La verità non è un compromesso

 

«A volte si scrive un libro nella speranza che possa fruttare molto denaro oppure possa conferire un po’ di splendore a una carriera per il resto incolore. A volte invece ci si pone solo lo scopo nobile di svelare la verità oppure, quello un po’ meno nobile, di immortalare una menzogna.»

Achim Zons, «Auf der anderen Seite der Wand» (L’altra faccia della parete). Süddeutsche Zeitung, 24-25 maggio 2003.

 

 

«(...) come libro così com’è non sta in piedi. Si danneggerebbe la fama dell’autore e dell’editore, mandandolo in stampa nello stato attuale. Ciò non toglie che – non nell’ambito della cosiddetta letteratura di montagna – magari un altro editore sarebbe subito pronto a pubblicarlo. Cosa questo significhi lo capisce anche lei immediatamente, lo può dedurre da ciò che negli ultimi anni è stato pubblicato senza tante riflessioni: non si tratta di letteratura. Scrivere resta un’operazione difficile. Chi si vergogna di dover ancora imparare a scrivere, non dovrebbe poter scrivere. Scrivere è sempre una tortura, un restare sulla cosa, in silenzio e con pazienza, soprattutto è una questione di disciplina spirituale. Chi sa scrivere, è già un uomo.»

Walter Pause, lettera a Reinhold Messner, 9 dicembre 1970

 

 

«Qualche giorno fa ho ricevuto il tuo libro sul Nanga Parbat. L’ho letto tutto d’un fiato, e mi è piaciuto molto. Hai azzeccato in maniera perfetta le diverse atmosfere nelle varie occasioni: il cameratismo fra alpinisti e hunza, l’atmosfera ai campi alti, dove non solo si lavorava e si spalava la neve, ma dove la maggior parte di noi si è trovata bene, come a casa, e al contrario il clima pesante e d’incertezza che si instaurava non appena si aveva a che fare con Herrligkoffer.»

Dottor Hermann Kühn, lettera a Reinhold Messner, 10 marzo 1971

 

 

«Ho già rielaborato un libro sul Nanga Parbat.»

Walter Pause

 

 

«Sui vecchi compagni si poteva comunque fare affidamento, von Kienlin e Saler scrissero i loro controlibri (...)»

Joachim Hemmleb, «Alpinismus reloaded. Revisionismus in der Alpingeschichte», Berge, numero 5/2007, pag. 77

 

 

«‘Bergauf-Bergab’ rappresenta per me una specie di ‘controprogetto’ rispetto a Reinhold Messner.»

Michael Pause, «Pause am Berg», Leonart – Das Kulturmagazin
fürs Oberland, ottobre 2007, pag. 40

 

 

«Gli errori vanno perdonati. Se questo valga anche per gli inganni... qui entra in gioco l’umana grandezza di coloro che li dovettero subire.»

Jürgen Thorwald, «Krach um den Nanga Parbat», Quick, numero 34, 23 agosto 1953, pagg. 12-34

 

 

«(...) mettere in dubbio indignati il contenuto di verità di una diceria non aiuta affatto la vittima della maldicenza... perché così la diceria continua a circolare e viene sempre sbattuta in faccia alla vittima, e i media si accaniscono sul suo ambiente d’origine.»

Heribert Prantl, «Rufmord leicht gemacht», Süddeutsche Zeitung, 25 giugno 2003, pag. 2

 

 

«Puoi costruire qualcosa di bello anche con le pietre che trovi sul tuo cammino.»

Johann Wolfgang von Goethe

 

Le falsità che sono state partorite a proposito della spedizione al Nanga Parbat del 1970 sono già motivo sufficiente perché io mi senta costretto, oggi come allora, a prendere una posizione. Benché il contratto della spedizione lo vietasse espressamente. Oggi la situazione è cambiata.

 

Il numero sempre crescente di persone che salgono le montagne più alte della Terra, fa sì che crescano anche le leggende che intorno a queste nascono. Da un lato poiché non sono individuabili i motivi logici che ci portano volontariamente a tentare di sopravvivere in una situazione di pericolo, dall’altro anche perché l’habitat montano caratterizzato dal pericolo – così come l’aldilà – non è accessibile alla stragrande maggioranza degli uomini. Infatti è per questo che non poche «sette di cospiratori» celebrano il loro andare in montagna come una religione. E come in una religione è impossibile sgomberare il campo da voci e miti. Perché non sono dimostrabili. Non che queste leggende conferiscano un valore al nostro agire, il problema piuttosto è che generano sempre nuove leggende.

