ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

M[esser] Ottaviano, Manfurio, Pollula

OTTAVIANO Maestro, che nome è il vostro?

MANFURIO Mamphurius.

OTTAVIANO Quale è vostra professione?

MANFURIO Magister artium, moderator di pueruli, di teneri unguicoli, lenium malarum, puberum, adolescentulorum: eorum qui adhuc in virga, in omnem valent erigi, flecti, atque duci partem, primae vocis, apti al soprano, irrisorum denticulorum, succiplenularum carnium, recentis naturae, nullius rugae, lactei halitus, roseorum labellulorum, lingulae blandulae, mellitae simplicitatis, in flore, non in semine degentium, claros habentium ocellos, puellis adiaphoron1.

OTTAVIANO Oh! Maestro gentile, attillato, eloquentissimo, galantissimo architriclino2 e pincerna3 delle Muse,…

MANFURIO O bella apposizione.

OTTAVIANO … patriarca del coro apollinesco4, …

MANFURIO Melius diceretur5: apollineo.

OTTAVIANO … tromba di Febo, lascia ch’io te dia un bacio nella guancia sinestra, ché non mi reputo degno di baciar quella dolcissima bocca: …

MANFURIO Ch’ambrosia e nectar non invidio a Giove6.

OTTAVIANO …quella bocca, dico, che spira sí varie e bellissime sentenze ed inaudite frase.

MANFURIO Addam et plura: in ipso aetatis limine, ipsis in vitae primordiis, in ipsis negociorum huius mundialis seu cosmicae architecturae rudimentis, ex ipso vestibulo, in ipso aetatis vere, ut qui adnupturiant7, ne in apiis quidem8.

OTTAVIANO O Maestro, fonte caballino, di grazia, non mi fate morir di dolcezza, prima ch’io dichi la mia colpa; non parlate piú, vi priego, perché mi fate spasimare.

MANFURIO Silebo igitur, quia opprimitur a gloria maiestatis9, come accadde a quella meschina10 di cui Ovidio nella Metamorfosi fa menzione: a cui le Parche avare troncorno il filo, vedendo, lei, nella propria maiestade il folgorante Giove.

OTTAVIANO Di grazia, vi supplico per quel dio Mercurio che vi ha indiluviato di eloquenzia,…

MANFURIO Cogor morem gerere11.

OTTAVIANO …abbiate pietà di me, e non mi lanciate piú cotesti dardi che mi fanno andar fuor di me.

MANFURIO In ecstasim profunda trahit ipsum admiratio. Tacebo igitur de iis hactenus, nil addam, muti pisces, tantum effatus, vox faucibus haesit12.

OTTAVIANO Misser Manfurio, amenissimo fiume di eloquenza, serenissimo mare di dottrina,…

MANFURIO Tranquillitas maris, serenitas aëris13.

OTTAVIANO …avete qualche bella vostra di composizione, perché ho gran desiderio aver copia di vostre doctissime carte.

MANFURIO Credo, Signor, che in toto vitae curriculo14 e discorso di diverse e varie pagine non ve siino occorsi carmini15 di calisimetria16, i[dest]17 cossí bene adaptati, come questi che al presente io son per dimostrarvi, cqui, exarati18.

OTTAVIANO Che è la materia di vostri versi?

MANFURIO Litterae, syllabae, dictio et oratio, partes propinquae et remotae19.

OTTAVIANO Io dico: quale è il suggetto ed il proposito?

MANFURIO Volete dire: de quo agitur? materia de qua? circa quam?20. È la gola, ingluvie21 e gastrimargia22 di quel lurcone23 Sanguino, – viva effigie di Filosseno24, qui collum gruis exoptabat25, – con altri suoi pari, socii26, aderenti, simili e collaterali.

OTTAVIANO Piacciavi di farmeli udire.

MANFURIO Lubentissime. Eruditis non sunt operienda arcana: ecco, io explico papirum propriis elaboratum et lineatum digitis27. Ma voglio che prenotiate28 che il sulmonense Ovidio, – Sulmo mihi patria est29, – nel suo libro Methamorphoseon octavo, con molti epiteti l’apro calidonio30 descrisse, alla cui imitazione io questo domestico porco vo delineando.

OTTAVIANO Di grazia, leggetele presto.

MANFURIO Fiat. Qui cito dat, bis dat. Exordium ab admirantis affectu31.

