Bienvenidos in Venezuela

L’inferno di Caracas

Tra tutti i possibili luoghi del mondo dove tre giornalisti freelance possono condurre un’inchiesta, il Venezuela è decisamente il peggiore.

Sbarchiamo all’aeroporto Simón Bolívar di Caracas l’8 luglio 2015, in un torrido pomeriggio di sole. Di questo paese sappiamo pochissimo, e forse è meglio così. Prima della partenza, il nostro Señor C. ci ha letteralmente subissati di raccomandazioni, ventilando in ordine sparso ogni possibile genere di disgrazie e sciagure.

Per prima cosa, dobbiamo stare attenti ai malintenzionati – che da queste parti vengono chiamati ladrones o malandros – perché il Venezuela è la terza nazione al mondo per tasso di omicidi. È più facile buscarsi una pallottola quaggiù che a Baghdad o a Donetsk, e ai peggiori bar di Caracas non bisognerebbe nemmeno avvicinarsi. Una delle attività più in voga è il cosiddetto secuestro express. Funziona così: mentre sei per strada, vieni abbordato da un gruppo di malandros armati. Questi ti puntano una pistola alla testa, ti costringono a dire dove hai parcheggiato la macchina, salgono a bordo con te, dopodiché ti scortano fino al più vicino sportello bancario. Il gioco a questo punto diventa molto semplice: dopo aver intascato tutto quello che è consentito prelevare, dopo essere entrati in possesso delle chiavi dell’auto, dei tuoi stessi vestiti e degli oggetti di valore che porti addosso, ti abbandonano nudo come un verme nel più sperduto quartiere di periferia.

Il secondo consiglio riguarda il cambio. La República Bolivariana è funestata da una delle crisi economiche più devastanti della storia. Secondo la Borsa ufficiale, un dollaro equivale a circa sei bolivares. Si tratta però di un dato farlocco, perché il cambio reale viene stabilito dal mercato nero, che quotidianamente organizza le proprie contrattazioni in una non meglio precisata località della giungla, vicino al confine con la Colombia. Al nostro arrivo il valore effettivo di un dollaro è pari a cinquecento bolivares, ovvero quasi cento volte il prezzo imposto dal governo. 1 Questo regime assurdo ha trasformato il Venezuela in una sorta di grande affresco kafkiano, dove perdere il proprio denaro è diventato più facile che allacciarsi le scarpe. È già capitato, in tempi recenti, che certi turisti sprovveduti abbiano cambiato i loro dollari negli uffici dell’aeroporto, tra i sorrisetti divertiti delle impiegate governative: è un errore che ci guardiamo bene dal commettere, anche perché il cambio inverso è riservato unicamente agli alti papaveri chavisti.

Lo stesso discorso vale per i prelievi via bancomat, carta di credito e affini, che si trasformano seduta stante in una cortese donazione al governo di Caracas. Ovviamente i proventi del mercato nero finiscono in buona parte nelle tasche dei malandros, dunque c’è poco da stare allegri: se non è zuppa, è sempre pan bagnato.

Per evitare problemi abbiamo dunque deciso di giocare d’anticipo. El Señor C. ci ha messo in contatto con certi suoi parenti di Valencia, i quali hanno già provveduto a procurarci una sistemazione a El Bosque, un buon quartiere residenziale. All’aeroporto ci aspetta un loro autista, che ci scorterà per duecento chilometri fino alla capitale dello Stato di Carabobo. L’autista accetterà di essere pagato in dollari, anticipandoci qualche centinaio di bolivares per l’acquisto di bibite e panini. La tariffa tutto incluso, per tre persone, è al limite del ridicolo: dodici dollari.

