SCENA PRIMA
Bonifacio, Ascanio
BONIFACIO Va’ lo ritrova adesso adesso, e forzati di menarlo cqua. Va’, fa’, e vieni presto.
ASCANIO Mi forzarrò di far presto e bene. Meglio un poco tardi, che un poco male: «Sat cito, si sat bene»1.
BONIFACIO Lodato sii Idio: pensavo d’aver un servitore solamente, ed ho servitore, mastro di casa, satrapo, dottore e consigliero; e dicon poi ch’io son povero gentil omo. Io ti dico, in nome della benedetta coda de l’asino ch’adorano a Castello i Genoesi2: Fa’ presto, tristo, e mal volentieri; e guardati di entrare in casa, intendi tu? chiamalo che si faccia alla fenestra, e gli dirrai come ti ho detto: intendi tu?
ASCANIO Signor sí; io vo.
SCENA SECONDA
Bonifacio, solo
L’arte supplisce al difetto della natura, Bonifacio. Or, poi ch’a la mal’ora non posso far che questa traditora m’ame, o che al meno mi remiri con un simulato amorevole sguardo d’occhio, chi sa, forse quella che non han mossa le paroli di Bonifacio, l’amor di Bonifacio, il veder spasmare Bonifacio, potrà esser forzata con questa occolta filosofia. Si dice che l’arte magica è di tanta importanza che contra natura fa ritornar gli fiumi a dietro, fissar il mare, muggire i monti, intonar1 l’abisso, proibir2 il sole, despiccar3 la luna, sveller le stelle, toglier il giorno e far fermar la notte: però l’Academico di nulla academia4, in quell’odioso titolo e poema smarrito, disse:
Don’a’ rapidi fiumi in su ritorno,
Smuove de l’alto ciel l’aurate stelle,
Fa sii giorno la notte, e nott’il giorno.
E la luna da l’orbe proprio svelle
E gli cangia in sinistro il destro corno,
E del mar l’onde ingonfia e fissa quelle.
Terra, acqua, fuoco ed aria despiuma5,
Ed al voler uman fa cangiar piuma.
Di tutto si potrebbe dubitare; ma, circa quel ch’ultimamente dice quanto all’effetto d’amore, ne veggiamo l’esperienza d’ogni giorno. Lascio che del magistero di questo Scaramuré sento dir cose maravigliose a fatto. Ecco: vedo un di quei che rubbano la vacca e poi donano le corna6 per l’amor di Dio. Veggiamo che porta di bel novo.
SCENA TERZA
M[esser] Bonifacio, M[esser] Bartolomeo raggionano; Pollula e Sanguino, occolti, ascoltano
BARTOLOMEO Crudo amore, essendo tanto ingiusto e tanto violento il regno tuo, che vol dir che perpetua tanto? perché fai che mi fugga quella ch’io stimo e adoro? perché non è lei a me, come io son cossí strettissimamente a lei legato? si può imaginar questo? ed è pur vero. Che sorte di laccio è questa? di dui fa l’un incatenato a l’altro, e l’altro piú che vento libero e sciolto.
BONIFACIO Forse ch’io son solo? uh, uh, uh.
BARTOLOMEO Che cosa avete, m[esser] Bonifacio mio? piangete la mia pena?
BONIFACIO Ed il mio martire ancora. Veggo ben che sete percosso, vi veggio cangiato di colore, vi ho udito adesso lamentare, intendo il vostro male, e, come partecipe di medesma passione e forse peggior, vi compatisco. Molti sono de’ giorni che ti ho visto andar pensoso ed astratto, attonito, smarrito, – come credo ch’altri mi veggano, – scoppiar profondi suspir dal petto, co gli occhi molli. – Diavolo! – dicevo io, – a costui non è morto qualche propinquo1, familiare e benefattore; non ha lite in corte2; ha tutto il suo bisogno, non se gli minaccia male, ogni cosa gli va bene; io so che non fa troppo conto di soi peccati; ed ecco che piange e plora, il cervello par che gli stii in cimbalis male sonantibus3: dunque è inamorato, dunque qualche umore flemmatico o colerico o sanguigno o melancolico, – non so qual sii questo umor cupidinesco4, – gli è montato su la testa. – Adesso ti sento proferir queste dolce parole: conchiudo piú fermamente che di quel tossicoso5 mele abbi il stomaco ripieno.
BARTOLOMEO Oimè, ch’io son troppo crudamente preso da’ suoi sguardi! Ma di voi mi maraviglio, m[esser] Bonifacio, non di me che son di dui o tre anni piú giovane, ed ho per moglie una vecchia sgrignuta6 che m’avanza di piú d’otto anni: voi avete una bellissima mogliera, giovane di venticinque anni, piú bella della quale non è facile trovar in Napoli; e sete inamorato?