Naturalmente rispetto tutti gli alpinisti e le loro storie vissute. Esiste la libertà d’opinione – ma non affinché vengano diffusi senza alcun freno menzogne e inganni.

 

Karl Maria Herrligkoffer, capo e organizzatore della spedizione del 1970 al Nanga Parbat, era il fratellastro minore di Willy Merkl, che nel 1934 aveva guidato la spedizione tedesca al Nanga Parbat, nel corso della quale aveva perso la vita. Da quel momento Herrligkoffer, che era un medico molto preparato, aveva vissuto come un onore e un onere la «lotta per il Nanga Parbat», al quale fra il 1953 e il 1975 si recò ben otto volte come capo spedizione.

Nel 1953 è il leader di una spedizione nell’ambito della quale Hermann Buhl, contravvenendo a un ordine preciso dello stesso Herrligkoffer, con una spettacolare solitaria raggiunge per primo la vetta. Herrligkoffer non ha mai salito nessuna delle più alte vette della Terra. Ma poiché è sempre stato molto abile nel trattare gli sponsor e nell’ottenere finanziamenti, si poteva permettere di far firmare ai partecipanti alle sue spedizioni dei contratti che gli garantivano il diritto esclusivo allo sfruttamento di ogni materiale, articolo, resoconto, interviste, cosicché nessuno dei suoi uomini era autorizzato a rendere pubblica la sua personale – divergente – versione dei fatti. Anche io nel 1970 ero stato obbligato – come del resto tutti gli altri – a firmare un documento simile.

Quando nel 1970 mio fratello Günther e io realizzammo la terza salita del «Nanga», Herrligkoffer credette di poter ancora una volta modellare gli eventi secondo i suoi parametri. In questa circostanza non aveva vietato la vetta come nel 1953, anzi si era dichiarato espressamente a favore di una mia salita in solitaria. Ciò nonostante mi ero assunto io ogni responsabilità per un’impresa tanto rischiosa; in seguito fui però costretto, a causa di un’informazione sbagliata sul tempo (il «razzo rosso») e a causa delle non buone condizioni fisiche di mio fratello, che mi aveva seguito di sua iniziativa, a prendere decisioni che alla fine ci condussero in una situazione senza via d’uscita. A quel punto l’unica cosa che contava era sopravvivere. Come poi siamo riusciti ad attraversare seracchi, passare tratti slavinosi, lungo il costone Mummery fino ai piedi della parete – 3000 metri di pericolo assoluto e costante! – ha dell’incredibile. Günther, che avevo in tutti i modi cercato di sottrarre al gelo e alla quota, alla disperazione e al caos, mi seguì fino all’ultimo. Fino al momento in cui sparì nel bacino glaciale alla base della parete.

Il tentativo di salvare mio fratello sul Nanga Parbat – voluto, vissuto e sofferto da me stesso fin quasi a morire – fa parte delle esperienze più difficili che la vita mi ha imposto: un gesto della disperazione che ho vissuto non come un dovere, bensì come cosa ovvia. Se Michl Anderl e Herrligkoffer avessero riconosciuto il loro errore nel lanciare il segnale e nell’attribuire il significato sbagliato al «razzo rosso», e avessero descritto la tragedia così come è avvenuta, lo scontro non ci sarebbe stato. Ben presto però, rientrato nel mondo civilizzato, il capo spedizione Herrligkoffer si inventò la storia che io avrei agito per ambizione personale, che avrei lasciato mio fratello morto alla forcella Merkl e – mosso dal desiderio di conquistare la fama – sarei sceso da solo lungo il versante Diamir. E questa affermazione soltanto, resa pubblica senza alcuna motivazione a sostegno e mai ritirata, ha alimentato il conflitto che ormai da quarant’anni cova sotto la cenere.

Ho infatti fortemente voluto e dovuto contestare quest’accusa mostruosa, foss’anche stata congegnata solo per sviare l’attenzione dal fatto che, dopo la scomparsa mia e di Günther, nessuno ci aveva cercato nella valle Diamir. L’ho fatto, dopo che nel dicembre del 1970 Herrligkoffer aveva rifiutato un appianamento del contrasto, sia attraverso colloqui sia per mezzo del manoscritto di un libro – «Die rote Rakete am Nanga Parbat» – nel quale raccontavo come si era realmente svolta la traversata del Nanga.

