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ASTROFISICA E FISICA NUCLEARE
(POLVERE DI STELLE)

7.1 PROLOGO

A volte lo stupore che accompagna la contemplazione del cielo stellato è all’origine di vere e proprie passioni che durano tutta una vita. Un nostro amico astronomo così racconta la sua prima notte di osservazione scientifica a un vero telescopio, con uno specchio di quattro metri di diametro, nelle Ande cilene.

« Era partita una sequenza di tre pose da dieci minuti ciascuna. Avevo mezz’ora di tempo. Uscii dalla sala di controllo. Accesi la torcia in dotazione per illuminare le scale di metallo che scendevano a spirale nel buio fitto, appena rischiarato dalla debole luce rossastra di sicurezza e…

«Aspettavo quel momento da anni. Da quando avevo sentito accendersi nel petto la passione per il cielo. Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, silenziosa luna? Ricordo che provai lo stesso smarrimento del pastore errante quando, incuriosito da un sibilo intermittente proveniente dalle radio, alzai gli occhi al cielo in cerca di una stellina che gli uomini avevano aggiunto al firmamento. Avevo appena tre anni ma conservo come un tesoro l’atmosfera di quel giorno di ottobre del 1957. Lo Sputnik aveva aperto la strada verso le stelle.

«Aprii dunque la porta verso l’esterno e mi ritrovai in un mare di stelle. Il centro della Galassia, nella costellazione del Sagittario, nascosto da immense bande oscure, sovrastava il mondo. La luce stellare consentiva di percepire il profilo delle Ande. L’aria era tersa, fresca e secca. Gli strumenti avevano misurato una certa turbolenza in quota, per cui sapevo che la qualità delle immagini scientifiche non sarebbe stata eccezionale, ma il mio sogno si era realizzato: perdersi nella miriade di stelle di un cielo profondo e incontaminato dalle luci artificiali.

« Forse qualcuno di voi avrà provato, almeno una volta nella vita, l’emozione di sfiorare per un istante il nucleo brillante di una realtà eternamente sfuggente. Quella notte percepii la netta e assurda sensazione di essere in vista delle coste di un’Itaca celeste».

A dire il vero il nostro amico astronomo l’aveva buttata un po’ troppo sul lirico. Comunque non dubitiamo che abbia vissuto un’esperienza importante.

In questo capitolo vi chiediamo di accompagnarci in un tragitto circolare simile al suo, un tragitto che, partendo dalla stella a noi più vicina, ci riconduca a essa, passando attraverso considerazioni che ci riguardano da vicino.

7.2 PREMESSA

Togliete il cielo stellato da sopra la testa di un essere umano e lo renderete schiavo di se stesso, racchiuso nello stretto spazio dei suoi problemi e senza un orizzonte che possa stimolare la sua curiosità. I fuochi accesi dagli uomini per fugare paure motivate o fantasmi sono stati fondamentali per lo sviluppo delle civiltà, ma ora, trasformati in un lampione ogni dieci metri e in un’infinità di insegne luminose, hanno offuscato il cielo notturno, privandoci di una prospettiva di importanza assoluta. Cercheremo di comprendere in seguito come il legame tra noi e il cosmo sia inestricabile, come ogni pezzo ricomposto del rompicapo che la natura rappresenta – e che ci troviamo di fronte fin dal momento della nostra nascita – costituisca un passo avanti nella conoscenza del mondo e un passo, forse più importante, dentro la nostra coscienza.

Senza una volta stellata da osservare e comprendere, i caldei, gli assiri e i babilonesi non avrebbero posto le basi dell’astronomia né avrebbero ideato gli strumenti matematici necessari a comprendere i fenomeni celesti e a fornire la base razionale dello sviluppo tecnologico. Senza punti di riferimento in cielo, l’unica navigazione possibile sarebbe stata a vista e anche lo sviluppo dell’agricoltura ne sarebbe stato ostacolato.

Oggi i sistemi di navigazione satellitare sono entrati nelle nostre auto. Possiamo trovare qualunque via di una città sconosciuta e conoscere la nostra posizione con una approssimazione di pochi metri, senza orologi per calcolare la longitudine, né sestanti per misurare la latitudine. Ma in caso di necessità, saremmo in grado di sopravvivere orientando il nostro cammino con il cielo se non sappiamo più né cosa né dove guardare?

Uno degli ultimi terremoti che hanno scosso la contea di Los Angeles provocò l’intasamento delle centraline telefoniche degli istituti scientifici della California. Il blackout elettrico dell’illuminazione pubblica gettò nel panico la popolazione: che cos’erano quelle cose che guizzavano diabolicamente sopra le loro teste? E quell’orrenda e minacciosa striscia lattiginosa che sovrastava la città? Per poche ore e per la prima volta nella loro vita, molti degli abitanti di quella sterminata città avevano visto un cielo stellato.

Chiedetevi sinceramente: quando è stata l’ultima volta che avete alzato gli occhi al cielo? Quanto tempo è passato da quando cercavate figure tra i punti multicolori sparsi nel firmamento? Se è passato troppo tempo, anche se non siete appassionati astrofili, provate a ritagliare qualche ora da dedicare all’osservazione del cielo e, nello stesso tempo, a voi stessi.

7.3 ASTROFISICA PER SOPRAVVIVERE

Nulla sembra più lontano dalla vita quotidiana dell’astrofisica, lo studio della natura fisica dei corpi celesti. Vero è che la comprensione dei meccanismi di produzione dell’energia nelle stelle e la scoperta dell’espansione dell’universo sono strettamente collegate con la fisica delle alte energie e delle particelle elementari, ma l’utilità pratica delle scoperte scientifiche in questi campi è tutta da dimostrare. Eppure, nonostante le apparenze, le conoscenze acquisite nell’ultimo secolo del secondo millennio sull’origine dell’universo e sull’evoluzione delle stelle possono condurre direttamente a considerazioni positive sull’essenza più intima della nostra esistenza e, quindi, sul modo migliore di stare al mondo.

Secondo un’interpretazione della religione buddista, all’origine dell’infelicità c’è il distacco tra gli esseri umani e il mondo. Essere separati dal mondo significa cadere nella trappola dei desideri, così che spesso il non poter avere, il non poter prendere, porta a una condizione di malessere profondo. I monaci buddisti risolvono l’eterna questione della sofferenza umana distaccandosi a loro volta dai desideri terreni e distogliendo l’attenzione dal loro Io. Attraverso il rispetto di regole comportamentali e la meditazione, è possibile raggiungere uno stato in cui la separazione dal mondo viene meno e si entra in uno stato di consapevolezza superiore in cui scompaiono le paure, in cui la nostra coscienza si compenetra con il dharma, l’unica vera realtà spirituale che si cela dietro la percezione illusoria del mondo in cui siamo immersi.

