Carlo Venturi è la vera pietra angolare di tutta questa storia.
Fu lui a rivelare a Fasani che il signor Bini era in realtà Ettore Majorana. Fu lui a dirgli che si erano conosciuti in Argentina, che erano scappati insieme all’inizio degli anni Cinquanta e più o meno nello stesso periodo si erano trasferiti in Venezuela. Se non fosse stato per Carlo Venturi, il nostro meccanico del basso Lazio non avrebbe mai collegato il nome del suo amico a quello del fisico scomparso. Le indagini non sarebbero mai partite, i giornalisti si sarebbero occupati di altro, e tutta questa vicenda non sarebbe mai stata raccontata.
Ma chi era esattamente Carlo Venturi?
Le poche cose che già sappiamo sul suo conto ci vengono confermate parola per parola dalla signora Cuzzi: Carlo Venturi era un uomo alto e dalla corporatura massiccia, vestiva in modo elegante e ricercato, era certamente benestante, si occupava di affari e all’epoca aveva circa una sessantina d’anni; la sua improvvisa fuga da Buenos Aires doveva essere motivata da ragioni assai gravi, forse di natura politica. Comunque sia, preferiva non parlarne.
Il rapporto di amicizia tra lui e Nardin fu lungo e tormentato. La signora Ada e le due figlie rientrarono dal Venezuela nel 1958, quando la situazione nel paese cominciava a farsi pericolosa. 1 Carlo e Leonardo decisero invece di restare un altro paio d’anni. Fecero ritorno in Italia nel 1960.
Si trasferirono a Milano e rilevarono un grande negozio di frutta e verdura, dalle parti di viale Sarca. Il loro sodalizio economico si rivelò tuttavia meno solido di quello umano: erano entrambi molto testardi, e in men che non si dica cominciarono a bisticciare. Quando l’impresa fu messa in vendita, 2 i Cuzzi furono felicissimi di fare ritorno in Friuli. Carlo Venturi sparì invece nel nulla, esattamente come era comparso. Sembra che morì negli Stati Uniti, ma non si sa con esattezza né dove né quando.
Prima di entrare nei dettagli della biografia del nostro sor Carlo, bisogna fare però un lungo passo indietro. Siamo di fronte a un particolare molto importante, che non deve essere sottovalutato: la storia di Ettore Majorana rifugiato in Argentina non è per niente una novità. 3
Nel 1987 Mondadori pubblica un libro destinato a suscitare accesi dibattiti. 4 L’autore è Erasmo Recami, classe 1939, docente universitario di Fisica e ricercatore di fama internazionale. Recami è considerato il massimo esperto mondiale del caso Majorana: non c’è pista investigativa che non gli sia stata preventivamente sottoposta, e persino Leonardo Sciascia, prima di dare alle stampe la sua opera, non mancò di rivolgersi a lui.
Nel corso degli anni Recami ha ricevuto decine di segnalazioni, alcune lo hanno fatto quasi sorridere, altre decisamente no. Ma il punto interessante – sostiene lo scienziato – è che gli indizi più credibili convergono immancabilmente nella medesima direzione: l’Argentina.
Tutto ha inizio il 14 ottobre 1978, quando sul settimanale «Oggi» viene pubblicato un lungo articolo del corrispondente da New York Gino Gullace. Grazie all’intermediazione di un amico, il cronista è riuscito a raccogliere una clamorosa testimonianza del fisico cileno Carlos Rivera, stretto collaboratore del premio Nobel Werner Heisenberg. Racconta Rivera: «Nel 1950 andai a Buenos Aires con mia moglie e presi alloggio presso la pensione di una signora, Frances Talbert. Questa signora aveva un figlio laureato in Ingegneria elettrica: Tullio Magliotti. Il giorno precedente alla mia partenza per la Germania stavo nella mia camera e scrivevo. Mi occupavo delle leggi statistiche di Majorana, il cui nome era scritto a grossi caratteri su uno dei miei fogli. La signora Talbert, vedendo quel nome, esclamò: “Majorana? Ma questo è il nome di un famoso fisico italiano che è molto amico di mio figlio! Infatti si vedono spesso. Mio figlio mi ha anche detto che non si occupa più di fisica ma di ingegneria”. La conversazione continuò per un poco e la signora aggiunse: “Majorana ha detto a mio figlio che se ne è andato dall’Italia perché non gli piaceva Enrico Fermi. Anzi, ha detto di più: che di Fermi non voleva sentire neppure il nome”. Questa avversione, secondo l’ingegner Magliotti, derivava in parte dal fatto che Fermi era un “tipo difficile”, e in parte dal fatto che aveva avuto un ruolo importante nella costruzione della bomba atomica. La conversazione fu interrotta da una telefonata del figlio. Forse non gli piacque che la madre