conquista sull’informe e l’inorganico” (ibid., p. 160).
43 Cfr. Zibaldone, I, 583, p. 473.
44 Zib., I, 585, p. 474.
45 G. Leopardi, Operette morali, Feltrinelli, Milano 1996, pp. 121-22.
46 Zib., I, 1836, p. 1258.
47 Ibid., I, 1835, p. 1257.
48 A proposito della ratio e del suo rapporto con la natura ci sembra un po’ approssimativa la lettura fattane da Luporini in Leopardi progressivo. Mi riferisco alle pagine in cui il nostro individua due concetti di ragione tra cui oscillerebbe il pensare leopardiano. Una ragione ‘positiva’ (buona) ed una ‘negativa’ (causa di tutti i mali). La prima sarebbe quella primitiva che Leopardi distingue dall’altra in un passo dello Zibaldone appositamente citato da Luporini. “La ragione è nemica della natura, non già quella ragione primitiva di cui si serve l’uomo nello stato naturale, e di cui partecipano gli altri animali, parimenti liberi, e perciò necessariamente capaci di conoscere” (Zib., I, 375, p. 348). Secondo Luporini, cioè, Leopardi non condannerebbe la ragione tout-court, ma solo quella corrotta dei moderni. Nulla a che fare con quella facoltà innata che in sé “non era vizio” (Zib., I, 657, p. 514). Leopardi dice infatti: “Io non condanno la ragione in quanto è qualità naturale ed essenziale nel vivente, ma in quanto cresce e si modifica in modo che diviene il principale ostacolo alla nostra felicità” (Zib., I, 1825, pp. 1251-52). Nemico della natura è allora quell’uso eccessivo della ragione che è proprio solamente dell’uomo, e, nella fattispecie, dell’uomo corrotto – questo, afferma a chiare lettere Leopardi. Eppure il Luporini oltrepassa il segno. Vede in Leopardi ciò che non è di Leopardi; se non altro in quanto quella che Luporini chiama ragione storica è per Leopardi ciò che distingue l’uomo dagli altri animali. Altrimenti non avrebbe senso affermare che la ‘ragione ‘primitiva’ è ciò di cui partecipano anche gli altri animali. Se dicendo ‘ragione primitiva’ o ‘innata’, se dicendo ‘qualità naturale ed essenziale del vivente’ (tutte espressioni leopardiane), ci si riferisse a qualcosa di connaturato all’uomo, indipendentemente dai risultati della sua storia, non si potrebbe (come invece Leopardi fa) estendere tale qualità a tutti gli animali. Se fosse una qualità dell’uomo in quanto uomo, dovrebbe comunque distinguere la sua natura da quella degli altri esseri viventi. In realtà si tratta molto più semplicemente di quel prius – cui già abbiamo fatto riferimento – cui l’eccedenza (l’eccesso al quale fa riferimento Leopardi) propria dell’umano non può non guardare come ad un’origine mitica e divina da cui sarebbe da tempo immemorabile caduta. Caduta facendosi appunto eccedenza, eccesso, rispetto al semplice ‘essere di ciò che è’, ossia, all’indifferente aseità del puramente ‘esistente’. Parlando di ragione-primitiva, dunque, ci si riferisce a quel prius che Leopardi non può non chiamare ‘ragione’ (anche se ‘primitiva’ o ‘innata’) proprio a dimostrare d’esser ben consapevole del fatto che di un prius “del” e “per” l’uomo si tratta. Del ‘suo’ (dell’uomo) mito – di ciò che non possiamo fare a meno di considerare quale metron della nostra condanna, quale idea del ‘giusto’ a partire dal quale, solamente, la nostra condizione riesce a rendere ragione del proprio scacco costitutivo. Ragione-primitiva è qualcosa che riguarda l’uomo solo nella misura in cui viene da quest’ultimo vissuta come il proprio ‘irrecuperabile’ ed ‘inesperibile’ passato – ché al presente essa è predicabile solo del puramente naturale.
49 Dice benissimo Cesare Galimberti, quando, in Un libro metafisico, precisa come la rinuncia leopardiana alle illusioni tutte e solamente individuali (che gli appaiono, ci ricorda Galimberti, troppo precarie) apre lo spazio ad un’altra esperienza del falso, dell’illusorio. Quella in forza della quale, cioè, la condizione ‘eternamente’ perduta sembra potersi fare ‘possibilità’ di un’esperienza che sarebbe falsa solo se paragonata con la verità univoca e non contraddittoria della logica ‘analitica’, ma che, se mossa da una spinta profonda, proveniente dall’originaria insensatezza del tutto, potrebbe anche determinarsi come insopprimibile anelito ad uno stato perfettamente indifferenziato. “Si volge alla disperata ricerca di una condizione ignara non soltanto della ostilità della ragione alla natura, ma della distinzione stessa tra vero e falso, estranea persino alla possibilità del costituirsi di nozioni contrapposte o anche solo distinte” (Cesare Galimberti, Un libro metafisico, op. cit., p. 8).