C’è quindi una sostanziale unità da recuperare, quella tra noi stessi e il mondo; una distanza da colmare, un viaggio dall’ignoranza, che per Buddha è la causa radicale di ogni male, alla conoscenza, al risveglio nella pienezza dell’unità con il mondo.

Anche nel cristianesimo l’origine del male che affligge gli uomini è fatta risalire a un distacco, una dissonanza nell’armonia che regnava nel paradiso terrestre prima che gli uomini disattendessero le prescrizioni divine. Il percorso dei credenti è una via che riporta le loro esistenze nella sfera divina.

In molte religioni esiste il concetto fondamentale di un legame da ricomporre, di un’unità da ricostituire, del ritrovare una strada che riporti le nostre esistenze in un’armonia universale, al di là della morte, della paura, del dolore e della sofferenza.

Ora cercheremo di capire se il quadro della natura dipinto dalle attuali conoscenze dell’astrofisica sia compatibile con le suggestioni metafisiche delle religioni. A tal fine percorreremo il cammino tipico dell’archeologo. Per mezzo dei frammenti rinvenuti, costruiremo un modello plausibile del percorso che conduce fino all’immagine attuale dell’universo, da cui cerchiamo continuamente risposte per le domande fondamentali: chi siamo, da dove veniamo e dove siamo diretti? In breve, risposte per la nostra sopravvivenza.

7.3.1 I mattoni dell’universo

Immaginiamo di osservare un frammento di epidermide con un microscopio ideale. Aumentando sempre più gli ingrandimenti, cominciamo a distinguere le singole cellule con i loro nuclei, poi, all’interno dei nuclei cellulari, alcune decine di cromosomi, contenenti i lunghi filamenti a doppia elica del DNA, l’archivio con le nostre informazioni genetiche. A un certo punto ci accorgiamo che le eliche del DNA sono formate da oggetti vibranti, alcuni sferoidali, altri con strane forme simmetriche. Siamo giunti alle dimensioni degli atomi.

Il confine esterno degli atomi è segnato dall’incessante movimento degli elettroni, particelle dotate di carica elettrica negativa. Le proprietà chimiche della materia (o, in altre parole, la possibilità di combinare sostanze tra loro in un’infinita varietà di modi), sono dovute alla possibilità di condividere o scambiare gli elettroni degli strati più esterni degli atomi per formare legami con altri atomi. Le molecole sono il risultato di questi legami elettronici tra più atomi.

Oltrepassata la brulicante cortina elettronica, troviamo un immenso spazio vuoto. Poi, nel centro dell’atomo scorgiamo un altro corpuscolo vibrante, il nucleo atomico, in cui sono fortemente impacchettati protoni (particelle dotate di carica elettrica positiva) e neutroni (particelle elettricamente neutre). Nel nucleo degli atomi agisce una forza a cortissimo raggio (forza nucleare) in grado di mantenere i protoni confinati in un volume mille miliardi di volte più piccolo di quello dell’atomo. Se non ci fosse questa forza, i nuclei atomici non potrebbero esistere. Infatti, a causa della repulsione reciproca tra cariche elettriche dello stesso segno (ne abbiamo parlato nel capitolo 5) i protoni si allontanerebbero quanto più possibile gli uni dagli altri.

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Fig. 7.1 Rappresentazione schematica della struttura di un atomo. Il nucleo atomico è formato da protoni e neutroni. Le particelle che orbitano intorno al nucleo sono elettroni.

Tutto quello che vediamo e conosciamo in natura è costituito solamente da 92 differenti tipi di atomi. Questi atomi sono quelli che definiamo elementi chimici, e che troviamo rappresentati nella tavola periodica degli elementi (figura 7.2).

Alla temperatura ambiente molti elementi chimici sono allo stato solido, alcuni allo stato liquido e altri allo stato gassoso. Gli elementi sono ordinati per complessità. L’idrogeno (H), l’elemento più semplice, ha un nucleo costituito da un solo protone, e si dice perciò che ha numero atomico uguale a 1, mentre l’uranio (U), il più complesso, ha numero atomico 92, il che significa che nel suo nucleo ci sono ben 92 protoni, oltre a molti neutroni. (Avrete certamente notato che nella tavola periodica ci sono elementi chimici con numeri atomici maggiori di 92. Ma questi elementi, chiamati transuranici, non esistono in natura: sono stati creati dall’uomo).

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Fig. 7.2 La tavola periodica degli elementi. Il numero posto sopra il simbolo di ciascun elemento indica il suo numero atomico, ovvero il numero di protoni presenti nel suo nucleo.

Il fatto che gli atomi siano composti da solo tre tipi di particelle elementari è una scoperta relativamente recente: elettroni, protoni e neutroni sono i mattoni di ogni oggetto naturale, inclusi noi stessi.

L’atomo dell’elio (He), il secondo nella scala degli elementi, è formato da due protoni, due neutroni e due elettroni. Tre nuclei di elio formano un nucleo di carbonio, quattro nuclei di elio formano un nucleo di ossigeno, e così via. In generale, ogni volta che a un atomo aggiungiamo un protone (e un numero di neutroni sufficiente a tenere insieme il nucleo), costruiamo un elemento chimico più pesante.

7.3.2 L’uomo e il mare

Scavando in noi stessi siamo arrivati ai primi frammenti da analizzare: gli elementi chimici. Ora guardiamoci intorno e raccogliamo altre informazioni.

Nella tabella 7.1 sono ordinati per quantità decrescenti i dieci principali elementi che costituiscono il corpo umano, il mare e le rocce. Se escludiamo il fosforo, il mare condivide con noi ben nove elementi su dieci, seppure in proporzioni differenti. Tra noi e le rocce, invece, c’è solamente un 50 per cento di «parentela». Gli elementi più abbondanti, l’idrogeno e l’ossigeno, sono per lo più legati insieme a formare molecole di acqua: quasi un marchio di fabbrica della vita. Idrogeno, carbonio, ossigeno e azoto costituiscono il 98 per cento della maggior parte delle forme di vita e degli alimenti.