L’auto attraversa rombando il centro di Caracas, offrendoci la visione miserrima di enormi bidonville abbarbicate sulle colline, torme di palazzi in costruzione e giganteschi murales che ritraggono gli occhi di Chávez, i quali – come scopriremo ben presto – vengono insistentemente dipinti su ogni superficie disponibile: dalle facciate delle case ai poster di propaganda, passando per le divise dei funzionari pubblici, le testate dei giornali governativi, le magliette e persino le scalinate dei parchi cittadini. Il nostro autista, che evidentemente non ha mai letto i romanzi di George Orwell, ce li indica con un certo orgoglio patriottico, come a dire: visto in che bel posticino siete finiti?

Padre nostro chavista

La situazione politica del paese è a dir poco turbolenta. A sedici anni dal trionfo di Hugo Chávez – e a due dalla sua morte – l’utopistico paradiso bolivariano si è trasformato in una specie di paludoso purgatorio tropicale.

Nicolás Maduro ha vinto di stretta misura le elezioni dell’aprile del 2013. Da allora – complici la crisi, la criminalità dilagante e il crollo del prezzo del petrolio – la sua popolarità non ha mai smesso di calare. Nel 2014 l’intera nazione è stata scossa da una lunga sequela di scioperi, cortei e rivolte. Una cinquantina di persone sono morte durante gli scontri con la polizia, mentre migliaia di manifestanti sono finiti in prigione o all’ospedale. I chavisti – per tutta risposta – hanno gridato al complotto: «La destra fascista ha ormai rinunciato alle regole della democrazia» ha detto Maduro. «Non potendo vincere in modo onesto, essa si è votata alla violenza, alla paura, al sotterfugio, alla manipolazione dei media.»

Come uscire da questo stato di impasse? Gli strateghi maduristi hanno optato per una strampalata manovra a tenaglia, i cui ingredienti sembrano copiati dalle pagine di 1984: molta propaganda, molti capri espiatori. È stato inventato il Padre nostro chavista, le cui parole meritano di essere riprodotte per intero: «Chávez nostro, che sei nei cieli, nella terra, nel mare e in noialtri, nei delegati e nelle delegate, sia santificato il tuo nome, giunga a noi il tuo insegnamento, perché noi possiamo tramandarlo ai popoli vicini e lontani. Dacci oggi la tua luce, perché essa ci guidi ogni giorno, non lasciandoci cadere nella tentazione del capitalismo, ma liberandoci dalla malignità, dal flagello dell’oligarchia e da quello del contrabbando, poiché solo a noi appartengono la patria, la pace e la vita. Nei secoli dei secoli, amen. Viva Chávez!». 2

Per sviare l’attenzione dell’opinione pubblica, Maduro e i suoi hanno dato vita a una violenta campagna mediatica contro il minuscolo Stato della Guyana, che nel lontano 1899 avrebbe annesso entro i propri confini alcune aree appartenenti al Venezuela. Ogni mattina, in diretta tv, il presidente lancia nuovi anatemi, dipingendo la pittoresca ex colonia britannica come una sorta di aspirante Terzo Reich, il cui atteggiamento «provocatorio» va assolutamente stroncato. Qualcuno lo ascolta ancora, ma buona parte della popolazione ha ormai smesso di farlo, ed è molto divertente – soprattutto se vuoi imparare le parolacce – osservare le reazioni degli automobilisti che scorrendo le stazioni radio si imbattono per sbaglio in uno dei suoi comizi.

L’arrivo a Valencia

Abbandonati i palazzoni di Caracas, l’Autopista si insinua tra le colline, in direzione ovest. La vegetazione è lussureggiante, di un verde umido e scurissimo. Qua e là spuntano piccoli chioschetti dall’aria vissuta, dove torme di camionisti panzuti addentano immensi panini gocciolanti di salse. La velocità dei veicoli è parecchio sostenuta: si sorpassa sulla destra, sulla sinistra e sulla corsia di emergenza, a seconda dei gusti.

