III.

Il terzo giorno cominciammo a lavorare. Il nostro lavoro naturalmente era abbattere gli alberi. La foresta primigenia, rimasta incontaminata per millenni, era diventata una massa compatta. Gli alberi erano così intricati tra loro da non lasciare alcuno spazio vuoto e le liane andavano da un albero all’altro come vecchie comari che si fanno visita tra vicine. L’erba era talmente folta che ogni anno seccando formava uno strato spesso, quasi una crosta, che i nuovi fili d’erba dovevano perforare per crescere. Nel camminarci sopra a volte il piede sprofondava. Abbattere gli alberi era di una difficoltà estrema. Una volta tagliati, restavano pendenti ma non cadevano, bloccati dalle liane o dagli alberi vicini. Eravamo più di cento a disboscare quella montagna, ma dopo oltre un mese di lavoro non avevamo fatto molti progressi. Intanto l’azienda centrale ci mandava continuamente direttive per indicarci quale fosse lo spirito che dovevamo seguire: non temere le difficoltà, né la morte, lavorare molto e in fretta. Le aziende e le squadre di produzione erano costantemente in competizione e i successi che venivano via via raggiunti erano quotidianamente riportati dalle autorità e pubblicizzati. A poco a poco dalla competizione emersero alcuni eroi della produzione, cui andava l’ammirazione di tutti. Tra questi, l’unico giovane istruito era Li Li.

Li Li non era forte, ma aveva un’energia senza pari. All’inizio, non essendo avvezzi al lavoro, ci fermavamo dopo un’oretta per asciugarci il sudore. Man mano queste pause finirono per allungarsi sempre di più, e così cominciammo a guardarci intorno e scoprimmo cose molto più interessanti che abbattere gli alberi. Quando ad esempio passavano le nuvole, osservavamo immobili le loro ombre che si spostavano sulle montagne. Se un fagiano dalla lunga coda spiccava il volo, assaporavamo con l’immaginazione la differenza tra il gusto delle sue carni e quelle del pollo. Se scoprivamo un serpente lo circondavamo per ammazzarlo. Spesso trovavamo frutti sconosciuti e, poiché all’inizio nessuno aveva il coraggio di mangiarli, aspettavamo che si facesse avanti qualcuno con il coraggio di Shen Nong8, per assaggiarlo masticandolo lentamente mentre noi lo guardavamo a occhi sbarrati, deglutendo per il nervosismo. Ma tutto ciò a Li Li non interessava. Li Li pensava solo a tagliare alberi e solo quando l’albero si abbatteva al suolo alzava lo sguardo verso il cielo. Vedendo Li Li così impegnato, alcuni provavano vergogna e si rimettevano a lavorare di buona lena, cercando di dimenticare le cose interessanti che c’erano attorno.

Piano piano imparai a tagliare tutto quello che si trova su una montagna. All’inizio credevo che per abbattere gli alberi fosse sufficiente un’ascia e non vedevo a cosa potesse servire la roncola. Poi capii. Se in montagna non ci fossero stati che alberi, l’ascia sarebbe stata certo sufficiente. Ma l’erba, si poteva forse tagliare con l’ascia? Le roncole che ci erano state distribuite pesavano circa tre chili, usate con forza potevano abbattere gli alberi, un sol colpo bastava a spezzare le canne e usate a mo’ di falce tagliavano l’erba. Quando ero ancora a casa mia in città, mio padre, che era un ottimo cuoco, mi aveva insegnato che, per cucinare bene, le cose essenziali sono il coltello e il fuoco. Spesso arrotava lui stesso i coltelli e quando la lama non mostrava strisce lucenti voleva dire che era ben affilata. Con un coltello così affilato si poteva tagliare la carne in fette sottilissime e i vegetali in striscioline finissime. Quando qualche collega di mio padre veniva a gustare i suoi piatti, si offriva di aiutarlo in cucina e senza rendersene conto si tagliava le dita con quella lama così affilata, accorgendosene solo quando il cavolo era ormai tinto di rosso. A quel punto abbandonava il campo sospirando. Più tardi naturalmente toccò a me affilare i coltelli e ne divenni quasi un maniaco. Avevo letto su un libro come controllare se la lama era ben affilata soffiandovi sopra un capello, ma dato che non si era mai tagliato, finii con l’apprendere che anche dosare il soffio è un’arte. Quando ci distribuirono le roncole il primo giorno, passai tre ore ad affilare la mia. Un’arma affilata rende bellicosi e infatti, mentre salivamo in montagna, tagliavo tutto quello che mi veniva a portata di mano, sentendomi un eroe. Ma sugli alberi la lama spesso si scheggiava.