BONIFACIO Per le paroli che adesso voi avete detto, credo che sappiate quanto sii imbrogliato e spropositato il regno d’amore. Si volete saper l’ordine, o disordine, di miei amori, ascoltatemi, vi priego.
BARTOLOMEO Dite, m[esser] Bonifa[cio], che non siamo come le bestie ch’hanno il coito servile solamente per l’atto della generazione, – però hanno determinata legge del tempo e loco, come gli asini a i quali il sole, particulare o principalemente il maggio, scalda la schena, ed in climi caldi e temperati generano, e non in freddi, come nel settimo clima ed altre parti piú vicine al polo; – noi altri in ogni tempo e loco.
BONIFACIO Io ho vissuto da quarantadue anni al mondo talmente, che con mulieribus non sum coinquinato7; gionto che fui a questa etade nella quale cominciavo ad aver qualche pelo bianco in testa, e nella quale per l’ordinario suol infreddarsi l’amore e cominciar a venir meno…
BARTOLOMEO In altri cessa, in altri si cangia.
BONIFACIO … suol cominciar a venir meno, com’il caldo al tempo de l’autunno, allora fui preso da l’amor di Carubina. Questa mi parve tra tutte l’altre belle bellissima; questa mi scaldò, questa m’accese in fiamma talmente, che mi bruggiò di sorte, che son dovenuto esca. Or, per la consuetudine ed uso continuo tra me e lei, quella prima fiamma essendo estinta, il cuor mio è rimasto facile ad esser acceso da nuovi fuochi…
BARTOLOMEO S’ il fuoco fusse stato di meglior tempra, non t’arrebbe fatto esca ma cenere; e s’io fusse stato in luoco di vostra moglie, arrei fatto cossí.
BONIFACIO Fate ch’io finisca il mio discorso, e poi dite quel che vi piace.
BARTOLOMEO Seguite quella bella similitudine.
BONIFACIO Or, essendo nel mio cor cessata quella fiamma che l’ha temprato in esca, facilmente fui questo aprile da un’altra fiamma acceso.
BARTOLOMEO In questo tempo s’inamorò il Petrarca, e gli asini, anch’essi, cominciano a rizzar la coda.
BONIFACIO Come avete detto?
BARTOLOMEO Ho detto che in questo tempo s’inamorò il Petrarca, e gli animi, anch’essi, si drizzano alla contemplazione: perché i spirti ne l’inverno son contratti per il freddo, ne l’estade per il caldo son dispersi, la primavera sono in una mediocre e quieta tempratura, onde l’animo è piú atto, per la tranquillità della disposizion del corpo, che lo lascia libero alle sue proprie operazioni.
BONIFACIO Lasciamo queste filastroccole, venemo a proposizio. Allora, essendo io ito a spasso a Pusilipo8, da gli sguardi della s[ignora] Vittoria fui sí profondamente saettato, e tanto arso da’ suoi lumi, e talmente legato da sue catene, che, oimè…
BARTOLOMEO Questo animale che chiamano amore, per il piú suole assalir colui ch’ha poco da pensare e manco da fare: non eravate voi andato a spasso?
BONIFACIO Or voi fatemi intendere il versaglio9 dell’amor vostro, poi che m’avete donata occasion di discuoprirvi il mio. Penso che voi ancora doviate prendere non poco refrigerio, confabulando con quelli che patiscono del medesmo male, si pur male si può dir l’amare.
BARTOLOMEO Nominativo: la signora Argenteria m’affligge, la s[ignora] Orelia m’accora.
BONIFACIO Il mal’an che Dio dia a te, e a lei ed a lei.
BARTOLOMEO Genitivo: della s[ignora] Argenteria ho cura, della signora Orelia10 tengo pensiero.
BONIFACIO Del cancaro che mange Bartolomeo, Aurelia ed Argentina.
BARTOLOMEO Dativo: alla s[ignora] Argenteria porto amore, alla s[ignora] Orelia suspiro; alla signora Argenteria ed Orelia comunmente mi raccomando.
BONIFACIO Vorrei saper che diavol ha preso costui.
BARTOLOMEO Vocativo: o signora Argenteria, perché mi lasci? o signora Orelia, perché mi fuggi?
BONIFACIO Fuggir ti possano tanto, che non possi aver mai bene! va’ col diavolo, tu sei venuto per burlarti di me!
BARTOLOMEO E tu resta con quel dio che t’ha tolto il cervello, se pur è vero che n’avesti giamai. Io vo a negociar per le mie padrone.
BONIFACIO Guarda, guarda con qual tiro, e con quanta facilità, questo scelerato me si ha fatto dir quello che meglio sarrebbe stato dirlo a cinquant’altri. Io dubito con questo amore di aver sin ora raccolte le primizie della pazzia. Or, alla mal’ora, voglio andar in casa ad ispedir Lucia. Veggo certi furfanti che ridono: suspico ch’arranno udito questo diavol de dialogo, anch’essi. Amor ed ira non si puot’ascondere.