Alcuni mezzi sono privi di specchietti, altri di luci, altri ancora di finestrini. Sul nastro d’asfalto regna l’anarchia più completa: le regole della strada esistono soltanto sulla carta, e con gli anni hanno assunto la stessa validità normativa di un fioretto all’Immacolata. «Bienvenidos a Venezuela» ridacchia divertito il nostro autista, che forse non è troppo avvezzo allo stupore dei forestieri. Giusto per rincarare la dose, ci accompagna a visitare i distributori di benzina, che figurano giustamente tra le principali attrazioni locali.

Il Venezuela è uno tra i maggiori produttori di petrolio al mondo, ragion per cui il governo chavista ha deciso di proclamare la gasolina «patrimonio del pueblo». E ragion per cui un pieno di benzina costa grosso modo tre bolivares, ovvero meno di mezzo centesimo di dollaro. Ergo, guidare è praticamente gratuito, ed ergo, il paese è in costante balia del traffico. Ovviamente sulle strade si muore come mosche, ma la cosa ha smesso di generare scalpore.

Valencia ci accoglie da lontano, con le sue grandi fabbriche dalle ciminiere fumanti. Eccolo, il nostro futuro campo d’azione: tre milioni d’abitanti distribuiti su una superficie di oltre duemila chilometri quadrati. L’altitudine – circa cinquecento metri sul livello del mare – favorisce un clima tutto sommato accettabile, torrido sì, ma non eccessivamente. L’urbanistica locale è molto semplice: i quartieri ricchi si trovano nella zona nord e sono chiamati urbanizaciones; i quartieri poveri, ovvero i barrios, si estendono invece dal centro storico in giù, occupando un’area sterminata e in continua espansione. A est della città c’è il celebre lago de Valencia, che un tempo era balneabile ma oggi è ormai ridotto a una sorta di fogna industriale. Per raggiungere il mare bisogna procedere verso nord per circa quaranta chilometri, fino al distretto di Puerto Cabello. Stando a un famoso detto locale, questa è «la tierra de las naranjas dulces y los hombres complacientes», e se le arance sono effettivamente in vendita a ogni angolo di strada, i secondi non si è mai capito con esattezza né dove si trovino né cosa facciano.

Fortunatamente, scopriamo di esserci sistemati piuttosto bene. I parenti valenciani del Señor C. sono felici di farci da cambiavalute. L’unico problema è il trasporto, perché cinquanta dollari equivalgono a venticinquemila bolivares, ovvero duecentocinquanta banconote del più alto taglio disponibile, quello da cento: in pratica, siamo costretti a spostarci con grossi sacchetti ricolmi di carta, che certamente non sono il massimo per lo shopping.

Italiani ovunque

Di una cosa ci rendiamo conto fin da subito: Valencia è piena di italiani. Ce ne sono migliaia, a cominciare dallo stesso sindaco, l’alcalde, l’avellinese Michele Cocchiola – o «Cocciòla», come dicono da queste parti – che peraltro è uno dei massimi esponenti locali dell’opposizione. Ultimamente le quotazioni di Cocchiola hanno subìto un netto crollo: il suo antichavismo – dicono – è un po’ troppo all’acqua di rose. Ben più idolatrato è invece il sindaco della vicina località di San Diego, che è anche lui nostro connazionale e si chiama Enzo Scarano. Nel 2014, in seguito alle dimostrazioni contro Maduro, Scarano fu condannato a dieci mesi e mezzo di carcere. Da allora gode della fama indiscussa di duro, e la formula «altro che Cocchiola» è diventata una sorta di appendice del suo cognome.

Gli italiani, del resto, militano in massa contro il governo. Molti lo fanno disinteressatamente, per oneste ragioni ideali. Altri, i più ricchi, hanno messo in atto un vero e proprio conflitto di classe al contrario, in difesa dei propri privilegi, delle proprie ville e delle proprie aziende. Si respira un clima da guerra civile, anche e soprattutto all’interno della comunità tricolore. Nel 2006, uno dei più facoltosi imprenditori nostrani, il settantacinquenne «re della pasta» Filippo Sindoni, è stato rapito e ucciso da una banda di malviventi travestiti da poliziotti. Secondo fonti vicine agli inquirenti, l’uomo, intimo amico di Chávez, si era fatto impiantare sottopelle un chip elettronico nella speranza di essere rintracciato dalla polizia. L’astuto stratagemma si è però ritorto contro di lui perché, prima di freddarlo con un colpo di pistola alla testa, i rapitori lo hanno brutalmente sfregiato.

