SCENA PRIMA
Bartolomeo, solo
Chi è stato quel gran bestia da campana1, che si tira a presso un armento cossí grande? Mentre comunmente si va considerando dove consista la virtú2 delle cose, fanno quella divisione: in verbis, in herbis et in lapidibus3. Oh, che gli vada il mal di S. Lazaro4, e tutto quello che non vorrei per me! Perché, prima che dichino queste tre cosaccie, non dicono i metalli? Li metalli, come oro ed argento, sono il fonte de ogni cosa: questi, questi apportano parole, erbe, pietre, lino, lana, seta, frutti, frumento, vino, oglio; ed ogni cosa sopra la terra desiderabile da questi si cava: questi dico talmente necessarii, che, senza essi, cosa nisciuna di quelle si accapa5 o si possede. Però l’oro è detto materia del sole, e l’argento la luna: perché, togli questi dui pianeti dal cielo, dove è la generazione delle cose? dove è il lume dell’universo? Togli questi dui de la terra, dove è la participazione, possessione e fruizione di quelle? Però quanto arebbe meglio fatto, quel primo animale, di porre in bocca al volgo quell’un solo soggetto di virtú, che tutti quelli altri tre senza quest’uno; se per ciò non è stato introdutto6, a fin che non tutti intendano e possedano quel che io intendo e possedo. Erbe, parole e pietre son materia di virtú a presso certi filosofi matti ed insensati, li quali, odiati da Dio, dalla natura e dalla fortuna, si vedono morir di fame, lagnarsi senza un poverello quattrino in borsa; per temprar il tossico dell’invidia ch’hanno verso pecuniosi7, biasmano l’oro, argento e possessori di quello. Poi quando mi accorgo, ecco che tutti questi vanno come cagnoli per le tavole de’ ricchi: veramente cani che non sanno con altro che col baiare8 acquistars’il pane. Dove? a tavole di ricchi, di que’ stolti, dico, che per quattro paroli a sproposito da quelli dette con certe ciglia irsute, occhi attoniti ed atto di maraviglia, si fanno cavar il pan di cascia9 e danari dalle borse; e gli fanno conchiudere con verità che «in verbis sunt virtutes»10. Ma starebon ben freschi, si dal canto mio aspectassero effetto de le lor ciancie; atteso che non so ripascere d’altro che di quelle medesme, chi mi pasce di parole. Or facciano conto di erbe le bestie, di pietre gli matti e di paroli gli saltainbanco, ch’io per me non fo conto d’altro che di quello per cui si fa conto d’ogni cosa. Il danaio contiene tutte l’altre quattro11: a chi manca il danaio, non solo mancano pietre, erbe e parole, ma l’aria, la terra, l’acqua, il fuoco e la vita istessa. Questo dà la vita temporale e la eterna ancora, sapendosene servire, con farne limosina; la quale pure si deve far con gran discrezione, e, non senza saper il conto tuo, devi privar la borsa dell’anima sua12: però dice il saggio: «Si bene feceris, vide cui»13. Ma in questa teorica non vi è guadagno. – Ho inteso che è ordine nel Regno che gli carlini di vint’uno non vagliano piú di vinti tornesi14; io voglio andar prima che si publichi l’editto a cambiar i tre che mi trovo: interim15, il mio garzone tornarà da prendere il pulvis Christi.
SCENA SECONDA
M[esser] Bonifacio, m[esser] Bartolomeo, Lucia
BONIFACIO Olà, m[esser] Bartolomeo, ascolta due paroli: dove in fretta? mi fuggi, ah?
BARTOLOMEO A dio, a dio, M[esser] poco pensiero: ho assai meglio da far, che di cianciar co gli vostri amori.
BONIFACIO Ah ah, ah, andate, dunque, procuriate per quell’altra vostra…, che vi fa morire.
LUCIA Che motteggiamenti son questi vostri? sa egli che siete inamorato?
BONIFACIO Sa il mal an che Dio li dia! è perché mi vede conversar con voi. Or, al fatto nostro: che cosa dice la mia dolcissima signora Vittoria?
LUCIA La povera Signora, per necessità nella quale si trova, ave impegnato un diamante e quel suo bel smeraldo.
BONIFACIO O diavolo, o che fortuna!
LUCIA Credo che li sarebbe cosa gratissima, si gli le facessivo ricuperare. Non stanno per piú che per diece scudi.
BONIFACIO Basta, basta: farò, farò.
LUCIA Il presto è il meglio.
BONIFACIO Oh, oh, perdonami, Lucia, a rivederci: non posso darvi risoluzione alcuna, adesso. Ecco un mio amico col quale ho da negociar cose d’importanza. A dio, a dio.
LUCIA A dio.
SCENA TERZA
Ascanio, Scaramuré, Bonifacio
ASCANIO Oh, ecco m[esser] Bonifacio mio padrone. Misser, siamo cqui con il Signor eccellentissimo e dottissimo, il signor Scaramuré.
