POESIA SCRITTA A PRAGA
Mi piacerebbe essere sepolto
a Malá Strana
in uno di questi silenziosi giardini
dove viene a svernare la cincia oltremontana.
Che mi giacesse accanto
mia moglie innamorata di ponte Carlo.
Il ponte è a pochi passi anche se solo
nel giorno del Giudizio potremo attraversarlo.
Verrebbe a farmi visita
l’ombra di Halas quando muore il giorno.
Abitava qui attorno, m’insegnerebbe
il nome in ceco della prima stella.
Ma Aznèciv città che ha i suoi corvi
e i suoi golem pretende le mie ossa.
Ci sarà qualcuno che si ricordi
di Bandini? Che sopra la mia fossa
rechi i fiori che amo (aquilegie, asfodeli)
e si fermi un poco a parlare con me?
Perché il mio cuore era cuore di re
ma non avevo un regno né fedeli.
DISLOCAZIONE
Di sicuro, pensavo, si staranno
chiedendo: «Cosa mai gli è successo? È in ritardo».
Era il tempo in cui l’anno
perde le ultime foglie e noi non si conosce
quanto ancora ci resti di cammino.
E non capivo se
fossi stato strappato in luoghi alieni oppure
mi aggirassi, invisibile fantasma, lì vicino.
Avevo udito negli orecchi un tuono
come quando una vela
d’improvviso si gonfia. Così mi ritrovai
per strade sconosciute
mentre qua e là nel buio si accendevano
dentro la nebbia squarci di finestre.
Quella non era
Aznèciv fatta azzurra dalla benignità
dei suoi lunghi crepuscoli ma una grande città,
immagine spettrale di qualche Dresda o Londra,
dove senza preavviso calava cupa l’ombra
della sera.
1939
O chiara afosa estate
del Millenovecentotrentanove!
Un sole d’oro entrava da sconnesse finestre
nelle scale in penombra
sollevando un odore di muffa e di salnitro.
Si compiva nell’aria dolcemente
una qualche catastrofe
delle nostre due infanzie: non più libri di fate,
ma l’alta meraviglia e le insidiose prove
di un mondo extraterrestre.
Vinicia e io seduti fianco a fianco
su un romito gradino sospeso nel barlume
del pianerottolo,
l’albo quadrotto dell’«Avventuroso»
aperto sui ginocchi.
E quante volte la dipinta trama
ci sospingeva gli occhi
e tornavamo a scorrere con rapido
batticuore le tavole a ritroso.
E sentimmo i compagni che gridavano
dal cortile: «Venite giù! C’è un caccia
che fa le acrobazie
e scrive Dux nel cielo con la traccia
di fumo che gli esce dalla coda!».
Ma noi seduti all’orlo di una remota proda
stellare non scendemmo.
Noi eravamo in fuga
verso l’azzurro soprannaturale
di un’altra storia e di più vasti giorni,
e al riparo dall’occhio onnipresente
di Ming c’inoltravamo con Flash Gordon e Dale
nella selva di Arboria cavalcando unicorni.
LUSCINIA SVECICA
Solo una volta ho visto una mattina
di Pasqua il pettazzurro, raro uccello di passo.
Agitava la coda su un sasso dell’Isarco
come fosse indeciso
se sostare o riprendere il suo viaggio
verso il Nord: forse giunto dall’Atlante,
forse appena sgusciato per un varco
segreto della luce da qualche paradiso.
Come nel Salmo del Pellegrinaggio
oggi alzo gli occhi ai monti
da questa mia pianura di autostrade e convogli
con autunnali alberi spogli dove
gli uccelli migratori non si posano
ma proseguono il volo,
e il ricordo del blu della sua gola
mi colora la mente.
C’è qualcuno quaggiù che ancora crede
malgrado tutto alla beltà del mondo?
Chi sarà erede di quel mio remoto
alpestre batticuore?
Penso che presto anch’io dovrò partire
ma per un viaggio che non ha ritorno.
E per questo mi aggrappo così tenacemente
a quanto resta del mio umano giorno,
perché vorrei vedere un’altra volta
il pettazzurro prima di morire.
NOSTOS
Ma dove ritornare se non sono
mai partito?