Tanto l’ordine di ritirata imposto a Hermann Buhl nel 1953 quanto l’invito a realizzare un tentativo-lampo nel 1970 sono comprensibili. In entrambe le situazioni il capo spedizione aveva i suoi motivi per prendere queste decisioni, motivi che meritano rispetto. In entrambe le circostanze, tuttavia, Herrligkoffer riuscì a spaccare la squadra fra «coloro i quali hanno reso possibile la conquista della vetta e coloro i quali se ne sono appropriati egoisticamente». E da allora la «verità riguardo al Nanga» nel 1953 e nel 1970 ha due facce. Come se un diritto diviso garantisse almeno metà del diritto, le spiegazioni di fronte ai giudici e ai media hanno continuato a confondere i fatti. Fino al momento in cui il successo di squadra è diventato il successo del solo organizzatore Herrligkoffer e la sua morale ha trionfato. E così la parola è passata ai moralisti che argomentano non con i fatti bensì con la clava della loro concezione morale. E i principi morali dei moralisti sono ancora peggio dei moralisti stessi.

Ma la verità non sta nel mezzo. Si basa sui dati oggettivi. I bugiardi e i loro sostenitori, quindi coloro che dai bugiardi vengono abbindolati, si confortano reciprocamente con la loro prepotenza. Non sono state poche le persone che si sono battute affinché trionfasse la loro morale, accusando me di aver piantato in asso mio fratello.

Anche l’affermazione – fatta trent’anni dopo – che io avrei «sacrificato mio fratello all’ambizione» si fonda su un’inesattezza. Infatti il diario che è stato pubblicato per dimostrare questa tesi non esiste in originale, ed è un’invenzione anche la pagina indicata, nella quale vengo citato come teste principale contro me stesso. Tutto il testo è inventato, le date sono sbagliate, e la perfidia che contiene è imperdonabile.

Il mio sdegno in questa questione non è diretto tanto contro chi diffonde voci, senza stile e senza carattere, bensì molto più contro gli editori e redattori responsabili della pubblicazione, che, analizzando le fonti, hanno omesso di compiere un’accurata verifica.

Senza alcuna remora, in nome della verità, si sono architettate menzogne che sono state pubblicate, si è evocato il «cameratismo» in tono accusatorio, al fine di screditare un «compagno» sulla base di una storia volutamente falsa. Il fatto che alla fine persino la direzione del DAV (Deutscher Alpenverein, il Club Alpino Tedesco), l’associazione alpinistica più importante al mondo, abbia messo a disposizione il proprio museo a Monaco affinché la campagna denigratoria costruita sulla falsità, la menzogna e il desiderio di vendetta, potesse essere approvata dai vertici dell’alpinismo mondiale, rappresenta solo l’apice di un’azione di emarginazione che non ha quasi uguali nell’ambiente alpinistico. Non si è mai verificata una presa di distanza, da parte della direzione, dal nucleo di affermazioni relative all’azione diffamatoria, benché il ritrovamento, nel 2005, della salma alla base della parete Diamir, abbia dimostrato che i due «bravi compagni» hanno mentito.

Nel 2003 a Monaco, alla Praterinsel, quindi presso la sede del DAV, è emersa chiaramente la connotazione emotiva legata al tema «Traversata del Nanga Parbat». Perché i «compagni del Nanga» hanno voluto radunare proprio lì i loro colleghi di pensiero, prevalentemente membri dell’AV, sui quali «si può fare affidamento», come ben sa Jochen Hemmleb. Si è poi verificato quello che nei processi di esclusione in genere avviene come prima cosa: la distinzione fra «noi» e «l’altro». La memoria di questi colleghi di pensiero avrebbe dovuto smascherare la falsità del mio ricordo e rivelare la verità del loro. La loro versione della tragedia non sarebbe stata utilizzata solo come strumento di autodifesa, sarebbe stata impiegata come arma contro l’atteggiamento di vita di chi la pensava in maniera diversa. Senza alcuna contraddizione. Anche se i membri dell’Alpenverein presenti: la brigata dei «compagni del Nanga», gli «alpinisti» e funzionari del DAV – con l’aggiunta di un paio di curiosi come sempre accade nelle «azioni di bonifica», avrebbero dovuto sapere che si stavano prestando a una campagna di diffamazione (e in questo senso avevo messo in guardia la direzione del Museo Alpino e il presidente del DAV). Da allora si continua a discutere. Da allora il DAV si è assunto la responsabilità di essere diventato complice in una campagna diffamatoria.