50 Zib., I, 75, p. 112.
51 A questo proposito merita di essere ricordato un recente e bellissimo studio dedicato a Leopardi da Alessandro Carrera. Che dedica alcune pagine ad un appropriato e intenso confronto tra la distanza evocata da Leopardi quale condizione imprescindibile affinché possa prender forma la vaghezza del “poetico” e il canto nostalgico di Orfeo, alimentato con forza dalla lontananza e dall’impossibilità di guardare frontalmente l’immagine di Euridice. Rileva Carrera che “Orfeo non vede Euridice mentre indirizza il suo canto alle potenze infernali, né gli viene permesso di vederla finché non esce dall’Ade” (Alessandro Carrera, La distanza del cielo. Leopardi e lo spazio dell’ispirazione, Medusa, Milano 2011, p. 124). Il nostro, insomma, già nel semplice disegnarsi di questa suggestiva idea leopardiana, riconosce lo strutturarsi di un vero e proprio riattraversamento dello ‘spazio di Orfeo’; sua è infatti la zona che rende possibile il sublime canto della poesia. La stessa che, come ci ricorda sempre il nostro studioso, aveva già caratterizzato molti tra i componimenti del vero e proprio progenitore del tema dell’amor di lontano o amor de lohn: Jaufré Rudel. Già la donna cantata dal trovatore francese, infatti, annunciava la contraddittorietà di un amore che non voleva godere del possesso dell’amata, ma, paradossalmente, solo della distanza da quel medesimo possesso – in verità solamente ‘immaginato’. Molti altri sono comunque gli esempi riportati nel dotto saggio di Carrera; lungo un percorso di cui proprio Leopardi sarebbe in questo senso riuscito a trarre le conseguenze più radicali. Il fatto è che il poeta può amare, e sa di poter amare solo nella lontananza; nessun “piacere” risultando di fatto paragonabile alla potenza donataci dalla “lontananza”. Anche la Laura petrarchesca, d’altro canto, nascondeva il viso allo sguardo del poeta. Insomma, la bellezza procura vero piacere solo là dove l’oggetto bello sia irreparabilmente distante – come Euridice, perduta per sempre, e resa ‘cantabile’, di fatto, proprio da quell’allontanamento radicale e definitivo costituito dalla sua morte… il solo accadimento che sarebbe davvero riuscito ad ispirare Orfeo, e a fargli comporre i sublimi canti che avrebbero fatto innamorare pazzamente le baccanti. Al limite, il ‘bello’ cantato dal poeta sarebbe potuto tornare a manifestarsi ‘in sogno’ – altro modo specifico in cui ci è dato fare esperienza della lontananza…. come nel caso della giovane donna cui Leopardi avrebbe dedicato uno dei suoi Canti più struggenti: “Il sogno”. Dice bene, dunque, Carrera, che “la donna del poeta dimora nell’aperto del giorno e della natura, ma resta invisibile e sospesa. Non tocca la terra, non si confonde né con la vita dei divini né con la dimensione favolosa della giovinezza” (ibid., p. 131). In realtà Leopardi sta qui parlando dell’unico modo in cui le cose e le persone possono farsi ‘belle’ e per ciò stesso amabili. Quello che vede sfumare sempre più radicalmente i nitidi contorni di cui ha invece bisogno il ‘vedere’ – e dunque il theorein che solo, peraltro, rende possibile una conoscenza “vera” nel senso dell’esattezza.
52 Zib., I, 76, p. 113.
53 Ibid., I, 1017, p. 736.
54 Ibid.
55 Ibid., I, 169, p. 199.
56 Ibid., I, 51, p. 83.
57 Ibid., I, 99, p. 134.
58 In questo senso ci sentiamo di dover mettere radicalmente in discussione la convinzione di Prete (che è peraltro una tra le più diffuse tra i molti insigni leopardisti), secondo cui l’infinità del nulla leopardiano “non può esistere se non nell’immaginazione, nel pensiero, nella lingua” (Antonio Prete, Finitudine e Infinito, op. cit., p. 64). Ma anche quella esplicitata da Binni in La protesta del Leopardi. Se, infatti, come Leopardi stesso precisa a più riprese, la natura è in quanto tale ‘vaga’ (sia in Alla primavera, v. 90, che in Il passero solitario, dove appunto, rivolgendosi al ‘solingo augellin’, il poeta così si esprime: “Certo del tuo costume / Non ti dorrai; che di natura è frutto / Ogni vostra vaghezza.”, vv. 47-49), come è possibile intendere – secondo quanto vorrebbe appunto il Binni – l’estrema difesa della natura dell’Inno ai Patriarchi al modo di un tentativo “più volonteroso che efficace, più una battaglia di retroguardia che un vero intervento persuaso ed inteso a ristabilire nella sua pienezza le ragioni e il sentimento del sistema della natura” (W. Binni, La protesta del Leopardi, Sansoni, Firenze 1982, p. 76)? Il fatto è che, nell’Inno cui fa riferimento il Binni, Leopardi non fa altro che confermare la sua idea di fondo di una ‘natura’ che sarebbe male solo in relazione al domandare ‘umano, troppo umano’, che vuole da essa una qualche ‘ragione’ in grado di giustificare e dare senso all’infelicità da cui è mosso. Per Leopardi, cioè, prima del peccato adamitico, nella natura “regnava ignota pace” (cfr. vv. 31-31 dell’Inno); essa era una “fortunata sede di colpe ignara” (cfr. vv. 35-36); ma la natura è ancora ‘saggia’, per il poeta, là dove ancora non sia sopraggiunto il nostro scellerato ardimento (cfr. vv. 110-112). Una tal natura è proprio per ciò ‘riproducibile’ solo dall’immaginazione. Ogni altro atteggiamento conoscitivo non potrebbe, infatti, che infrangere la sua ‘originaria’ in-differenza e ricondurla ad una realitas che altro non può dire se non l’univocità di un presente incalzato dalla domanda-di-senso (e dunque ‘il falso’). Perciò solo le illusioni dell’immaginazione sono autorizzate ad imitarla in forma credibile e vera; infatti, riconducendo la mera presenza dell’“è” (peraltro sempre conforme ad una ragione che lo fa ‘necessario’) alla distanza del non-esistente, esse riescono ad abitare quel ‘vago’ che, lungi dal condurci nell’improbabile dimensione del ‘fantastico’, ci situa piuttosto nel cuore stesso della verità ‘naturale’.