Vivo dietro i cancelli di una piccola
città che a poco a poco si trasforma,
cambia i riti e la norma (e siamo ormai
in pochi a ricordare).
Incontro visi che ho visto invecchiare.
Li incalza un branco di ragazzi usciti
da mondi alieni che prende possesso
di piazze e vie parlando nuove lingue.
Così verso un Altrove ignoto spesso
si dirigono inquieti i miei pensieri,
a un paese che sembra emerso ieri
dal diluvio, grondante ancora e intatto.
Oltre la costa si solleva un tratto
cupo di mare come in una stampa,
c’è un brulichio di punti bianchi: ali
in fuga verso qualche lontananza.
Forse quell’aria limpida ha nutrito
i giorni d’una mia sepolta infanzia?
È là che sogno a volte di tornare
come a un’antica patria che ho perduto?
Mi punge d’improvviso quest’acuto
rimpianto del paese che non so,
anche se non potrò
staccarmi (è tardi) dalle mie radici.
E discende in città dalle pendici
della collina un’altra primavera,
sento sui tetti rotolare il tuono,
fuori mura il prugnolo è già fiorito.
Io come una farfalla contro un vetro
chiuso le ali sbatto
della mia nostalgia scorgendo dietro
la chiara lastra i cieli del mio mito.
Finché il cuore che sempre insoddisfatto
si lamenta la morte avrà zittito.
DE ITINERE REGINAE SABAEAE
I
Nemo reginae comitatum mane Sabaeae
desertos Arabum campos percurrere vidit
praeterquam findens peregrina ciconia caelum.
Namque aderat tempus nigris in partibus Austri
cum desiderium patriae laetusque tumultus
in tepidam ripam strepitantes congregat alas.
Undique perveniunt, turmatim pabula complent,
mox vasa unanimis conclamant vocibus: altum
ingrediuntur iter, caelestis delta, neque umquam
consistunt, ne nocte quidem (dant sidera cursum)
donec arenoso Syriorum litore sidunt.
Illinc carpendae memores regionis ad Histrum
impellit renovatus amor lucosque profundos
lux ubi se penetrat foliorum imbuta colore
atque illae suerunt prope ab aethere ponere nidum.
Tunc volitans acies turbam superabat eoam,
calones, pueros, proceres lentasque camelas
ordine quae myrrham vectant et thus et amomum;
iactant hirsuto dum tintinnabula collo
pinguibus e vasis fragrans vix evolat aura,
sensim evanescens pecudum se immiscet odori.
Pone sequebatur peditum variata caterva
dum magis atque magis vacuas sol urit arenas.
Tympana quassa sonant, respondent cornua, prodit
torquibus Afra cohors, iaculis scutisque coruscans.
Et regina Saba, forma pulcherrima, sella
aurata vehitur quam gestant passibus aequis
Aethiopes servi nudo sudore madentes.
Pavonum roseis alis sibi ventilat ora,
a capite egregio prohibent velaria solem.
Oh, non illa Gihon gelidam desiderat undam,
non lenire sitim Chanaam turgentibus uvis
sed tantum Salomona cupit cognoscere regem.
Labra movet tacite, spectat velut immemor auras,
quin avium magnum triquetrum non adspicit ut si
nil alta innaret, praeter sua somnia, luce.
Aulam deseruit resonantem mane columbis
et dociles zephyro palmas et punica mala
hortis quae in tacitis nimium matura dehiscunt
interiorque rubor diffisso a cortice ridet.
Multos deinde dies squalentia per deserta
dura camelorum patientia trivit arenas.
Insidiae erepunt animantesque undique formae,
edendi rabie per noctem gannit hyaena
ac pede calcatus solidi sub verbere solis
mortiferam serpens se attollens sibilat iram.
Saepe urbis mirae tremebundorumque tholorum
se in mediis auris fallax suspendit imago,
dein caeli mersa est in inertia caerula; saepe
raptor arenarum geminavit murmura ventus:
et saevit priscaeque viae vestigia delet
pulverea obcaecans homines pecudesque procella.
Tandem inter casulas ignoti litoris olim
viderunt tremulum longe splendescere pontum.
II
O stellae Rubrum spectantes caelitus aequor!
Tendunt et lassi salubri dant membra quieti.