Dopo oltre un mese, avevamo acquisito una certa abilità ad abbattere gli alberi. Certo sapevamo lavorare, ma ancora di più sapevamo riposarci. Durante le pause il nostro sguardo correva lontano e quasi sempre verso il re degli alberi, e ogni volta ci mettevamo a discutere come avremmo potuto abbatterlo, se la montagna fosse stata ancora coperta di alberi. Facevamo mille piani, lontani dall’immaginare che avremmo veramente finito per abbattere un altro albero altrettanto grosso.

Come il re degli alberi, anche questo si trovava sulla cima della montagna. All’inizio non sembrava molto grande, tuttavia, man mano che salendo tagliavamo gli alberi sul pendio, e restava solo la cima da disboscare, esso apparve in tutta la sua immensità. A quel punto però mi resi conto che quelli della brigata avevano cominciato a disboscare un’altra parte della montagna. Noi giovani istruiti pensammo che dipendesse dal sistema impiegato per calcolare le ore di lavoro.

Infatti, prima di staccare dal lavoro, il segretario di squadra misurava ogni giorno col metro la superficie disboscata da ciascuno, per poi poter riferire alle autorità i successi raggiunti. Secondo la logica, più un albero era grande e più grande era la superficie che occupava, ma quando un albero superava una certa grandezza, le ore di lavoro necessarie ad abbatterlo erano sproporzionate rispetto alla superficie. I boscaioli esperti accampavano qualunque scusa per evitare gli alberi grandi e tagliare quelli che avevano chiome grandi e tronchi sottili. Accorgendosi che continuando in quella direzione si sarebbero trovati a dover abbattere quel grande albero, preferirono aggirarlo.

Un giorno, dopo esser di nuovo saliti in montagna, ci riposavamo seduti a terra per riprendere fiato, quando Li Li si alzò e con la roncola in mano si avvicinò lentamente al grande albero. In silenzio lo osservammo girargli attorno e, mentre portava il pugno davanti alla bocca, lo vedemmo individuare un punto sul tronco, sollevare la roncola, fissare un altro punto più in alto e vibrare un colpo. Quando capimmo cosa voleva fare, mandammo un sospiro di sollievo e alzatici da terra ci avvicinammo a guardare Li Li che tagliava.

Per abbattere un grosso albero, bisogna incidere nel suo tronco un triangolo. Più l’albero è grande, più deve essere grande il triangolo. Li Li aveva distanziato il taglio superiore e quello inferiore di un metro e mezzo. Uno di noi aveva calcolato che per abbattere l’albero bisognava tagliar via un metro cubo di legno e considerare circa quattro giorni di lavoro. La passione per l’impresa si risvegliò in noi e decidemmo di tagliarlo tutti insieme, senza preoccuparci delle ore di lavoro. Per acclamazione generale fui incaricato di affilare le roncole, compito che naturalmente accettai; ne presi quattro e ridiscesi al villaggio.

Verso mezzogiorno ne avevo affilate tre. Stavo per mettermi a lavorare alla quarta, quando all’improvviso un’ombra mi coprì. Sollevai il capo e vidi accanto a me il Grumo che si abbracciava le spalle con le mani. Poiché avevo smesso di lavorare, si chinò per prendere una delle roncole già affilate e lentamente vi passò sopra il pollice destro. Poi tenendola come fosse un fucile la mise di piatto, la fissò con attenzione, assentì con il capo e accucciandosi mi chiese: – Sai affilare le lame? –. Io naturalmente ero molto fiero di me e facendo scintillare la roncola che avevo in mano risposi: – Me la cavo –. Senza dire niente il Grumo prese una delle roncole già affilate e si diresse verso un tronco che era lì vicino. Con entrambe le mani sollevò leggermente la roncola che con un sibilo si piantò nel legno. Poi contrasse la spalla destra e la tirò fuori. Dopo averne osservato la lama, il Grumo vibrò con la mano sinistra un altro colpo e la lasciò conficcata nel tronco. – Tirala fuori e guarda la lama – disse rivolto a me. Senza capire andai verso il tronco ed estrassi la roncola. Quando ne osservai la lama, trasalii nel vedere che era leggermente scheggiata. Sten­dendo il palmo della mano il Grumo disse: – Se si colpi­sce il legno per dritto e per dritto la si tira fuori, la lama non si rovina. L’acciaio di questa roncola è fragile. Se tu la estrai dal legno di traverso, la lama può scheggiarsi e dovrai affilarla di nuovo. Questo equivale a dire che non sai affilare le lame –. Sentendomi un po’ a disagio dissi: – Quand’è che ti farai la barba, Grumo? – È ancora pre­sto – rispose lui massaggiandosi macchinalmente il mento. – Prendi una di queste quattro roncole e se quan­do ti raderai ti farà male, potrai tagliarmi la mano sini­stra. La destra mi serve per scrivere –. Con gli occhi che gli sorridevano, il Grumo spruzzò un po’ d’acqua sulla pietra su cui avevo affilato le roncole, ne prese una e dopo averla strofinata una dozzina di volte, eliminò l’acqua dalla lama con la mano e tornò davanti al tronco.