BONIFACIO Ben venuti. Avete dato ordine alla cosa? è tempo di far nulla?
SCARAMURÉ Come nulla? ecco cqui la imagine di cera vergine, fatta in suo nome; ecco cqui le cinque aguglie1 che gli devi piantar in cinque parti della persona. Questa particulare, piú grande che le altre, li pungerà la sinistra mammella: guarda di profondare troppo dentro, perché fareste morir la paziente.
BONIFACIO Me ne guardarò bene.
SCARAMURÉ Ecco, ve la dono in mano; non fate che da ora avanti la tenga altro che voi. Voi, Ascanio, siate secreto; non fate che altra persona sappia questi negocii.
BONIFACIO. Io non dubito di lui: tra noi passano negocii piú secreti di questo.
SCARAMURÉ Sta bene. Farete, dunque, far il fuoco ad Ascanio di legne di pigna o di oliva o di lauro, si non possete farlo di tutte tre materie insieme. Poi2 arrete d’incenso alcunamente esorcizato o incantato, co la destra mano lo gettarete al fuoco; direte tre volte: «Aurum thus»3; e cossí verrete ad incensare e fumigare la presente imagine, la qual prendendo in mano direte tre volte: «Sine quo nihil»4; oscitarete5 tre volte co gli occhii chiusi, e poi, a poco a poco, svoltando verso il caldo del fuoco la presente imagine, – guarda che non si liquefaccia, perché morrebbe la paziente,… –
BONIFACIO Me ne guardarò bene.
SCARAMURÉ …la farrete tornare al medesimo lato tre volte, insieme insieme tre volte dicendo: «Zalarath Zhalaphar nectere vincula: Caphure, Mirion, sarcha Vittoriae»6, come sta notato in questa cartolina7. Poi, mettendovi al contrario sito del fuoco verso l’occidente, svoltando la imagine con la medesma forma, quale è detta, dirrete pian piano: «Felapthon disamis festino barocco daraphti. Celantes dabitis fapesmo frises omorum»8. Il che tutto avendo fatto e detto, lasciate ch’il fuoco si estingua da per lui; e locarrete9 la figura in luoco secreto, e che non sii sordido, ma onorevole ed odorifero.
BONIFACIO Farrò cossí a punto.
SCARAMURÉ Sí, ma bisogna ricordarsi ch’ho spesi cinque scudi alle cose che concorreno al far della imagine.
BONIFACIO Oh, ecco, li sborso. Avete speso troppo.
SCARAMURÉ E bisogna ricordarvi di me.
BONIFACIO Eccovi questo per ora; e poi farò di vantaggio assai, si questa cosa verrà a perfezione.
SCARAMURÉ Pazienza! Avertite, m[esser] Bonifacio, che, si voi non la spalmarete bene, la barca correrà malamente.
BONIFACIO Non intendo.
SCARAMURÉ Vuol dire che bisogna onger10 ben bene la mano: non sapete?
BONIFACIO In nome del diavolo, io procedo per via d’incanti, per non aver occasione di pagar troppo! Incanti e contanti.
SCARAMURÉ Non induggiate. Andate presto a far quel che vi è ordinato, perché Venere è circa l’ultimo grado di Pesci; fate che non scorra mezza ora, ché son trenta minuti di Ariete.
BONIFACIO A dio, dunque. Andiamo, Ascanio. Cancaro a Venere, e…11.
SCARAMURÉ Presto, a la buon’ora, caldamente!
[SCENA QUARTA]
Scaramuré, solo
Assai è di aver cavati sette scudi da le mani di questa piattola. Sempre si deve da simil gente cavar il conto suo col pretesto della spesa che concorre nella confezione del secreto. Ecco che, per mia fatica, non m’arrebbe dato piú d’un par di scudi, per adesso; a complir poi del resto1, nel giorno di S. Maria delle Catenelle2, la quale sarà l’ottava del giorno del Giudizio3.
SCENA [QUINTA]
Lucia, Scaramuré
LUCIA Dove mal viaggio è andato costui? mi castroneggia un castrone1: aspettavo da lui una certa risoluzione.
SCARAMURÉ O a dio, Lucia, dove, dove?
LUCIA Cerco m[esser] Bonifacio che ora ho lasciato con voi: credevo che mi aspettasse cqua.
SCARAMURÉ Che volete da lui?
LUCIA Per dirvela come ad un amico, la signora Vittoria gli manda a chieder di danari.
SCARAMURÉ Ah ah, io so, io so. Adesso la scaldarà e gli darrà de l’incenso: de danari ne ha dati a me, per non aver occasione di darne a lei.
LUCIA Come diavolo può esser questo?
SCARAMURÉ La signora Vittoria dimanda troppo, e lui, con mezza duzena di scudi, se la vuole attaccare a chiave ed a catene.
