Reperti

(1950-1960)

MURE SAN MICHELE

Ricordo gli stalli in Contra’ del Guanto

e i cavalli da tiro per traslochi o per gale.

Quando il vento alle altane gonfiava le vele

del bucato e fischiava su per le scale,

tra i cupi comignoli d’oro, sui tetti,

un tramonto di nembi raggiava nell’ombra.

Ricordo la torta di mele e i galletti

di zucchero rosso,

la torre dai vetri a mosaico che apparve

negli ultimi lampi di settembre.

Imposte

sbattenti chiudevano fuori la notte.

Dal mio letto al di là della fredda parete

sentivo agitarsi i cavalli, vedevo

in sogno i loro occhi brillare nel buio.

VARSAVIA

A invisibili nevi che svela

un incauto tremore del giorno

si dirige quest’oggi lo stupore dell’anima,

al segnale di nevi che premono

da remoti confini, alla piccola

Plac Slonecny di Zoliborz

dove l’autunno ha il colore

d’una trepida patria con foglie

ingiallite che passi frettolosi calpestano.

Poi non più segni ma il rombo del Nord,

ma la calda dolcezza di case

dalle porte serrate dove ronzano voci

di bambini e di donne. Là il vento,

viandante che ha penne di sangue,

non bisbiglia sugli usci che parole d’amore.

La pioggia che schianta i telai

delle serre e inonda i giardini

rifluisce alla Vistola oscura

così gonfia che forse stanotte

uscirà dalle rive un ruscello bambino.

E subito dopo la neve cadrà

da un cielo compatto, la candida

neve sorella di aleje deserte

coprendo i nomi amati di ieri,

e cadranno gli uomini forti

e le donne soavi che tu

silenziosa raggera dei giorni consoli.

[1958]

L’ALLODOLA

La neve era un margine bianco

alle pagine fitte del tempo,

un’elica di vento sul calanco,

la tomba dell’allodola stecchita.

Una volta l’allodola

cantava in un luogo di Gellio

(avìcula parva, nomen cassìta)

gettando monete e collane

dal cielo estivo,

quando i noccioli erano abellanae

o còryli e il verso un fiore

secco in un vecchio libro.

Ora saliamo il fianco

della collina

cercando il luogo dove fu sepolta

la sua antica canzone.

Ma quando il tempo sarà tutto bianco

chi si ricorderà del nostro nome?

METEORA CONTEMPLATA DA UNA SCUOLA CAMPESTRE

È questa l’ora

che una fredda meteora picchia agli usci

di remoti casali dichiarando il suo nome

in una lingua sconosciuta,

l’ora che la galassia

scende dai cieli e nell’aria si muta

in polverìo di neve;

che la grande finestra dell’aula volta a nord

verso il bosco e la landa

con un piccolo tremito riceve

l’urto del vento. Fuori

c’è un rintocco remoto di campana,

c’è il fumo dei camini

che per un poco sale

diritto, poi si sbanda;

c’è un merlo sopra un ramo che trasecola

nel bianco tempo astrale:

lo guardano dai vetri i miei bambini

aprendosi una specola

tra i rabeschi del ghiaccio col calore

del fiato.

È l’ora che l’Europa si dimentica

dei suoi giorni di sole. La bufera

ha sepolto le basi della Nato

e più non fa rumore il passo degli eserciti

sulle strade del secolo innevato.

LE TEMIBILI COSE

Noi siàn le tristi penne isbigotite,

le cesoiuzze e ’l coltellin dolente.

E Bandini? Egli sente

le temibili cose apparse nel cuore.

Molti altri che avrebbero potuto

scelsero di tacere.

Come trascrivere il tema del tordo

in una terra di dure frontiere?

Ma lui correva a rompere il silenzio

in difesa d’una cadenza antica,

tramare versi, alzare una vescica

gonfia di vento per propria bandiera.

SACRUM HIEMALE

Dies revertit cum venerabimur

parvos beatos. Aetheris incolunt

nunc regna, nocturnae silentes

unde nives cecidere nobis,

Sancti Innocentes. En tenebras hiems

diu moratur sed pede semitas

iam signat informes viator

ingrediens iter ante lucem,

iam semisomnae lampades oscitant

(fulget fenestris in vitreis gelu),

atque avios campos relinquens

erithacus domibus propinquat

quas una cingit candida vastitas;

et nos Ephratae ver reminiscimur

floresque malorum repenti

quos rabie laceravit Auster,

transverberata et parva miserrime

herodianis corpora lanceis.

Iniuria fruges virescent

in patria pueris cruenta.