avesse parlato con me di Majorana, e che io volessi incontrarlo. La signora Talbert infatti non ritornò da me per riprendere la conversazione e poiché l’indomani io dovevo imbarcarmi per la Germania non potei incontrare suo figlio né riprendere il discorso con lei. Quattro anni dopo, cioè nel 1954, andai di nuovo a Buenos Aires e ritornai dalla signora Talbert. Ma la porta della sua casa era inchiodata e dentro non c’era nessuno. Chiesi notizie ai vicini; mi risposero che madre e figlio erano scomparsi improvvisamente e misteriosamente. La signora Talbert era apertamente antiperonista; penso che lei e il figlio possano essere stati eliminati dalla polizia peronista. Andai poi a controllare l’albo degli ingegneri, ma il nome di Magliotti non c’era. Uccisi? Fuggiti in qualche posto deserto dell’Argentina? Non lo so». 5 E ancora: «Nel 1960 tornai a Buenos Aires per la terza volta. Presi alloggio all’hotel Continental. Qui accadde l’episodio dei tovaglioli di carta. Mentre a tavola scrivevo formule su uno di questi tovaglioli, un cameriere mi disse: “Conosco un altro uomo con la mania di mettere formule sui tovaglioli di carta, come fa lei. È un cliente che viene ogni tanto per mangiare o prendere un caffè, e si chiama Ettore Majorana. Quest’uomo era un fisico molto importante ed è fuggito dall’Italia molti anni or sono”. Questo secondo episodio, sebbene meno importante del primo, mi ha convinto che Majorana dovesse essere in Argentina. Il cameriere non sapeva dove sarebbe stato possibile trovarlo». 6
Il professor Recami, incuriosito dall’articolo, decide di battere la pista argentina. Come prima cosa, prende carta e penna e scrive a Rivera: è vero ciò che ha confidato al giornalista? Le dichiarazioni riportate tra virgolette sono tutte esatte? Dopo solo nove giorni, riceve la risposta del fisico cileno: «Posso dirle che ciò che ha scritto il signor Gino Gullace corrisponde a quanto io so del destino di Ettore Majorana. Non ho altre informazioni oltre a quelle indicate al signor Gino Gullace. Posso assicurarle che la signora Talbert viveva terrorizzata nel suo appartamento a Buenos Aires, a causa del regime oppressivo di Perón». 7
Una seconda verifica viene effettuata dal celebre fisico Tullio Regge, il quale, trovandosi casualmente in Cile all’indomani della pubblicazione dello scoop, ne approfitta per conferire direttamente con Carlos Rivera. Dopodiché riferisce a Recami: «Rivera non ha certo l’aspetto di un mitomane, è un rispettato professore alla Cattolica, educato a Gottinga, di vasta cultura e non mi pare il tipo da raccontare frottole». E poi: «Rivera mi ha colpito in quanto è ovviamente ostile a Fermi e attribuisce ostilità a Fermi da parte del presunto Majorana. Rivera ha anche una teoria. Teoria di Rivera: 1) Ettore Majorana era veramente a Buenos Aires, all’epoca. 2) È un fatto che Magliotti era antiperonista e che molta gente spariva rapita e assassinata dalla polizia di Perón. Secondo lui Magliotti ha fatto questa fine con la madre. Non esistono più tracce, secondo Rivera, dei due. Tullio Magliotti era ingegnere. 3) Ettore Majorana sarebbe stato anche lui coinvolto nelle faccende politiche di Tullio Magliotti e avrebbe (?) fatto la stessa fine». 8
Due anni dopo, nel 1980, Recami si imbatte in una nuova pista. La fonte, questa volta, è una pittrice allieva di Giorgio de Chirico, Carla Tolomeo. Nel 1974 la signora Tolomeo si trovava in villeggiatura a Taormina. Con lei c’era la vedova del premio Nobel guatemalteco per la Letteratura Miguel Ángel Asturias, doña Blanca de Mora, con alcune amiche. Si chiacchierava del più e del meno, quando qualcuno all’improvviso cominciò a parlare del caso Majorana. La signora de Mora, sbattendo le palpebre, esclamò allora a voce alta: «Ma come mai vi ponete dei problemi su Ettore Majorana? A Buenos Aires lo conoscevamo in tanti: fino a che vi ho vissuto, lo incontravo a volte a casa delle sorelle Manzoni, discendenti del grande romanziere». 9
Ancora una volta Recami decide di non perdere tempo. Passa la preziosa informazione alla sorella di Ettore Majorana, Maria, la quale ha ormai sessantasei anni ma spera ancora di trovare il fratello. Maria Majorana si rivolge direttamente a Blanca de Mora, che nel frattempo si è trasferita a Parigi. La sua risposta arriva dopo circa sei mesi: certo che ha conosciuto le sorelle Cometta-Manzoni – conferma la donna – anzi, le ricorda molto bene; ma Ettore Majorana no, non l’ha mai visto.