La sorprendente, sostanziale ed elementare corrispondenza tra noi, le diverse forme di vita e il mare conduce alla ragionevole ipotesi che proprio nel mare, con meccanismi peraltro non ancora pienamente identificati e compresi, si siano formate le prime molecole capaci di autoriprodursi, sfruttando il materiale dell’ambiente in cui erano immerse.

Tabella 7.1 Gli elementi, ordinati per quantità decrescente, che sono presenti nel corpo umano, nel mare e nelle rocce.

Corpo umano Mare Roccia
Idrogeno Idrogeno Ossigeno
Ossigeno Ossigeno Silicio
Carbonio Cloro Idrogeno
Azoto Sodio Alluminio
Calcio Magnesio Sodio
Fosforo Zolfo Calcio
Zolfo Calcio Ferro
Sodio Potassio Magnesio
Potassio Carbonio Potassio
Cloro Azoto Titanio

È probabile che nell’atmosfera primordiale della Terra i fulmini e i raggi ultravioletti del Sole abbiano frantumato le semplici molecole contenenti idrogeno, i cui frammenti si siano poi ricomposti spontaneamente nel mare, formando molecole sempre più complesse. In seguito queste molecole si sono aggregate in semplici organismi unicellulari.

7.3.3 La cioccolata e il cielo

Sembra incredibile che tutto ciò che esiste al mondo sia formato da così pochi ingredienti di base. Prendiamo la cioccolata. C’è qualcosa di più unico, di più inconfondibile (e delizioso) di una crema di cioccolata da spalmare sul pane? Com’è possibile che questo sublime ansiolitico alimentare sia composto dagli stessi elementi che accomunano noi e il padre oceano? Eppure è proprio così. Una comune cioccolata contiene idrogeno, carbonio, ossigeno, magnesio, fosforo e calcio. Capire da dove venga la cioccolata significa dunque chiedersi come siano nati i 92 elementi chimici che formano il mondo.

Per rispondere a questa domanda bisogna risalire, come nelle favole, fino alla notte dei tempi, o meglio fino all’origine stessa del tempo. Prima di dodici miliardi di anni fa il tempo non esisteva, né si poteva cercare un posto dove sistemarsi ad aspettare, perché oltre al fatto che non c’era il tempo non c’era neanche lo spazio. C’era, però, il nulla, un assoluto vuoto in perfetto e brulicante equilibrio tra l’essere e il non essere. Per motivi sconosciuti quel perfetto equilibrio si ruppe e… fu la luce. Quando il tempo cominciò a scorrere, la più immane esplosione di tutti i tempi generò il nostro universo. L’universo si espanse e la sua temperatura diminuì da miliardi di miliardi di gradi a qualche migliaio appena. I frammenti di quest’immensa esplosione erano costituiti prevalentemente da protoni, neutroni ed elettroni. Mentre l’universo si raffreddava, una parte dei protoni si fuse con i neutroni per formare nuclei di elio, che sono composti, come abbiamo visto, da due protoni e due neutroni.

Il processo di costruzione degli elementi sarebbe andato certamente avanti attraverso reazioni nucleari di fusione, con l’aggregazione di un numero maggiore di neutroni e protoni, ma non ci fu tempo sufficiente. Infatti i neutroni, dopo essersi formati nei primissimi istanti di vita dell’universo dall’unione di un elettrone, un protone e un’altra evanescente particella fondamentale, decaddero di nuovo. Si spezzarono, cioè, nei rispettivi costituenti in una decina di minuti. (In effetti non esistono neutroni liberi. Queste particelle possono esistere intatte solamente se imprigionate nell’interno dei nuclei atomici. D’altra parte, se i neutroni non fossero presenti all’interno dei nuclei atomici, questi si disgregherebbero per effetto della forza elettrica repulsiva tra i protoni. Ecco perché il nucleo dell’elemento chimico più pesante, l’uranio, contiene, oltre a 92 protoni, ben 144 neutroni).

Occorre quindi risolvere un altro mistero: se dalla grande esplosione iniziale non si formò null’altro che idrogeno ed elio, da dove viene tutto il resto? Da dove vengono l’ossigeno dell’acqua e dell’aria, il carbonio degli zuccheri, il calcio delle ossa, il magnesio della cioccolata e il ferro dell’emoglobina? Per quanto si approfondiscano i modelli fisico-matematici che descrivono l’origine dell’universo, non c’è verso di produrre significative quantità di elementi più pesanti dell’elio: al termine dei primi processi di aggregazione nucleare la materia era costituita per circa tre quarti da idrogeno e per un quarto da elio.

La domanda banale che affiora sulle labbra è: com’è dunque possibile la nostra esistenza?

La risposta, banale, si riflette ogni notte negli occhi di chi rivolge lo sguardo al cielo.

Gli atomi prodotti dall’esplosione iniziale formarono delle immense nubi di gas che si allontanavano l’una dall’altra seguendo l’espansione cosmica dello spazio. In seguito il gas precipitò su se stesso addensandosi e dando così forma alle prime galassie. All’interno di queste galassie nacque una prima generazione di stelle composte unicamente di idrogeno ed elio. L’interno delle stelle più massicce raggiunse la temperatura di innesco di 15 milioni di gradi necessaria per iniziare la fusione dei nuclei di idrogeno. In quel tempo, non esistevano pianeti per ricevere la luce delle stelle né esseri viventi per ammirare lo splendore di un cielo stellato. Ma, nel profondo delle fornaci stellari, bruciando l’energia nascosta nella materia e inondando il cosmo di luce, la fusione nucleare stava dando vita ad atomi sempre più complessi, ad elementi come il carbonio, l’azoto, l’ossigeno, il sodio, il calcio, il fosforo, il potassio, il cloro, il magnesio, il silicio, lo zolfo.

Gli atomi di idrogeno accesero dunque la luce delle stelle più pesanti. La cenere lasciata dalla combustione dell’idrogeno produsse la materia primordiale da cui più tardi sarebbero nati i pianeti, la vita e alla fine anche la cioccolata.

Un’altra domanda però sorge spontanea: come hanno fatto le stelle a ridistribuire nello spazio il frutto del loro incessante lavoro di costruzione dei mattoni elementari?