 

Ovviamente Hans Saler1 era anche interessato a conquistare quell’attenzione pubblica che era andato cercando da decenni. Un libro sulle sue «gesta eroiche» per mare e in montagna, per il quale qualche anno prima avevo scritto una prefazione, purtroppo non è mai stato pubblicato. Ma le sue «rivelazioni» catturarono finalmente l’interesse della gente. E il fatto che con così poco impegno si possa ottenere tanta attenzione, lo ha convinto a perseverare nel suo ruolo di imbroglione.

Ormai tanto famoso quanto colui al quale ha rubato l’onore, abbagliato dall’apparenza, rifiuta ancora oggi di riconoscere la sua colpa. Mai e poi mai ripeterò le bugie che Saler si è inventato riguardo alla discesa dal Nanga Parbat, alla quale lui non era presente, e che ha venduto all’opinione pubblica come fatti reali: «Perché per una volta non dimostri la tua vera grandezza e non racconti la verità? Si tratterebbe del tuo primo novemila, finora sconosciuto». L’eroe che scalza dal trono gli eroi, il «buon compagno di cordata» e vendicatore di ogni torto, a lungo rimasto nell’ombra, non intende proprio farsi carico della responsabilità del suo denigrare.

Peggio ancora: per allontanare dalle sue accuse mirate il sospetto della campagna orchestrata ad arte, ha tirato in ballo anche i miei genitori, mancati parecchi anni fa: «Dopo la spedizione mi sono spesso chiesto cosa potevi aver raccontato ai tuoi genitori e ai tuoi fratelli. Mi è capitato di passare per Funes, ma non ho mai osato andare a cercare i tuoi. Quali domande mi avrebbero posto? Non avrei potuto raccontare loro bugie».

 

Il mondo alla rovescia: i «bravi compagni di cordata» fingono di essere al servizio della verità. Il loro desiderio, il loro scopo effettivo è stato fin dall’inizio quello di svelare una menzogna. E proprio per questo viene innanzi tutto partorita una menzogna, che poi potrà essere smascherata. Per spezzare una volta per tutte la credibilità del loro avversario, attribuiscono costantemente all’altro le loro menzogne per poi concedergli alla fine il favore del loro «buon spirito cameratesco». Pretendendo attenzione ottengono così dalla «claque», cioè da coloro che si sono lasciati ingannare, una copertura – come si potrebbe altrimenti sopravvivere nel ruolo di fiancheggiatore?

Diversa è la posizione del «barone». Non è stato il desiderio di rischiare la salita, il desiderio di esserci, ad attirare nel 1970 Max von Kienlin al Nanga Parbat. Non è nemmeno in discussione il fatto se sia stata la speranza di ottenere riconoscimento come alpinista che, trentadue anni dopo, l’ha spinto a formulare le dicerie contraddittorie sulla nostra traversata del Nanga Parbat, che lui di persona non conosce e non può capire. L’ospite pagante della spedizione che per mesi aveva avuto modo di conoscere tutti i caratteri della squadra, forse non avrebbe mai voluto essere come noi alpinisti, tuttavia avrebbe desiderato essere al fianco del vincitore: chiunque fosse stato.

È possibile che qualcuno che si rispecchia nel carattere degli altri creda di capirli anche senza condividere i loro desideri. A Max von Kienlin abbiamo comunque dimostrato tutta la nostra benevolenza. Nel momento in cui ha ritenuto che io e Günther fossimo sicuramente morti, ha mostrato più cordoglio dei nostri rivali ai quali veniva offerta la corona d’alloro. Per Max von Kienlin, il quale apparentemente disapprova che io «calpesti certi valori etici» e che io non sia un «idealista», il «cameratismo è una comunione fatale». In questo modo fa suo un ideale estremamente attraente della tarda epoca vittoriana che vedeva nell’alpinismo uno strumento per perfezionare il carattere. Per lo meno per quanto concerneva il ceto medio degli alpinisti. Ma il fatto che io sia sopravvissuto all’«impossibile» è stato utilizzato come dimostrazione dell’accusa che mi è stata rivolta, di aver compiuto la traversata del Nanga Parbat obbedendo a un piano segreto. Ancora una volta linfa gradita a nutrire il sentimento di vendetta!