SCENA QUARTA
[Sanguino, Pollula]
SANGUINO Ah, ah, ah, ah, oh, che gli sii donato il pan co la balestra1, buffalo d’India, asino di Terra d’Otranto, menchione d’Avella, pecora d’Arpaia2. Forse, che ci ha bisognato molto per fargli confessare ogni cosa senza corda? Ah, ah, ah, quell’altro fanfalucco3, vedi con qual proloquio l’ha saputo tirare a farsi dire che è inamorato, e chi è la sua dea, e il mal’an che Dio li dia, e come e quando e dove.
POLLULA Vi prometto che costui, quando dice l’officio di Nostra Donna, non ha bisogno di pregar Dio col dire: «Domine, labia mea aperies»4.
SANGUINO Che vuol dire: «Domino lampia mem periens»?
POLLULA «Signore, aprime la bocca, a fin ch’io possa dire». Ed io dico che quest’orazione non fa per quelli che son pronti a dir i fatti suoi a chi le vuol sapere.
SANGUINO Sí; ma non vedi che al fine s’è repentito d’aver detto? però non gli ne potrà succeder male, perché dice la Scrittura in un certo loco: «Chi pecca et emenda salvo este»5.
POLLULA Or, ecco il mastro: dimoraremo cqua tutt’oggi, in nome del diavolo che gli rompa il collo!
SCENA QUINTA
Manfurio, Pollula, Sanguino
MANFURIO Bene repperiaris bonae, melioris, optimaeque indolis, adolescentule: quomodo tecum agitur? ut vales?1.
POLLULA Bene.
MANFURIO Gaudeo sane gratulorque satis, si vales bene est, ego quidem valeo2: – marcitulliana3 eleganza in quasi tutte le sue familiari missorie servata.
POLLULA Comandate altro, domine Magister? io vo oltre per compir un negocio con Sanguino, e non posso induggiar con voi.
MANFURIO O buttati indarno i miei dictati, li quali nel mio almo minervale gimnasio, excerpendoli4 dall’acumine5 del mio Marte6, ti ho fatti nelle candide pagine, col calamo di negro attramento intincto, exarare7! buttati dico, incassum8 cum sit, ché a tempo e loco, eorum servata ratione9, servirtene non sai. Mentre il tuo preceptore, con quel celeberrimo apud omnes, etiam barbaras, nationes10 idioma latino ti sciscita11; tu, etiam dum12 persistendo nel commercio bestiis similitudinario13 del volgo ignaro, abdicaris a theatro literarum14, dandomi responso composto di verbi, quali dalla baila15 et obstetrice in incunabulis16 hai susceputi17 vel, ut melius dicam18, suscepti. Dimmi, sciocco, quando vuoi dispuerascere19?
SANGUINO Mastro, con questo diavolo di parlare per grammuffo20 o catacumbaro21 o delegante e latrinesco22, amorbate il cielo, e tutt’il mondo vi burla.
MANFURIO Sí, se questo megalocosmo23 e machina mundiale, o scelesto24 ed inurbano, fusse di tuoi pari referto et confarcito25.
SANGUINO Che dite voi di cosmo celesto e de urbano26? parlatemi che io v’intenda, ché vi responderò.
MANFURIO Vade ergo in infaustam nefastamque crucem, sinistroque Hercule!27. Si dedignano28 le Muse di subire il porcile del contubernio29 vostro, vel haram colloquii vestri30. Che giudicio fai tu di questo scelesto31, o Pollula? Pollula, appositorie fructus eruditionum mearum32, receptaculo del mio dottrinal seme, ne te moveant modo a nobis dicta33, perché, quia, namque, quandoquidem, – particulae causae redditivae34, – ho voluto farti partecipe di quella frase con la quale lepidissime eloquentissimeque35 facciamo le obiurgazioni36, le quali voi posthac, deinceps37, – si li Celicoli38 vi elargiranno quel ch’hanno a noi concesso, – all’inverso de vostri erudiendi39 descepoli, imitar potrete.
POLLULA Bene; ma bisogna farle con proposito ed occasione.
MANFURIO La causa della mia excandescentia è stata il vostro dire: «Non posso induggiar con voi». Debuisses dicere, vel elegantius, – infinitivo antecedente subiunctivum, – dicere debuisses: «Excellentia tua, eruditione tua, non datur, non conceditur mihi cum tuis dulcissimis musis ocium»40. Poscia quel dire: «con voi», vel ethruscius41: «vosco», nec bene dicitur latine respectu unius, nec urbane42 inverso di togati e gimnasiarchi43.
SANGUINO Vedete, vedete come va el mondo: voi siete accordati, ed io rimagno fuori come catenaccio44. Di grazia, d[omine] Magister, siamo amici ancora noi, perché, benché io non sii atto di essere soggetto alla vostra verga, idest esservi discepolo, potrò forse servirvi in altro.