Insospettito dal brusco dietrofront, il professor Recami chiede un parere ad alcuni amici esperti di cose argentine. Il verdetto è tutto sommato incoraggiante: a Buenos Aires l’incubo dei desaparecidos è ancora molto vivo. Mettersi sulle tracce di uno scomparso può causare seri guai a chi vive laggiù: forse la signora ha semplicemente avuto paura.
Nel 1985 il nostro Recami torna di nuovo alla carica. Questa volta la risposta di Blanca de Mora è finalmente positiva: «Già alcuni anni fa io ricevetti una lettera sul caso del professor Ettore Majorana e della sua amicizia con le mie amiche Cometta-Manzoni. Io risposi che la mia amica Eleonora C. Manzoni era stata certamente amica di Majorana, ma che essa era già scomparsa da alcuni anni. Eleonora e sua sorella all’epoca abitavano in avenida Santa Fe 2189, Buenos Aires, Repubblica argentina. Può darsi che là le sappiano dare il loro nuovo indirizzo. L’altra sorella, maritata con un ingegnere venezuelano, abita a Caracas, Venezuela: Lilò C. Manzoni de Herrera; è professoressa di Lettere presso l’Università di Caracas, ma al momento non trovo più il suo indirizzo perché io so dov’è la sua casa, senza preoccuparmi dell’indirizzo. Ma non le sarà difficile trovarla perché sono persone molto importanti laggiù». 10 E ancora: «Augurando successo alle sue ricerche, dica alla signora Majorana che il nome di suo fratello non mi è sconosciuto, ma noi abbiamo lasciato Buenos Aires nel 1961. Eleonora Cometta, una profonda amica della mia vita e del mio cuore, era ancora viva». 11
A questo punto partono altre due lettere: la prima è indirizzata a Lilò Cometta-Manzoni. La seconda, a Lila de Mora, la sorella della signora Blanca, che pure era un’assidua frequentatrice dell’appartamento di avenida Santa Fe. Le risposte arrivano quasi in contemporanea, ai primi di luglio del 1985: sia Lilò sia Lila negano di aver mai conosciuto il professor Majorana, sostengono di non averlo mai sentito nominare ed escludono che egli abbia frequentato il loro giro d’amicizie. Tuttavia qualcosa non quadra: prima di prendere in mano la penna, le due signore si sono consultate tra loro. Sono loro stesse ad ammetterlo, e Recami, giustamente, si premura di farlo notare: «Sembra che la signora Asturias abbia avuto pudore a informare amica e sorella lontane di aver avuto questa volta la “leggerezza” di ammettere qualche verità: quello che ricordava». 12 E poi: «Se la risposta da dare era chiara, sì, no, che bisogno c’era di cercare o attendere consultazioni internazionali? Tanto più che la signora Lila de Mora alcuni anni dopo, nel giugno 1990, farà sapere a Bruno Russo 13 – arrivato a Buenos Aires proprio per svolgere indagini – che sì, alcuni ricordi di Majorana li ha. Rammenta il fatto seguente: una sera Eleonora le telefonò dicendole: “Ora non posso raggiungerti perché è arrivato Majorana”. E, richiesta di quale ne fosse l’aspetto, risponderà: piccolo, magro, riservato». 14
Altri importanti riscontri saranno raccolti negli anni successivi. Il critico letterario Giancarlo Vigorelli, noto sostenitore dei movimenti di opposizione latinoamericani, si imbatterà più volte nella figura del celebre fisico. Glielo nomineranno certi scrittori argentini, parlando di tempi andati e amicizie comuni: «Ah, sai – gli dirà uno di essi, senza aggiungere ulteriori particolari –, quell’Ettore Majorana...». 15 Lontani echi della pista argentina giungeranno persino all’orecchio di Leonardo Sciascia, che pure – come già sappiamo – aveva sposato una tesi ben diversa. Il 10 settembre 1986, in una lettera «confidenziale» indirizzata a Recami, il romanziere di Racalmuto scriverà: «Vorrei metterle a disposizione certe lettere che mi sono arrivate dopo la pubblicazione del mio libretto (una che riguarda l’Argentina), le poche che mi son parse sensate e alquanto attendibili. Spero mi sia agevole recuperarle, nel disordine in cui sempre più sono immerso». 16