Oggi – a Valencia come altrove – tutte le abitazioni borghesi sono circondate da massicce mura di cinta, reticolati ad alta tensione e posti di blocco della vigilanza privata. Le raccomandazioni più in voga sono le seguenti: mai camminare per strada, mai uscire la sera, mai comportarsi da turisti, mai maneggiare in pubblico macchine fotografiche, telecamere o smartphone.

Veniamo accompagnati al Club italiano, che a Valencia è una vera e propria istituzione. Chiunque voglia fare una carriera politica deve prima passare da qui, regola che sia Cocchiola che Scarano, a suo tempo, hanno diligentemente rispettato. Il circolo consiste in un vasto blocco di edifici, con tanto di piscina, impianti sportivi di ogni genere, saloni per concerti e spazi ricreativi. In pratica è una città dentro la città, con i suoi abitanti, le sue storie e le sue ricorrenze. I più anziani si riuniscono al primo piano, nella grande sala del biliardo. Ciascuno di loro parla una lingua tutta sua, che è uno strano miscuglio di spagnolo, dialetto e italiano del dopoguerra. Il sentimento più comune è la nostalgia: gli anni Sessanta e Settanta sono incensati come un’epoca dorata in cui chiunque poteva arricchirsi senza fatica, dal muratore al metalmeccanico, le porte venivano lasciate tranquillamente aperte, il crimine non esisteva e la politica era un semplice sfizio da intellettuali. «Hoy tenimm’ un govern’e pazz’» annuncia il signor Michele di Salerno, ottantatré anni. «Una revolución ci vorrebbe, altro che andar a vutér» gli fa eco Basilio di Reggio Emilia, classe 1937. Gli altri, più prosaicamente, si limitano a giocare a scopa. Molti ragazzi sognano di espatriare, percorrendo in senso contrario l’antica rotta dei propri nonni.

Veniamo invitati a una festa di compleanno nei quartieri ricchi. In una villa che sembra uscita da un film di Al Pacino, un paio di dozzine di giovani italovenezuelani cercano di scimmiottare senza troppo successo le mode dei loro coetanei americani. Si balla il reggaeton, si scattano selfie, ci si scambiano contatti Facebook e si gioca a beer pong, come nelle confraternite dei college. La politica è un argomento assolutamente tabù. I ragazzi ostentano spensieratezza, ma la loro è soltanto una messinscena. Avete mai preso la metropolitana? No, certo, è troppo pericoloso. E in centro ci andate mai? Ogni tanto, ma con la macchina. E i quartieri poveri? Li avete mai visitati? Ovvio che no, mica siamo scemi.

La musica risuona fino all’alba, mentre oltre i confini della gabbia dorata brillano inquietanti gli spuntoni del filo spinato.

Le nostre prime ricerche cominciano dai luoghi. Il vecchio hotel Camoruco, dove soggiornarono Ciro Grasso e Francesco Fasani, è sempre al suo posto, al civico 107-35 dell’avenida Bolívar, lo stradone che come una lunga lama taglia da sud a nord l’intera città. L’edificio è piuttosto malconcio ed è stato trasformato in una sorta di scalcagnato bordello. Le stanze vengono affittate a ore, mentre una folla di ragazze truccatissime si aggirano annoiate per i corridoi.