MANFURIO Nil mihi vobiscum45.
SANGUINO Et con spiritu to46.
MANFURIO Ah, ah, ah, come sei, Pollula, adiunto socio a questo bruto?
SANGUINO Brutto47 o bello, al servizio di vostra maestà, onorabilissimo Signor mio.
MANFURIO Questo mi par molto disciplinabile48, e non cossí inmorigerato49, come da principio si mostrava, perché mi dà epiteti molto urbani ed appropriati.
POLLULA Sed a principio videbatur tibi homo nequam50.
MANFURIO Togli via quel «nequam»: quantunque sii assumpto nelle sacre pagine51, non è però dictio ciceroniana52.
«Tu vivendo bonos, scribendo sequare peritos»53:
disse il ninivita Giov. Dispauterio, seguito dal mio preceptore Aloisio Antonio Sidecino Sarmento Salano54, successor di Lucio Gio. Scoppa55, ex voluntate heredis56. Dicas igitur: «non aequum», prima dictionis litera diphtongata, ad differentiam della quadrupede substantia animata sensitiva, quae diphtongum non admittit in principio57.
SANGUINO Dottissimo signor Maester, è forza che vi chiediamo licenza, perché ne bisogna al piú tosto esser con m[esser] Gio. Bernardo pittore. Adio.
MANFURIO Itene, dunque, co i fausti volatili58. Ma chi è questa che con quel calatho in brachiis59 me si fa obvia?60 è una muliercula, quod est per ethimologiam mollis Hercules, opposita iuxta se posita61: sexo molle, mobile, fragile ed incostante, al contrario di Ercole. O bella etimologia! è di mio proprio Marte62 or ora deprompta63. Or dunque, quindi propriam versus [domum]64 movo il gresso65, perché voglio notarla maioribus literis66 nel mio propriarum elucubrationum libro67. Nulla dies sine linea68.
SCENA SESTA
Lucia, sola
Oimè, son stanca, voglio riposarmi cqua; tutta questa notte non la voglio maldire: son stata a far la guarda in piedi e pascermi di fumo di rosto ed odor di pignata1 grassa; ed io sono come il rognone, misera me, magra in mezzo al sevo2. Or, pensiamo ad altro, Lucia; poiché sono in loco dove non mi vede alcuno, voglio contemplar che cose son queste che m[esser] Bonifacio manda alla signora Vittoria: qua son de gravioli3, targhe di zuccaro4, mustaccioli di S. Bastiano5; vi son piú basso piú sorte di confetture; vi è al fondo una policia6, e son versi, in fede mia. Per mia fé, costui è doventato poeta. Or leggiamo.
Ferito m’hai, o gentil Signora, il mio core,
E me hai impresso all’alma gran dolore,
E, si non mel credi, guarda al mio colore.
Che si non fusse ch’io ti porto tanto amore,
Quanto altri amanti mai, che sian d’onore,
Hanno portato alle loro amate signore,
Cose farrei assai di proposito fore:
Però ho voluto essere della presente autore,
Spento7 di tue bellezze dal gran splendore,
Acciò comprendi per di questa il tenore,
Che, si non soccorri al tuo Benefacio, more.
Di dormire, mangiar, bere non prende sapore,
Non pensando ad altro ch’a te tutte l’ore,
Smenticato8 di padre, madre, fratelli e sore9.
O bella conclusione, belli propositi, a punto suttili come lui. Io, per me, di rima non m’intendo; pure, s’io posso farne giudicio, dico due cose: l’una, ch’i versi son piú grandi che gli ordinarii; l’altra, che son fatti a suon di campana e canto asinino, li quali, sempre toccano alla medesima consonanza. Ma voglio partirmi di qua, per trovar piú comodo luoco, dove io possa prender la decima di questo presente: ché, in fine, bisogna ch’ancor io sia partecipe de’ frutti della pazzia di costui.
SCENA SETTIMA
Bonifacio, solo
Grande è la virtú dell’amore. Da onde, o Muse, mi è scorsa tanta vena ed efficacia in far versi, senza che maestro alcuno m’abbia insegnato? Dove mai è stato composto un simile sonetto? tutti versi, dal primo a l’ultimo, finiscono con desinenzia della medesma voce: leggi il Petrarca tutto intiero, discorri tutto l’Ariosto, non trovarai un simile. Traditora, traditora, dolce mia nemica, credo ch’a quest’ora l’abbi letto e penetrato; e si l’animo tuo non è piú alpestre che d’una tigre, son certo che non farai oltre poco caso del tuo Bonifacio. Oh! ecco Gio. Bernardo.
SCENA OTTAVA
Gio. Bernardo, Bonifacio
GIO. BERNARDO Bondí e bon anno a voi, misser Bonifacio. Avete fatta alcuna buona fazione1, oggi?