59 Zib., I, 138, pp. 168-169.
60 Ibid., I, 174, p. 203.
61 Ibid., I, 1044, p. 756.
62 Ibid., I, 1987, p. 1338.
63 Ibid., I, 1521, p. 1078.
64 Ibid., II, 3745, p. 2332.
65 Cfr. Zib., I, 1789, p. 1232.
66 Ibid., II, 4426, p. 2985.
67 Ibid., I, 647, p. 509.
68 Ibid., I, 646, p. 509.
69 Ibid., I, 647, p. 509.
70 Ibid., I, 648, p. 509. È proprio su questa questione che si gioca la reale distanza tra Leopardi e Schopenhauer. Dibattuta sin da troppo tempo – almeno, a partire dal dialogo desanctisiano del 1858 (F. De Sanctis, Schopenhauer e Leopardi, Ibis, Pavia 1992) –, quella relativa al rapporto tra il poetare leopardiano ed il sistema filosofico schopenhaueriano è una questione che merita d’essere ripresa anche qui, se non altro perché ci consente utili chiarimenti a proposito dell’ontologia leopardiana – che è sì strutturata come una metafisica del dolore, ma in chiave assolutamente e rigorosamente antropocentrica (per Leopardi, insomma, il ‘dolore’ ha nell’uomo il suo luogo e il suo senso, nonché la sua esclusiva condizione di possibilità). Per quanto riguarda la lettura del De Sanctis, giova qui ricordare che, se davvero per lui “Leopardi e Schopenhauer sono una cosa. Ché quasi nello stesso tempo l’uno creava la metafisica e l’altro la poesia del dolore…” (ibid., p. 54), oltremodo sconcertante risulta la successiva annotazione, secondo cui “Leopardi vedeva il mondo così, e non sapeva perché, mentre Schopenhauer l’ha trovato con la scoperta del ‘Wille’” (ibid., p. 54). Da un lato, dunque, il poeta intuitivo, ma non consapevole del senso di ciò che intuisce, e dall’altro il filosofo, le cui tesi, invece, non possono non trovare un ‘fondamento’ ontologico-metafisico. Perciò, certamente, Leopardi s’incontra ne’ punti sostanziali con Schopenhauer, ma “gli sta di sotto per molti rispetti. Primamente Leopardi è poeta; e gli uomini comunemente non prestano fede ad una dottrina esposta in versi; ché i poeti hanno voce di mentitori (ibid., p. 85). E poi Leopardi non è filosofo, perché “a filosofare si richiede metodo” (ibid., p. 85) – tesi ben più diffusa, ancor oggi, di quanto non si creda. Tesi sconcertante, che mette in evidenza una lettura del tutto ignara del fatto che, più che una lacuna nella spiegazione del male di vivere, in Leopardi si verrebbe a configurare una spiegazione ontologica assolutamente imparagonabile alla metafisica della volontà di matrice schopenhaueriana. Come abbiamo già rilevato, non ci interessa infatti rilevare la presenza di un radicale ‘pessimismo’ del vivere in entrambi gli autori. Si tratta piuttosto di comprendere quali siano le radici, ossia le ragioni di un tale atteggiamento filosofico-esistenziale. E allora non si potrà fare a meno di sottolineare il fatto che, mentre in Schopenhauer la radice di qualsivoglia forma d’esistenza (umana e non, organica o inorganica che sia) sarebbe costituita dalla Volontà, per Leopardi la Volontà, o desiderio ‘infinito’ (anche in Schopenhauer Volontà dice ‘desiderio infinito, e dunque inappagabile’), è invece caratteristica esclusivamente umana. La Natura, infatti (quello che per lui indica l’orizzonte del non-umano, dell’oltre-umano – e che fa anche dell’Uomo, della sua volontà infinita, qualcosa di non-umano, naturale, e dunque contraddittorio rispetto al suo costituirsi in contrapposizione ad ogni altra espressione della Natura), non vuole alcunché. Come già abbiamo visto, essa ‘sta’, ossia riposa nella propria ‘aseità’. Essendo fatta di quegli stessi sovrumani silenzi e interminati spazi che nell’Infinito sono attribuiti alla potenza autoillusoria del pensiero; ritrovandosi costituita cioè da rupi e deserte valli (cfr. Inno ai patriarchi, v. 27), come le vaste californie selve (cfr. ibid., v. 104). E proprio in quanto cosiffatta essa è bella (“Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella / Sei tu, rorida terra”, Ultimo canto di Saffo, vv. 19-20); in quanto “più saggia” e “tanto / Meno inferma dell’uom” (La ginestra, vv. 314-315), essa, solinga, eterna peregrina (cfr. Canto notturno, v. 62), è tale da poter venire invidiata (“Quanta invidia ti porto!”, Canto notturno, v. 107); anche perché libera d’affanno va (cfr. Canto notturno, vv. 108-109), come il gregge, come la luna, silenziosa, vergine (termini usati da Leopardi nel Canto notturno), cifra dell’origine incontaminata e caratterizzata dalla pura aseità – vero modo dell’in-differenza. Nulla vuole dunque la Natura, agli occhi di Leopardi! Da ciò il dolore dell’esistere – per una natura ‘bella’ e insieme radicalmente altra da noi, che non può dunque cor-rispondere (neppure la nostra natura) ai nostri insopprimibili desideri, alla nostra volontà. In Schopenhauer, invece, la radice del dolore viene ravvisata nella struttura stessa della Volontà universale – che riguarda noi ed ogni altra esistenza naturale – e non nella mancata corrispondenza tra noi e il puro esserci di quel che è. Perciò solo per Schopenhauer il dolore è veramente ‘universale’. Per quest’ultimo, infatti, la volontà (il Wille) è certamente più rischiarata dalla conoscenza, nella vita dell’uomo, ma nondimeno si manifesta anche nella vita animale – ossia in quella vita “il cui perenne soffrire è facile a dimostrarsi” (A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, op. cit., vol. II, p. 409). Ma anche della natura del tutto priva di conoscenza, essa (la Volontà) costituisce il ‘vero sostanziale’, per quanto “sol con più acuta attenzione