Terra silet caelumque, homines sparsique cameli
ac solum interea canibus longinqua sonat nox.
Forsan ab opposita ripa latravit Anubis?
Et iam caeruleus convolvulus obdormiscit
cum flos alter hiat nocturnis candidus horis:
horret iasmini tacitus sub luna himenaeus.
It cubitum regina Saba: tentoria luce
suffundit tenui vigilans onychitina lampas.
Se celeris nudat. Demissa in veste sub alis
uventes umbras reginae fusca iuventa,
a verno ramo manantia sucina, liquit.
Somno succumbit leni pariterque profundo;
tum violae submissus odor mellisque cubile
pervadit, proprium cum exhalent membra teporem.
Cum zephyri fracto pelagi nascuntur ab aestu,
quamquam commotis crepitant tentoria velis
et quassum cecidit vicina ex arbore pomum,
a placida numquam cessat regina quiete.
Sub divo cauti passus pressique susurri.
Excubias subito gliscens illuminat ignis,
insomnes facies. Pulvinum amplectitur illa
prona iacens (fulva lychni de luce renident
terga puellari languore soluta) neque audit
quae canit hastatus labris primoribus Afer:
«Invident Austri sorores pulchritudini tuae.
Sunt tibi visus profundi, ianuae dulcedinis,
sunt nigri digiti silentes qui loquuntur somnia.
Sed tuum, regina virgo, quis movere cor potest?
Furvulas die columbas veste celas sub levi
cumque vestem ponis en nox iunceam formam stupet
dum reconditis in umbris nuda monstraris dea.
Sed tuum, regina virgo, quis movere cor potest?
Musco odorans pertinaci corpore omni nigricas
truncus ut palmae Sabaeae quae polum recte petit
aut sacer lapis remoto nocte lapsus aethere.
Sed tuum, regina virgo, quis movere cor potest?
In tuis, regina, lumbis est throni securitas.
Tu fluentibus capillis abdis optatum latus.
Longius venere reges, acris omnes respuis.
Oh, tuum, regina virgo, quis movere cor potest?».
III
Barbara Nilicolae tacito sub corde quiescunt
cantica dum rarae cunctantur in aere stellae.
Sicca iterum deserta petunt. Dilucula prima
apparent dextra venientis ut ala diei,
hactenus obscuris laeva mare murmurat undis.
Quot populos vasta ariditas per saecula vidit
ad longinquarum sub acerbo tendere sole
somnia terrarum, teneris florentia pratis,
et mercatores pretiosa unguenta ferentes
umbram nutantem dromadum qui passibus urgent
et didicere Noti rabidos contemnere flatus
torrentesque aestus argenti propter amorem.
Veloces fugerent tu velles, Inclita, soles
ut cursu aequarent salientis pectoris ictus
et cupis occasum dum vix aurora relucet:
tempus semper idem stillat clepsydra dierum.
Ecce tibi umbravit taciturnos vesper ocellos
et prima ex illis nata est, ceu lacruma, stella;
protegit ecce tuum nox intempesta soporem
seque propinquabit vetita in tentoria nemo,
o regina Saba, nisi somnia matutina
et ros caelesti spargens dulcedine terram.
An quicquam exaudis? Quicquam te nocte remoti
affantur Tropici quasi rerum voce querentes
quod longe fugias? Utrum sit murmur aquarum
nescis an nemorum: mimosas inter opacas
fors collum sublime movent lentumque girafae
quo possunt frondes et eodem carpere stellas,
aut sabulum in montes cumulans per inhospita tesqua
Myrmidonum populus tenebrosas exstruit aedes.
At nos qui incolimus Septem rus dulce Trionum
en upupa in nostris festiva deambulat arvis
nos et avere iubens erexit murmure cristam,
adventus longe optati praenuntius ales.
Atque adeo citius propera: iam dorcadas altis
in pratis Libani tenet improvisa voluptas
amplaque hirundinibus tintinnant atria Sion.
Verba sepulta iterum, tellure emersa profunda,
miserunt florem: stupet experrecta vetustas
tuque a praeteritis saeclis iucunda renides.