– Dài un colpo qua – mi disse, indicando un punto quindici centimetri sotto quello dove aveva colpito lui prima. Io mi avvicinai, presi la roncola e vibrai un colpo con forza. Con mia grande sorpresa dal tronco volò via un pezzo di legno di circa quindici centimetri che, dopo aver compiuto varie giravolte in aria, piombò a terra mandando un bagliore bianco. Da quando tagliavo albe­ri, non mi era mai capitato di tagliare un pezzo di legno così grande e tutto contento diedi altri due colpi e stac­cai di nuovo un gran ciocco. Sfregandosi le mani il Grumo disse: – Guarda la lama –. L’avvicinai agli occhi e vidi che non era minimamente scheggiata, scoprii anche che su uno dei due lati era stata affilata una superficie minima. Cominciai a capire e assentii. Il Grumo tese in avanti le mani giunte e disse: – È chiaro che una lama sottile è molto tagliente –. Poi tenendo i polsi uniti aprì le mani disegnando un angolo. – Una lama a forma di angolo esercita una pressione su due lati, per questo riesce a tagliar via pezzi interi di tronco. Inoltre non si scheggia anche se usata di traverso. Vuoi che ti tagli i capelli? La lama è ancora tagliente –. Mi misi a ridere: – Se mi farà male ti taglierò la mano destra. – Come sei crudele – rispose lui con gli occhi che gli sorridevano.

– Le mie roncole vanno bene per tagliare le verdure – dissi con allegria. – Ci sono verdure in montagna? – chiese il Grumo. – Comunque sia, riconosci che sono bravo ad affilare le lame? –. Il Grumo si fece pensoso, poi senza dir niente mi porse un coltello non molto lungo che portava dietro la schiena. Nel prenderlo mi accorsi che al manico era legato un laccetto di cuoio sot­tile la cui seconda estremità era fissata dietro la sua schiena. – A che serve questo laccetto? – chiesi. – Prima guarda la lama – rispose il Grumo. Era un coltello a lama doppia, una molto sottile, l’altra come quella che aveva appena affilato. Sembrava fosse stato placcato tanto era liscio e brillante, al punto che la mia immagine vi si rifletteva dentro senza alcuna deformazione. Mi resi conto che non sarei stato capace di affilare una lama in quel modo. Osservando il coltello più da vicino, mi accorsi che sulla lama c’era una leggera striatura: – L’hai placcato con dell’acciaio? – chiesi. Il Grumo annuì: – Ho usato dei trucioli d’acciaio, sono flessibili e resistenti –. Passai leggermente il pollice sulla lama e sentii che mi stava portando via la prima pelle. Sospirai e sollevando il capo lo fissai: – Lao Xiao, vendimi questo coltello! –. Lui rise di nuovo. A un tratto mi accorsi che c’era qualcosa di strano nel suo sorriso. Il Grumo aveva il labbro superiore tirato, in circostanze normali non ci si faceva caso, ma quando rideva il labbro restava immobile mentre le guance sollevandosi allungavano la bocca in un sorriso. – Sei stato operato alla bocca? – chiesi. Senza smettere di sorridere e quasi non muovendo le labbra rispose: – Me la sono spaccata e quando mi hanno operato me l’hanno tirata troppo. – Come hai fatto a spaccartela? –. Il Grumo smise di ridere e con voce più chiara disse: – Scalando i precipizi –. Mi tornò in mente che aveva fatto il soldato, quindi chiesi: – È successo quando eri esploratore? –. Lui mi guardò: – Chi te lo ha detto? – Sei artigli. – Quella peste! Che altro ti ha detto? – disse irritato. – Che ti piglia? Ha detto solo che sei stato esploratore –. Si fissò le mani pensoso, poi ne tese una verso di me dicendo: – È stata dura, senti la mano, proprio dura. Era al tempo delle grandi manovre –. Palpai la mano. Era durissima, se mi fosse capitato di incapparvi al buio le probabilità che la prendessi per una mano sarebbero state minime. Le dita erano corte e tozze, le unghie piccolissime e la pelle che ricopriva il dorso era dura come la pietra. Il Grumo la strinse a pugno con tanta forza che le giunture diventarono esangui. Scosso, allontanai da me il pugno, senza osar dire una parola.