BONIFACIO Che dite voi? Oggi ho fatta cosa che giamai feci in tutto tempo di mia vita.
GIO. BERNARDO Voi dite di gran cose. È possibile che quello che hai fatto oggi, abbi possuto far ieri o altro giorno, o voi o altro che sii? o che per tutto tempo di vostra vita possiate fare quel che una volta è fatto? Cossí, quel che facesti ieri, non lo farai mai piú; ed io mai feci quel ritratto ch’ho fatto oggi, né manco è possibile ch’io possa farlo piú; questo sí2, che potrò farne un altro.
BONIFACIO Or, lasciamo queste vostre sofisticarie; mi avete fatto sovvenire del ritratto. Hai visto quel che mi ho fatto fare?
GIO. BERNARDO L’ho visto e revisto.
BONIFACIO Che ne giudicate?
GIO. BERNARDO È buono: assomiglia assai piú a voi che a me.
BONIFACIO Sii come si vuole, ne voglio un altro di vostra mano.
GIO. BERNARDO Che lo volete donare a qualche v[ostra] signora per memoria di voi?
BONIFACIO Basta: son altre cose che mi vanno per la mente.
GIO. BERNARDO È buon segno, quando le cose vanno per la mente: guardati che la mente non vadi essa per le cose, perché potrebbe rimaner attaccata con qualche una di quelle, ed il cervello, la sera, indarno l’aspettarebbe a cena; e poi bisognasse3 far come la matre di fameglia, ch’andava cercando lo intellecto co la lanterna. – Quanto al ritratto, io lo farò quanto prima.
BONIFACIO Sí; ma, per vita vostra, fatemi bello.
GIO. BERNARDO Non comandate tanto, si volete esser servito. Si desiderate che io vi faccia bello, è una; si volete ch’io vi ritragga, è un’altra.
BONIFACIO Di grazia, lasciamo le burle: attendete a far cosa buona, ché io, per questo, verrò a ritrovarvi in casa.
GIO. BERNARDO Venite pur quando vi piace, e non dubitate di cosa buona, dal canto mio; attendete pur voi a far bene, dal canto vostro, perché…
BONIFACIO Che vuol dir: perché?
GIO. BERNARDO … lasciate l’arte antica.
BONIFACIO Come? non v’intenderebbe il diavolo.
GIO. BERNARDO Da candelaio volete doventar orefice4.
BONIFACIO Come orefice? come candelaio?
GIO. BERNARDO Basta, me vi raccomando.
BONIFACIO Dio vi dia quel che desiderate.
GIO. BERNARDO Ed a voi quel che vi manca.
SCENA NONA
Bonifacio, solo
«Da candelaio volete doventar orefice»: è pur gran cosa il fatto mio. Tutti, chi da cqua, chi da llà, mi motteggiano: ecco, costui non so che diavolo voglia intendere per l’orefice. Lo essere orefice non è male: non ha egli altro di brutto che quel guazzarsi1 le mani dentro l’urina, dove tal volta pone in infusione la materia dell’arte sua, oro, argento ed altre cose preciose: pur queste parabole2, qualche dí, l’intenderemo. – Ecco, mi par veder Ascanio con Scaramuré.
SCENA DECIMA
Scaramuré, Bonifacio, Ascanio
SCARAMURÉ Ben trovato, messer Bonifacio.
BONIFACIO Siate il molto ben venuto, s[ignor] Scaramuré, speranza della mia vita appassionata.
SCARAMURÉ Signum affecti animi1.
BONIFACIO Si V. S. non rimedia al mio male, io son morto.
SCARAMURÉ Sí come io vedo, voi sete inamorato.
BONIFACIO Cossí è: non bisogna ch’io vi dica piú.
SCARAMURÉ Come mi fa conoscere la vostra fisionomia, il computo di vostro nome, di vostri parenti o progenitori, la signora della vostra natività fu «Venus retrograda in signo masculino; et hoc fortasse in Geminibus vigesimo septimo gradu»2: che significa certa mutazione e conversione nell’età di quarantasei anni, nella quale al presente vi ritrovate.
BONIFACIO A punto, io non mi ricordo quando nacqui; ma, per quello che da altri ho udito dire, mi trovo da quarantacinque anni in circa.
SCARAMURÉ Gli mesi, giorni ed ore computarò ben io piú distintamente, quando col compasso arò presa la proporzione dalla latitudine dell’unghia maggiore alla linea vitale, e distanza dalla summità dell’annulare a quel termine del centro della mano, ove è designato il spacio di Marte; ma basta per ora aver fatto giudicio cossí universale et in communi3. Ditemi, quando fustivo4 punto dall’amor di colei per averla guardato, a che sito ti stava ella? a destra o a sinistra?
BONIFACIO A sinistra.