Alla reception c’è una signora grassoccia, che senza troppo interesse accetta di ascoltare la nostra complicata storia. «Bien, que se vayan» taglia corto indicandoci la rampa delle scale. Saliamo ai piani superiori, fino alla grande terrazza che sta sul tetto. Il lussuoso bar dell’attico è ormai ridotto a un deposito di immondizia. Qua e là giacciono abbandonate confezioni di preservativi. Usciamo sul ballatoio, in un intrico fulminato di polverose scritte al neon.

Il centro storico di Valencia si estende rumoroso di fronte a noi. Qui vicino, da qualche parte, doveva sorgere l’abitazione dell’ingegner Nardin, dalle cui grandi finestre il nostro sor Carlo riconobbe il suo vecchio amico Ettore Majorana. Erano gli anni Cinquanta, ma anche solo mezzo secolo, in luoghi come questo, equivale a lunghe ere geologiche. Quanti anni potrebbe avere la signora della reception? Quaranta, quarantacinque, non di più. E la specchiera nell’angolo? E quel decrepito bancone da bar ricoperto di cartacce? Forse trenta, trentacinque. Con lo sguardo sperduto, frughiamo in ogni angolo della stanza. La maîtresse inizia a rumoreggiare: deve tornare ai suoi conti, che evidentemente sono assai più importanti dei nostri.

Il luogo dello scatto

Il Banco italo-venezolano ha chiuso i battenti all’inizio degli anni Novanta. L’edificio esiste ancora, ma è abbandonato. Si trova in avenida 100 Constitución, a pochi passi dalla centralissima plaza Bolívar. Con la nostra foto tra le mani, cerchiamo di individuare il luogo esatto dove fu scattata. Non è facile, perché tutti questi palazzi sono stati più volte ristrutturati. Gironzolando attorno all’isolato, ci imbattiamo in una vecchia signora dai capelli tinti di rosso. Si chiama Margarita Marrero e ha sempre vissuto qui, in una casa di fine Ottocento con il patio dal tetto di canna e i muri scrostati. «¿El Banco italo?» esclama. «Me acuerdo el día en que lo cerraron!» La señora Margarita è una grande appassionata di storia locale. Così, il giorno in cui il Banco venne chiuso, si armò di macchina fotografica, scese in strada e immortalò ufficialmente il gran momento. L’istantanea risulta forse un po’ sfocata, ma è più che sufficiente a fugare ogni dubbio: l’edificio che stiamo cercando è proprio quello che ci sta di fronte. Riconosciamo lo stile delle colonne, dei muri di marmo, degli infissi, persino la disposizione delle vetrine. Certo, tra la nostra foto e quella di Margarita c’è un buco di almeno quarant’anni, durante i quali il paesaggio urbano ha continuato imperterrito a modificarsi. Il selciato non è più quello di una volta, e neppure i vetri e i portoni. Ma in fondo poco importa: Bini e Fasani erano in piedi esattamente quaggiù. Su questo proprio non ci piove.

Dopo aver scoperto il perché della nostra curiosità, la señora Margarita – che vive di una buona pensione ed è facile agli entusiasmi – inizia ad appassionarsi anche alla nostra storia. Ci fa accomodare in casa, accende uno scassatissimo computer e cerca su Google il nome di Ettore Majorana, mentre dalla sua bocca eccitata fuoriesce una lunga raffica di «carramba» e «madre de dios». Tutto ciò la manda su di giri, anche perché di giornalisti stranieri da queste parti se ne vedono pochissimi. D’un tratto ci indica un particolare della nostra foto: sulla destra, oltre la spalla di Bini, si intravede una seconda vetrina. «Foto Arte» recita l’insegna.

Margarita, che questa zona la conosce come le sue tasche, è in grado di attribuire un senso compiuto anche a questo dettaglio: «Foto Arte Miguel!» squittisce con gravità. E ci spiega che proprio accanto al Banco italo-venezolano sorgeva all’epoca uno studio fotografico, il cui proprietario, Miguel, era di origini italiane. Fu lui, probabilmente, a sviluppare l’istantanea di Fasani. Di colpo il nome di quel negozio torna in mente anche a noi: lo abbiamo visto impresso sul retro di alcuni ritratti conservati da Ciro Grasso a Palermo. La scritta era sbiadita ma leggibilissima: «Foto Arte Miguel». L’hotel Camoruco dista poche centinaia di metri da questo luogo: il nostro meccanico doveva essere un cliente piuttosto abituale. Anche questo tassello sembra essere tornato al suo posto.