La risposta si trova di nuovo in un’esplosione. Alcune stelle, le più massicce e splendenti, esaurirono rapidamente il combustibile nucleare e giunte alla fine della loro vita esplosero immettendo nello spazio interstellare il materiale elaborato nel loro interno. In tal modo il gas interstellare si arricchì di elementi pesanti. Nella nostra Galassia, la Via Lattea, la materia cosmica fu riciclata in nuove generazioni di stelle, stelle ricche di atomi più pesanti dell’elio.

Queste immani esplosioni stellari continuano a verificarsi in tutto l’universo. E quando la deflagrazione avviene nella Via Lattea o nelle sue immediate vicinanze, è come se nel cielo apparisse un nuovo astro splendente. Perciò queste stelle che muoiono esplodendo prendono il nome di supernove. Nel 1987, nella Grande Nube di Magellano (una galassia molto vicina alla nostra), una stella che appariva debole e insignificante, aumentò rapidamente la sua luminosità fino a diventare più brillante della stessa galassia che la ospitava. Prima che il suo splendore diminuisse, la supernova fu visibile a occhio nudo per parecchi giorni, a testimonianza del fatto che il meccanismo di riciclaggio cosmico è tuttora in funzione.

Esiste dunque una profonda unità tra noi e il mondo. Siamo plasmati con la stessa creta. Guardando le stelle, entriamo in contatto con la ragione profonda di questa sostanziale identità, ed esse ci appaiono molto meno distanti. Grazie alle stelle, l’universo crea lo strumento attraverso il quale contemplare se stesso: la vita.

Nel paragrafo 7.8 descriveremo più in dettaglio il motore stellare da cui trae origine la materia che ci circonda. Ora possiamo a ragione porci un’altra domanda fondamentale per la nostra sopravvivenza, una domanda strettamente connessa al tempo che ci rimane da vivere sulla Terra come specie umana: siamo soli nell’universo? C’è una concreta possibilità di trovare altri fratelli fuori del sistema solare che condividono con noi le meraviglie della natura?

7.4 C’È QUALCUN ALTRO NEI PARAGGI?

Quando si parla di probabilità si ha sempre a che fare con un numero compreso tra 0 e 1. Il numero 1 equivale a una probabilità del 100 per cento. Il numero 0,0000000016, qualcosa di molto vicino a zero, è invece la probabilità di vincere al superenalotto.

Qual è la probabilità che esistano civiltà extraterrestri nella nostra Galassia? Un numero vicino a zero oppure a 1? Per calcolare questa probabilità gli astronomi utilizzano una formula molto semplice, l’equazione di Drake:

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dove:

N rappresenta il numero di civiltà extraterrestri che vogliamo trovare,
Ns è il numero di stelle nella nostra Galassia,
Fp la frazione di queste stelle che, come il Sole, hanno sistemi planetari,
Np il numero di pianeti simili alla Terra,
Fv la frazione di questi pianeti su cui si sviluppa la vita,
Fi la frazione di pianeti su cui si sviluppa una forma di vita intelligente,
Fc la frazione di pianeti su cui si sviluppano civiltà tecnologicamente avanzate,
D la durata media di queste civiltà tecnologiche,
T l’età della nostra Galassia.

Se riusciamo a quantificare i fattori dell’equazione, possiamo calcolare la probabilità di trovare una forma di vita intelligente al di fuori del sistema solare.

Ogni fattore è, in linea di principio, desumibile da considerazioni basate sulle attuali conoscenze nel campo dell’astrofisica, della biologia, della paleontologia, della storia e perfino della sociologia. Il risultato finale dipende da quanto siamo ottimisti, ma almeno su un dato possiamo essere ragionevolmente sicuri: Ns, il numero di stelle nella nostra Galassia. Gli astronomi stimano infatti che la nostra Galassia contenga grossomodo cento miliardi di stelle. Per quanto riguarda gli altri fattori, si possono azzardare delle stime ragionevoli. Chi volesse approfondire l’argomento può cercare l’ottimo libro Probabilità 1 di Amir Aczel e il godibilissimo Civiltà extraterrestri di Isaac Asimov.

Tra tutti i fattori dell’equazione il più incerto è D, ovvero il tempo medio di esistenza di una civiltà tecnologica. Quanto tempo è concesso a una civiltà che abbia scoperto l’energia nascosta nei nuclei dell’atomo e che possieda quindi la capacità di autodistruggersi in un olocausto termonucleare? Oltre alle cause endogene di estinzione, bisogna poi considerare i possibili fattori esterni. Sappiamo ad esempio che i resti della formazione del sistema solare – meteore, comete, pianetini – ancora popolano lo spazio interplanetario. Alcuni di questi corpi ruotano attorno al Sole in orbite instabili, altri sono del tutto sconosciuti perché provengono dai remoti confini del sistema. Uno di essi potrebbe, in un futuro che speriamo sia il più remoto possibile, incrociare il percorso della Terra. Se questo avvenisse prima dello sviluppo di un’effettiva capacità di difesa, faremmo la fine dei dinosauri. Pur non possedendo alcuna tecnologia, i giganti del Giurassico hanno dominato il nostro pianeta per centinaia di milioni di anni prima che l’impatto di un enorme meteorite ponesse fine al loro regno.

Per non peccare di ottimismo eccessivo, ipotizziamo tre possibili scenari per la durata di una civiltà simile alla nostra: centomila anni, dieci milioni di anni e cinque miliardi di anni.

Nei tre casi, a conti fatti, il numero di pianeti abitati da civiltà tecnologiche in grado di inviare segnali nello spazio sarebbe nell’ordine di ottanta, ottomila oppure tre milioni e mezzo.

In termini di probabilità i risultati finali sono numeri piccoli ma non trascurabili. Nell’ipotesi più pessimistica, la probabilità che attorno a una stella scelta a caso tra i cento miliardi della nostra Galassia ruoti un pianeta abitato da una civiltà evoluta è solo due volte più bassa di quella di vincere al superenalotto. Ma, così come ogni tanto arride al giocatore, un giorno la fortuna potrebbe baciare un astronomo. Quel giorno, attraverso un radiotelescopio puntato verso una stella del tutto simile al nostro Sole, costui (o costei) ascolterà un segnale stranamente modulato, un messaggio dotato di senso compiuto che non lascerà dubbi su chi ne sia il mittente: una civiltà avanzata che vive su un pianeta di quella stella e che, come noi, è ansiosa di entrare in comunicazione con altri esseri intelligenti nel cosmo. Molto probabilmente quel messaggio sarà scritto nel linguaggio della matematica, l’idioma più universale che esista, ed esprimerà le leggi fondamentali della fisica, i concetti più universali che esistano.