ed a fatica la scopriamo nella natura priva di conoscenza” (ibid., p. 409). Insomma, “un diuturno tendere, non mai soddisfatto, è la vita della pianta, un incessante svilupparsi, attraverso forme sempre più elevate, finché il punto ultimo, il seme, diventi alla sua volta principio. E questo si ripete all’infinito: mai un termine, mai definitivo appagamento, mai un riposo… questa, l’aspirazione ond’è costituita l’essenza più intima di tutte le cose. E questa preme invano, ma tuttavia non può venir meno alla propria natura, e si tormenta, fin quando il suo fenomeno perisce, mentre tosto altri ne afferrano avidi il posto e la materia” (ibid., pp. 408-409). In questo senso ci sembra di poter rilevare – al contrario di quanto pensa De Sanctis – un maggior rigore speculativo nella consapevolezza leopardiana; se non altro perché la visione schopenhaueriana manifesta almeno una inequivocabile incongruenza: come ritenere (e in ciò Schopenhauer è esplicito) da un lato che “la volontà, in tutti i gradi del suo fenomeno, dai più bassi ai più alti, manca affatto d’un fine ultimo e d’uno scopo” (ibid., p. 408) e dall’altro che all’uomo non sarebbe dato ricondurre il senso dell’universale esistenza cosmica alle proprie esigenze e finalità. Affermazioni solo apparentemente coerenti l’una rispetto all’altra; perché, in realtà, Schopenhauer può dire ciò che dice solo avendo preliminarmente letto, secondo una evidente forzatura, l’esserci del ‘naturale’ in conformità a quella che l’uomo sarebbe riuscito a riconoscere come la stessa paradossale natura del proprio insaziabile anelito desiderante. L’uomo schopenhaueriano ritiene non sia possibile fare ciò (ricondurre il ‘naturale’ ad un metron sostanzialmente antropocentrico) di cui egli stesso sarebbe il primo responsabile, per il semplice fatto che è proprio all’interno della sua costruzione filosofica che è stato assegnato alla natura il medesimo senso costituente l’essenza più propria dell’umana natura. L’insensatezza del volere ‘naturale’ non è, cioè, come in Leopardi, mera ‘insensatezza’ (arcano mistero evocante una radicale indecifrabilità resistente a qualsiasi tentativo di decifrazione da parte dell’umana conoscenza), ma insensatezza di un volere perfettamente identico a quello che l’uomo riconosce come proprio. “Da tempo conoscemmo quest’aspirazione, costituente l’in-sé di ogni cosa, come identica e tutt’una con ciò che in noi, dov’essa si manifesta con la maggior chiarezza, alla luce della più piena conscienza, si chiama volontà” (ibid., p. 409).
71 Zib., I, 648, p. 509.
72 Ibid., I, 648, p. 510.
73 Ibid., II, 2644, p. 1681. Anche a proposito del senso negativo del ‘piacere’ v’è un abisso tra il modo schopenhaueriano di intenderlo e quello leopardiano. Anche se, in apparenza, le due prospettive sembrano convergere e dire lo stesso, per lo meno in relazione alla definizione esplicita e letterale del concetto in questione. Certo, anche per Schopenhauer, il vero piacere, anzi l’unico piacere possibile, sembra essere quello di segno ‘negativo’ – “qualsiasi soddisfacimento, o ciò che in genere suol chiamarsi felicità, è propriamente e sostanzialmente sempre negativo, e mai positivo” (A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, op. cit., p. 421); ma per lui (questo l’elemento decisivo, che fa la ‘differenza’ rispetto alla prospettiva leopardiana del piacere-poetico e della ‘rimembranza’) esso consisterebbe non in una “una sensazione di gioia spontanea, e di per sé entrata in noi, ma sempre bisogna che sia l’appagamento d’un desiderio” (ibid., p. 421). Il piacere viene definito negativo, ma in verità è fatto consistere nel reale appagamento di un desiderio, ossia nel guadagnato possesso di questo o quell’oggetto del desiderio. Ciò che agli occhi di Leopardi è manifestamente impossibile, stante che il nostro è un desiderio strutturalmente in-finito (come per Schopenhauer, peraltro, che quindi risulta a questo proposito incongruente rispetto alla propria stessa convinzione), e quindi ineludibilmente inappagabile. Il vero ed unico piacere consistendo dunque, per il poeta, nella perfetta epoché o sospensione del desiderare realizzatasi per quella autodeterminazione di segno ‘negativo’ (qui, sì, in senso ‘letterale’) in forza della quale non si vuole più raggiungere e menare a compimento alcunché. Laddove per Schopenhauer, invece, per quanto sia difficile e faticoso, raggiungere e menare a compimento alcunché è possibile – nel senso che arriva il momento in cui “finalmente tutto è superato e raggiunto” (ibid., p. 421)… anche se, a tale perseguimento, “o un nuovo dolore oppur languore, vuota nostalgia e noia deve seguire” (ibid., p. 422). Insomma, parlare di ‘piacere negativo’ non basta; ché, certamente, anche da Schopenhauer viene articolata una interessantissima teoria estetica – anche per lui, d’altronde, sempre in virtù dell’opera di genio sembra possibile sospendere la dipendenza da un volere ordinato secondo le inflessibili leggi del fenomenico. Ma in ciò – a differenza di quanto va detto a proposito di Leopardi – si produce una vera e propria esperienza ‘conoscitiva’, comunque estranea alle eventuali determinazioni di una qualche forma di piacere. L’opera di genio, molto semplicemente, “riproduce le eterne idee afferrate mediante pura contemplazione, l’essenziale e il permanente in tutti i fenomeni del mondo… e suo unico fine è la comunicazione di questa conoscenza” (ibid., p. 256).