La visita al consolato italiano e le prime ricerche

Attraverso internet la notizia delle indagini di Laviani è giunta ben presto fino a qui. «La voce d’Italia», il periodico degli emigranti in Venezuela, ha affrontato diverse volte il tema. Recita un articolo del 5 febbraio 2015: «Ettore Majorana, il geniale fisico cresciuto in via Panisperna, scomparso misteriosamente nel 1938, era vivo, nel periodo 1955-1959, e si trovava volontariamente nella città venezuelana di Valencia. Lo ha accertato la Procura di Roma indagando sulla scomparsa». 3 La voce si è diffusa, ma senza troppi clamori. In un paese dove è sufficiente uscire di casa per beccarsi una pallottola, dove il prezzo dei generi alimentari aumenta di giorno in giorno e il governo annuncia quotidianamente future azioni militari nel cuore della giungla, una notizia come questa tende giustamente a passare in sordina. Tuttavia, non tutto è rimasto immobile.

La viceconsole italiana di Valencia, Elizabeth Auteri, ci accoglie come vecchi amici. Per settimane, alla vigilia della nostra partenza, l’abbiamo molestata con lunghe mail infarcite di richieste. Risulta dai registri il nome di un certo signor Bini? E di un tale Ettore Majorana? È possibile svolgere ricerche anagrafiche tramite gli uffici consolari? A chi ci si deve rivolgere esattamente?

Non c’era bisogno di essere degli esperti majoranologi per comprendere la vera natura delle nostre indagini. Purtroppo però gli archivi del consolato partono dagli anni Settanta, e dei nomi che cerchiamo non vi è nessuna traccia. Del resto la registrazione avviene su base volontaria, e Bini – a quanto ne sappiamo – era un uomo assai schivo: per quale ragione avrebbe dovuto infilarsi proprio nella tana del lupo?

Le strade di Valencia sono grandi e rumorose. La metropolitana è stata da poco inaugurata e conta un’unica linea. La maggior parte dei pendolari si sposta con le corriere private: il controllore, in bilico sulla scaletta d’accesso, grida a voce alta la località di destinazione. Si paga alla discesa e il biglietto costa quindici bolivares.

Anche il cibo è a buon mercato: per il corrispettivo di dieci centesimi puoi avere un paio di tortilla calde; con due euro mangi bene e fino allo sfinimento.

Le librerie sono quasi inesistenti, ma in compenso abbondano i negozi di cd pirata, vestiti usati e oggetti di seconda mano. Fuori dai supermercati ci sono lunghe file di uomini, donne e bambini. Per colpa della crisi i generi di prima necessità sono stati razionati. Il governo tiene i prezzi bassissimi, ma per procurarsi un chilo di farina o un litro di latte bisogna mettersi in coda in un giorno specifico, esibendo la propria cédula e sperando che le scorte non siano già esaurite. L’acqua minerale è difficile da trovare, mentre shampoo e detersivi sono un vero e proprio lusso. Per una settimana intera siamo costretti a bere bibite gassate e a lavare i piatti con l’acqua del rubinetto a novanta gradi, il cui odore ricorda la benzina. Eppure c’è chi riesce a trarre profitto persino dalla «guerra economica»: si tratta della nuova figura sociale del bachaquero, che tradotto significa «formichina». Il bachaquero si mette in fila al posto tuo, acquista ciò che desideri e poi te lo rivende a due o tre volte il prezzo ufficiale. Se alla luce del sole ogni prodotto scarseggia, negli oscuri meandri del mercato nero puoi trovare veramente di tutto.