Sed nemo divae comitatum mane Sabaeae
Ierusalem vidit validas accedere portas
innumeri quamvis oculi dum longa fugit nox
vidissent tacitum super urbem aurescere caelum.
IL VIAGGIO DELLA REGINA DI SABA
I
La carovana all’alba della regina di Saba
nessuno la vide attraversare il deserto d’Arabia
tranne la cicogna migrante che fendeva l’azzurro.
Era il tempo nelle nere regioni dell’Austro
che il desiderio della patria e un dolce tumulto
ali strepitanti raduna a una tepida riva.
Giungono da ogni parte, affollano i luoghi del cibo,
d’un tratto a una voce alzano il grido di partenza: cominciano
l’alto viaggio, celeste lettera delta, senza mai
fermarsi nemmeno di notte (dànno la rotta le stelle)
finché si posano sul lido sabbioso dei Siri.
Di lì (ricordano la direzione da prendere) all’Istro
le spinge nuova forza d’amore e ai boschi profondi
dove penetrando la luce s’imbeve del colore delle foglie
ed esse posano il nido poco lontano dal cielo.
In quel momento lo stormo in volo superava la gente dell’Est,
i valletti, i paggi, i prìncipi e le lente cammelle
che in fila trasportano mirra, incenso ed amomo;
quando col collo irsuto agitano i sonagli
un tenue profumo filtra appena dai vasi panciuti,
a poco a poco svanisce mescolandosi all’odore animale.
Segue una variopinta schiera di uomini a piedi
mentre il sole sempre più brucia le sabbie deserte.
Colpi di tamburo rintronano, rispondono corni, avanza
uno squadrone africano scintillante di collane, di lance e di scudi.
E la regina di Saba, dal corpo bellissimo, è alta
su una lettiga d’oro che a passi cadenzati trasportano
schiavi d’Etiopia bagnati di nudo sudore.
Fa vento al viso con ali di pavone vermiglie,
un baldacchino difende la testa regale dal sole.
Oh, lei non desidera la fresca acqua di Gihon,
non di placare la sete con le gonfie uve di Canaan
ma brama soltanto di vedere re Salomone.
Muove le labbra senza parlare, guarda trasognata il cielo,
anzi nemmeno scorge il grande triangolo in volo
come se lassù nella luce galleggiassero solo i suoi sogni.
Ha abbandonato il palazzo che risuona di colombe al mattino
e le palme obbedienti agli zefiri e le melagrane
che in silenziosi giardini troppo mature si aprono
e il rosso che è dentro ride dalla scorza schiantata.
Da allora giorni e giorni per squallore di deserti
la dura pazienza dei cammelli ha calpestato la sabbia.
Spuntano furtive da ogni parte insidie e forme animate,
di notte gannisce la iena rabbiosa di fame
e sotto la sferza della canicola schiacciato da un piede
si rizza il serpente e sibila la sua mortale collera.
Spesso una meravigliosa città con tremolanti cupole,
falso miraggio, appariva sospesa nell’aria,
poi affondava in un cielo d’inerti azzurri; spesso
rapitore di sabbie il vento raddoppiava il suo rombo:
e infuria e cancella le orme della pista antichissima
una tempesta di sabbia che acceca uomini e bestie.
Infine tra le capanne di una riva ignota, un giorno
videro in lontananza il tremulo lampo del mare.
II
O stelle che dal cielo si specchiano nel mar Rosso!
Alzano le tende e abbandonano il corpo al riposo.
Tacciono la terra e il cielo, gli uomini e gli sparsi cammelli
e solo a tratti risuona di cani la notte lontana.
Forse dalla riva opposta Anubi ha latrato?
E già si addormenta il convolvolo azzurro
quando un altro fiore sboccia bianco nella notte:
rabbrividisce sotto la luna del gelsomino l’imeneo silenzioso.
Va a dormire la regina di Saba: una lampada d’onice
diffonde insonne una luce velata sotto la tenda.
Si spoglia in fretta. Nella veste caduta la sua nera giovinezza
ha lasciato umide tracce sotto le ascelle,
ambre che stillano da un ramo di primavera.
Cade in un sonno pacato e insieme profondo
e impregna il suo giaciglio un sommesso profumo di violetta
e di miele, tepore che esala dal suo corpo segreto.