È così che il «bravo compagno di cordata» si trasforma per astuzia diabolica nel vendicatore ideale, che infierisce sapendo che gli alpinisti colleghi di pensiero stanno dalla sua, sono suoi alleati.

Nemmeno Jürgen Winkler e Gerhard Baur c’erano quando mio fratello è morto, non erano presenti, eppure hanno contribuito alla messa in scena della menzogna architettata da Hans Saler. Max von Kienlin, come ha dichiarato lui stesso, si è limitato a svolgere il «lavoro di manovalanza» sul Nanga Parbat.

 

In tutto ciò gli accusatori e coloro che hanno contribuito a diffondere l’accusa hanno dimenticato che alla gente piacciono i tradimenti, molto meno invece i traditori. Non c’è quindi da meravigliarsi che siano obbligati a inventarsi di continuo nuovi scenari di morte, non appena l’applauso lascia il posto allo scetticismo. In maniera isterica e con varianti sempre nuove ripetono la loro condanna: «Il fratello sacrificato all’ambizione». Come se alla lunga l’attenzione fosse garantita solo se la peggiore di tutte le accuse venisse confermata. Che mio fratello – vivo o morto – sia stato lasciato indietro alla forcella Merkl, sia stato ricacciato giù lungo la parete Rupal oppure sia rimasto solo alla base della parete – l’importante è rinfacciarmi la premeditazione.

 

Neanch’io possiedo la facoltà di scegliermi le persone dalle quali essere frainteso. Quando però Ludwig Ott2 in un suo documentario per la ARD fa apparire Max von Kienlin definendolo «malato di montagna», senza rendersi conto che il «barone» può essersi solo inventato la storia della mia ascensione del Nanga Parbat e successiva discesa, dal momento che lui non l’ha vissuta, allora questo comportamento è una dimostrazione di ingenuità. Gli esseri umani mentono, la natura no. Nemmeno Hans Saler può sapere quanto è impegnativa la parete Diamir del Nanga Parbat. E così arriviamo alla «grande famiglia degli alpinisti» che manipola le esperienze da me vissute sul Nanga Parbat. Da sempre.

Karl Maria Herrligkoffer aveva voluto, insieme al suo portavoce di allora, Walter Pause, entrare in possesso della mia versione della storia prima che diventasse pubblica. Come alpinista – «In quelle giornate di lotta instancabile in montagna ci eravamo comportati onestamente e obbedendo a un principio di corretto cameratismo» – e come autore – «La nostra euforia è ovviamente accresciuta dalla serietà di ogni impresa, cosicché chi osa le maggiori difficoltà raggiungerà anche le vette trionfali della gioia» – Walter Pause appartiene a quella setta di idealisti e sognatori, che non sono in grado di condividere e tanto meno di capire il nostro atteggiamento spirituale e nemmeno il nostro andare in montagna. Pause, saggista di straordinario successo – «è il cuore che fa muovere il polso di colui che scrive» –, con una lettera del 9 dicembre 1970 indirizzata a me e al suo editore, ha proposto di rielaborare il mio manoscritto del quale era in possesso. Forse per produrre una versione della tragedia del Nanga Parbat gradita al capo spedizione? Ma se Herrligkoffer era già stato messo a parte della questione, da Pause stesso! Una copia della lettera si trova ancora oggi presso l’archivio Herrligkoffer (DAV) alla Praterinsel, a Monaco.

All’epoca non ho accettato il suggerimento di Pause. Anche perché avevo letto in Buhl dell’«affabulatore indiano» che su incarico di Herrligkoffer aveva a tal punto travisato la conquista della vetta del Nanga Parbat realizzata da Buhl, che quest’ultimo non aveva potuto fare a meno di inalberarsi. Fino a che punto in quell’occasione Herrligkoffer sia ricorso al suo portavoce Pause per inventare a posteriori uno «svolgimento della spedizione» di suo gusto, non è dimostrabile. Al contrario però sappiamo bene quanto lo scrittore di montagna Pause ci abbia messo del suo sul «Nanga ’53», quanto abbia eroicizzato Herrligkoffer. Che questo sia avvenuto per incarico di qualcuno oppure in assoluta buona fede ha poco rilievo, un giornalista responsabile non si sarebbe prestato a un simile sotterfugio. E peggio ancora: poiché si è creduto volentieri a questa menzogna che quindi ha finito per caratterizzare in modo durevole l’immagine della spedizione presso l’opinione pubblica, entrambi – Herrligkoffer che si è arrogato il monopolio dell’informazione sulla spedizione, e Pause, il suo calligrafo – sono responsabili per un contrasto che ancora oggi avvelena l’alpinismo tedesco.