O porco sporco, vil, vita disutile,

Ch’altro non hai che quel gruito32 fatuo,

Col quale il cibo tu ti pensi acquirere33,

Gola quadruplicata da l’axungia34,

Dall’anteposto absorpta35 brodulario36,

Che ti prepara il sozzo coquinario37,

Per canal emissario38;

Per pinguefarti39 piú, vase d’ingluvie,

In cotesto porcil t’intromettesti,

U’ ad altro obiecto non guardi ch’al pascolo,

E privo d’exercizio,

Per inopia e penuria

Di meglior letto e di meglior cubiculo40,

Altro non fai ch’al sterco e fango involverti.

Post haec41:

A nullo sozzo volutabro42 inabile,

Di gola e luxo infirmità incurabile,

Ventre che sembra di Pleiade43 il puteo,

Abitator di fango, incola luteo44;

Fauce indefessa, assai vorante gutture45,

Ingordissima arpia, di Tizio vulture46,

Terra mai sazia, fuoco e vulva cupida47,

Orficio protenso48, mare putida49;

Nemico al cielo, speculator terreo50,

Mano e piè infermo, bocca e dente ferreo,

L’anima ti fu data sol per sale,

A fin che non putissi51: dico male?

Che vi par di questi versi? che ne comprendete con di vostro ingegno il metro?

OTTAVIANO Certo, per esser cosa d’uno della profession vostra, non sono senza bella considerazione.

MANFURIO Sine conditione et absolute52 denno esser giudicati di profonda perscrutazion53 degni questi frutti raccolti dalle meglior piante che mai producesse l’eliconio monte54, irrigate ancor dal parnasio fonte55, temprate dal biondo Apolline e dalle sacrate Muse coltivato. E che ti par di questo bel discorso? non vi admirate adesso come pria già?

OTTAVIANO Bellissimo e sottil concetto. Ma ditemi, vi priego, avete speso molto tempo in ordinar questi versi?

MANFURIO Non.

OTTAVIANO Sietevi affatigato in farli?

MANFURIO Minime56.

OTTAVIANO Avetevi speso gran cura e pensiero?

MANFURIO Nequaquam57.

OTTAVIANO Avetele fatti e rifatti?

MANFURIO Haudquaquam58.

OTTAVIANO Avetele corretti?

MANFURIO Minime gentium: non opus erat59.

OTTAVIANO Avetene destramente presi, per non dir mariolati60, a qualche autore?

MANFURIO Neutiquam, absit verbo invidia, Dii avertant, ne faxint ista Super61. Voi troppo volete veder di mia erudizione: credetemi che non ho poco io del fonte caballino absorpto, né poco liquor mi ave infuso la de cerebro nata Iovis62, dico la casta Minerva, alla quale è attribuita la sapienza. Credete ch’io non sarei minus foeliciter63 risoluto, quando fusse64 stato provocato ad explicandas notas affirmantis vel asserentis65. Non hanno destituita la mia memoria: Sic, ita, etiam, sane, profecto, palam, verum, certe, procul dubio, maxime, cui dubium?, utique, quidni?, mehercle, aedepol, mediusfidius66, et caetera.

OTTAVIANO Di grazia, in luoco di quell’et caetera, ditemi un’altra negazione.

MANFURIO Questo cacocephaton67, idest prava elocuzione, non farò io, perché factae enumerationis clausulae non est adponenda unitas68.

OTTAVIANO Di tutte queste particule affirmative quale vi piace piú de l’altre?

MANFURIO Quell’utique assai mi cale, eleganza in lingua aethrusca vel tuscia, meaeque inhaeret menti69: eleganza di piú profondo idioma.

OTTAVIANO Delle negative qual vi piace piú?

MANFURIO Quel nequaquam est mihi cordi70 e mi sodisfa.

OTTAVIANO Or dimandatemi voi, adesso.

MANFURIO Ditemi, signor Ottaviano, piacenvi gli nostri versi?

OTTAVIANO. Nequaquam.

MANFURIO Come nequaquam? non sono elli optimi?

OTTAVIANO Nequaquam.

MANFURIO Duae negationes affirmant71: volete dir dunque che son buoni.

OTTAVIANO Nequaquam.

MANFURIO Burlate?

OTTAVIANO Nequaquam.

MANFURIO Sí che dite da senno?

OTTAVIANO Utique.

MANFURIO Dunque, poca stima fate di mio Marte e di mia Minerva72?

OTTAVIANO Utique.

MANFURIO Voi mi siete nemico e mi portate invidia: da principio, vi admiravate della nostra dicendi copia73, adesso, ipso lectionis progressu74, la admirazione è metomorfita75 in invidia?