Sono storie interessantissime, per carità, ma la nostra attenzione in questo momento è focalizzata altrove.

Camminiamo senza meta per le viuzze del centro. I primi giorni di ricerca non sono stati troppo soddisfacenti. I falsi allarmi si sono susseguiti a ritmo serrato, con tutto ciò che tradizionalmente ne consegue: improvvisi entusiasmi, delusioni, scoramento. Del resto, lo abbiamo già visto: il caso Majorana è un immenso terreno di coltura per paranoici e visionari di ogni risma. In otto decenni di fervida attività, i tuttologi nostrani hanno partorito l’uomo cane e il raggio della morte. I loro omologhi latinoamericani hanno avuto a disposizione molto meno tempo, ma non per questo non si sono dati da fare.

Tra mitomani e sedicenti amici di Majorana

Una sera ci arriva un’imbeccata: l’amica di una signora originaria della Carnia sostiene che suo padre conosceva Majorana. Ovviamente andiamo in visibilio, passiamo la nottata a vagliare congetture e l’indomani mattina, di buon’ora, ci fiondiamo a casa della nostra fonte friulana. La donna ha circa settant’anni, è un’ex sarta in pensione, senza marito né figli, e vive in un appartamento poverissimo, le cui pareti sono tappezzate di cappelli degli alpini, foto di mucche al pascolo e dipinti con paesaggi montani. Ha la fobia dei malandros, che già parecchie volte le sono entrati in casa. È minuta, con i capelli bianchi tagliati corti. La sua voce è un flebile soffio terrorizzato: «Horita ve meni dalla mia amica» annuncia facendoci segno di seguirla.

Improvvisamente ci sentiamo come tre viandanti alle prese con un miraggio. Attraversiamo un paio di strade, superiamo le bancarelle di un mercatino e finalmente giungiamo al fatidico portone. La seconda signora è l’esatta fotocopia della prima: è minuta, friulana, sola e impaurita. Anche lei ci racconta dei malandros, alcuni dei quali hanno preso la brutta abitudine di fare la siesta sugli scalini di casa sua. Nel frattempo noi montiamo i cavalletti, accendiamo le telecamere, sistemiamo i microfoni e le macchine fotografiche. Quando il set è ormai pronto, la seconda vecchina inizia a sorridere: «Urca!» esclama felice. Anche l’amica sembra divertita. «Dunque, signora» abbozziamo schiacciando rec. «Ci racconti di questo Majorana.»

«Eh» gorgoglia lei, con l’aria di chi sta per fare una grande rivelazione. «Di quel frut alì mi sa che ne sapete più voi di me!»

«Ma come, signora? Ci hanno detto che suo padre lo conosceva.»

«Ah, certo, può darsi. Ma il fatto è che il me pari è morto da un bel pezzo!»

«Ma insomma, lo conosceva o no?»

«Eh, ninin biel, non dico di no. Può darsi, senza dubbio. Io, sapete, ho letto quella notizia sul giornale, e allora ho detto alla mia amica: gli anni Cinquanta! Sta’ un po’ a vedere che forse il me pari l’ha anca cognosüt

La nostra delusione è a dir poco evidente. La signora, che chiaramente si sente in colpa, decide di rimediare raccontandoci la seguente storiella: tanti anni fa, lei e un gruppo di amici stavano facendo un picnic dalle parti di Güigüe. Noi conosciamo Güigüe? È un villaggio sperdutissimo, dall’altra parte del lago de Valencia, una meta poco frequentata, tanto è vero che l’espressione «Ma che, sei di Güigüe?» si usa per dare dello scemo a qualcuno.