 

All’epoca pubblicai Die rote Rakete am Nanga Parbat nonostante i divieti di Herrligkoffer e i tentativi di censura di Pause. E nonostante il contratto della spedizione che non mi autorizzava in tal senso. Un libro scritto come una sceneggiatura e su due livelli. Come se sul Nanga Parbat a tratti io fossi stato di fianco a me stesso. Pause lo ritenne un sacrilegio: «Come libro così com’è non sta in piedi». Non fu però Walter Pause – «Chi sa scrivere, è già un uomo» –, bensì Herrligkoffer che riuscì a bloccare il mio libro e quindi il resoconto veritiero della discesa dalla vetta del Nanga Parbat. Con il contratto-bavaglio che vietava a noi alpinisti di fornire un resoconto indipendente sulla spedizione al Nanga Parbat e con provvedimenti d’urgenza, in parte fondati sulle affermazioni di compagni compiacenti. In proposito esistono addirittura dichiarazioni giurate rilasciate da compagni che sostengono esattamente il contrario di quanto hanno annotato sull’argomento nel loro diario della spedizione.

A prescindere da un breve periodo, il mio libro Die rote Rakete am Nanga Parbat è sempre stato non disponibile, addirittura vietato. Non a causa del mio rifiuto nei confronti dell’atteggiamento di Pause, bensì a causa della mania di Herrligkoffer di nascondere al pubblico i fatti a lui non graditi. A meno che nella sua istanza di divieto abbia invece svolto un ruolo il fatto che Die rote Rakete am Nanga Parbat è stato pubblicato nella primavera del 1971, mentre il libro di Herrligkoffer, Kampf und Sieg am Nanga Parbat, sarebbe apparso solo nell’autunno dello stesso anno. Il suo timore era forse che io potessi togliere visibilità alla sua opera. Se quindi Herrligkoffer è riuscito nel suo intento di manipolare i resoconti relativi alle sue spedizioni con l’aiuto di contratti specifici, questo suo intento non ha avuto effetto duraturo. Allo stesso modo l’«arte dello scrivere» di Walter Pause non ha trovato una sua collocazione nel panorama letterario.

 

Michael Pause, figlio di Walter Pause e conduttore di «Bergauf-Bergab», la trasmissione dedicata agli alpinisti dell’emittente bavarese Bayerischer Rundfunk, nel dicembre del 2005 ha nuovamente sfruttato la sua visibilità mediatica, ma non per chiarire le circostanze. Apparentemente quello che gli interessa è confondere i fatti nudi e crudi grazie a nuove leggende. Oppure intende perpetrare la faida paterna. Mi onora il fatto che l’emittente bavarese trasmetta un programma contro di me e la mia impostazione di vita. Benché non mi senta affatto così importante, mi sarebbe piaciuto trovarmi di fronte come antagonista un giornalista di livello: un moderatore carismatico, con il quale avrei volentieri discusso. Alla fine è proprio questa cultura della contrapposizione, la dialettica corretta, che elettrizza la scena e che oggi mi manca tanto nelle questioni che riguardano la montagna: nel 1911 si trattò della Mauerhankenstreit, la «disputa sui chiodi» a Monaco; nel 1963 della «direttissima» e nel 1996 della «tragedia dell’Everest».3

Da quando però una dozzina di giornalisti di montagna e di funzionari del Club Alpino «portano avanti» i loro intrighi, quello di cui sembra si discuta è la presa di posizione di Pause a proposito del tema «montagna». Può anche essere che «nel mondo dell’alpinismo nessuno possa fare a meno di entrare in contatto con Michael Pause, il figlio dell’autore di libri di montagna», ma non tutti si lasciano adescare dalla sovraesposizione mediatica. I buoni alpinisti si temprano con le avversità, l’alpinismo invece ristagna là dove si esagera con... Pause.