Improvvisamente il Grumo si mise dritto sull’attenti e portò il mento in dentro, quasi a toccare il collo. Fece due passi con le gambe rigide, batté i talloni e si fermò. Alzando il mento gridò con voce strana e secca: – Rompete le righe! –. I suoi occhi erano vuoti. Poi riportò il mento sul collo. Ero rimasto a guardarlo senza fare il più piccolo movimento. Il suo corpo si rilassò e la luce sparì dalla sua fronte, socchiudendo gli occhi sorrise in modo strano ma gradevole: – Che te ne pare? Ho fatto un addestramento regolare! – A che ti addestravi? – chiesi interessato. Il Grumo batté la mano destra sul palmo della sinistra: – A lottare corpo a corpo, scalare le montagne, fare il pugilato, sparare e maneggiare il coltello –. Non riuscendo a immaginare il Grumo che molleggiava sulle gambe tirando pugni, gli chiesi: – Eri bravo nel pugilato? –. Per tutta risposta lui si abbassò di scatto, spingendo con il palmo della mano sinistra il pugno destro oltre la spalla. Nello stesso istante in cui finì di accucciarsi a terra, colpì con il pugno destro la pietra che avevo usato per affilare le roncole. Senza un grido. Poi si rialzò e mi indicò la pietra. Guardai e dallo stupore spalancai la bocca: la pietra era spezzata in due. Gli presi la mano e la esaminai, ma non vi trovai nemmeno una sbucciatura. Lui la ritirò e alzando l’indice e il medio disse: – Ne dovevo spezzare venti di seguito. – In fin dei conti eri un soldato dell’Esercito popolare di liberazione –. Il Grumo si strofinò il naso e disse: – Andiamo a casa mia a cercare una nuova pietra.

Seguii il Grumo fino alla sua casupola di paglia. L’interno era buio, inginocchiatosi a terra si mise a cercare qualcosa sotto il letto. Tirò fuori una pietra quadrata, poi riprese a cercare. – Sei artigli! – chiamò all’improvviso. Nel capanno fuori della porta qualcosa si mosse, voltandomi vidi Sei artigli che entrava a piedi nudi. – Che c’è! – esclamò. Sempre inginocchiato a terra il Grumo gli chiese: – Dov’è la pietra nera? Valla a cercare per lo zio che deve affilare le lame –. Sei artigli mi guardò, poi socchiudendo gli occhi mi fece cenno con la mano di avvicinarmi. Io mi chinai e lui mettendosi una mano sulla bocca mi sussurrò: – Hai caramelle? – Non ne ho più – dissi drizzandomi –. Andrò a comprartele domani. – Allora è domani che avrai bisogno della pietra? –. Non mi aspettavo una simile furbizia e stavo per mettermi a ridere quando il Grumo si alzò e levando la mano sinistra urlò: – Piccola peste! Cerchi botte? –. Sei artigli corse alla porta, tirò su col naso e borbottò: – Picchia lo zio, se sei capace! La pietra nera la vado a prendere subito, ma lo zio mi porterà le caramelle domani? Per il distretto ci vuole un giorno ad andare e uno a tornare, e poi in un posto come quello, dove ci si può divertire, vuoi che lo zio ci resti solo un giorno? Almeno quattro! –. Il Grumo urlò di nuovo: – Vuoi un ceffone? –. Al che Sei artigli sparì in un baleno.