Le ricerche di Recami sono state portate avanti, in tempi più recenti, dal fisico napoletano Salvatore Esposito, un suo ex allievo. Nel 2009, dopo aver svolto ulteriori indagini in Argentina, Esposito darà alle stampe il volume La cattedra vacante. Ettore Majorana: ingegno e misteri. 17 L’autore visita l’hotel Continental di Buenos Aires, che si trova al civico 725 di avenida Roque Sáenz Peña ed è ancora oggi in attività. Negli anni Cinquanta l’albergo ospitava effettivamente un grande ristorante al piano terra, ed è proprio qui che Carlos Rivera incontrò il suo famoso cameriere, quello che raccontava di Majorana che prendeva appunti sui tovaglioli di carta. Interpellando gli autoctoni, Esposito fa una scoperta interessante: poco distante dall’hotel – in calle Perú 222 – all’epoca sorgeva la facoltà di Scienze esatte, fisiche e naturali dell’Università di Buenos Aires. «Il primo motivo per cui tale coincidenza risulta significativa – scrive Esposito – è che proprio tale Facoltà abilitava (in quel periodo) alla laurea in Ingegneria. Se l’inafferrabile Tullio Magliotti si fosse laureato a Buenos Aires, egli avrebbe dovuto necessariamente conseguire tale laurea nella menzionata Facultad de Ciencias exactas, físicas y naturales». 18 Ma c’è dell’altro: la biblioteca della facoltà poteva vantare una ricchissima collezione di riviste di fisica e matematica. Vivendo a Buenos Aires, certamente Majorana ebbe la curiosità di consultarle. Lo stesso discorso vale anche per i libri: «La biblioteca personale di Majorana era molto scarna – scrive Esposito –, e comprendeva solo ventinove testi. Ebbene, diciannove di quei testi erano (e sono) disponibili proprio presso quella Facultad, nove dei quali corrispondendo alla stessa edizione posseduta da Majorana». 19
Intrigato da queste coincidenze, il «recamiano» Esposito si mette sulle tracce dell’ingegner Magliotti e della signora Talbert, ma purtroppo è subito costretto ad alzare bandiera bianca: né gli elenchi telefonici, né i registri commerciali o gli archivi professionali serbano memoria di questi due nomi. Tuttavia resta innegabile che, nonostante siano trascorsi diversi decenni, gli indizi reggono alla perfezione, sono coerentemente collegati tra loro e, in buona sostanza, ci dicono che Ettore Majorana si rifugiò in Argentina, dove era conosciuto con il suo vero nome, frequentava il mondo dell’ingegneria e doveva guardarsi le spalle dalle persecuzioni politiche. Non sarà molto, ma non è neanche poco.
Le nostre ricerche su Carlo Venturi prendono il via dagli uffici del Saime di Valencia. Per ottenere i datos filiatorios di qualcuno è necessario dimostrare di essere suo parente. Bisogna esibire una lunga serie di documenti, con tanto di bolli e firme autografe, e poco importa se la persona in questione è morta da diversi anni, così come i suoi più stretti congiunti. Lo abbiamo già detto: l’amministrazione dell’Estado bolivariano non disdegna di mostrare al mondo il suo volto più rigido, specie quando ha a che fare con dei giornalisti stranieri che pongono un mucchio di domande strane. Per quanto digrigni i denti e parli con accento tedesco, tuttavia, la burocrazia latinoamericana resta pur sempre la burocrazia latinoamericana. E questa in fondo è una grande fortuna.
La sede del Saime si trova poco lontano dall’avenida Bolívar. Essa consiste in un piccolo edificio dall’aspetto molto vissuto, le cui minuscole salette riescono miracolosamente a contenere centinaia di persone di qualunque età e colore. L’ingresso è presidiato da un poliziotto con la divisa troppo larga, mentre code confuse e disordinatissime si estendono immancabilmente oltre la soglia di ciascuna stanza. Sulle scale si aggirano venditori di snack e bibite gassate, il cui vociare sovrasta ogni altro rumore.
Decidiamo di aggrapparci alla seguente storiella: siamo qui a nome dell’anzianissima sorella di Carlo Venturi, la quale da oltre mezzo secolo non riceve notizie del caro fratello. La signora ci ha incaricati di indagare al posto suo, ma purtroppo si è dimenticata di fornirci la necessaria delega; non ha accesso né a un computer né a un fax, il che ci impedisce di metterci in contatto con lei. Si tratta evidentemente della più improbabile tra le panzane, ma da queste parti le panzane improbabili hanno il loro discreto fascino.
Dopo essere stati respinti da un paio di impiegate, riusciamo a conferire con la segretaria del direttore responsabile, il quale – così ci dicono – è veramente troppo impegnato per ascoltare le nostre bubbole. La señorita Katiuska è una bella donna sui quarant’anni, dai capelli biondo platino e l’aria perennemente sorridente. Utilizza formule vocative che provocherebbero l’orticaria a chiunque: «Mi amor», «Mi vida», «Mi corazón». La nostra storia non la convince per nulla, e si capisce, tuttavia le stiamo simpatici. Sulle prime finge di indignarsi, poi ci chiede i documenti, infine – dopo qualche simbolico tira e molla – pronuncia la parola magica: «Mañana», domani.