Per ora, tuttavia, queste sono solo ipotesi. Quello che è certo è che nella nostra Galassia c’è almeno un sistema stellare in cui la vita si è evoluta: il nostro. E proprio dal sistema di pianeti che ruotano attorno al Sole partiremo ora per un rapidissimo viaggio che ci condurrà fino ai confini della Via Lattea.

7.5 IL SISTEMA SOLARE

Le distanze e le dimensioni con le quali dovremo confrontarci nel nostro viaggio spaziale sono enormi rispetto a quelle che sperimentiamo nella vita quotidiana. Perciò, per riportarci su una scala più umana, immaginiamo di ridurre la Terra alle dimensioni di un grosso pompelmo con un diametro di 10 centimetri. In tal modo il Sole diventa una mongolfiera di 11 metri di diametro che dista 1 chilometro e 200 metri dalla Terra, mentre ci è sufficiente percorrere meno di 50 chilometri per raggiungere Plutone, l’ultimo dei pianeti, che in questa scala è grande come una ciliegia.

Al centro del sistema solare sta la splendente mongolfiera. Attorno le ruotano nove pianeti, nell’ordine Mercurio, Venere, la Terra, Marte, Giove, Saturno, Urano, Nettuno e Plutone. I primi quattro sono chiamati terrestri perché, come la Terra, sono corpi solidi, rocciosi. Nella scala ridotta che abbiamo adottato, Mercurio è una pallina da golf a circa 450 metri dal Sole. Quattrocento metri più in là troviamo Venere (un altro pompelmo, appena più piccolo della Terra), con l’atmosfera verdognola, densissima e irrespirabile che ne ricopre la superficie. Quindi, dopo aver oltrepassato il nostro bellissimo pianeta con i suoi oceani blu e le nuvole bianche, incontriamo Marte, una rossa palla da tennis che ruota a quasi 2 chilometri dal Sole.

Giove, il pianeta successivo, dista 6 chilometri dal Sole nel nostro universo miniaturizzato (778 milioni di chilometri nella realtà) ed è letteralmente un altro mondo: un grande globo di gas con un diametro di oltre un metro (equivalente a 142.000 chilometri reali), cioè più di dieci volte quello terrestre. Simili per struttura e dimensioni a Giove sono Saturno, Urano e Nettuno, che per questo motivo sono detti pianeti gioviani. Saturno, poco più piccolo di Giove e circondato dai suoi bellissimi anelli, si trova a 11 chilometri dal Sole; Urano, il cui diametro è di circa 40 centimetri di diametro, a 23 chilometri; e Nettuno, con un diametro di 38 centimetri, a 35 chilometri. Infine, come abbiamo visto, a oltre 40 chilometri dalla mongolfiera-Sole incontriamo Plutone, una sferetta di ghiaccio di appena due centimetri di diametro.

Pur essendo, a rigore, delle ellissi, le orbite dei pianeti sono approssimativamente circolari. Inoltre, giacciono tutte più o meno su uno stesso piano. Fanno eccezione Mercurio e soprattutto Plutone, il primo e l’ultimo, che hanno orbite più allungate e inclinate. Le velocità con cui i pianeti percorrono le loro orbite, invece, diminuiscono man mano che aumenta la distanza dal Sole. Si va dai 48 chilometri al secondo per Mercurio ai circa 4,8 per Plutone. La velocità orbitale della Terra è di circa 30 km/sec, ovvero di 108.000 chilometri all’ora. Ciò significa che in meno di quattro ore la Terra percorre un tragitto pari alla distanza che la separa dalla Luna!

Le differenze nelle velocità e nelle lunghezze dei percorsi orbitali danno conto dei tempi che ciascun pianeta impiega per completare un giro attorno al Sole. Se la Terra compie un’orbita in 365 giorni e un quarto, a Mercurio bastano 88 giorni, mentre per Plutone ci vogliono ben 250 anni.

Fu l’astronomo tedesco Giovanni Keplero (1571-1630), più o meno negli stessi anni in cui Galileo (1564-1642) volgeva per la prima volta un cannocchiale verso il cielo notturno, a enunciare le tre leggi che governano i moti di rivoluzione planetari. Grazie alla teoria di Keplero, gli apparenti vagabondaggi dei pianeti tra le costellazioni dello zodiaco trovarono una spiegazione semplice e naturale. Mezzo secolo più tardi Isaac Newton avrebbe scoperto la ragione fisica di quei moti con le sue leggi della dinamica (vedi il capitolo 1) e con la teoria della gravitazione universale. E infatti la forza di gravità esercitata dall’immensa massa del Sole che costringe i pianeti a percorrere in eterno le loro orbite.

Ovviamente la gravitazione universale governa anche i moti di tutti gli altri corpi che popolano il sistema solare: i satelliti che ruotano attorno ai pianeti (noi terrestri abbiamo soltanto una luna, ma Giove da solo ne possiede più di venti), le comete e gli asteroidi, a cui accenneremo nel prossimo paragrafo.

7.5.1 Una serie spaziale

C’è una regola mnemonica abbastanza semplice per imparare le distanze dei pianeti e far colpo sugli amici. Eccola. Si parte dalla sequenza numerica

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in cui ogni numero, a partire dal terzo, è il doppio del precedente. Poi si aggiunge 4 a ogni numero della serie, che diventa

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Infine bisogna dividere ogni numero della sequenza per 10:

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che corrispondono approssimativamente alle distanze dei pianeti espresse in unità astronomiche (UA), ovvero adoperando come metro di misura la distanza Terra-Sole, che corrisponde a centocinquanta milioni di chilometri.

Questa semplice sequenza di numeri fu scoperta nel diciottesimo secolo da due astronomi tedeschi, Daniel Johann Titius e Johann Elert Bode, e in loro onore prende il nome di legge di Titius-Bode.

Il confronto tra la sequenza e le distanze reali dei pianeti (tabella 7.2) mostra che c’è una corrispondenza quasi perfetta per i primi sette pianeti, mentre i valori si discostano nettamente per gli ultimi due. Bisogna però notare che quando Bode divulgò la legge i pianeti conosciuti erano solo i primi sei. Ma il fatto incredibile è che, benché sia puramente empirica e – per quanto ne sappiamo – non possegga alcuna base fisica, la legge di Titius-Bode ebbe un ruolo fondamentale in almeno due grandi scoperte astronomiche.