LUCIA Ditemi, come passa la cosa?
SCARAMURÉ Andiamo insieme a trovar la signora Vittoria; e raggionaremo con lei ed ordinaremo qualche bella matassa, a fin che io rimanghi col credito con questo babuino2, e facciamo qualche bella comedia.
LUCIA Voi dite bene, massime che non è bene di raggionar cqui. Veggo venir di gente.
SCARAMURÉ Ecco il Magister: leviamoci da cqua.
SCENA [SESTA]
Manfurio, Scaramuré, Pollula
MANFURIO Adesdum, paucis te volo1, domine Scaramuree.
SCARAMURÉ Dictum puta2: a rivederci un’altra volta, quando arrò poche facende.
MANFURIO O bel responso! Or, mio Pollula, ut eo redeat unde egressa est oratio3, ti stupirrai, uhi!
POLLULA Volete che le legga io?
MANFURIO Minime, perché non facendo il punto secondo la raggione4 de’ periodi, e non proferendoli con quella energia che requireno, verrete a digradirli5 dalla sua maestà e grandezza: per il che disse il prencipe di greci oratori, Demostene: «la precipua parte dell’oratore essere la pronunciazione». Or, odi: arrige aures, Pamphile6.
Uomo di rude e di crassa Minerva7,
Mente offuscata, ignoranza proterva,
Di nulla lezion, di nulla fruge8,
In cui Pallad’ed ogni Musa lugge9;
Lusco10 intellecto ed obcecato11 ingegno,
Bacellone di cinque12, uomo di legno,
Tronco discorso13, industria tenebrosa,
Volatile nocturna, a tutti exosa14,
Perché non vait’a ascondere,
O della terra madre inutil pondere15?
Giudizio inepto, perturbato senso,
Tenebra obscura e lusca, Erebo denso16,
Asello17 auriculato18, indocto al tutto,
In nullo ludo litterario instructo;
Di fave cocchiaron19, gran maccarone20
Ch’a l’oglio fusti posto a infusione;
Cogitato disperso21, astimo losco22,
Absorpto fium leteo23, Averno fosco24,
Tu di tenelli unguicoli e inacunabili25
L’inezia26 hai protacta insin al senio27
Inmaturo pensier, fantasia perdita28,
Intender vacillante, attenzion sperdita29;
Illiterato ed indisciplinato,
In cecità educato,
Privo di proprio Marte, inerudito30,
Di crassizie imbibito31,
Senza veder, di nulla apprensione,
Bestia irrazional, grosso mandrone32,
D’ogni lum privo, d’ignoranza figlio,
Povero d’argumento e di consiglio.
Vedeste simili decade33 giamai? Altri fan di quattrini34, altri di sextine, altri di octave; mio è il numero perfecto, idest, videlicet, scilicet, nempe, utpote, ut puta35, denario, authore Pythagora, atque Platone. Ma chi è cotesto vel cotello36 properante37 ver noi?
POLLULA Gio. Bernardo pittore.
SCENA [SETTIMA]
Manfurio, Gio. Bernardo, Pollula
MANFURIO Bene veniat ille1 a cui non men convien nomenclatura della ribombante fama dalla tromba, che a Zeusi, Apelle, Fidia, Timagora e Polignoto2.
GIO. BERNARDO Di quanto avete proferito, non intendo altro che quel pignato3 ch’avete detto al fine. Credo che questo insieme col bocale4 vi fa parlar di varie lingue5. S’io avesse cenato, ti risponderei.
MANFURIO Il vino exilara ed il pane confirma.
«Bacchus et alma Ceres, vestro si munere tellus
Chaoniam pingui glandem mutavit arista»6:
disse Publio Virgilio Marone, poeta mantuano, nel suo libro della Georgica primo, verso il principio, facendo, more poetico7, la invocazione: dove imita Exiodo, attico poeta e vate.
GIO. BERNARDO Sapete, domine Magister…?
MANFURIO Hoc est magis ter, tre volte maggiore8:
«Pauci, quos aequus amavit
Iuppiter, aut ardens evexit in aethera virtus9».
GIO. BERNARDO Quello che voglio dir è questo: vorrei sapere da voi che vuol dir: pedante.
MANFURIO Lubentissime10 voglio dirvelo, insegnarvelo, declararvelo, exporvelo, propalarvelo, palam farvelo11, insinuarvelo, et, – particula coniunctiva in ultima dictione apposita12, – enuclearvelo13; sicut, ut, velut, veluti, quemadmodum nucem ovidianam meis coram discipulis, – quo melius nucleum eius edere possint, – enucleavi14. Pedante vuol dire quasi pede ante: utpote quia ave lo incesso prosequitivo15, col quale fa andare avanti gli erudiendi puberi; vel per strictiorem arctioremque aethymologiam: Pe, perfectos, – Dan, dans, – Te, thesauros16. – Or che dite de le ambedue?