Se Walter Pause ha disconosciuto agli alpinisti estremi l’arte dello scrivere, questo non significa che lui ne fosse padrone: «Chi arrampica molto scrive bene! Così pensano molti alpinisti. Ma questo è sbagliato. Per questo motivo lo scrivere di montagna è decaduto dallo status di letteratura alpina e si è ridotto a letteratura settaria».

Secondo Pause il termine «scrittore di montagna» è paragonabile a una «parolaccia». Per quale motivo? «Nessun alpinista scrivente è in grado di assumere la distanza necessaria rispetto al pathos potentissimo del paesaggio montano.» Proprio lui però si è sentito poi capace di avere questo distacco dal «Nanga», dall’Himalaya! Benché o forse proprio perché non c’è mai stato? Lui che dichiara di essere stato per tutta la sua vita «attivo in montagna» – come camminatore e come scrittore – non è mai stato veramente in grado di capire cosa muove noi «estremi». Questo è anche uno dei motivi per cui Die rote Rakete viene ripubblicato ora, in concomitanza con l’uscita del film Nanga Parbat diretto dal regista Joseph Vilsmaier. Con la prefazione scritta nel 1971 da Günther Oskar Dyhrenfurth, esperto alpinista himalayano nonché scrittore, senza ombra di dubbio in grado di valutare cosa abbia significato la spedizione del 1970 alla parete Rupal.

 

Se un’affermazione sia vera o falsa dipende solo dai fatti. È ovvio che ci si può trovare di fronte a un’affermazione vera della quale però nessuno può fornire le prove che ne giustifichino la veridicità. Ma se a posteriori un’affermazione non è comprovata dai fatti, allora possiamo dire che è falsa. Nel 1970, a proposito della tragedia del Nanga Parbat, i cosiddetti «compagni di cordata» hanno fornito e in parte fatte proprie in maniera acritica verità che erano solo supposizioni.

 

È così che ha avuto inizio l’occultamento. Quando il ritrovamento dei resti di Günther Messner ha confermato le mie affermazioni, tutti i miei oppositori si sono rifugiati in nuove ipotesi, solo per distogliere l’attenzione dalla loro responsabilità per quanto concerneva la campagna denigratoria degli anni precedenti. Come se bugie nuove potessero trasformare in verità le vecchie. Il fatto però che sia proprio la cosiddetta «grande famiglia degli alpinisti» a evocare sempre e in coro il cameratismo di facciata, è sintomatico di una comunanza di modi di sentire che non tiene tanto conto dell’alpinismo quanto della propria morale.

 

Nel 2005 una spedizione sud-coreana trascorre quattro mesi sul versante meridionale del Nanga Parbat: dal 12 aprile fino alla fine di luglio. Per l’ennesima volta l’intento è la ripetizione della nostra via nel tratto centrale della parete Rupal. Vengono allestiti quattro campi, l’ultimo a 7150 metri. Tutti i passaggi impegnativi sulla parete vengono attrezzati con le corde, il canalone Merkl fino alla quota di 7550 metri, e in questa fase vengono rinvenuti e utilizzati chiodi e pezzi di corda risalenti a tentativi precedenti.

La salita alla vetta viene portata a termine con successo da una cordata che entra in azione la sera alle 21.30 e che giunge al suo traguardo il giorno successivo, dopo più di 24 ore, alle 23. Nel tratto terminale la cordata opta per la variante Kuen-Scholz, mentre in discesa la scelta cade sulla via Kinshofer sulla parete Diamir, ben tracciata e attrezzata con una catena di campi, a causa delle enormi difficoltà tecniche lungo il canalone Merkl. I conquistatori della vetta vengono accolti al campo base della parete Diamir dai compagni di spedizione che nel frattempo hanno compiuto il giro intorno alla base della montagna.

Lì incontrano un vecchio: Mohammat Hayyet Moulvi. Il quale racconta loro di quell’alpinista che trentacinque anni prima scese carponi lungo il versante destro dell’alta valle Diamir – sfigurato, sanguinante, affamato: «Arrivava dal Nanga Parbat, dove aveva perso il fratello, alla base della parete».

Poco tempo dopo furono ritrovati i resti di Günther Messner: sul ghiacciaio Diamir. I «compagni di pensiero» del movimento di opinione non sono però capaci di rivedere la loro posizione. Afferrano l’arma che è sempre stata utile per sottomettere gli «altri»: l’isolamento definitivo!

 

Reinhold Messner
settembre 2009