MURE SAN MICHELE
Ricordo gli stalli in Contra’ del Guanto
e i cavalli da tiro per traslochi o per gale.
Quando il vento alle altane gonfiava le vele
del bucato e fischiava su per le scale,
tra i cupi comignoli d’oro, sui tetti,
un tramonto di nembi raggiava nell’ombra.
Ricordo la torta di mele e i galletti
di zucchero rosso,
la torre dai vetri a mosaico che apparve
negli ultimi lampi di settembre.
Imposte
sbattenti chiudevano fuori la notte.
Dal mio letto al di là della fredda parete
sentivo agitarsi i cavalli, vedevo
in sogno i loro occhi brillare nel buio.
VARSAVIA
A invisibili nevi che svela
un incauto tremore del giorno
si dirige quest’oggi lo stupore dell’anima,
al segnale di nevi che premono
da remoti confini, alla piccola
Plac Slonecny di Zoliborz
dove l’autunno ha il colore
d’una trepida patria con foglie
ingiallite che passi frettolosi calpestano.
Poi non più segni ma il rombo del Nord,
ma la calda dolcezza di case
dalle porte serrate dove ronzano voci
di bambini e di donne. Là il vento,
viandante che ha penne di sangue,
non bisbiglia sugli usci che parole d’amore.
La pioggia che schianta i telai
delle serre e inonda i giardini
rifluisce alla Vistola oscura
così gonfia che forse stanotte
uscirà dalle rive un ruscello bambino.
E subito dopo la neve cadrà
da un cielo compatto, la candida
neve sorella di aleje deserte
coprendo i nomi amati di ieri,
e cadranno gli uomini forti
e le donne soavi che tu
silenziosa raggera dei giorni consoli.
[1958]
L’ALLODOLA
La neve era un margine bianco
alle pagine fitte del tempo,
un’elica di vento sul calanco,
la tomba dell’allodola stecchita.
Una volta l’allodola
cantava in un luogo di Gellio
(avìcula parva, nomen cassìta)
gettando monete e collane
dal cielo estivo,
quando i noccioli erano abellanae
o còryli e il verso un fiore
secco in un vecchio libro.
Ora saliamo il fianco
della collina
cercando il luogo dove fu sepolta
la sua antica canzone.
Ma quando il tempo sarà tutto bianco
chi si ricorderà del nostro nome?
METEORA CONTEMPLATA DA UNA SCUOLA CAMPESTRE
È questa l’ora
che una fredda meteora picchia agli usci
di remoti casali dichiarando il suo nome
in una lingua sconosciuta,
l’ora che la galassia
scende dai cieli e nell’aria si muta
in polverìo di neve;
che la grande finestra dell’aula volta a nord
verso il bosco e la landa
con un piccolo tremito riceve
l’urto del vento. Fuori
c’è un rintocco remoto di campana,
c’è il fumo dei camini
che per un poco sale
diritto, poi si sbanda;
c’è un merlo sopra un ramo che trasecola
nel bianco tempo astrale:
lo guardano dai vetri i miei bambini
aprendosi una specola
tra i rabeschi del ghiaccio col calore
del fiato.
È l’ora che l’Europa si dimentica
dei suoi giorni di sole. La bufera
ha sepolto le basi della Nato
e più non fa rumore il passo degli eserciti
sulle strade del secolo innevato.
LE TEMIBILI COSE
Noi siàn le tristi penne isbigotite,
le cesoiuzze e ’l coltellin dolente.
E Bandini? Egli sente
le temibili cose apparse nel cuore.
Molti altri che avrebbero potuto
scelsero di tacere.
Come trascrivere il tema del tordo
in una terra di dure frontiere?
Ma lui correva a rompere il silenzio
in difesa d’una cadenza antica,
tramare versi, alzare una vescica
gonfia di vento per propria bandiera.
SACRUM HIEMALE
Dies revertit cum venerabimur
parvos beatos. Aetheris incolunt
nunc regna, nocturnae silentes
unde nives cecidere nobis,
Sancti Innocentes. En tenebras hiems
diu moratur sed pede semitas
iam signat informes viator
ingrediens iter ante lucem,
iam semisomnae lampades oscitant
(fulget fenestris in vitreis gelu),
atque avios campos relinquens
erithacus domibus propinquat
quas una cingit candida vastitas;
et nos Ephratae ver reminiscimur
floresque malorum repenti
quos rabie laceravit Auster,
transverberata et parva miserrime
herodianis corpora lanceis.
Iniuria fruges virescent
in patria pueris cruenta.