GIO. BERNARDO Son buone; ma a me non piace né l’una né l’altra, né mi par a proposito.
MANFURIO Cotesto vi è a dirlo lecito, alia meliore in medium prolata17, idest quando arrete apportatane un’altra vie piú degna.
GIO. BERNARDO Eccovela: Pe pecorone, – Dan, da nulla, – Te, testa d’asino.
MANFURIO Disse Catone seniore: «Nil mentire, et nihil temere credideris»18.
GIO. BERNARDO Hoc est, id est, chi dice il contrario, ne mente per la gola.
MANFURIO Vade, vade:
«Contra verbosos, verbis contendere noli19.
Verbosos contra, noli contendere verbis.
Verbis verbosos noli contendere contra».
GIO. BERNARDO Io dono al diavolo quanti pedanti sono!… Resta con cento mila di quelli angeli de la faccia cotta20!
MANFURIO Menateli pur, come socii vostri, vosco21! – U’ siete voi, Pollula? Pollula, che dite? vedete che nefando, abominando, turbulento e portentoso seculo?
«[Questo] secol noioso in cui mi trovo,
Voto [è] d’ogni valor, pien d’ogni orgoglio»22.
Ma properiamo23 verso il domicilio, poscia che voglio oltre exercitarvi in que’ adverbii locali, motu de loco, ad locum et per locum: Ad, apud, ante, adversum vel adversus, cis, citra, contra, erga, infra, in retro, ante, coram, a tergo, intus et extra.
POLLULA Io le so tutti, e li tegno ne la mente.
MANFURIO Questa lectione bisogna saepius reiterarla et in memoriam revocarla: lecito repetita placebit24.
«Gutta cavat lapidem non [bis], sed saepe cadendo:
Sic homo fit sapiens bis non, sed saepe legendo»25.
POLLULA Vostra Excellenzia vada avanti, ch’io vi seguirrò a presso.
MANFURIO Cossí si fa in foro et in platea26: quando siamo in privatis aedibus27, queste urbanità, observanze e cerimonie non bisognano.
SCENA [OTTAVA]
Barra, Marca
MARCA O vedi il mastro Manfurio che sen va?
BARRA Lascialo col diavolo! Seguita il proposito incominciato: fermamoci cqua.
MARCA Or dunque, ier sera, all’osteria del Cerriglio1, dopo che ebbemo benissimo mangiato, sin tanto che non avendo lo tavernaio del bisogno, lo mandaimo a procacciare altrove per fusticelli2, cocozzate3, cotugnate4 ed altre bagattelle da passar il tempo. Dopo che non sapevamo che piú dimandare, un di nostri compagni finse non so che debilità5; e l’oste essendo corso con l’aceto, io dissi: «Non ti vergogni, uomo da poco! camina, prendi dell’acqua namfa6, di fiori di cetrangoli7, e porta della malvasia di Candia»8. Allora il tavernaio non so che si rinegasse9 egli, e poi comincia a cridare, dicendo: «In nome del diavolo, sete voi marchesi o duchi? sete voi persone di aver speso quel che avete speso? Non so come la farremo al far del conto. Questo che dimandate, non è cosa da osteria». «Furfante, ladro, mariolo», dissi io, «pensi ad aver a far con pari tuoi? tu sei un becco cornuto, svergognato». «Hai mentito per cento canne»: disse lui. Allora, tutti insieme, per nostro onore, ci alzaimo di tavola, ed acciaffaimo10, ciascuno, un spedo di que’ piú grandi, lunghi da diece palmi…
BARRA Buon principio, messere.
MARCA …li quali ancor aveano la provisione11 infilzata; ed il tavernaio corre a prendere un partesanone12; e dui di suoi servitori due spadi rugginenti13. Noi, benché fussimo sei con sei spedi piú grandi che non era la partesana, presimo delle caldaia, per servirne per scudi e rotelle…
BARRA Saviamente.
MARCA … Alcuni si puosero certi lavezzi14 di bronzo in testa per elmetto over celata…
BARRA Questa fu certo qualche costellazione che puose in esaltazione i lavezzi, padelle e le caldaie15.
MARCA … E cossí bene armati, reculando, ne andavamo defendendo e retirandoci per le scale in giú, verso la porta, benché facessimo finta di farci avanti…
BARRA «Bel combattere! un passo avanti e dui a dietro, un passo avanti e dui a dietro»: disse il signor Cesare da Siena16.
MARCA … Il tavernaio, quando ci vedde molto piú forti, e timidi piú del dovero, in loco di gloriarsi, come quel che si portava valentemente, entrò in non so che suspizione:…
BARRA Ci sarebbe entrato Scazzolla17.
MARCA …per il che, buttata la partesana in terra, comandò a sua servitori che si retirassero, ché non volea di noi vendetta alcuna…
BARRA Buon’anima da canonizzare.