OTTAVIANO Nequaquam: come invidia? come nemico? non mi avete detto che queste dizioni vi piaceno?

MANFURIO Voi, dunque, burlate, e dite exercitationis gratia76?

OTTAVIANO Nequaquam.

MANFURIO Dicas igitur, sine simulatione et fuco77: hanno enormità, crassizie78 e rudità79 gli miei numeri80?

OTTAVIANO Utique.

MANFURIO Cossí credete a punto?

OTTAVIANO Utique, sane, certe, equidem, utique, utique.

MANFURIO Non voglio piú parlar con voi.

OTTAVIANO Si non volete resistere a udir quel che dite che vi piace, che sarrebbe s’io vi dicesse cosa che vi dispiace? A dio.

[SCENA SECONDA]

Manfurio, Pollula

MANFURIO Vade, vade. Adesdum1, Pollula, hai considerata la proprietà di questo uomo, il quale, or ora, è da noi absentato2?

POLLULA Costui, da principio, si burlava di voi di una sorte; al fine, vi dava la baia d’un’altra sorte.

MANFURIO Non pensi tutto ciò esser per invidia che gli inepti portano a noi altri – melius diceretur alii, differentia faciente aliud3 – eruditi?

POLLULA Tutto vi credo, essendo voi mio maestro, e per farvi piacere.

MANFURIO De iis hactenus, missa faciamus haec4. Or ora, voglio gire a ispedir le muse contra questo Ottaviano; e, come gli ho fatti udire, in proposito di altro, gli porcini epiteti, posthac in suo proposito, voglio che odi quelli di uno inepto giudicator della doctrina altrui. Ecco, vi porgo una epistola amatoria fatta ad istanzia di m[esser] Bonifacio, il quale, per gratificare alla sua amasia5, mi ha richiesto che gli componesse questa lectera incentiva6. Andate; e gli la darrete secretamente da mia parte in mano, dicendogli che io sono implicito7 in altri negocii circa il mio ludo literario8. Ego quoque hinc pedem referam9, perché veggio due femine appropiare10, de quibus illud: «Longe fac a me11.

POLLULA Salve, domine praeceptor12.

MANFURIO Faustum iter dicitur: vale13.

SCENA TERZA

S[ignora] Vittoria, Lucia

VITTORIA La gran pecoragine che io scorgo in lui mi fa inamorar di quest’uomo; la bestialità sua mi fa argumentare che non perderemo per averlo per amante; e, per essere un Bonifacio, come vedete, non ne potrà far altro che bene.

LUCIA Costui non è di que’ matti ch’han troppo secco il cervello, ma di quei che l’han tropp’umido: però è necessario che dii di botto1 al troppo grosso e dolce umore piú che al troppo suttile, fastidioso, colerico e bizzarro.

VITTORIA Or, andiate e ringraziatelo da mia parte; e ditegli ch’io non posso vedermi sazia di leggere la sua carta, e che in poco tempo, che siate stata presso di me, diece volte me l’avete veduta cacciar e rimettere nel petto: dategli quante panzanate voi possete, per fargl’intendere ch’io li porto grand’amore.

LUCIA Lascia la cura a me, disse Gradasso2. Cossí potesse io guidar il Re o l’Imperadore, come potrò maneggiar costui. Rimanete sana.

VITTORIA Andate. Fate come vi dettarà la prudenza vostra, Lucia mia.

SCENA QUARTA

S[ignora] Vittoria, sola

L’amore si depinge giovane e putto per due cause: l’una, perché par che non stia bene a’ vecchi, l’altra, perché fa l’uomo di leggiero e men grave sentimento, come fanciulli. Né per l’una né per l’altra via è entrato amor in costui. Non dico perché gli stesse bene, atteso che non paiono buone a lui simili giostre; né perché gli avesse a togliere l’intelletto, perché nisciuno può essere privato di quel che non ha.