Così otteniamo i datos filiatorios di Carlo Venturi. Il documento originale ci viene mostrato, ma non è possibile fotografarlo. In compenso riceviamo un’elegante stampa ufficiale, la cui intestazione recita testualmente: «Nello spirito della Campaña Admirable e della battaglia permanente per la costruzione della Patria Nueva, indirizziamo al vostro team un saluto rivoluzionario e socialista». Seguono, in ordine sparso, tutte le notizie che ci interessano: Giuseppe Carlo Venturi è nato a Modena il 30 maggio 1904; è arrivato in Venezuela, all’aeroporto di Caracas, il 26 dicembre 1954 ed è stato registrato a Valencia con il numero di cédula 374813.
Con il documento ancora fresco di stampa, prendiamo la via di casa. Abbiamo per le mani una nuova pista e la cosa ci rende entusiasti: «Carlo è fuggito in aereo: chissà se c’era anche Bini. Doveva avere molta fretta: sarà stato inseguito dai peronisti?». Camminiamo veloci, scansando i vari venditori di cocada e chicha de arroz che affollano i dintorni del Saime, quando da una concessionaria di motociclette alla nostra sinistra sentiamo Bang! Bang! Pochi secondi dopo parte una raffica di colpi che ci paralizza. Siamo inebetiti, non riusciamo a capire cosa stia succedendo. Vediamo correre accanto a noi una signora con le mani sul capo. Ci guarda e grida: «Pistoleros!». Le urla provengono da ogni direzione. Gli ambulanti abbandonano i loro carretti e si lanciano sotto i pick-up in sosta. I nostri piedi restano incollati al cemento: avvertiamo il pericolo ma non lo vediamo, e questo ci rende vulnerabili. Udiamo una seconda raffica, questa volta riusciamo a reagire. Ci accasciamo contro una Cadillac arrugginita, ed eccoli, a una ventina di metri, i nostri pistoleros. Li vediamo sfrecciare a bordo di cinque motociclette, con le pistole in pugno, mentre disordinatamente danno fondo ai loro caricatori in mezzo alla calle per non essere inseguiti. Improvvisamente il documento spiegazzato che stringiamo tra le dita ci sembra ancora più prezioso.
Una volta a casa, quasi per esorcizzare la paura, ci buttiamo a capofitto sui nostri computer portatili. Navigando in rete, scopriamo molte altre informazioni interessanti. Il sito familysearch.org – gestito dalla chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni – raccoglie i dati anagrafici di centinaia di milioni di persone defunte, i cui documenti sono stati accuratamente scansionati e caricati online. Tra di essi spunta la ficha, un documento rilasciato dal consolato italiano di Buenos Aires il 7 settembre 1945 e inviato cinque giorni più tardi al Consulado general do Brasil. L’intestatario è proprio il nostro Carlo Venturi, che in quelle settimane – come scopriremo in seguito – era in viaggio di nozze a Rio de Janeiro. Al documento è allegata una foto che lo ritrae in abiti eleganti, con i baffi e i capelli impomatati e un vistoso fiorellino all’occhiello. La sua professione è: engenheiro agrônomo. Consultando il motore di ricerca del Cemla, 20 otteniamo la data esatta del suo arrivo in Argentina: Carlo Venturi è emigrato dall’Italia il 26 luglio 1928, all’età di ventiquattro anni, salpando da Genova a bordo del piroscafo Augustus.
Sempre su familysearch.org scoviamo poi la ficha di sua moglie, una donna dall’aspetto massiccio e aristocratico. Si chiamava Elvira Luisa Barassi, di professione capitalista, nata a Buenos Aires il 6 settembre 1900 da Juan Barassi e Angela Mauro.
Ricapitolando: Carlo Venturi aveva veramente l’età indicata da Fasani. Veniva sul serio dall’Argentina, dove era arrivato nel 1928 e si era sposato con una donna molto ricca. Certamente era un uomo elegante e distinto. Verrebbe da chiedersi, ancora una volta: perché mai lasciò l’Argentina? Ma prima di concentrarci su questo aspetto facciamo qualche piccola ricerca sulla famiglia di Elvira Luisa Barassi. Ed è qui che la faccenda inizia a farsi avvincente.