MARCA E voltato a noi disse: «Signori gentil’omini, perdonatime, io non voglio offendervi da dovero! di grazia, pagatemi ed andiate con Dio!»
BARRA Allor sarrebbe stata bene qualche penitenza con l’assoluzione.
MARCA «Tu ci voi uccidere, traditore»: dissi io; e con questo puosemo i piedi fuor de la porta. Allora l’oste desperato, accorgendosi che non accettavamo la sua cortesia e devozione, riprese il partesanone, chiamando aggiuto18 di servi, figli e moglie. Bel sentire! l’oste cridava: «Pagatemi, pagatemi»; gli altri stridevano: «A’ marioli, a’ marioli; ah, ladri traditori!» Con tutto ciò, nisciun fu tanto pazzo che ne corresse a dietro, perché l’oscurità della notte fauriva piú noi che altro. Noi, dunque, temendo il sdegno ostile, idest de l’oste, fuggivimo19 ad una stanza apresso li Carmini 20, dove, per conto fatto, abbiamo ancor da farne le spese per tre giorni.
BARRA Far burla ad osti è far sacrificio a Nostro Signore; rubbare un tavernaio è far una limosina; in batterlo bene consiste il merito di cavar un’anima di purgatorio! – Dimmi, avete saputo poi quel che seguitò nell’ostaria?
MARCA Concorsero molti, de quali altri pigliandosi spasso altri attristandosi, altri piangendo altri ridendo, questi consigliando quelli sperando, altri facendo un viso altri un altro, altri questo linguaggio ed altri quello: era veder insieme comedia e tragedia, e chi sonava a gloria e chi a mortoro. Di sorte che, chi volesse vedere come sta fatto il mondo, derebbe desiderare d’esservi stato presente.
BARRA Veramente la fu buona. – Ma io che non so tanto di rettorica, solo soletto, senza compagnia, l’altr’ieri, venendo da Nola per Pumigliano21, dopoi ch’ebbi mangiato, non avendo tropo buona fantasia di pagare, dissi al tavernaio: «Messer osto, vorrei giocare». «A qual gioco», disse lui, «volemo giocare? cqua ho de tarocchi». Risposi: «A questo maldetto gioco non posso vencere, perché ho una pessima memoria». Disse lui: «Ho di carte ordinarie». Risposi: «Saranno forse segnate, che voi le conoscerete. Avetele che non siino state ancor adoperate?» Lui rispose de non. «Dunque, pensiamo ad altro gioco». «Ho le tavole22, sai?» «Di queste non so nulla». «Ho de scacchi, sai?» «Questo gioco mi farebbe rinegar Cristo». Allora, gli venne il senapo in testa23: «A qual, dunque, diavolo di gioco vorrai giocar tu? proponi». Dico io: «A stracquare24 a pall’e maglio»25. Disse egli: «Come, a pall’e maglio? vedi tu cqua tali ordegni? vedi luoco da posservi giocare?» Dissi: «A la mirella?»26 «Questo è gioco da fachini, bifolchi e guardaporci». «A cinque dadi?»27. «Che diavolo di cinque dadi? mai udivi di tal gioco. Si vuoi, giocamo a tre dadi»28. Io gli dissi, che a tre dadi non posso aver sorte. «Al nome di cinquantamila diavoli», disse lui, «si vuoi giocare, proponi un gioco che possiamo farlo e voi ed io». Gli dissi: «Giocamo a spaccastrommola»29. «Va’», disse lui, «ché tu mi dai la baia: questo è gioco da putti, non ti vergogni?» «Or su, dunque», dissi, «giocamo a correre». «Or, questa è falsa»: disse lui. Ed io soggionsi: «Al sangue dell’Intemerata30, che giocarai!» «Vuoi far bene», disse, «pagami; e si non vuoi andar con Dio, va’ col prior de’ diavoli!» Io dissi: «Al sangue delle scrofole, che giocarai!» «E che31 non gioco?» diceva. «E che giochi?» dicevo. «E che mai mai vi giocai?» «E che vi giocarrai adesso?» «E che non voglio?» «E che vorrai?» In conclusione, comincio io a pagarlo co le calcagne, ideste a correre; ed ecco, quel porco che poco fa diceva che non volea giocare, e giurò che non volea giocare, e giurò che non volea giocare, e giocò lui, e giocorno dui altri suoi guattari32: di sorte che, per un pezzo correndomi a presso, mi arrivorno e giunsero…, co le voci. Poi, ti giuro, per la tremenda piaga di S. Rocco33, che né io l’ho piú uditi, né essi mi hanno piú visto.
MARCA Veggio venir Sanguino e m[esser] Scaramuré.