Quando nel 1791 Friedrich Wilhelm Herschel scoprì un nuovo pianeta, Urano, gli astronomi poterono verificare che la sua distanza concordava quasi esattamente con quella prevista dalla legge per l’ottavo numero della sequenza. Questo successo spinse molti astronomi a tentare di risolvere il « mistero del pianeta mancante».

Tabella 7.2 Raffronto tra le distanze dei pianeti dal Sole calcolate utilizzando la legge di Titius-Bode e quelle effettive.

Pianeta Distanza approssimata (UA) Distanza reale (UA)
Mercurio 0,4 0,39
Venere 0,7 0,72
Terra 1,0 1,0
Marte 1,6 1,52
??? 2,8 ???
Giove 5,2 5,20
Saturno 10,0 9,54
Urano 19,6 19,18
Nettuno 38,8 30,06
Plutone 77,2 39,44

Osservando la tabella 7.2 si nota che al quinto numero della sequenza non corrisponde alcun pianeta. La Terra dista dal Sole un’unità astronomica, Marte 1,52 UA. Perché mai, si chiedevano gli astronomi alla fine del Settecento, a 2,8 UA dal Sole non c’è nulla? Eppure lì doveva esserci un pianeta. Chi l’avesse scoperto avrebbe confermato in modo spettacolare la validità di una legge che sembrava infallibile. Immaginate dunque l’emozione che dovette provare padre Giuseppe Piazzi quando, la notte di Capodanno del 1801, puntando il telescopio nel cielo terso di Palermo vide un nuovo, piccolo pianeta, e soprattutto quando i calcoli confermarono che quel pianetino si trovava a 2,7 unità astronomiche dal Sole, cioè quasi esattamente alla distanza prevista dalla legge di Titius-Bode.

Alla scoperta del piccolo pianeta, che lo stesso Piazzi battezzò Cerere, sarebbero seguite quelle di molte migliaia di corpi simili, giganteschi massi che occupano una larga fascia posta tra Marte e Giove. Questo enorme anello percorso da una moltitudine di rocce (le cui dimensioni vanno da poche centinaia di metri fino ai 1000 chilometri di Cerere) prende il nome di fascia degli asteroidi. Come previsto dalla legge di Titius-Bode, la zona centrale della fascia si trova proprio a 2,8 unità astronomiche dal Sole.

La caccia agli asteroidi continua ancora oggi. Sono molti gli astronomi e gli astrofili che vi si dedicano, e non solo per la gloria. Ogni tanto, infatti, un asteroide viene espulso dalla fascia e sfreccia verso il centro del sistema solare, e la possibilità che una di queste mine vaganti entri in rotta di collisione con la Terra, per quanto remota, esiste. In questo caso è fondamentale individuare il potenziale pericolo con il massimo anticipo, in modo da avere il tempo per studiare delle contromisure che ci evitino di fare la fine dei dinosauri.

7.6 ANNI E SECONDI LUCE

Ora che sappiamo qualcosa del nostro sistema solare, possiamo provare ad avventurarci al di là dei suoi limiti per visitare le stelle più vicine e scoprire magari altri sistemi planetari. Quando oltrepassiamo l’orbita di Plutone, davanti a noi si apre un’immensa distesa di nulla.

Il sistema solare è una piccola isola in un oceano di spazio vuoto. La stella più vicina, Proxima Centauri, si trova alla bellezza di circa quarantamila miliardi di chilometri da noi. Nemmeno la riduzione di scala che abbiamo utilizzato per ricondurre le distanze planetarie a misura d’uomo ha più molto senso per tali grandezze. Se la applichiamo, Proxima Centauri diventa una sfera del diametro di pochi metri lontana quasi trentacinquemila chilometri dal Sole. Se dovessimo scrivere per esteso i numeri che rappresentano le distanze cosmiche in chilometri, riempiremmo di cifre intere pagine. (E lo stesso vale per le masse delle stelle, le dimensioni delle galassie e molte altre grandezze fisiche applicate all’astronomia). Per ovviare al problema, gli astronomi ricorrono a tre metodi distinti.

Il primo metodo consiste nell’esprimere i numeri in forma esponenziale. Il trucco è semplice. Quando scriviamo un numero, il valore di ogni cifra è determinato dalla sua posizione. L’ultima cifra ha valore di unità, la penultima di decine, la terzultima di centinaia e così via. Pertanto, 7425 significa 5 unità più 2 decine (ossia 2 × 10) più 4 centinaia (4 × 102) più 7 migliaia (7 × 103).

Adesso immaginiamo di scrivere un numero le cui cifre sono tutte zero a parte la prima, ad esempio 30.000. Qui gli zeri sono fondamentali per determinare il valore del numero, poiché stabiliscono la posizione della prima cifra e cioè quante volte essa va moltiplicata per dieci. Nel nostro esempio gli zeri pongono il 3 al quinto posto, che è quello delle decine di migliaia. In sostanza ciò significa che 30.000 equivale a tre volte diecimila, ossia a 3 moltiplicato per 10 (che fa 30) moltiplicato per 10 (che fa 300) moltiplicato per 10 (che fa 3000) moltiplicato per 10 (che fa 30.000). Insomma ogni zero rappresenta una potenza di dieci e 30.000 si può scrivere come 3 × 104.

La stessa cosa vale per un numero che termini con cinque, sei, sette, otto oppure sessanta zeri: potremo sempre scriverlo come il prodotto delle cifre iniziali per 10 elevato al numero di zeri finali. Invece di 1000 si scriverà allora 1 × 105 e invece di 36.000.000.000 (trentasei miliardi), 36 × 109.

Per verificarne l’efficacia, proviamo ad applicare il metodo ad alcune distanze astronomiche che abbiamo già incontrato. La distanza della Terra dal Sole (150.000.000 di chilometri) diventa 15 × 107 km; quella di Plutone dal Sole (6.000.000.000 di chilometri) diventa 6 × 109 km; e quella enorme che ci separa da Proxima Centauri (40.000.000.000.000 chilometri) diventa 40 × 1012 km.

La bellezza di questo metodo è che lo si può applicare sempre, qualunque sia il tipo di grandezza che si vuole esprimere. La massa del Sole, ad esempio, è pari a circa

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o, se preferite, a 3 × 1030 kg.

Il secondo metodo usato dagli astronomi per esprimere grandi numeri in maniera sintetica si applica solo alle misure di distanza e sfrutta la velocità della luce.