SCARAMURÉ Arduo opere nanciscenda5. – Verso mezzogiorno o settentrione, oriente o occidente, o altri luochi intra questi?
BONIFACIO Verso mezzogiorno.
SCARAMURÉ Oportet advocare septentrionales6. – Basta, basta: cqui non bisogna altro; voglio effectuare il tuo negocio con magia naturale, lasciando a maggior opportunità le superstizioni d’arte piú profonda.
BONIFACIO Fate di sorte ch’io accape il negocio7, e sii come si voglia.
SCARAMURÉ Non vi date impaccio, lasciate la cura a me. La cosa già fu per fascinazione?
BONIFACIO Come per fascinazione? io non intendo.
SCARAMURÉ Idest, per averla guardata, guardando lei anco voi.
BONIFACIO Sí, signor sí, per fascinazione.
SCARAMURÉ Fascinazione si fa per la virtú di un spirito lucido e sottile, dal calor del core generato di sangue piú puro, il quale, a guisa di raggi, mandato fuor de gli occhi aperti, che, con forte imaginazion guardando, vengono a ferir la cosa guardata, toccano il core e sen vanno ad afficere8 l’altrui corpo e spirto o di affetto di amore o di odio o di invidia o di maninconia o altro simile geno9 di passibili qualità. L’esser fascinato d’amore adviene, quando, con frequentissimo over, benché istantaneo, intenso sguardo, un occhio con l’altro, e reciprocamente un raggio visual con l’altro si rincontra, e lume con lume si accopula10. Allora si gionge spirto a spirto; ed il lume superiore, inculcando l’inferiore, vengono a scintillar per gli occhi, correndo e penetrando al spirto interno che sta radicato al cuore; e cossí commuoveno amatorio incendio. Però, chi non vuol esser fascinato, deve star massimamente cauto e far buona guardia negli occhi, li quali, in atto d’amore, principalmente son fenestre dell’anima: onde quel detto: «Averte, averte oculos tuos»11. – Questo, per il presente, basti; noi ci revedremo a piú bell’aggio; provedendo alle cose necessarie.
BONIFACIO Signor, si questa cosa farete venire al butto12, vi accorgerete di non aver fatto servizio a persona ingrata.
SCARAMURÉ Misser Bonifacio, vi fo intender questo: che voglio io prima esser grato a voi, e poi son certo, si non mi sarete grato, mi doverete essere.
BONIFACIO Comandatemi, ché vi sono affezionatissimo, ed ho gran speranza nella prudenza vostra.
ASCANIO Orsú, a rivederci tutti. A dio.
BONIFACIO Andiamo, ch’io veggio venir l’uomo piú molesto a me, ch’abbia possuto produrre la natura. Non voglio aver occasion di parlargli. Verrò a voi, signor Scar[amuré].
SCARAMURÉ Venite, ché vi aspetto. A dio.
SCENA UNDICESIMA
Cencio, Gio. Bernardo
CENCIO Cossí bisogna guidar quest’opra, per la doctrina di Ermete1 e di Geber2. La materia di tutti metalli è Mercurio: a Saturno appartiene il piombo, a Giove il stagno, a Marte il ferro, al Sole l’oro, a Venere il bronzo, alla Luna l’argento. Lo argento vivo si attribuisce a Mercurio particularmente, e si trova nella sustanza di tutti gli altri metalli: però si dice nuncio di Dei, maschio co maschii, e femina co femine. Di questi metalli Mercurio Trimegisto chiamò il cielo padre, e la terra madre; e disse che questa madre ora è impregnata ne’ monti, or nelle valli, or nelle campagne, or nel mare, or ne gli abissi ed antri: il quale enigma ti ho detto che cosa significa. Nel grembo de la terra la materia di tutti metalli afferma esser questa insieme col solfro3 il dottissimo Avicenna4, nell’Epistola scritta ad Hazez5: alla quale opinione postpongo quella di Ermete, che vuole la materia di metalli esserno gli elementi tutti; ed insieme con Alberto Magno6 chiamo ridicula la sentenza attribuita a Democrito da gli alchimisti, che la calcina e lisciva – per la quale intendono l’acquaforte7 – siino materia di metalli tutti. Né tampoco posso approvar la sentenza di Gilgile8, nel suo libro De’ secreti, dove vuole «metallorum materiam esse cinerem infusum»9, perché vedeva che «cinis liquatur in vitrum et congelatur frigido»10: al quale errore suttilmente va obviando il prencipe Alberto…
GIO. BERNARDO Queste diavolo de raggioni no mi toccano punto l’intellecto. Io vorrei veder l’oro fatto e voi meglior vestito11 che non andiate. Penso ben che, si tu sapessi far oro, non venderesti la ricetta da far oro, ma con essa lo faresti; e, mentre fai oro per un altro, per fargli vedere la esperienza, lo faresti per te, a fin di non aver bisogno di vendere il secreto.