Iniuria cras risus hirundinis

rursum sonabit magna per atria

Jerusalem vel Berolini

dum Isaaci genus ingemiscit,

dum militarem ceu habitum sibi

Herodis atram nequitiem induunt

germanicae torvae cohortes

in regionibus Occidentis.

Tristi coactos agmine curruum

Iudae puellos in gelidos vehunt

custodiae campos ut agnos

numinibus necis immolandos.

Cur hoc ab atro, nubila, saeculo

indifferenter paene receditis?

Flos Abrahae diris in hortis

en caput immeritum reclinat…

Belli tumultus fulguribus ruber

cessavit; orbem denique pax regit

non amplius servans inultum

corde sub immemori dolorem;

nos maeror autem protinus incolit

nunquam viescens flos hiacinthinus,

nos mordet haud conglutinatum

vulnus et anxietas futuri.

Nimbo remoto sollicitus tonat

et nunc horizon, fors nova cordibus

nox imminet: Sanctos ut adsint

ac faveant precor Innocentes.

Nunquam dierum lucida ianua

illis patebit nec zephyrus bona

mulcebit a vita repulsos

vere novo redeunte nobis.

Quando beato carcere turmula

erumpet infans atque videbimus

illos in humanum benignos

ceu genios penetrare caelum?

Tunc ut resident sollicitudines!

Ut templa mundi, turbine qualibet

cum disserenascet soluto,

immemorabiliter nitebunt!

Si quid per umbras insolitum sonet

alis eos agnoscimus aethera

nantes inaspectis: videntur

perspicuo tremere astra amore

longaeque noctes murmuribus scatent

ceu vere plenae floribus arbores

atrocis et suadent remissae

temporis ut lacrimas feramus.

FESTA D’INVERNO

Ritorna il giorno in cui venereremo

i piccoli beati. Abitano i regni

celesti da dove notturne

nevi silenti sono a noi discese

i Santi Innocenti… Ora l’inverno trattiene

a lungo le tenebre, ma già stampa il suo piede

sui sentieri senza forma il viandante

mettendosi in cammino prima che faccia luce,

già sonnolente lampade sbadigliano

(scintilla il ghiaccio sui vetri delle finestre)

e abbandonando la remota campagna

il pettirosso si avvicina alle case

che circonda un’uguale candida immensità;

e noi ricordiamo la primavera di Efràta

e i fiori dei meli che d’improvviso

l’Austro con rabbia ha straziato,

e i piccoli corpi miseramente trafitti

dalle lance di Erode. Sarà ingiusto

che domani maturino i frutti della terra

in una patria macchiata di sangue infantile.

Ingiusto che domani echeggi la letizia

della rondine dentro i grandi atri

di Gerusalemme o di Berlino

mentre geme la stirpe di Isacco,

mentre indossano come divisa

la nera nequizia di Erode

torve tedesche coorti

nelle regioni dell’Occidente.

Stipati in un triste convoglio

trasportano i bambini di Giuda in gelidi campi

di concentramento come agnelli

da immolare ai numi della strage.

Perché da questo buio secolo quasi

indifferentemente vi allontanate, o nubi?

Il fiore di Abramo in funesti giardini

ecco piega il capo incolpevole.

È cessato il tumulto della guerra

rosso di folgori, regna ovunque la pace

e più non serba nell’immemore

suo cuore quel dolore invendicato;

ma noi non abbandona la tristezza,

fiore di giacinto che mai appassisce;

continua a tormentarci la ferita

non rimarginata e l’ansia del futuro.

Tuona ancora per qualche lontana

burrasca l’orizzonte, forse una nuova notte

sovrasta i nostri cuori. Prego i Santi Innocenti

di aiutarci e proteggerci.

Mai si aprirà per loro la luminosa porta

dei giorni né lo zefiro li sfiorerà, cacciati

dalla gioia di vivere, quando

ritornerà tra noi la primavera.

Quando verrà il giorno che dal beato carcere

erompa quella torma infantile e li vedremo

come geni benigni penetrare

nel nostro cielo umano?

Come si placherà allora la nostra inquietudine!

Come gli spazi dell’universo, quando

ormai dissolto il turbine si farà ovunque sereno,

immemorabilmente splenderanno!

Se qualcosa d’insolito risuona nelle tenebre

noi li riconosciamo, sono loro che solcano

il cielo con ali invisibili: sembrano

tremare gli astri di trasparente amore

e le lunghe notti brulicano di murmuri

come di primavera alberi pieni di fiori

e c’inducono calme a sopportare

la nostra storia atroce e le sue lacrime.