74 Zib., I, 1860, p. 1271.
75 Ibid., I, 1860-1861, p. 1271.
76 Ibid., I, 1744, p. 1208. Particolarmente interessante è il modo in cui viene letta da Alberto Folin (che in qualche modo sviluppa un’intuizione che fu già di Cesare Galimberti, e venne da quest’ultimo articolata in Leopardi: meditazione e canto, in G. Leopardi, Poesie e prose, a cura di R. Damiani e M.A. Rigoni, Milano 1987, vol. I, pp. XI-LXXIX) questa declinazione della concezione leopardiana dell’essere. Anche se il suo studio muove più specificamente ad una comprensione della funzione e del senso assunti dalla tematica della luce e dell’ombra in relazione a questa stessa determinazione. Certo, una critica del ‘vedere pieno e diretto’ diventa, agli occhi di Folin ‘lettore del testo leopardiano’, critica di quel vedere filosofico che vorrebbe comunque ‘risolvere’ la presenza nella pienezza di uno sguardo che “non conosce declino, cancellazione o morte” (Alberto Folin, Leopardi, Heidegger e la metafora della luce, in Leopardi e il pensiero moderno, op. cit., p. 145). E dunque di un’illusione metafisica costituitasi come persuasione relativa alla esaustiva rischiarabilità del mondo, concernente un ‘è’ definitivamente ed a-problematicamente libero dalla forza umbratile – ben nota invece nell’orizzonte della cosiddetta ‘oscurità mitologica’ – di un non forzatamente liquidato in ragione di una improbabile ipostatizzazione-traduzione in termini di nihil absolutum (concetto evidentemente aporetico, avente a che fare con l’impossibile, e quindi responsabile dell’inevitabile ‘naufragio’ di qualsivoglia logìa ad esso rivolgentesi).
77 Zib., I, 1747, p. 1210.
78 Qui utilizziamo la traduzione proposta per la prima volta da Vattimo del concetto nietzschiano di “Übermensch” – ché ci sembra la più adatta ad evitare gli equivoci che hanno caratterizzato nella storia recente la scelta del termine italiano ‘Super-uomo’. A proposito del nietzschiano Übermensch così si esprimeva Gianni Vattimo: (esso) “si manifesta come una forma di umanità collocata totalmente oltre l’uomo così com’è oggi; non è una intensificazione dell’essenza uomo quale finora si è manifestata, e nemmeno, come vuole Heidegger, l’uomo in quanto capace di ‘andare oltre’, in una direzione che conferma e potenzia soltanto le strutture della metafisica su cui si fonda il nostro mondo” (G. Vattimo, Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione, Bompiani, Milano 1994, p. 283).
79 Cfr. Zib., I, pp. 270-272.
80 Ibid., I, 260, p. 271.
81 Ibid., I, 21, p. 32.
82 Ibid., I, 2, p. 4.
83 Ibid., I, 21, p. 32.
84 Ibid., I, 3, p. 6.
85 Ibid., I, 2, p. 5.
86 Ibid., I, 4495, p. 3054.
87 Ibid.
88 Una interessante analisi del tema dell’imitazione in Leopardi è quella sviluppata da Alberto Folin in Pensare per affetti. Un’analisi che, pur non coincidendo con la nostra, riteniamo particolarmente significativa ed illuminante in relazione ad una ‘possibilità’ effettivamente inscritta nel pensiero leopardiano. Anche per Folin, dunque, l’imitazione diventa una componente decisiva del fare artistico – nell’ottica leopardiana – in quanto intesa come quell’atto grazie al quale riusciremmo a cogliere, più che la cosa nella sua figurazione, la cosa nel suo esistere in quel ‘rapporto’ che “in sé e per sé è nulla, perché non ha un’esistenza cosale, essendo la condizione perché le cose siano cose” (Alberto Folin, Pensare per affetti, op. cit., p. 108). L’immaginazione soggiacente all’atto imitativo condurrebbe dunque in scena cose che non hanno né spirito né corpo, “cioè il frammezzo, il rapporto, grazie al quale l’Io fa esperienza dell’essere delle cose, che diviene così un mondo” (ibid., p. 108). Anche per Folin, dunque, la pittura di cui parla Leopardi piace perché “richiama il volto ontologicamente iconico della natura: quel suo apparirci da lontano che è l’esibizione del suo volto ‘mezzo tra bello e terribile’” (ibid., p. 110).
89 Zib., II, 4495, p. 3054.
90 Ibid., I, 20, p. 31.
91 Ibid., I, 16, p. 24.
92 Ibid.
93 Ibid.
94 Ibid., I, 1697, p. 1181.
95 Ibid., I, 1655, 1157.
96 Ibid., II, 3242, p. 2027.
97 Ibid., II, 3244, pp. 2028-2029.
98 Ibid., II, 4099, p. 2649.
99 Ibid., II, 4099-4100, p. 2649.
100 Ibid., II, 4100, p. 2650.
101 Ibid.
102 Ibid.
103 Ibid., I, 1645, p. 1151.
104 Ibid., I, 21, p. 32.
105 Ibid.
106 Ibid., I, 21, pp. 32-33.
107 Ibid., I, 21, p. 32.
108 Ibid.
109 Cfr. Zib., I, 260, p. 271.
110 Anche a questo proposito, vogliamo ricordare una lucida intuizione di Alberto Folin, ricavabile dal suo ultimo volume leopardiano, là dove rileva come la rappresentazione artistica non vada intesa come riproduzione della realtà secondo la relazione oggetto-copia, quanto piuttosto come “evocazione di un luogo vuoto (l’illusione) lasciato tale dall’essere nel suo passaggio temporale… (ché essa) è, da ultimo, immagine del nulla, ovvero di qualcosa che non è più o non è ancora” (Alberto Folin, Pensare per affetti, op. cit., p. 81).
111 Zib., I, 261, pp. 271-272.
112 Lo rileva opportunamente anche Cesare Galimberti; in Leopardi l’illusione, la grande illusione concepita in un momento di entusiasmo, e dunque la trasfigurazione operata dall’immagine in quanto risultato dell’atto mimetico prodotto dall’artista, “sono in effetti le più reali e sublimi verità o precursore di queste, e rivelano all’uomo come per un lampo improvviso, i misteri più nascosti, gli abissi più cupi della natura, i rapporti più lontani e segreti” (Cesare Galimberti, La speranza nell’opera, in F. Nietzsche, “Intorno a Leopardi”, il melangolo, Genova 1992, p. 18) – ossia il ‘vero’. O anche: quelle relazioni (rapporti) infinite che Leopardi riteneva disegnassero l’orizzonte al di fuori del quale nessuna determinazione può apparire per quel che essa vera mente è (vale a dire, come presente identità del proprio ‘è’ e del suo ‘non’).