Ma non ho tanto da guardar a lui, quanto debbo aver pensiero de’ fatti miei. Considero che, come di vergini, altre son dette sciocche, altre prudenti1; cossí, anche de noi altre che gustiamo de meglior frutti che produce il mondo, pazze son quelle ch’amano sol per fine di quel piacer che passa, e non pensano alla vecchiaia che si accosta ratto, senza ch’altri la vegga o senta, insieme insieme2 facendo discostar gli amici. Mentre quella increspa la faccia, questi chiudono le borse; quella consuma l’umor di dentro e l’amor di fuori, quella percuote da vicino, e questi salutano da lontano. Però fa di mestiero di ben risolversi a tempo. Chi tempo aspetta, tempo perde. S’io aspetto il tempo, il tempo non aspettarà me. Bisogna che ci serviamo di fatti altrui, mentre par che quelli abbian bisogno di noi. Piglia la caccia3 mentre ti siegue, e non aspettar che ella ti fugga. Mal potrà prendere l’ucel che vola, chi non sa mantener quello ch’ha in gabbia. Benché costui abbia poco cervello e mala schena, ha però la buona borsa: del primo suo danno4, del secondo mal non m’accade, del terzo se ne de’ far conto. I savi vivono per i pazzi, ed i pazzi per i savii. Si tutti fussero signori, non sarebbono signori: cossí, se tutti saggi, non sarebbono saggi, e se tutti pazzi, non sarebbono pazzi. Il mondo sta bene come sta. – Or, torniamo a proposito, Porzia5: conviene, a chi è bella per la gioventú, che sii saggia per la vecchiaia. Altro n’abbiamo6 l’inverno che quel che raccolsemo l’estade. Or, facciamo di modo che quest’ucello con sue piume oltre non passa. Ecco Sanguino.

SCENA QUINTA

Sanguino, s[ignora] Vittoria

[SANGUINO] Basovi1 quelle bellissime ginocchia e piedi, signora Porzia mia dolcissima, saporitissima piú che zucchero, cannella e senzeverata2. O ben mio, si non fussemo in piazza, non mi terrebono le catene di Santo Leonardo3, ch’io non ti piantasse un bacio a quelle labbra che mi fan morire.

VITTORIA Che portate di novo, Sanguino?

SANGUINO M[esser] Bonifacio ve si raccomanda; ed io vel raccomando cossí, come i buoni padri raccomandano i lor putti a’ maestri: i[dest] che, se egli non è saggio, lo castigate ben bene, e, se volete uno che sappia e possa tenerlo a cavallo, servitevi di me.

VITTORIA Ah ah ah, che volete dir per questo?

SANGUINO Non l’intendete? non sapete quel ch’io voglio dire? siete tanto semplicetta voi?

VITTORIA Io non ho queste malizie che voi avete.

SANGUINO Se non avete di queste malizie, avete di quelle e di quelle e di quell’altre; e se non sete fina, come posso esser io, sete come può essere un altro. Or, lasciamo queste parole da vento: vengamo al fatto nostro. – Era un tempo che il leone e l’asino erano compagni; ed andando insieme in peregrinaggio, convennero che, al passar de’ fiumi, si tranassero a vicenna4: com’è dire, che una volta l’asino portasse sopra il leone, ed un’altra volta il leone portasse l’asino. Avendono, dunque, ad andar a Roma, e, non essendo a lor serviggio né scafa5 né ponte, gionti al fiume Garigliano, l’asino si tolse il leone sopra: il quale natando verso l’altra riva, il leon, per tema di cascare, sempre piú e piú gli piantava l’unghie ne la pelle, di sorte che a quel povero animale gli penetrorno in sin all’ossa. Ed il miserello, come quel che fa professione di pazienza, passò al meglio che poté, senza far motto. Se non che, gionti a salvamento fuor de l’acqua, si scrollò un poco il dorso, e si svoltò la schena tre o quattro volte per l’arena calda, e passoron oltre. Otto giorni dopo, al ritornare che fecero, era il dovero che il leone portasse l’asino. Il quale, essendogli sopra, per non cascar ne l’acqua co i denti afferrò la cervice del leone: e ciò non bastando per tenerlo su, gli cacciò il suo strumento, – o, come vogliam dire, il…, tu m’intendi, – per parlar onestamente, al vacuo, sotto la coda, dove manca la pelle: di maniera ch’il leone sentí maggior angoscia che sentir possa donna che sia nelle pene del parto, gridando: «Olà, olà, oi, oi, oi, oimè! olà, traditore!» A cui rispose l’asino, in volto severo e grave tuono: «Pazienza, fratel mio: vedi ch’io non ho altr’unghia che questa d’attaccarmi». E cossí fu necessario ch’il leone suffrisse ed indurasse6, sin che fusse passato il fiume. – A proposito: «Omnio rero vecissitudo este»7; e nisciuno è tanto grosso asino, che qualche volta, venendogli a proposito, non si serva de l’occasione. Alcuni giorni fa, m[esser] Bonifacio rimase contristato di certo tratto ch’io gli feci; oggi, allora ch’io credevo che si fusse desmenticato, me l’ha fatta peggio che non la fece l’asino al lione; ma io non voglio che la cosa rimagna cqua.