Iniuria cras risus hirundinis
rursum sonabit magna per atria
Jerusalem vel Berolini
dum Isaaci genus ingemiscit,
dum militarem ceu habitum sibi
Herodis atram nequitiem induunt
germanicae torvae cohortes
in regionibus Occidentis.
Tristi coactos agmine curruum
Iudae puellos in gelidos vehunt
custodiae campos ut agnos
numinibus necis immolandos.
Cur hoc ab atro, nubila, saeculo
indifferenter paene receditis?
Flos Abrahae diris in hortis
en caput immeritum reclinat…
Belli tumultus fulguribus ruber
cessavit; orbem denique pax regit
non amplius servans inultum
corde sub immemori dolorem;
nos maeror autem protinus incolit
nunquam viescens flos hiacinthinus,
nos mordet haud conglutinatum
vulnus et anxietas futuri.
Nimbo remoto sollicitus tonat
et nunc horizon, fors nova cordibus
nox imminet: Sanctos ut adsint
ac faveant precor Innocentes.
Nunquam dierum lucida ianua
illis patebit nec zephyrus bona
mulcebit a vita repulsos
vere novo redeunte nobis.
Quando beato carcere turmula
erumpet infans atque videbimus
illos in humanum benignos
ceu genios penetrare caelum?
Tunc ut resident sollicitudines!
Ut templa mundi, turbine qualibet
cum disserenascet soluto,
immemorabiliter nitebunt!
Si quid per umbras insolitum sonet
alis eos agnoscimus aethera
nantes inaspectis: videntur
perspicuo tremere astra amore
longaeque noctes murmuribus scatent
ceu vere plenae floribus arbores
atrocis et suadent remissae
temporis ut lacrimas feramus.
FESTA D’INVERNO
Ritorna il giorno in cui venereremo
i piccoli beati. Abitano i regni
celesti da dove notturne
nevi silenti sono a noi discese
i Santi Innocenti… Ora l’inverno trattiene
a lungo le tenebre, ma già stampa il suo piede
sui sentieri senza forma il viandante
mettendosi in cammino prima che faccia luce,
già sonnolente lampade sbadigliano
(scintilla il ghiaccio sui vetri delle finestre)
e abbandonando la remota campagna
il pettirosso si avvicina alle case
che circonda un’uguale candida immensità;
e noi ricordiamo la primavera di Efràta
e i fiori dei meli che d’improvviso
l’Austro con rabbia ha straziato,
e i piccoli corpi miseramente trafitti
dalle lance di Erode. Sarà ingiusto
che domani maturino i frutti della terra
in una patria macchiata di sangue infantile.
Ingiusto che domani echeggi la letizia
della rondine dentro i grandi atri
di Gerusalemme o di Berlino
mentre geme la stirpe di Isacco,
mentre indossano come divisa
la nera nequizia di Erode
torve tedesche coorti
nelle regioni dell’Occidente.
Stipati in un triste convoglio
trasportano i bambini di Giuda in gelidi campi
di concentramento come agnelli
da immolare ai numi della strage.
Perché da questo buio secolo quasi
indifferentemente vi allontanate, o nubi?
Il fiore di Abramo in funesti giardini
ecco piega il capo incolpevole.
È cessato il tumulto della guerra
rosso di folgori, regna ovunque la pace
e più non serba nell’immemore
suo cuore quel dolore invendicato;
ma noi non abbandona la tristezza,
fiore di giacinto che mai appassisce;
continua a tormentarci la ferita
non rimarginata e l’ansia del futuro.
Tuona ancora per qualche lontana
burrasca l’orizzonte, forse una nuova notte
sovrasta i nostri cuori. Prego i Santi Innocenti
di aiutarci e proteggerci.
Mai si aprirà per loro la luminosa porta
dei giorni né lo zefiro li sfiorerà, cacciati
dalla gioia di vivere, quando
ritornerà tra noi la primavera.
Quando verrà il giorno che dal beato carcere
erompa quella torma infantile e li vedremo
come geni benigni penetrare
nel nostro cielo umano?
Come si placherà allora la nostra inquietudine!
Come gli spazi dell’universo, quando
ormai dissolto il turbine si farà ovunque sereno,
immemorabilmente splenderanno!
Se qualcosa d’insolito risuona nelle tenebre
noi li riconosciamo, sono loro che solcano
il cielo con ali invisibili: sembrano
tremare gli astri di trasparente amore
e le lunghe notti brulicano di murmuri
come di primavera alberi pieni di fiori
e c’inducono calme a sopportare
la nostra storia atroce e le sue lacrime.