113 Al modo del nietzschiano totale esser-fuori-di-sé – grazie a quella che sempre Nietzsche chiamava involontarietà dell’immagine. Il Nietzsche di Ecce Homo parla dunque di una semplice descrizione dell’evidenza di fatto (cfr. F. Nietzsche, Ecce Homo. Come si diventa ciò che si è, trad. it., Adelphi, Milano 1969, pp. 105-106), che non lascerebbe possibilità di scelta dandosi nella forma della pura e perfetta datità. Sì da ricondurci, in sostanza, a quella incontaminata aseità che al fanciullo e allo sguardo mitico risultano perfettamente naturali. Ossia, ad una dimensione in relazione a cui, davvero, il ‘soggetto’ non possa più esser definito tale (venendo meno, in essa, tutte le sue caratteristiche sostanziali; vale a dire: l’intenzionalità, l’univocità dell’interpretare, ecc. ecc.).
114 Zib., I, 261, p. 272.
115 Ibid., I, 1262, p. 915
116 Ibid., II, 4372, p. 2940.
117 Ibid.
118 Il poeta incarna in questo senso la voce stessa della physis; e diventa ‘puro sentire’, quel sentire che “qualunque cosa al mondo” rende grata. “Qualunque cosa al mondo / Grato il sentir ci fa” (Il risorgimento, vv. 7-8), afferma il nostro, in un Canto tutto attraversato da quella spasmodica ricerca del ‘sentire’ poetico che, solamente, gli avrebbe consentito di ‘sentire’ con la natura, anzi di con-sentire il suo manifestarsi – quello fatto di ‘pure sensazioni’, passioni e moti tanto indefiniti (e perciò ‘veri’, ossia analoghi a quelli propri del puramente ‘naturale’) quanto ‘immediati’, e dunque sostanzialmente ingiudicabili (solo per questo essi possono confluire in un pathos perfettamente contraddittorio, tale per cui “Ovunque il guardo mira / Tutto un dolor mi spira, / Tutto un piacer mi dà”, Il risorgimento, vv. 93-95) – così come possono fare una piaggia, un bosco, un monte. Il poeta, cioè, vuole sentire con la vivente sensibilità degli elementi naturali. Insomma, quando la virtù nova si fa sentire nel suo cuore, in lui tornano a vivere la ‘piaggia’, il bosco’ e il ‘monte’. Parlano al suo cuore ‘il fonte’ e ‘il mar’. Il mondo appare “cangiato”. Ma tale esperienza radicalmente trasfiguratrice è un ‘evidente inganno’ – “Dalle mie vaghe immagini / So ben ch’ella discorda: / So che natura è sorda…” (Il risorgimento, vv. 117-119); in questo senso il poeta, perfetto imitatore, nello stesso tempo “non” imita la natura. Appunto perché ne nega la positiva e sempre univoca ‘oggettualità’. Il suo imitare è cioè talmente perfetto da negarsi in quanto tale; ossia in quanto costituentesi come una mera copia. Ma con ciò l’inganno si radicalizza e si ricostituisce all’ennesima potenza. Quale maggior inganno di un’esperienza in forza della quale si giunga a negare quella che è l’originaria natura dell’essere umano, ossia il suo esser pensante, il suo essere “logicamente-interrogante”, il suo non poter fare a meno di “distinguere” secondo la legge di non contraddizione? L’inganno si fa macroscopico; ma – paradosso nel paradosso – proprio per ciò, nello stesso tempo (si dovrà necessariamente riconoscere), l’inganno poetico è parola del ‘cor’ (da cui, solamente, secondo Leopardi “viene ogni conforto” – cfr. Il risorgimento, vv. 151-152), e dunque esperienza sensibile e per ciò stesso autenticamente ‘naturale’, ossia ‘anche’ identica’ all’inganno che la natura in quanto tale già da sempre è, se non altro per il suo offrirsi nella forma inevitabilmente ‘oggettuale’ che al soggetto (un soggetto costretto nelle maglie di un non meno ingannevole logos), solamente, è dato incontrare quale propria datità.
119 Zib., II, 4372-4373, p. 2940.
120 Ibid., II, 4372, p. 2940.
121 Ibid., II, 4373, pp. 2940-2941.
122 Non può che sembrarci fuorviante, dunque, la lettura che di tale tema – l’arte come ‘illusione’ – viene fatta nel pur bel volume che A.C. Bova dedica al tema della contraddizione nell’opera di Leopardi. Mi sto riferendo a “Illaudabil maraviglia” (Liguori, Napoli 1992), ed in particolare al suo quarto capitolo. Così si esprime infatti la Bova: “l’arte, la poesia, l’imitazione della natura… non può che inscriversi nell’orizzonte dell’illusione, immediatamente presente alla coscienza come tale, e cioè come altro dalla esperienza, dalla verità e dalla conoscenza” (A.C. Bova, Illaudabil maraviglia, op. cit., p. 103).
123 Quando lo stato indifferenziato, di cui parla Cesare Galimberti in Un libro metafisico, si fa reale, come accade nella vera esperienza poetica o in quelle figure ed oggetti che popolano le Operette Morali – “rivolto a superare le antinomie fondamentali del pensiero occidentale, il progetto sembra trovare pieno adempimento in rappresentazioni di figure e oggetti (e moti e ritmi) che appaiono, per la prima volta nelle Operette, come ‘aventi la ragione della loro perfezione in se stessi, e in questo, ch’essi esistono così e sono così fatti’” (C. Galimberti, Un libro metafisico, op. cit., p. 20). Epifanie umilmente assolute le definisce Galimberti, ossia fonti di un godimento che mai potrà essere definitivamente ed univocamente sopraffatto dall’ontologico e comunque inestirpabile ‘male di vivere’.
124 Zib., II, 4418, pp. 2977-2978.
125 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, trad. it., Rizzoli, Milano 1994, p. 55.