Io ero molto dispiaciuto. – Non prendertela con il bambino, chiederò se qualcuno degli altri ha ancora caramelle –. L’espressione del Grumo si ammorbidì, fece un sospiro e aggiustando il lenzuolo sul letto disse: – Siediti. Anche per il bambino è dura. Dove li trovo i soldi per comprargli le caramelle? E poi ormai è grande, in montagna ci sono un mare di cose buone da mangiare, può andare a cercarsele da sé –. Il Grumo non era uno loquace, ma il villaggio era piccolo e non c’era voluto molto per conoscere la situazione delle varie famiglie. La sua famiglia era composta da tre persone, oltre a Sei artigli c’era la moglie che guadagnava più di venti yuan al mese. In due mettevano insieme ogni mese settanta yuan, non era poco per tre persone, non capivo perché erano così in strettezze. Mentre ero seduto sul letto, mi accorsi che l’orlo del lenzuolo era liso e sfilacciato; osservandone la trama, capii che era stato tagliato a metà e che le parti esterne erano state messe al centro e ricucite insieme, per usarlo ancora. La sottile trapunta coperta da una fodera grigioverde aveva l’aria di una cosa dell’esercito. I due cuscini avevano una forma strana, solo dopo un attento esame mi resi conto che erano fatti con due maniche cucite alle estremità. Non c’era un tavolo e, a parte una cassa di legno costruita artigianalmente e sistemata in un angolo sopra alcuni mattoni, l’unico mobile era il letto. Probabilmente tutti i beni della casa erano riposti in quella cassa, che però non aveva lucchetto, tanto che veniva lecito chiedersi se dentro ci fosse effettivamente qualcosa. – Quanti anni sono che sei qui? – chiesi. Il Grumo, che intanto aveva fatto bollire l’acqua e stava per passarmi una tazza di tè, alla mia domanda sollevò la testa e si mise a contare sulle corte dita: – Nove! – rispose. Presi la tazza e soffiai per allontanare le foglie di tè che galleggiavano in superficie. L’acqua era bollente, ne bevvi un piccolo sorso e chiesi ancora: – Con tutti gli alberi che ci sono perché non ti sei costruito dei mobili? –. Il Grumo si strofinò le mani, roteò gli occhi, inspirò e, senza dire una parola, ributtò fuori il fiato.

Sei artigli tornò con la pietra nera. Il Grumo la mise accanto a quella quadrata e mandò Sei artigli a prendere un po’ d’acqua. Strofinò una delle roncole sulla pietra quadrata, la esaminò e poi la sfregò lentamente ma con forza su quella nera. Passò la mano sulla lama per controllarla e quindi la posò a terra. Stava per affilarne un’altra, quando improvvisamente chiese: – Che ci devi fare con sei roncole affilate? –. Quando gli raccontai cosa stavamo facendo, il Grumo smise di affilare, si accucciò e mandò un sospiro. Pensando che si fosse stancato, posai la tazza e terminai io il lavoro. – Torno in montagna – dissi uscendo da casa sua. Sulla porta Sei artigli si stava scavando il naso con il sesto dito: – Zio – disse a voce bassa. Sapevo quello che voleva dirmi, gli carezzai la testa e allora lui tutto contento si infilò nel capanno.

Arrivato in cima, vidi da lontano che dal tronco dell’albero era già stato asportato un gran pezzo. – Ecco le roncole affilate! – gridai. Gli altri mi vennero incontro e prese le roncole tornarono vicino all’albero. – Guardate me – dissi impugnandone una. Cominciai a tagliare dando ora un colpo in alto ora uno in basso, mettendo­cela tutta per apparire esperto e non dare l’impressione che stessi usando tutte le mie forze. Fette di legno vola­rono via una dopo l’altra tra le acclamazioni dei miei compagni. Fiero di me, smisi di tagliare e mostrai la roncola agli altri, ma dato che loro non capivano che cosa ci fosse da guardare, spiegai: – Guardate la lama, non è scheggiata. Osservate la sua angolazione. Dopo che si è dato un primo colpo, sferrandone un secondo dal basso, obliquamente, si generano due forze, quella dell’ipotenusa del triangolo così formato fa saltar via il pezzo di tronco. È scientifico –. Li Li prese la roncola e la osservò attentamente: – È vero – disse –. Voglio pro­vare –. Immobili lo osservammo tagliare. Poi a turno ci passammo le roncole allargando rapidamente la fes­sura.

Nel pomeriggio avevamo già tagliato metà albero. Contento Li Li disse: – Stabiliamo un record abbatten­do questo albero entro oggi! –. Eravamo tutti molto eccitati. Io mi offrii volontario per andare ad affilare altre due roncole al villaggio.

Mentre scendevo la montagna vidi da lontano il Gru­mo nel campo di cavoli e gli gridai: – Lao Xiao, oggi tireremo giù quell’albero! –. Lui attese in silenzio che gli arrivassi davanti. Stavo per ripetere quello che avevo detto quando mi accorsi che mi stava scrutando e allora il mio entusiasmo scemò un po’: – Non ci credi? Eppure è grazie al tuo metodo! –. I suoi occhi si oscurarono e sempre in silenzio si accucciò per riprendere il lavoro dell’orto. Una volta al villaggio, mentre affilavo le lame lo vidi passare in lontananza intento a trasportare i cavoli col bilanciere.

8 Shen Nong, imperatore mitico che avrebbe insegnato l’agricoltura.