CENCIO Voi mi avete interrotto il discorso. Pensate voi solo di aver giudicio, e di aver apportato un grandissimo argomento: per le cautele che ave usate meco, m[esser] Bartolomeo dimostra esser assai piú cauto che voi non vi stimate d’essere. E sa lui che io sono stato rubbato e sassinato al bosco di Cancello, venendo da Airola12.
GIO. BERNARDO Credo ch’il sappia piú per vostro che per mio dire.
CENCIO E però io, non avendo il modo di comprar gli semplici13 e minerali che si richiedono a tal opra, ho fatto come sapete.
GIO. BERNARDO Dovevi ponerti in pegno e securtà14, e dire: – Mess[er], avanzarò oro per me e per te; – ché certo tanto lui quanto altro ti arebbe nientemanco soccorso; e quell’oro che cerchi dalle borse, l’aresti con tua meglior riputazione ed onore sfornato dalla tua fornace.
CENCIO Mi ha piaciuto far cossí. Quando io sarò morto, che mi fa che tutto il mondo sappia far oro? che mi fa che tutto il mondo sii pieno d’oro?
GIO. BERNARDO Io mi dubito che l’argento ed il stagno valerà piú caro oggimai, che l’oro.
CENCIO Dovete saper, per la prima, che m[esser] Bartolomeo, lui, ebbe tutta la ricetta in mano, dove si contiene ed il modo di operare e le cose che vi concorreno; lui mandava al speciale15, per le cose che bisognano, il suo putto16; lui è stato presente al tutto che si faceva; lui faceva tutto; e da me non volea altro che la dechiarazione, con dirgli: – Fa’ in questo modo, fa’ in quello, non far cossí, fa’ colà, or applica questo, or togli quello: – di sorte ch’al fine con allegrezza grande ha ritrovato l’oro purissimo e probatissimo al fondo della vitrea cucurbita17, risaldata luto sapientiae18…
GIO. BERNARDO Luto19 della polvere delle potte sudate al viaggio di Piedigrotta20.
CENCIO E cossí, assicuratissimo, mi ha pagato seicento scudi per il secreto che gli ho donato, secondo le nostre convenzioni.
GIO. BERNARDO Or, poi che avete fatta una cosa, fatene un’altra: e sarà compito tutto il negocio a non mancarvi nulla.
CENCIO Che volete che noi facciamo?
GIO. BERNARDO Lui essendo nella miseria che eravate voi, con aver seicento scudi meno, e voi essendo nella comodità nella quale era lui, con aver oltre seicento scudi: però, come avete cambiata fortuna, cambiatevi ancora gli mantelli e le barette21, ch’al fine non conviene ch’egli vada in quello abito, e tu in questo.
CENCIO Oh! voi sempre burlate.
GIO. BERNARDO Sí, sí, burlo: la prima volta che vi vedrò insieme, dirò: – Ecco qui la tua cappa, Cencio; ecco qui la tua cappa, Bartolomeo. – Ma dimmi da galant’omo, parliamo da dovero: non l’hai tu attaccata22 a costui, come l’attaccò il Gigio al Perrotino?23.
CENCIO E che fec’egli?
GIO. BERNARDO Non sai quel che fece? io tel saprò dire. – Costui cavò un pezzo di legno, vi inserrò l’oro dentro, poi lo bruggiò fuori, facendolo a guisa de gli altri carboni; ed al suo tempo, con una bella destrezza, sel tolse dalla saccoccia, e ponendo mani a dui altri carboni ch’erano presso la fornace, fece venir a proposito di ponere quel carbone pregnante24, dove presto, per la forza del fuoco incinerito, stillò l’oro impolverato per gli buchi a basso.
CENCIO Oh vagliame Dio! mai arei possuto imaginarmi una sí fatta gaglioffaria. Ingannar io? fars’ingannar m[esser] Bartolomeo? Or, credo che di questo tratto lui ne sii stato informato. Egli non solo non ha voluto ch’io toccasse cosa alcuna; ma anco mi ha fatto seder sei passi lungi dalla fornace, la prima volta che si oprò in mia presenza, per la dechiarazion della prattica della ricetta; e nella seconda volta, ha voluto esser solo, con farmene essere al tutto absente, avendo solo la mia ricetta per guida. Di sorte che, dopo che la esperienza è fatta due volte in poca materia e pochissima spesa, or vi si è risoluto a tutta passata25, o, come vi ho detto, fa gran seminata per raccogliere gran frutto.
GIO. BERNARDO Come! ave egli aumentate le dose?
CENCIO Tanto, che in questa prima posata tirarà cinquecento scudi come cinquanta soldi.
GIO. BERNARDO Credo piú presto come cinquanta soldi che come cinquant’altri scudi. Ora sí che hai profetato meglio ch’un Caifasso26. Or aspettiamo il parto, ché allora vedremo si l’è maschio o femina. A dio.