Juan Barassi, il padre di Elvira, era uno dei maggiori costruttori italoargentini di inizio Novecento. Fu lui a edificare il Grand Hotel di Buenos Aires, all’incrocio tra avenida Rivadavia e calle Florida, nel centro pulsante della capitale. Il palazzo, in delizioso stile Liberty, fu completato nel 1901 ed è citato ancora oggi sulle guide turistiche. Spulciando tra i siti specializzati, scopriamo che don Juan apparteneva a una nobile famiglia del Nord Italia. Studiò a Milano, all’Accademia di Brera, e iniziò a lavorare sulla Costa Azzurra, contribuendo all’edificazione dei primi complessi alberghieri di Cannes. Nel 1882 emigrò a Buenos Aires, dove diede vita a una floridissima compagnia edile. Lavorò con professionisti del calibro di Augusto Plou, Ernesto Bunge, Gino Aloisi e Alejandro Christophersen, il celebre architetto ispanonorvegese. Ebbe nove figli: la nostra Elvira, Americo, Dante, Juan Octavio, Maria, Alfonso, Ricardo, Dolores e Arturo. Essendo gli unici beneficiari delle immense fortune accumulate dal padre, essi poterono campare di rendita per tutta la vita. Alfonso, per esempio, divenne un celebre oftalmologo, si trasferì a San Juan e fu per diversi anni uno degli uomini più potenti della regione. Maria si imparentò con una importantissima famiglia genovese, i Reggio, e diede vita a sua volta a una fiorente società di costruzioni. Di Elvira troviamo diverse tracce tra i vecchi «Boletín Oficial» della Repubblica Argentina, che sono pubblicati online sul sito archive.org. Il bollettino del 16 dicembre 1975 la indica quale ex socia d’affari della sorella Maria, che ne ingloberà i beni all’interno della sua nuova impresa, la Reina María del Plata inmobiliaria y constructora, sociedad en comandita por acciones. 21 Nel bollettino del 2 luglio 1951 Elvira Barassi e Carlo Venturi sono addirittura citati insieme, quali proprietari dell’azienda Vesca inmobiliaria y financiera, sociedad de responsabilidad limitada. La società risulta fondata il 6 giugno 1951, la sede principale sorge a Buenos Aires, in calle Carlos Pellegrini 651, mentre una succursale si trova in calle Santiago del Estero 1952, a Mar del Plata. Carlo ed Elvira si sono messi in affari con altri due soci, anch’essi marito e moglie: Saturnino Leonardo Andrés Scazziota e la signora Catalina Francisca Vincken. 22 Il capitale sociale ammonta a cinquantamila pesos, che sono stati versati in modo equanime dalle due famiglie. Secondo l’articolo, i Venturi sarebbero residenti a Buenos Aires, in avenida Córdoba 659, quinto piano, mentre gli Scazziota avrebbero casa in calle Maipú 879.
Una cosa ci è chiara fin da subito: siamo di fronte a una prodigiosa serie di convergenze. Proviamo a metterle in ordine: Carlo Venturi è laureato in Ingegneria, esattamente come Tullio Magliotti. Anche lui, avendo studiato a Buenos Aires, 23 deve essersi iscritto alla facultad de Ciencias exactas, físicas y naturales, nei pressi del celebre hotel Continental. Grazie al matrimonio con Elvira Barassi è entrato a far parte delle alte sfere della comunità italoargentina – un esclusivo club frequentato da capitani d’industria, architetti, professionisti, docenti universitari e intellettuali. Lo stesso ambiente doveva essere frequentato, in quegli anni, dall’ingegner Magliotti e dalle sorelle Cometta-Manzoni e quindi, di conseguenza, anche dal nostro Ettore Majorana.
Ulteriori coincidenze emergono dallo studio della piantina di Buenos Aires. Il Grand Hotel, l’abitazione dei coniugi Venturi e quella dei loro soci, i signori Scazziota, sorgono in un fazzoletto di cento metri per cento, nel cuore pulsante della capitale argentina. L’hotel Continental si trova appena sei isolati più a sud, a soli seicento metri dalla sede della Vesca inmobiliaria y financiera, sociedad de responsabilidad limitada. La casa delle Cometta-Manzoni è poco più distante, in direzione nord-ovest. Come dire: gli anni sono gli stessi, gli ambienti anche, i luoghi pure, la nostra storia e quella di Recami sembrano combaciare come i tasselli di un puzzle.
A questo punto non ci resta che rispondere all’ultima, grande domanda: per quale ragione Carlo Venturi fuggì dall’Argentina al Venezuela? Con ogni probabilità – come abbiamo visto nelle pagine precedenti – il nostro ingegnere frequentava Ettore Majorana già a Buenos Aires. Ne conosceva la vera identità, dunque doveva avere con lui un rapporto piuttosto stretto. Forse i due scapparono nello stesso momento, e forse per i medesimi motivi. Ebbene, di cosa poteva trattarsi?
