(Diritto)
Il termine fiqh, che definisce la scienza giuridica, appartiene alla radice trilittera f-q-h, estensivamente ascrivibile alla possibilità di essere istruiti e, dunque, di discernere nell’ambito delle questioni religiose:
I credenti non vadano in missione tutti insieme. Perché mai un gruppo per ogni tribù, non va ad istruirsi nella religione, per informarne il loro popolo quando saranno rientrati, affinché stiano in guardia?138
Per “istruirsi nella religione” bisogna essere in qualche modo predisposti alla conoscenza di un argomento delicatissimo e cardine complesso di un’intera civiltà.
Il sistema della giurisprudenza islamica (fiqh) è basato in primo luogo sulle fonti sacre del Corano e della Sunna, la quale racchiude i discorsi e il comportamento esemplare del Profeta. Queste radici del diritto (ūṣul al-fiqh) sono altresì affiancate da altri due fondamenti, ossia l’ijmā‘ e il qiyās. Il primo rappresenta il consenso, ossia l’accordo della Comunità su di un obbligo della Legge, laddove non esista una esplicita indicazione nel Corano e nella Sunna. Quest’accordo ha una caratura sacra, secondo quanto sancisce un ḥadīth: “La mia comunità non si troverà mai d’accordo sopra un errore”. Ciò non significa che necessariamente tutti i membri della comunità debbano esprimersi su una questione, ma in modo precipuo questo compito appartiene all’élite spirituale (al-khāṣṣa). Il qiyās, ovvero il ragionamento analogico, consiste nel “collegare una questione specifica a un principio generale grazie a un legame che li unisce in virtù di una regola giuridica alla quale essi devono essere sottomessi”139.
Già dopo la formazione delle quattro Scuole giuridiche (Madhāhib), Hanafita, Malikita, Shafi‘ita e Hanbalita, tra l’VIII e il IX secolo, si è andata affermando l’ipotesi penalizzante e pericolosa che le porte dell’ijtihād (sforzo personale d’interpretazione giuridica) si fossero chiuse per sempre. Inoltre, in tempi ben più recenti, specialmente dopo il tramonto dell’istituzione del Califfato, il riconoscimento immediato di certe realtà spirituali e la stessa esigenza di accedervi risultano sempre più offuscate. Questa parola, ijtihād, la cui origine etimologica è la medesima del termine jihād, designa la capacità necessaria, in ultima analisi, ai giuristi (fuqahā) per produrre un verdetto. Una capacità che non dovrebbe discendere dall’arbitrio individuale, ma, al contrario, dall’anelito verso un adeguamento e una sempre maggiore conformità delle azioni sociali e civili alla nobiltà della natura umana (fiṭra).
Questa conformità è anche il risultato di un metodo di riflessione sui fondamenti del diritto; di conseguenza il qiyās è il risultato di quello sforzo di interpretazione giuridica, definito appunto ijtihād.
In virtù di questo sforzo, il faqīh (il giurisperito) è capace di muoversi nella classificazione stratificata degli atti umani secondo il fiqh. Ogni atto, infatti, può essere classificato come farḍ o wājib (obbligatorio); mandūb o mustaḥabb (raccomandato); mubāḥ (lecito); makrūh (biasimevole); ḥarām (proibito).