126 Ibid., p. 77.
127 Ibid., p. 356.
128 Ibid., p. 357.
129 Ibid., p. 147.
130 Ibid., p. 148.
131 Ibid., p. 118.
132 Ibid., p. 73.
133 Ibid., p. 63.
134 Ibid., p. 70.
135 Coincidente con quel “vuoto della coscienza” di cui parla Alberto Folin quando, in Leopardi e la notte chiara (Marsilio, Venezia 1994), indica le possibilità di restaurazione dell’immagine consentite dallo sguardo non ‘rappresentativo’, ossia non soggettivistico. Ché l’immagine viene dalla cosa stessa, nel suo esser ‘immaginata’, e non da qualcosa come l’interiorità, e tanto meno dalla coscienza o dall’anima. Queste ultime, cioè, devono – “fosse solo per un istante” (ibid., p. 111) – svuotarsi, per consentire che all’uomo vengano appunto riconsegnate le cose nel loro ‘vago aspetto’ primitivo (cfr. ibid., p. 111).
IV. LA NATURA E IL NULLA
1 È molto interessante quanto viene rilevato, a questo proposito, da Stefano Levi Della Torre, secondo il quale, anche a proposito della ‘ginestra’ e della potenza simbolica che tale pianta riveste agli occhi del poeta, va rilevato come “Leopardi non accentui tanto l’inconsapevolezza, quanto il simbolo insito nella natura flessibile della pianta” (Stefano Levi Della Torre, L’infinito e la siepe. Metafisica e laicità in Giacomo Leopardi (a cura di Gabriella Caramore), Morcelliana, Brescia 2003, p. 89). Ad ogni modo, così continua il nostro: “credo che ci sia un riferimento al pensiero di Pascal riguardo alla ‘canna pensante’: nel senso che l’essere umano è fragile come una canna, si piega ma resiste, e tuttavia ha la grandezza del pensiero” (ibid.). Per Stefano Levi Della Torre, insomma, la pianta rappresenterebbe alla perfezione la particolarissima fragilità che caratterizza anche l’essere umano. Una fragilità che è particolare, appunto, perché capace di pensieri ‘in-finiti’… capace di produrre, con l’ausilio fondamentale dell’immaginazione, quella tensione verso l’infinito che viene così ben rappresentata da una sorta di “potenza immaginativa dell’ignoranza” (ibid., p. 65). Che, sola, sembra consentirci di avere parole, di avere pensiero – ossia, di disporre di tutto ciò che rende perfettamente ragione di quelle provvidenziali illusioni che ci permettono di sfondare i limiti angusti della chiarezza e dell’evidenza tanto care alla ragione. Perché di questo si tratta: di capire che nella sua ansia definitoria e chiarificatrice, la ragione non dovrebbe dimenticare che, in ogni sua specifica declinazione, essa nega una natura che, di ogni significato, dice appunto la negazione. Ossia si comporta come la natura; anzi, proprio da natura. Negando il negarsi del naturale, convinto di doverlo ridurre ad una univocità semantica che più mortificante non potrebbe essere. Fermo restando che Leopardi ne è fermamente convinto: “tutto ciò ch’è precisamente definito, potrà bene aver luogo talvolta nel linguaggio poetico, giacché non bisogna considerar la sua natura che nell’insieme, ma certo propriamente parlando, e per se stesso non è poetico” (Zib., I, 1901, p. 1293). La ragione, dunque, proprio definendo e precisando, con piglio tutto ‘analitico’, se per un verso ci allontana dal vero (ché il vero è sempre indefinito e vago – come sa bene il poeta), per un altro verso dimostra di essere essa medesima natura. Ossia, di poter immaginare e farsi poesia. E di poterlo fare proprio perché già in se stessa negante la negatività del naturale. Ossia, perché già in se stessa naturale – espressione di una natura che sempre nega tutto quel che mostra, pone e dice. Perciò all’animale razionale che ognuno di noi sempre anche è piacciono tanto le sensazioni vaste e indefinite (che la poesia, più di ogni altra espressione umana, riesce a ri-produrre). Perciò, come sottolinea opportunamente Clemente Rebora, Leopardi vede nella capacità di naufragar con l’anima per questi vaghi ondeggiamenti, il “principalissimo rimedio o sollievo contro l’acerbo vero e conseguentemente dalla noia, frutto dello scientifismo della civiltà che inquinava per buon tratto l’arte contemporanea” (Clemente Rebora, Per un Leopardi mal noto, Scheiwiller, Milano 1992, p. 70). Importante, poi, che per Rebora proprio tale attitudine renda perfettamente e pienamente ragione del primato della musica, tra le molte possibili forme d’arte – un primato che egli vede riconosciuto anche da Leopardi, che pur è un poeta. Che proprio nella musica, però, sempre secondo Rebora, avrebbe saputo riconoscere la più alta potenza trasfiguratrice – proprio la musica, infatti, sarebbe apparsa a Leopardi, sempre secondo Rebora, “in un punto della sua vita non soltanto divina liberatrice, ma quasi anche ideale espressione del proprio mondo interiore; e di fatto, voce indefinita del sentimento” (ibid., p. 81). O anche, “dolcissima fosforescenza di quella malinconia che partorisce le belle cose, rimedio al rigido presente vero” (ibid.).