Durante gli interrogatori Francesco Fasani parla di persecuzioni politiche. Il meccanico di Terracina sostiene che sor Carlo fosse un simpatizzante di Juan Domingo Perón: perciò, con il tramonto del regime populista, sarebbe stato costretto a lasciare il paese. Il leader dei descamisados era salito al potere nel 1946 ed era stato rieletto presidente nel 1951. Il suo secondo mandato fu costellato di continue crisi. Nel 1952 morì la moglie Evita, idolo dei ceti popolari e, più o meno nello stesso periodo, el General inaugurò una serie di politiche anticattoliche, entrò in contrasto con la Chiesa e venne scomunicato da papa Pio XII. I partiti antiperonisti rialzarono la testa, provocando dure reazioni da parte della polizia e delle forze dell’ordine. Il 16 giugno 1955 l’aviazione bombardò plaza de Mayo, dando il via alla cosiddetta Revolución libertadora. Il golpe vero e proprio si consumò tre mesi più tardi, il 16 settembre: «Da oggi il potere del governo passa nelle mani del nostro esercito» dichiarò Perón, dopodiché partì per l’esilio.
Le testimonianze raccolte da Recami sono di carattere diverso. Secondo il professor Carlos Rivera, sia Tullio Magliotti sia Ettore Majorana erano ferocemente antiperonisti. Magliotti sarebbe stato fatto sparire assieme alla madre, tra il 1950 e il 1954, proprio come si fa con i peggiori nemici politici. Non sappiamo come la pensassero, ma certamente l’incubo delle persecuzioni ideologiche – di qualsiasi tipo e di qualsiasi colore – dovette gravare anche sulle sorelle Cometta-Manzoni e la loro amica Blanca de Mora. Lo si evince innanzitutto dalla palese circospezione delle risposte che danno quando interrogate – su cui Recami pone più volte l’accento – ma anche dal fatto che entrambe decisero ben presto di abbandonare l’Argentina: una se ne andò in Europa, mentre l’altra – forse non per caso – si trasferì proprio in Venezuela.
Come abbiamo visto, Carlo Venturi arrivò a Caracas il 26 dicembre 1954, quando Perón era ancora saldamente al potere. Di fronte a questo dato, la ricostruzione di Fasani tende un poco a vacillare: un Carlo in fuga dagli antiperonisti avrebbe dovuto lasciare il paese all’indomani del golpe, non certamente nove mesi prima. Anche l’ipotesi di una persecuzione diretta da parte dei peronisti non sta molto in piedi. Majorana era un uomo schivo, che cercava di non dare troppo nell’occhio: per quale ragione avrebbe dovuto mettersi contro il governo del paese che lo ospitava? E poi: se il problema fosse stato Perón, lui e Carlo avrebbero potuto fare ritorno in Argentina dopo il 16 settembre 1955, cosa che come sappiamo non accadde.
Azzardiamo una terza possibile spiegazione: forse, più che dai pro-Perón o dagli anti-Perón, Carlo e Majorana fuggivano dalla situazione politica in generale, che si era fatta ormai intricata e pericolosissima, sia per loro stessi, sia per i loro amici e i loro affari. Non erano militanti ideologici: erano uomini in cerca di oblio. Inseguivano la pace e il silenzio, ovunque essi si trovassero. I successivi riscontri – come vedremo – ci daranno apparentemente ragione.
Per lunghe settimane, con ogni mezzo, cercheremo di rintracciare i parenti di Carlo Venturi. Purtroppo lui e la signora Barassi non ebbero figli, i loro fratelli sono morti da decenni e le rispettive famiglie sono disperse ai quattro angoli del globo. L’impresa, insomma, si profila tutt’altro che semplice.
Riusciamo a entrare in contatto con le figlie di un nipote di Carlo, Maurizio Manfredini, la cui storia ci appare piuttosto interessante. Manfredini è nato a Viareggio nel 1929, si è trasferito in Venezuela nei primissimi anni Cinquanta e vi è morto, in uno sfortunatissimo incidente sul lavoro, nel maggio del 1976. Fu lui, con ogni probabilità, a suggerire a Carlo di raggiungere Valencia: «Quel nostro zio lo conoscevamo soltanto di nome» racconta Cristina, la figlia minore di Maurizio, che ancora oggi vive nella capitale dello Stato di Carabobo. «Nostro padre gli era molto legato, e infatti abbiamo tante foto di loro due assieme. Sappiamo che doveva essere un uomo ricco. Non amava parlare del proprio passato: era molto discreto e riservato. Così ci ha raccontato nostro padre, ed è tutto ciò che possiamo dire.» La signora purtroppo non è in grado di aggiungere altro. Insistiamo come al solito, nella speranza che la fortuna ci riservi qualche chicca: non esiste un archivio di famiglia? No, a quanto sembra no. E non esistono dei documenti relativi allo zio Carlo? Neppure delle lettere, delle cartoline? No, neppure quelle. Facciamo un ultimo tentativo telefonando a Margarita, la maggiore delle sorelle, che oggi vive in Texas, a Houston. «Ci dica una cosa – le domandiamo –, i nomi di Bini e Majorana le suonano per caso familiari?» La signora Manfredini ci riflette per qualche secondo: «In effetti sì – mormora alla fine –, devo averli sentiti molti anni fa, credo che forse me li fece mio padre». Evidentemente siamo sulla strada giusta.