Come sappiamo (vedi il capitolo 6) la luce viaggia alla notevolissima velocità di trecentomila chilometri al secondo. Ciò significa che in un secondo un raggio di luce percorre la bella distanza di 300.000 km, in due secondi 600.000 km e così via. Allora è possibile esprimere una distanza come un tempo luce, ovvero come il tempo impiegato dalla luce per percorrerla. La formula per il tempo luce è:

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Grandi distanze si riducono a numeri maneggevoli. Per esempio la distanza Terra-Sole vale: 150.000.000 km / 300.000 km/sec = 500 secondi luce. Dato che 500 secondi luce sono circa 8 minuti, possiamo dire che il Sole dista dalla Terra 8 minuti luce, ovvero 8 minuti percorsi alla velocità della luce.

La distanza di Proxima Centauri dal Sole è pari a poco più di 4 anni luce. La distanza della galassia di Andromeda è di 2 milioni di anni luce, mentre quella delle più lontane galassie osservate è di 10 miliardi di anni luce. Appare evidente, per queste grandi distanze, il legame che intercorre tra il tempo e lo spazio. La luce delle galassie più remote è in viaggio da miliardi di anni, cioè da quando poche stelle giganti cominciavano a illuminare il gas in contrazione da cui si sarebbe formata la Via Lattea. E quando dalla galassia di Andromeda è partita la luce che adesso raggiunge i nostri telescopi, i primi ominidi cominciavano a scendere dagli alberi e a volgere lo sguardo impaurito e curioso verso il cielo.

Un’altra unità di misura molto usata in astronomia è il parsec. Il termine deriva dalla contrazione di «parallasse secondo». Il secondo in questione non è relativo alla misura di un tempo, ma alla misura di un angolo: un secondo d’arco (scritto anche come 1”) equivale a un sessantesimo di minuto di arco e a un tremilaseicentesimo di grado. Un bastone di un metro posto a 206 km di distanza sottende esattamente un angolo di 1”.

La parallasse è invece, in generale, lo spostamento angolare apparente che subisce un oggetto quando lo si osserva da due punti diversi. Se ad esempio tenete un dito davanti al volto e lo guardate prima con un occhio e poi con un altro, noterete che la sua posizione rispetto allo sfondo cambia, e che l’entità dello spostamento diminuisce quanto più aumenta la distanza del dito. Lo stesso accade per le stelle sulla volta celeste. Ma dato che le stelle si trovano a distanze enormi, per tentare di valutare le loro parallassi bisogna scegliere due punti d’osservazione che siano quanto più possibile lontani tra loro. Sfruttando il moto della Terra intorno al Sole, a distanza di sei mesi si può osservare lo stesso astro da due punti separati da ben 300 milioni di chilometri (cioè il doppio della distanza Terra-Sole). In questo modo si riescono a misurare le parallassi delle stelle relativamente vicine.

In astronomia si definisce parallasse annua la metà dello spostamento apparente in cielo che una stella subisce in un intervallo di sei mesi, quando l’osservatore si trova dalla parte opposta dell’orbita terrestre. Una volta misurata la parallasse annua di una stella, possiamo ricavare la sua distanza con una semplice formula geometrica:

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Quanto più una stella è vicina, tanto più l’arco di cerchio che essa percorre sulla volta celeste in ragione dello spostamento della Terra intorno al Sole sarà grande. Il parsec è per definizione la distanza a cui deve trovarsi una stella per avere una parallasse annua di 1 secondo d’arco, ed equivale a 3,26 anni luce. La stella più vicina alla Terra ha una parallasse annua inferiore a un secondo di arco, e ciò significa che si trova a più di un parsec da noi.

La Via Lattea, la fascia lattiginosa che pare estendersi su tutto il cielo in una notte serena e senza luna, è il profilo della nostra Galassia, un disco rotante che contiene più di duecento miliardi di stelle. Il diametro della Galassia è stato valutato in centomila anni luce (trentamila parsec). Il Sole ruota intorno al suo centro, da cui dista circa trentamila anni luce. Per renderci conto delle dimensioni galattiche, stabiliamo una corrispondenza con misure confacenti alla scala umana: un centimetro per ogni dieci milioni di chilometri. In questa scala il Sole ha un diametro di 1,4 millimetri, pari alle dimensioni di un pallino da fucile, la Terra è un granello di polvere a 15 centimetri dal Sole e la stella più vicina è un altro pallino da fucile a 40 km. In questa scala l’intero disco galattico ha un diametro di 926.000 km, pari a più del doppio della distanza Terra-Luna.

7.7 PIOGGIA DI LUCE

Se escludiamo l’energia nucleare, tutte le fonti di energia impiegate dall’umanità sono, in modo più o meno diretto, di origine solare. Un metro quadrato di superficie terrestre riceve dal Sole una potenza di circa 1360 watt che, corretta per l’assorbimento e la riflessione operati dall’atmosfera, si riduce a circa 1 kilowatt di potenza utile. In un metro quadrato è contenuta, insomma, la potenza teorica necessaria per il funzionamento di un ferro da stiro di medio consumo.

Purtroppo l’efficienza con la quale l’energia solare viene convertita in elettricità è ancora molto bassa, intorno al 10 per cento. Questo significa che per poter stirare le nostre camicie dovremmo adoperare la corrente proveniente da un ombrellone di 3 metri e mezzo di diametro ricoperto di celle fotovoltaiche.

Ma quanta energia emette il Sole in un secondo? Per scoprirlo basta moltiplicare la potenza irradiata dal Sole su un metro quadrato di suolo terrestre, che come abbiamo visto è pari a 1360 watt, per la superficie di una sfera di raggio pari alla distanza Terra-Sole (1 UA = 150 × 106 km):

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dove S è la superficie in metri quadrati dell’ipotetica sfera.

Ricordando che la superficie di una sfera è data da quattro volte pi greco per il quadrato del raggio

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ed esprimendo la distanza Terra-Sole in metri, si ottiene:

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Perciò la potenza totale emessa dal Sole risulta pari a

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Occorrerebbero alcune centinaia di milioni di miliardi di centrali nucleari da 1000 megawatt per uguagliare l’immensa energia generata dal Sole in un secondo!

Eppure, nonostante le incredibili quantità di luce ed energia che emette, al confronto delle altre stelle il nostro Sole è un oggetto perfettamente normale, anzi piuttosto piccolino, tanto da essere classificato come « nana gialla ».