SCENA [NONA]
Sanguino, Barra, Marca, Scaramuré
SANGUINO A punto voi io andavo cercando. Siamo per fare di bei tratti questa sera, e non saranno senza qualche nostro profitto, o spasso almeno. Io mi voglio vestire da capitan Palma: voi, insieme con Corcovizzo, mostrarete di esser birri; staremo alla posta, cqui vicino, ché spero che questa sera attraparemo1 m[esser] Bonifacio, all’uscita o entrata che farà dalla stanza della s[ignora] Vittoria, e faremo piacere alla Signora ed utile a noi.
BARRA E ci prenderemo mille spassi.
MARCA Sí, alla fé, e può essere che ci possano occorrere altre belle occasioni.
BARRA Facende non ci mancaranno.
SCARAMURÉ Quanto al fatto di m[esser] Bonifacio, sarrò io che verrò, come a caso, ad accomodarlo, con far che vi doni qualche cortesia, a fin che lo lasciate, e non menarlo in Vicaria2, priggione3.
SANGUINO Questo pensiero non è de’ peggiori del mondo. Venete, dunque, quanto prima, perché daremo una volta4; e vi aspettaremo in casa della s[ignora] Vittoria.
BARRA Andate in buon’ora.
SCENA [DECIMA]
Barra, Marca
BARRA Al sangue de mi…1, che non è poca comodità di venir a qualche dissegno2 il mostrar di essere birri di notte: saremo tre o quattro, portaremo la insegna della birraria, ideste le verghette in mano, e, quando vedremo la nostra3, farremo.
MARCA Ah, per S. Quintino! ecco a punto Corcovizzo che viene.
BARRA Ma chi è quel che va con lui?
MARCA Mi par mastro Manfurio.
BARRA Egli è desso. Presto, discostiamoci un po’ da cqui, ché Corcovizzo ne fa segno: credo che stia in procinto di fargli qualche burla.
MARCA Andiamo qui dietro, ché non siam veduti.
SCENA [UNDICESIMA]
Corcovizzo, Manfurio
CORCOVIZZO Voi lo sapete ben che egli è inamorato?
MANFURIO O benissimo! Il suo amor passa per le mie mani: gli ho composta una epistola amatoria, della quale come sua si debba servire, per essere dalla sua amasia admirato e piú istimato.
CORCOVIZZO Or egli, ieri, come fusse un giovane di venticinque anni, andò a proponere a mastro Luca che per oggi gli avesse fatto un par di stivaletti di marrocchino di Spagna, buoni a passeggiar per la città: il che avendo udito il mariolo, è stato oggi a la mira1, quando m[esser] Bonifacio veneva a calzarsi. Or, veggendolo spuntar da Nilo verso la bottega, pian piano se gli accostò senza mantello, sin che con esso lui si fece dentro la bottega. Il quale, per essere venuto gionto a m[esser] Bonifacio, fu stimato servitor suo dal mastro; e perché era senza mantello, mezzo sbracciato, fu stimato da m[esser] Bonifacio lavorante di bottega. Per il che, avendosi da calzar, quel povero messere senza dubbito2 alcuno si lasciò prendere la cappa, fasciata di veluto ed inbottonata3 d’oro, da colui. Il quale, avendosela posta su le due braccia, o come buon valetto di camera, o com’ un de’ lavoranti a cui appartenga la strena4, mentre mastro Luca era occupato ad assestare l’opra sua, e m[esser] Bonifacio curvo su le gambe a farsi ben servire, costui con una bella continenza, or guardando i travi della bottega, or chi passava chi andava chi veneva, or dava una volta e giravasi, sin tanto che, vedendo la sua5, puose un piè fuor de la porta. In conclusione: Cappa cuius generis? ablativi6.
MANFURIO Ah ah ah, dativus a dando, ablativus ab auferendo7: si voi avessivo8 studiato e non fussivo9 idiota10, arestivo un bell’ingenio: credo che avevate Minerva in ascendente11.
CORCOVIZZO Per tornare al proposito, accomodato che fu m[esser] Bonifacio, et avendoli menato la scopetta12 per il dorso mastro Luca, scuotendosi le mani, dimanda la cappa. Risponde mastro Luca: «Il vostro servitor la tiene… Olà, dove sei tu?… S’è fatto fuori per badare…» «Non ho bisogno di cotesti onori e castella»13: disse m[esser] Bonifacio; «dite pur che è vostro lavorante». «Per Santa Maria del Carmelo, che mai lo viddi!» disse mastro Luca. E che è cossí, e che è colà: considerate che bel vedere è stato di m[esser] Bonifacio, co i stivaletti nuovi, che s’ha fatto rubbar la bella cappa. Or mai, non si può piú vivere per14 tanti poltroni, marioli, tagliaborse.
MANFURIO Gran miseria ed infelice condizione sotto questo campano clima, il cui celeste periodo subest Mercurio15, il qual è detto nume e dio de furi16. Però, amico mio, sta’ in cervello per la borsa.
CORCOVIZZO Io, per me, porto i danari cqui, sotto l’ascella, vedete.