Scoprire la verità sulla fuga di sor Carlo ci costerà, in termini di tempo e fatica, un prezzo non indifferente. Rintracceremo tutti i Venturi dell’Emilia-Romagna e della Toscana, contattandone telefonicamente un buon numero. Scriveremo via Facebook a tutti i Barassi dell’Argentina – che assommano a diverse centinaia di persone, di ogni ceto ed età – e lo stesso faremo con gli Scazziota e con i Vincken.
Alla fine, per vie traverse, la spunteremo: tramite un suo lontano parente italiano, riusciremo a entrare in contatto con la figlia di una delle sorelle di Elvira Barassi. Le scriveremo per interposta persona, e lei – che oggi ha più di settant’anni e vive negli Stati Uniti – confermerà tutte le nostre teorie: Carlo non fuggì per ragioni ideologiche; aveva sicuramente ottimi agganci politici, ma ciò che più gli premeva erano gli affari; se ne andò in fretta e furia, sfruttando certi contatti venezuelani. Si trattava del nipote Maurizio? Quasi di sicuro sì. Anche Ettore Majorana seguì lo stesso iter? Ormai non abbiamo più alcun dubbio.
Le risposte della nipote di Elvira Barassi ci sono state inviate via mail. Meritano di essere riprodotte in forma integrale, perché rappresentano una testimonianza unica e preziosa.
Domanda: «Lei sa che fine ha fatto il signor Carlo Venturi?».
Risposta: «So che fuggì in Venezuela nel 1954. Sua moglie morì a Buenos Aires nel 1957, per un tumore, e lui fece recapitare una corona di fiori. Questo fu il nostro ultimo contatto con lui. Nulla si sa di cosa fece in Venezuela o altrove. In quegli anni molti argentini emigravano per motivi politici o economici».
D.: «Lei sa per quali ragioni Carlo Venturi lasciò l’Argentina?».
R.: «Lo fece per via dei suoi debiti. Il Venturi era un buon affabulatore, convincente e gentile, e pare avesse raccolto molti soldi da parenti e conoscenti, proponendo business a suo dire molto remunerativi, ma che in pratica si risolvevano in un fallimento. Nel 1954 fu costretto ad abbandonare di nascosto l’Argentina. Dopo la sua partenza i creditori presero evidenza della realtà dei fatti e, come spesso accade, cercarono di rivalersi anche giudizialmente, ma il Venturi era ormai scomparso. Ogni sforzo fu inutile».
D.: «Ha idea delle ragioni per cui egli scelse di emigrare proprio in Venezuela?».
R.: «All’epoca il Venezuela era considerato una nazione molto ricca, soprattutto per via del petrolio. La dittatura militare favoriva lo sviluppo di nuove attività che richiamavano molti europei e sudamericani. Nel periodo peronista diversi argentini dovettero abbandonare il paese e fuggirono in Venezuela, perché laggiù era piuttosto facile rifarsi una vita. Così fu anche per il Venturi, che certamente conosceva qualche concittadino emigrato prima di lui, al quale inizialmente si appoggiò».
D.: «Sa dirci come avvenne questa fuga?».
R.: «Edoardo Barassi, il fratello di Elvira, lo accompagnò in macchina all’aeroporto. Carlo Venturi viaggiava solo e si raggomitolò quasi in fondo al sedile, col bavero della giacca alto per non farsi vedere. Alla moglie, a cui teneva e da cui era corrisposto, disse che andava in Venezuela e che l’avrebbe fatta venire laggiù dopo che si fosse ristabilito finanziariamente. Per tre anni Elvira attese invano la fatidica chiamata del marito, poi purtroppo morì».
D.: «Carlo Venturi aveva amicizie negli ambienti politici?».
R.: «Certamente, vista la sua posizione».
D.: «Non crede che la crescente instabilità del paese possa aver inciso sulla sua decisione di scappare?».
R.: «Potrebbe essere. Sicuramente i suoi debiti aumentavano e quindi di certo scappava dai creditori. Ma poteva anche scappare da qualche futuro militare golpista, temendo che questi salisse al potere. Oppure, chissà, forse i suoi amici peronisti gli avevano improvvisamente voltato le spalle. In fondo tutto può essere, chi può sapere?».