Insomma, in questo posto in mezzo al nulla, a un certo punto, giunti nei pressi di un bivio, la signora e i suoi amici intravidero una piccola fattoria un po’ isolata. Andarono da un passante e gli chiesero: «Chi vive in quella fattoria?». Scoprirono così che vi abitava un gringo di origini europee, che si vociferava fosse un genio. Se ne stava rintanato laggiù e, siccome non voleva vedere nessuno, aveva cominciato ad allevare tigri, leoni, pantere e altri animali feroci. Si diceva che fosse portoghese, ma forse, chissà, poteva persino essere italiano.

Rapita dal ritmo del racconto, la prima signora non riesce a staccare gli occhi dalla seconda. È lei, in un improvviso impeto di furore geriatrico-investigativo, a formulare l’inevitabile conclusione: «Pocapi! E s’al fussa il Majorana?».

Le fregature più gravi sono ovviamente quelle volontarie, che sanno di depistaggio.

Un bel giorno veniamo avvicinati da un autorevole esponente della comunità italiana di Valencia. Lo chiameremo Signor P., ha una cinquantina d’anni e nessuna voglia di scherzare. Anche lui ci annuncia di avere informazioni importanti sul caso Majorana: «Cose grosse – ripete –, cose da un milione di dollari». Sulle prime ci sembra di intuire che voglia spillarci dei soldi. Poi comincia a fare discorsi confusi: parla di un signore con cui lui sarebbe in contatto, un vecchio italovenezuelano al quale Majorana avrebbe dato lezioni di fisica. Sbaglia le date, ci dà appuntamenti che poi improvvisamente disdice, confonde i nomi con i cognomi e quando è in difficoltà biascica mezze frasi in napoletano. Gli stiamo appresso per diversi giorni, sorbendoci i suoi continui sbalzi di umore che si sostanziano spesso in enunciazioni di questo genere: «Ma stamm’ pazziann’! Quali giornalisti? Majorana è robba nostra, è robba di noi emigranti!».

L’incontro con il suo supertestimone si consuma dopo lunghe trattative, in un caldo pomeriggio di pioggia. Il Signor P. ha deciso saggiamente di non partecipare, lasciandoci soli con il nostro interlocutore. Il presunto allievo del più grande genio scientifico del XX secolo guida una zoppicante berlinetta rossa. Ha circa settant’anni, ha messo al mondo sei figli e la prima cosa che fa, appena gli chiediamo informazioni sulla sua salute, è roteare l’avambraccio con un gesto volgarissimo e rassicurarci circa le sue immutate capacità riproduttive. Ci accomodiamo con lui al tavolino di un bar e, tempo cinque minuti, scopriamo quanto segue: non ha mai preso lezioni di fisica, bensì di matematica, ma aveva dieci anni, viveva a cinquecento chilometri da Valencia e il suo insegnante era un adolescente spagnolo. Ettore Majorana? Mai sentito nominare. Gli mostriamo il ritratto di Bini: «Questo lei l’ha mai visto?».

«Come no? L’ho visto ieri sera.»

«Ieri sera?»

«Certo, e proprio in quella fotografia lì. Me l’ha mostrata il Signor P.»

Da cosa nasce la mitomania? Noia, frustrazione, solitudine, voglia di far parlare di sé, di essere ascoltati. Forse tutte queste cose assieme, forse altre ancora. In fondo poco importa: con il tempo ci faremo il callo, ma all’inizio non è facile.

Una sera, mentalmente stremati, decidiamo di salire sul Cerro Casupo, una montagnola di ottocento metri che domina Valencia. Vista dall’alto, la città assomiglia a un plastico: le brutture si rimpiccioliscono fino a scomparire, il traffico si trasforma in una carezza lontana, i chilometri si riducono a spanne.

Lui è lì da qualche parte, lo sappiamo bene. Sappiamo che era un genio, ma neanche i geni possono svanire nel nulla. Eccola, Valencia: è grande ma non infinita. Bisogna solo trovare il posto giusto. Dalla cima del Cerro Casupo tutto sembra incredibilmente vicino, quasi a portata di mano. Forse non è soltanto una sensazione: forse è veramente così.