MANFURIO Ed io la mia giornea17 non la porto a la schena né al fianco, ma sopra l’inguine o ver sotto il pectine18, poscia19 cossí si fa in terra di ladri.
CORCOVIZZO Domino Magister, ben veggio che siete sapientissimo, e non senza gran profitto avete studiato.
MANFURIO Hoc non latet il mio Mecenate di cui li pueruli ego erudio, idest extra ruditatem facio, vel e ruditate eruo!20. M’ha egli imposto ch’io vadi a decernere21 del preggio della materia e della structura de gli indumenti di quelli, e liberar la elargienda pecunia22: la quale, come buono23 economico, – Oeconomia est domestica gubernatio,24 – in questa coriacea e vellutacea25 giornea riserbo26.
CORCOVIZZO O lodato sia Dio, signor eccellente Maestro! ho imparato da voi belli consegli e modi di vivere. Fatemi, di grazia, un altro favore d’agiutarmi, ch’io non abbia pensiero di andar a cambiar sei doppioni27 sino a’ Banchi28: si voi avete scudi o altra moneta, io ve li lasciarò. Io sparmiarò29 la fatica del camino, e voi guadagnarete sei grani30.
MANFURIO Io non il fo lucri causa, iuxta illud: «Nihil inde sperando», sed, ma, ex humanitate, et officio, mitto quod eziamdio ego minus oneratus abibo31. Ecco, li numero: tre, dui son cinque; sette e quattro fanno undeci, cinque e quattro son nove, fan vinti carlini; tre, tre, sei, e dui, son otto cianfroni32, fan sei ducati; cinque aurei di Francia33. Ne bisogna suttrarre alquanto.
SCENA [DODICESIMA]
Manfurio, Barra, Marca
MANFURIO Olà, olà, cqua cqua, aggiuto, agiuto! Tenetelo, tenetelo! Al involatore, al surreptore1, al fure, amputator di marsupii ed incisor di crumene2! Tenetelo, ché ne porta via gli miei aurei solari3 con gli argentei!
BARRA Che cosa, che cosa v’ha egli fatto?
MANFURIO Perché lo avete lasciato andare?
BARRA Diceva il poverello: «Mi vuol battere il mio padrone, a me, povero innocente!» Però l’abbiam lasciato, acciò che vi facciate passar la colera prima, perché poi lo potrete castigar a bell’agio, in casa.
MARCA Signor sí, bisogna perdonar qualche volta a’ servitori e non usar sempre de rigore.
MANFURIO Oh, che non è punto mio servo né familiare, ma un ladro che mi ha rubbati diece scudi di mano!
BARRA Può far l’Intemerata4! E voi perché non cridavate: Il mariolo, al mariolo? ché non so che diavolo de linguaggio avete usato.
MANFURIO Questo vocabulo che voi dite, non è latino né etrusco; e però non lo proferiscono di miei pari.
BARRA Perché non cridavate: Al ladro?
MANFURIO Latro è sassinator di strada, in qua, vel ad quam latet5. Fur qui furtim et subdole, come costui mi ha fatto: qui et subreptor dicitur a subtus rapiendo, vel quasi rependo6, perché, sotto specimine7 di uomo da bene, mi ha decepto8. O i miei scudi.
BARRA Or, vedete che avanzate co le vostre lettere, a non voler parlar per volgare. Ma, col vostro latrino e trusco9, credevamo che parlassivo10 con esso lui piú che con noi.
MANFURIO O fure, degna pastura d’avoltori!
MARCA Dite, perché non correvate appresso lui?
MANFURIO Volete voi ch’un grave moderator di ludo literario, e togato, avesse per publica platea accelerato il gresso11? a miei pari convien quel adagio, – si proprie adagium licet dicere: – «Festina lente»; item et illud: «Gradatim, paulatim, pedetentim»12.
BARRA Avete raggione, signor Dottore, d’aver sempre risguardo al vostro onore, ed alla maestà del vostro andare.
MANFURIO O fure le cui ossa vorrei vedere sovra una ruota13 attrite14! Oimè, forse che non me gli ha tutti involati15? Or che dirà il mio Mecena16? Io gli risponderò, con l’autorità del prencipe di Peripatetici, Aristotele, secundo Physicorum, vel Periacroaseos: «Casus est eorum quae eveniunt in minori parte, et praeter intentionem»17.
BARRA Io credo che si contenterà.
MANFURIO O ingiusti moderatori di giustizia18, si voi facessivo il vostro debito, non sarebbe tanta copia di malfattori! Forse che non l’ha tutti presi? Oh, sceleratissimo!
SCENA [TREDICESIMA]
Sanguino, Barra, Manfurio, Marca
SANGUINO Olà, uomini da bene, perché è fuggito colui? che ha egli fatto, quel ribaldo?