VITTORIA Che vi ha egli fatto? che volete voi fargli?

SANGUINO Ve dirò. Oh, veggio compagni che vengono: retiriamoci e parleremo a bell’aggio.

VITTORIA Voi dite bene: andiamo in nostra casa, ché voglio saper de cose da voi.

SANGUINO Andiamo, andiamo.

SCENA SESTA

Lucia, Barra

LUCIA Starnuti di cornacchia, piè d’ostreca ed ova di liompardo1.

BARRA Ah ah ah, il suo marito era ad attizzar la fornace, a lavorar piú dentro; ed io lavoravo co lei a la prima camera.

LUCIA Che lavor è il vostro.

BARRA Il giuoco de zingani2: e che l’è fuori e che l’è dentro; e se volete intendere il successo per ordine, credo che riderete.

LUCIA Di grazia, fatemi ridere, ch’io n’ho gran voglia.

BARRA Questa vecchiazza barba di cocchiara3, richiesta da me si me voleva fare quel piacere, mi rispose: «No, no no no…»

LUCIA O gaglioffo, dunque tu vai subvertendo4 le povere donnecciole e svergognando i parentadi?

BARRA Tu hai il diavolo in testa: chi ti parla di questo? è forse una sorte5 di piacere che possono far le donne a gli uomini?

LUCIA Or sequita.

BARRA Si lei avesse detto una volta: no, io non arrei piú parlato, facendo rimaner la cosa cossí, llí; ma perché disse piú de dodici volte: no, no no, non non, non, none, none, none, nani, nani, none: – cazzo! – dissi intra di me, – costei ne vuole; al sangue de suberi6 di pianelle vecchissime7, che in questo viaggio passeremo qualche fiume8. – Poi, riprendo, i[dest] ripiglio il sermone, facendomegli udire in questa foggia: – O faccia di oro fino ed occhii di diamante, tu vuoi farmi morire, anh?

LUCIA E poi dice la bestia che non intendeva di quella facenda.

BARRA Tu, Lucia, mi vuoi far rinegare! non ti puoi imaginare piú di una sorte, con la quale le donne possono far morire gli uomini?

LUCIA Passa oltre. Ella che rispose a questo?

BARRA Ed ella rispose: «Va’ via, va’ via, via, via, via, via, via, via, via, mal uomo». Si lei avesse detto, una volta: va’ via; forse io arei smaltito di quella sicurtà che gli tanti: non, non, mi aveano data. Ma perché, ripigliando due volte il fiato, disse piú di quindeci volte: via via; ed io ho udito dire da mastro Manfurio che le due negazione affermano, e molto piú le tre, come veggiamo per isperienza: – dunque, – dissi io intra me stesso, – costei vuol dansare a tre piè9; e forsi che io gli piantarò un’altra gamba tra le due, acciò possa ancor meglio correre.

LUCIA Or, adesso ti ho.

BARRA Hai il mal’an che Dio ti dia! – perdonami, si t’offendo: – s’io te dico che non vuoi pigliar si non a mala parte quel che ti dico.

LUCIA Ah ah ah, sequita, ch’io voglio tacere sin a l’ultima conclusione. E tu che gli dicesti?

BARRA Allor io, con una bocca piccolina, me gli feci udire in questo tenore: – Dunque, cor mio, tu vuoi ch’io mora? e perché vuoi ch’io mora, perché ti amo? che farai, dunque, ad un che t’odia, o vita mia? eccoti il coltello: uccidemi con tua mano, ché certo certo morirò contento.

LUCIA Ah oh ah, e lei?

BARRA «Gaglioffo, disonesto, ricercatore10, cubiculario11. Dirò al padre mio spirituale, che tu mi hai fascinata. Ma tu, con tutte le tue paroli, non bastarai giamai di farmeti consentire; né, con tutte tue forze, giamai verrai a quell’effetto che ti pensi: e s’il provassi, tel farei vedere certissimo. Credi tu, per esser maschio, di aver piú forza di me? Cagnazzo traditore, s’io avesse un pugnale, adesso ti ucciderei, che non vi è testimonio alcuno, né persona che ci vegga». S’io avesse avuta la testa piú grossa di quella di S. Sparagorio12, o s’io fusse stato il piú gran tamburro del mondo, la dovevo intendere: il tamburro pure, quando è toccato, suona…

LUCIA Or, dunque, che suono facesti tu?