CENCIO A dio, a dio: assai è che crediate gli articoli di fede.
[SCENA DODICESIMA]
Cencio, solo
In vero, si Bartolomeo avesse il cervello di costui, e che tutti fussero cossí male avisati, indarno arei stesa la rete in questa terra. Or facciamo di bon modo, poi che l’ucello è dentro; ché non siamo come quello che sel fe’ venire a la rete, e poi sel fe’ fuggir dalla mano. Mai mi stimarò possessor di questi scudi, né le chiamerò miei, sin tanto che non sarò fuor del Regno1. Ho dato ordine alla posta, ed or ora vo a montarvi su, – non mi fia mistiero d’andar a prendere altre bagaglie. – Quando l’oste aprirà la balice2 che ha nelle mani, la trovarà piena di sassi, e che vale piú quel che è di fuori che quel che è di dentro. Credo che non dimorarà troppo a veder il conto suo, anche lui. Non bisogna ch’io mi fermi cqui sino al tempo che potrà essere che Bartolomeo manda per trovare il pulvis Christi3. Mi par veder la moglie: non voglio che mi veda cossí imbottato4.
[SCENA TREDICESIMA]
Marta, sola
Credo che Sautanasso, Barsabucco1 e tutti quegli che squagliano2, sel prenderanno per compagno; perché saprà egli attizzar il fuoco dell’inferno, per suffriggere e rostire l’anime dannate. La faccia di mio marito assomiglia ad uno il quale è stato trent’anni a far carboni alla montagna di Scarvaita, che sta da là del monte de Cicala3. Non sta cossí volentieri pesce in acqua, come lui presso que’ carboni vivi a fumegarse tutto il giorno, – non voglio maldirlo! – poi mi viene avanti con quelli occhi rossi ed arsi, di sorte che rassomiglia a Luciferre4. In fine, non è fatica tanto grave, che l’amore non faccia non solamente lieve, ma piacevole. Ecco costui, per essergli ficcato nel cervello la speranza di far la pietra filosofale, è dovenuto a tale, che il suo fastidio è il mangiare, la sua inquietitudine è il trovarsi a letto, la notte sempre gli par lunga come a putti che hanno qualche abito nuovo da vestirsi. Ogni cosa gli dà noia, ogni altro tempo gli è amaro, e solo il suo paradiso è la fornace. Le sue gemme e pietre preciose son gli carboni, gli angeli son le bozzole5 che sono attaccate in ordinanza ne’ fornelli con que’ nasi di vetro da cqua, e da llà tanti lambicchi di ferro, e de piú grandi e de piú piccoli e di mezzani. E che salta, e che balla, e che canta quel sciagurato, che mi fa sovvenire dell’asino6. Poco fa, per veder che cosa facess’egli, ho posto l’occhio ad una rima7 de la porta, e l’ho veduto assiso sopra la sedia, a modo di catedrante, con una gamba distesa da cqua ed un’altra distesa da llà, guardando gli travi della intempiatura8 della camera, a’ quali, dopo aver cennato tre volte co la testa, disse: «Voi, voi impiastrarò di stelle fatte di oro massiccio». Poi, non so che si borbottasse, guardando le casce9 e voltando il viso a’ scrigni. «Mia fé», dissi io «penso che questi presto saranno pieni di doppioni»10. – Oh! ecco Sanguino.
[SCENA QUATTORDICESIMA]
Sanguino, Marta
SANGUINO (cantando) Chi vooo spazzacamin? chi vol conciare stagni, candelier, conche, caldare1?
MARTA Che buon’ora è, Sanguino? è egli cosa nuova che tu sei pazzo? che canti per mezzo le strade? quale delle due è l’arte tua?
SANGUINO Non so: o l’una o l’altra. E voi non sapete?
MARTA Se non me dite, non so altro.
SANGUINO Son servitor, discepolo e compagno di vostro marito, il quale o è un spazzacamino, o ver ripezza stagni, tacconeggia2 padelle o risalda frissore3. Si non mel credi, guardagli il viso e miragli le mani. Che diavolo fa egli? tenetelo forse appeso al fumo come le salciche4, e come mesesca di botracone5 in Puglia?
MARTA Ahi me lassa! per lui sarò mostrata a dito, ogni poltrone me darrà la baia. Intendi, Sanguino? questo va dirlo a lui e non a me.
SANGUINO Se dice che Nostro Signore sanò tutte altre sorte de infirmità, ma che giamai volse accostarsi a pazzi.
MARTA E però va’ via, ch’io non voglio accostarmi a te, pazzacone.
SANGUINO Va’ pure, accostati a lui, madonna cara; e guardati di porgerli la lingua, ché la minestra ti saprà di fumo6.
Fine dell’atto I.