7.8 IL MISTERO DEL MOTORE STELLARE

Dato che «fatti non foste a viver come bruti», vogliamo chiederci quale sia la fonte apparentemente inesauribile dell’energia solare. Come può il Sole aver prodotto calore e luce per almeno quattro miliardi e mezzo di anni (perché tale è la sua età stimata) e rifulgere ancora in cielo in tutto il suo splendore?

Nel diciannovesimo secolo, con lo sviluppo del concetto di calore, si comprese che l’energia chimica da sola non avrebbe potuto lasciare acceso il Sole per più di qualche migliaio di anni: non avevamo a che fare con una palla di carbone. Evidentemente doveva esserci un’altra fonte energetica. Ma quale? Quella misteriosa sorgente avrebbe dovuto produrre un’energia sufficiente a rimpiazzare le enormi quantità che la stella perdeva emettendo luce e calore. Se il Sole irradia nello spazio 3,8 × 1026 watt significa che deve produrne altrettanti per rimanere in condizioni stazionarie. Lord William T. Kelvin, alla fine del diciannovesimo secolo, ipotizzò che la fonte primaria dell’energia solare fosse gravitazionale. Contraendosi per effetto della gravità, l’immensa sfera del Sole avrebbe trasformato grandi quantità di energia meccanica in calore, producendo molta più energia che per combustione chimica.

Dai suoi calcoli Kelvin dedusse che il Sole doveva avere un’età di circa 24 milioni di anni, un dato che però già a quel tempo era in conflitto con i risultati della geologia e della biologia evolutiva.

Si cominciò a intravedere una risposta all’alba del ventesimo secolo. I coniugi Marie e Pierre Curie avevano appena scoperto la radioattività naturale nei minerali di uranio, e iniziava ad affacciarsi l’idea che gli atomi di un elemento chimico potessero trasformarsi in seguito all’emissione di particelle cariche provenienti dall’interno dei nuclei.

La radioattività era accompagnata dall’emissione di energia. Era possibile che l’emissione di particelle energetiche da parte di elementi pesanti spiegasse la produzione di calore nel Sole? In fondo sarebbero bastati quattro grammi dell’elemento radio per metro cubo di materia solare. Purtroppo l’analisi spettroscopica della luce solare, che consentiva di determinare con esattezza la composizione chimica della sua atmosfera, non mostrava l’esistenza di tracce apprezzabili di elementi radioattivi.

La scoperta della radioattività fornì tuttavia l’orologio necessario per stimare l’età della Terra in qualche miliardo di anni. Il meccanismo gravitazionale proposto da Kelvin non poteva certo funzionare per così lungo tempo.

L’idea che il segreto dell’energia solare fosse racchiuso nel nucleo degli atomi si rafforzò nel 1905, quando Albert Einstein propose, nell’ambito della teoria della relatività, l’equivalenza tra massa ed energia. La formula che esprime questa equivalenza è probabilmente la più famosa della fisica:

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L’energia E è uguale alla massa m moltiplicata per la velocità della luce c al quadrato. Sembra un’equazione innocente, ma il valore della velocità della luce elevato al quadrato è un numero grandissimo, e ciò implica che a una piccola quantità di materia corrisponde una quantità spropositata d’energia. Facciamo un esempio: se esprimiamo le grandezze in unità di misura omogenee – chilogrammi, metri e secondi – la formula 7.2 ci dice che l’equivalente in energia di 1 grammo di materia è uguale a

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Novantamila miliardi di joule! Che cosa significa un numero di quest’ordine di grandezza? Come possiamo farci un’idea concreta di quanta energia sia? Proviamo a convertire il risultato in un’unità di misura di uso più comune nella vita quotidiana, il chilowattora. Poiché 1 kWh = 3.600.000 J, l’energia contenuta in un grammo di materia risulta uguale a venticinque milioni di kilowattora. È ancora un valore troppo grande per permetterci un paragone con il mondo reale (a meno che non vogliate associarlo alla quantità di energia elettrica consumata da venticinque milioni di massaie che stirano per un’ora; o da un’unica massaia che stira per venticinque milioni di ore).

Proviamo allora a esprimere il risultato in un’unità energetica bellica, il kiloton, ovvero l’energia liberata dall’esplosione di 1000 tonnellate di tritolo. Dato che un kiloton è uguale a quattromiladuecento miliardi di joule, arriviamo a concludere che un grammo di materia corrisponde a 21 kiloton d’energia. Un numero tristemente maneggevole. La bomba atomica lanciata su Hiroshima aveva pressappoco lo stesso potenziale esplosivo di un grammo di materia convertito completamente in energia.

Adesso riusciamo a comprendere il senso di vertigine, lo stupore, l’esaltazione e la paura degli scienziati atomici che, dopo la prima guerra mondiale, intravidero nella conoscenza dei fenomeni nucleari la possibilità di accendere fuochi ancora più devastanti di quelli chimici fino ad allora impiegati nella fabbricazione degli esplosivi.

È dunque la trasformazione di materia in energia che fornisce al Sole e a tutte le altre stelle il combustibile necessario a risplendere con tanta veemenza e per tanto tempo. Ma dove avviene questa trasformazione? Nel paragrafo 7.3.3 abbiamo visto che l’interno delle stelle è una fucina di elementi chimici: la fusione dei nuclei degli atomi leggeri produce nuclei di atomi più pesanti. In queste reazioni di fusione nucleare una frazione della massa dei nuclei originari scompare, diventa energia. Tanta energia.

Le rivoluzioni scientifiche, che mutarono la concezione del mondo all’inizio del secolo scorso, presero avvio dalla necessità di spiegare l’oscuro comportamento della luce e degli atomi. La fisica classica non riusciva a rendere conto della stabilità della materia. Quando nei primi trent’anni del ventesimo secolo furono poste le basi della nuova fisica, divenne chiaro che l’equazione di Einstein era la mappa che portava al tesoro dell’astrofisica: la comprensione dei processi che permettono al Sole e alle altre stelle di produrre senza sosta enormi quantità d’energia per centinaia di milioni o per miliardi di anni.

Ora sappiamo che nelle stelle è all’opera, con modalità molto ben controllate, il meccanismo misterioso che gli alchimisti avevano cercato per secoli. La pietra filosofale, l’elemento catalizzatore che consente di trasmutare i metalli poveri in oro, si cela nel cuore ardente delle stelle.