BARRA Andiamo dentro, che tel farò vedere.

LUCIA Dite, dite pure, perché dentro non si vede.

BARRA Andiamo, andiamo, che batteremo tanto il fucile, che allumaremo questa candela che sempre porto dentro le brache per le occorrenze.

LUCIA Allumar la possa il fuoco di Santo Antonio!13.

BARRA È da temer piú di deluvio d’acqua che di fuoco!

LUCIA Lasciamo questi propositi. Ella che si monstrava tanto ritrosa e tanto gagliarda, che fece? come ve ha resistito?

BARRA Oimè, ch’a la poverina tutta la forza gli andò a dietro via14. Parsemi veder la mula d’Alcionio15, ché, s’ell’avesse avuto al cui la briglia, arebbe fatto il giorno cento miglia16. Il conto di costei mi par simile a quel d’un’altra che spunzonava17 don Nicola: alla quale don Nicola disse: «Si tu mi spontoneggi18 un’altra volta, tel farò»; ed ella: «Ecco, ti spontoneggio un’altra volta, or che potrai far tu? che pensi di far adesso, don Nicola? chi è uomo da nulla piú di te? Ecco, ti spontoneggio un’altra volta, or che mi farai tu? O caro don Nicola, non potrai muovere un sassolino, s’io non voglio». Or dimmi, Lucia, che dovea far quel povero don Nicola che molti giorni fa non avea celebrato19? Il buon omo di don Nicola dovenne a tale, che non so che vena se gli ruppe.

LUCIA Ah ah, voi siete fino. Lasciatemi andar a rendere certa risposta a misser Bonifacio, ché son pur troppo dimorata a sentir le tue ciancie.

BARRA Andate via, ch’io ancor ho da parlar con questo giovane che viene.

SCENA SETTIMA

Pollula, Barra

POLLULA A dio, m[esser] Barra.

BARRA Ben venuto, cor mio, onde venite, dov’andate?

POLLULA Vo cercando m[esser] Bonifacio, per donargli questa carta.

BARRA Che cosa l’è, si può vedere?

POLLULA Non è cosa ch’io possa tener ascosta a voi. È una epistola amatoria, la quale maestro Manfurio gli ha composta, che lui vuole inviare non so a chi sua inamorata.

BARRA Ah ah ah, alla signora Vittoria! Veggiamo che cosa contiene.

POLLULA Leggete voi, toh.

BARRA Bonifacius Luccus1 D. Vittoria Blancae S. P. D.2 «Quando il rutilante Febo scuote dall’oriente il radiante capo, non sí bello in questo superno emisfero appare, come alla mia concupiscibile3 il tuo exilarante4 volto, tra tutte l’altre belle pulcherrima signora Vittoria;…» – Che ti ho detto io? non ho io divinato?

POLLULA Leggete pur oltre.

BARRA «…laonde maraviglia non fia, né sii anco veruno che, inarcando le ciglia, la rugosa fronte increspi, – nemo scilicet miretur, nemini dubium sit…»5 – Che diavolo di modo di parlar a donne è questo? lei non intende parlare per gramatico6, ah ah…

POLLULA Eh, di grazia, sequite.

BARRA «…nemini dubium sit, si l’arcifero puerulo7 con quell’arco medesmo, la di cui piaga ha sentito lo in varie forme cangiato gran monarca Giove, – Divum pater atque hominum rex8, – hammi negli precordii penetrato con del suo quadrello9 la punta, il vostro gentilissimo nome indelebilmente con quella sculpendovi. Però, per le onde stigie, – giuramento a i Celicoli inviolando…»10, – Vada in bordello questo becco pedante, con le sue cifre11; e questo grosso modorro12 che potrà donar ad intendere con questa lettera? Bonifacio vuol far del dotto; e lei non crederà che sii cosa sua. Oltre che, mi par una dotta coglioneria quel che cqui si contiene. Toh, io ne ho letto pur troppo, non ne voglio veder piú. Si costui non ave altro battiporta13 che questa pistola, non ce l’attacca questa settimana.

POLLULA Cossí credo io: le donne voglion lettere rotonde.

BARRA Ideste de gli carlini14, e vogliono il ritratto de lo Re15. Andiamo avanti, ché voglio dirti un poco a lungo; e questo negocio lo farai dopoi.

POLLULA Andiamo.

Fine dell’atto II.