2 Zib., I, 269, p. 277.
3 Ibid., I, 270, p. 278.
4 Ibid.
5 Ibid.
6 Ibid., I, 271, p. 279.
7 Ibid.
8 Cfr. Sofista.
9 Zib., I, 40, p. 66.
10 Zib., I, 44, p. 73.
11 Ecco perché per Leopardi – come ci ricorda opportunamente Ezio Raimondi – la fantasia viene tanto dilettata dal riconoscimento di una vita sostanzialmente umana, nelle cose tutte; anche in quelle che la ragione giudicherebbe inanimate. “Leopardi negava agli enti inanimati la facoltà di suscitare come tali pensieri ed emozioni” (Ezio Raimondi, Romanticismo italiano e romanticismo europeo, Bruno Mondadori, Milano 1997, p. 74). Secondo Raimondi, Leopardi sarebbe giunto a questa conclusione riflettendo sull’esperienza infantile; nel cui orizzonte, appunto, la naturalezza sembra fare capo, da ultimo, a una sorta di animismo universale alla luce del quale tutto verrebbe considerato portatore di una vita assolutamente simile alla nostra. Da cui la straordinaria forza mito-poietica dell’infanzia, che non solo agli animali ci muove ad attribuire origine e vita umane, ma anche agli oggetti o ai corpi inanimati. Che dunque saranno, sempre alla luce di tale sguardo (che è poi quello poetico), tutte perfette espressioni di una doppiezza in cui, a riverberarsi, sarà sempre e comunque l’opposizione assoluta. Sì che “il volto della natura appaia a un tempo bello e terribile” (ibid., pp. 80-81). Senza che tali opposti si cancellino reciprocamente o, per ben che vada, si risolvano in un terzo che finirebbe per coincidere con il vero e proprio venir meno degli opposti medesimi.
12 L’aveva ben capito Nietzsche, che per Leopardi l’arte è necessaria, in quanto una vita vissuta come si vivono i suoi estemporanei momenti estetici, purtroppo, è costitutivamente impossibile. Si chiede infatti il filosofo dell’eterno ritorno: “Se l’uomo stesso fosse un’opera d’arte, l’artista sarebbe sorto? Non dimostra proprio, la presenza dell’arte, che ogni cosa quaggiù è un fenomeno inestetico, cattivo e serio?” (Friedrich Nietzsche, Intorno a Leopardi, trad.it., il melangolo, Genova 1992, p. 69). E chiude questa serie di interrogativi invitando a leggere proprio Leopardi, a questo proposito. “Si ponderi dunque, una volta, che cosa dice un vero pensatore: Leopardi! Sarebbe davvero desiderabile che gli uomini non avessero bisogno dell’arte” (ibid.).
13 Zib., II, 2493, p. 1605.
14 Ha perfettamente ragione, quindi, Alberto Folin, a ricordarci che secondo Leopardi “l’uomo è condannato alla ‘verità’, cioè al nulla, perché i tratti dell’essere, messo a nudo e disgelato, non sono nient’altro che nulla” (Alberto Folin, Leopardi e l’imperfetto nulla, Marsilio, Venezia 2001, p. 43).
15 Facendosi avvertire per il tramite di un sentimento che giustamente Cesare Galimberti identifica con la ‘noia’. E che già un dimenticato leopardista come Amelotti (ricordato, invece, e giustamente, da Galimberti) aveva paragonato ala nozione heideggeriana di Angst: l’angoscia. Che coincide, sempre per Leopardi – ci ricorda Galimberti – con “la semplice vita pienamente sentita, provata, conosciuta, pienamente presente all’individuo” (Zib., II, 4043, 8 marzo 1824). Una situazione psichica figlia della nullità e madre del nulla; l’unico sentimento, peraltro, in grado di consegnare al nulla una determinatezza sorprendentemente sensibile – perché esso “sembra davvero esser qualcosa” (Cesare Galimberti, La caduta, la noia, in “Leopardi e il pensiero moderno” (a cura di Carlo Ferrucci), Feltrinelli, Milano 1989, p. 114). E in primis al cospetto dell’intrascendibile essere; presentandosi appunto come quell’assolutamente altro, pieno e ben presente, addirittura sensibilmente avvertibile, di cui il pensare (che tutto fa essere) non può che riconoscere la più radicale impossibilità. Se non altro in quanto specchio fedele della sua stessa (del pensare-essere) nullità; ovvero, del suo più ‘naturale’ non-essere – fermo restando che anche quest’ultimo potrà dirsi riconosciuto solo nel venire riconosciuta da parte dell’assoluta naturalità di un altro di certo solamente sensibile, ma che solo il pensare, in ogni caso, può esperire come concreta e palpabile negazione della sua stessa originaria positività.
16 Zib., II, 4129, p. 2683.
17 Una distinzione che proprio perciò si costituisce come assoluta; e quindi come assolutamente ingiustificata e ingiustificabile – e per ciò stesso originaria. E dunque non rinviante a nulla che possa renderne ragione quale suo principio o condizione di possibilità. Come assoluta e per ciò stesso negantesi – perché a poter essere “affermate” come tali sono solo le distinzioni relative. Infatti, se non si danno comunanze e identità, non si danno differenze – dal punto di vista dell’intelletto o ragione (in conformità al principio primo dell’intelletto medesimo; ossia, al principio di non contraddizione). Ché, è solo il loro avere qualcosa in comune – almeno il loro stesso opporsi – a rendere possibile questo stesso opporsi. Ragion per cui tali determinazioni si oppongono solo per il fatto che l’opporsi dice qualcosa che riguarda entrambe allo stesso modo. E dunque le accomuna – dicendo appunto quel che le identifica (sia pur nella differenza che le distingue). Ha dunque ragione Giorgio Picara a rilevare che, nell’anima dell’uomo, “ragione e natura sono come due nemici in un dramma: non sappiamo del tutto chi siano né perché si combattano, non sappiamo perché la catastrofe del primo nemico, che soccombe eternamente, sia così terribile e la vittoria del secondo così meravigliosa, perché nell’annientamento di un nemico inferiore e debole ci sia natura potenza e maestà, ma vediamo chiara di fronte a noi, anzi dentro di noi, l’irriducibilità del conflitto” (Giorgio Picara, Il punto di vista della natura. Saggio su Leopardi, il melangolo, Genova 1996, pp. 16-17).
18 Zib., II, 4204, p. 2765.
19 Ibid., II, 4196, p. 2756.
20 Ibid., II, 4204, p. 2765
21 Ibid., II, 4204-4205, p. 2766.
22 Ibid., II, 4128, pp. 2682-2683.
23 Ibid., II, 4128, p. 2683.