BARRA Siate ben venuto, Messer mio. Noi siamo ne la maggior angoscia del mondo: abbiamo avuto quel ladro, – o non so come vuol che si chiama il signor Magister, – intra le mani; e, perché non sappiamo di lettera, è scappato al diavolo.
SANGUINO Non so che raggioni son queste vostre. Io ve dimando: Perché è fuggito?
MANFURIO Mi ha involati diece scudi.
SANGUINO Come diavolo han volato diece scudi?
MARCA Ben si vede che mai andaste a scola.
SANGUINO Subito ch’io ebbi imparata la B. A. BA, mio padre me die’ per ragazzo al capitan Mancino1.
MANFURIO Veniamus ad rem2: mi ha egli rubbati diece scudi.
SANGUINO Rubbato? rubbato? a voi, Domine? a voi, domine Magister? basovi le mani, non mi conoscete?
MANFURIO Io vi ho [visto] alcune ore fa, quando eravate con il mio discepolo Pollula.
SANGUINO Io son quello, signor domino Magister. Sappiate ch’io vi son servitor, ed ho gran voglia di farvi piacere; e per ora sappiate che vostri scudi son recuperati.
MANFURIO Dii velint, faxint ista Superi, o utinam3!
BARRA Oh, si farete tanto bene a questo gentil omo, mai facestivo meglior e piú degna opra; ed egli non vi sarà ingrato ed io, da parte mia, vi donarò un scudo.
SANGUINO Son ricuperati, dico.
MANFURIO L’avete voi?
SANGUINO Non, ma cossí come l’avesse nelle mani il signor Magister.
BARRA Conoscete voi colui?
SANGUINO Conosco.
BARRA Sapete dove dimora?
SANGUINO So.
MANFURIO O Superi, o Cœlicoli, Diique, Deaeque omnes!
MARCA Noi siamo a cavallo.
BARRA Bisogna soccorrere al negocio di questo monsignore, per amor ed obligo ch’abbiamo alle lettere ed a’ letterati.
MANFURIO Me vobis commendo; mi raccomando alle vostre cortisie.
MARCA Non dubitate, Signore.
SANGUINO Andiamo tutti insieme, perché lo trovaremo. Io so certissimo il loco dove va ad annidarsi costui: di averlo in mano non è dubbio alcuno. Non potrà negar il furto, perché, benché lui non mi abbia visto, io ho veduto lui fuggire.
MARCA E noi l’abbiamo veduto fuggire dalle mani del signor Maestro.
MANFURIO Vos fidelissimi testes4.
SANGUINO Non bisogna rompersi la testa: o ne darà gli scudi o lo daremo in mano della giustizia.
MANFURIO Ita, ita, nil melius, voi dite benissimo.
SANGUINO Signor Magister, bisogna che voi siate presente.
MANFURIO Optime. Urget praesentia Turni5.
SANGUINO Però, andando noi tutti quattro insieme, al batter che faremo de la porta, potrà essere che quella puttana, con la quale egli dimora, consapevole del negocio, o perché lui per qualche rima6 ne vegga, non venghino a concederne l’entrata, o che quell’uomo fugga o si asconda ad altra parte; ma, non essendo voi conosciuto, son certo che lo tirarò a raggionar meco per ogni modo, sotto certe specie di cose che passano. Però sarà bene, anzi necessario, che cangiate vestimenta, mostrandovi di robba corta. Voi altro, messer, quale è vostro nome, si ve piace dirlo?
BARRA Coppino, al servizio vostro.
SANGUINO Voi, messer Coppino, farete questo piacere a me ed al signor Magister, il quale vi potrà far di favori assai.
MANFURIO Me tibi offero7.
SANGUINO Imprestategli lo vostro mantello, e voi vi coprirete di sua toga, ché, per esser voi piú corto di persona, parrete un altro. E per meglio compartire, date, signor Magister, il cappello a questo altro compagno, e voi prendete la sua baretta; ed andiamo.
MANFURIO Nisi urgente necessitate, nefas esset habitum proprium dimittere; tamen, nihilominus8, nulla di meno, quia ita videtur9, ad imitazion di Patroclo che co le vesti cangiate si finse Achille10, e di Corebo che apparve in abito di Androgeo11, e del gran Giove, – poetarum testimonio12, – per suoi dissegni in tante forme cangiato, deponendo talvolta la piú sublime forma, non mi dedignarrò13, e deporrò la mia toga literaria, optimo mihi proposito fine14, di animadvertere15 contra questo criminoso abominando.
BARRA Ma ricordatevi, signor Mastro, di riconoscere la cortesia di questi galant’omini, ché per me non ve dimando nulla.
MANFURIO A voi in communi destino la terza parte de gli ricovrati16 scudi.
SANGUINO Gran mercè alla vostra liberalità.
BARRA Or su, andiamo, andiamo.
MANFURIO Eamus dextro Hercule17.
SANGUINO, MARCA Andiamo.
Fine dell’atto III.