Quando gli zefiri nascono dalla franta risacca del mare,
sebbene la tenda crepiti per i teli mossi dal vento
e cada un frutto scrollato dall’albero accanto,
mai la regina esce dal suo placido sonno.
All’aperto passi cauti e brevi bisbigli.
Aumentando d’un tratto il fuoco illumina le sentinelle,
facce insonni. La regina abbraccia il cuscino
dormendo bocconi (al fulvo barlume della lampada splendono
le spalle sciolte nel languore di fanciulla) e non ode
quello che a fior di labbra canta un negro armato di lancia:
«Invidiano la tua bellezza le sorelle dell’Austro.
Hai occhi profondi, porte della dolcezza,
nere dita silenziose che parlano di sogni.
Ma, o regina vergine, chi può colpire il tuo cuore?
Due nere colombe nascondi di giorno sotto la veste leggera
e quando ti spogli, ecco la notte guarda stupita la tua grazia di giunco
mentre nel buio recondito ti mostri dea nella tua nudità.
Ma, o regina vergine, chi può colpire il tuo cuore?
Profumi forte di muschio, sei nera in tutto il corpo
come il tronco della palma sabèa che sale dritta nell’aria
o la pietra sacra caduta di notte dagli spazi remoti.
Ma, o regina vergine, chi può colpire il tuo cuore?
Nei tuoi lombi, o regina, è la sicurezza del trono.
Tu coi lunghi capelli nascondi il fianco desiderato.
Da lontano giunsero i re, tu li rifiuti ostinata.
Ohimè, regina vergine, chi può colpire il tuo cuore?».
III
La barbara canzone dell’abitatore del Nilo si spegne
dentro il suo cuore, mentre rare stelle indugiano in cielo.
Nuovamente dirigono ai secchi deserti. La luce dell’alba
appare sulla destra, ala del giorno che viene,
a sinistra con onde ancora buie mormora il mare.
Desolata aridità! quanti popoli ha visto nei secoli
sotto l’acerbo sole muovere verso sogni
di terre lontane, fioriti di teneri prati,
e mercanti che trasportavano preziosi profumi
che incalzano coi loro passi l’ombra dondolante dei dromedari
e hanno imparato a disprezzare il vento rabbioso di Noto
e la torrida calura per amore della ricchezza.
Tu vorresti, o Inclita, che i giorni scorressero rapidi
uguagliando nella corsa i battiti del tuo cuore
e aspetti il tramonto quando appena risplende l’aurora,
ma la clessidra dei giorni stilla un tempo monotono.
Ecco la sera ha steso un’ombra sui tuoi occhi taciturni
e da essi come una lacrima la prima stella è spuntata;
ecco la notte più buia protegge il tuo sonno
e nessuno si avvicinerà alla tua tenda vietata,
o regina di Saba, se non i sogni dell’alba
o la rugiada che cosparge la terra di celeste dolcezza.
Oppure senti qualcosa? Ti dicono qualcosa nella notte
i Tropici remoti, con la voce delle cose lamentando
che tu fugga lontano? Se sia murmure d’acque
o di foreste non sai. Forse tra opache mimose
le giraffe muovono il collo altissimo e lento
col quale possono brucare le foglie e insieme le stelle,
o ammucchiando la terra in montagne per inospitali savane
il popolo dei Mirmidoni costruisce le sue case di tenebra.
Ma noi che abitiamo le dolci terre del Settentrione,
ecco l’upupa cammina ilare per le nostre campagne
e per salutarci ha alzato con un mormorio la sua cresta,
uccello che annuncia il tuo arrivo a lungo aspettato.
Vieni dunque più in fretta; già le gazzelle negli alti
prati del Libano domina una gioia improvvisa
e i grandi atri di Sion tintinnano di rondini.
Parole sepolte, spuntate dalla profondità della terra,
sono tornate a fiorire; si risveglia stupefatto il passato
e tu dalla lontananza dei secoli dolcemente sorridi.
Ma la carovana all’alba della regina di Saba
nessuno la vide avvicinarsi alle forti porte di Gerusalemme
sebbene innumerevoli occhi, mentre la lunga notte fuggiva,
avessero visto sulla città farsi d’oro il cielo silenzioso.