(Parola del Profeta)
La natura incomparabile del Profeta Muḥammad, secondo la tradizione islamica, è un dono della Misericordia divina che ha predisposto, come afferma una sūra coranica, l’ultimo dei Suoi Inviati a ricevere la Rivelazione:
Non ti abbiamo forse aperto il petto, e non abbiamo deposto il peso che gravava sul tuo dorso? Ed elevato il tuo ricordo? (Corano, XCIV, al-Sharḥ, 1-4).153
Il Profeta Muḥammad è, secondo l’espressione coranica, l’eccellente modello (uswa ḥasana), non solo nel non mostrare riguardo per le proprie individuali esigenze, ma soprattutto nell’aderire totalmente al piano del suo Signore: “In verità, è di una sublime grandezza il tuo carattere”154.
Muḥammad è il Profeta ummī, ossia non semplicemente illetterato come molti si ostinano a tradurre, ma vergine intellettualmente, capace di ricevere la Parola di Dio integralmente e pienamente. Anche il suo cosiddetto “analfabetismo” indica in effetti la virtù consistente nel realizzare la Verità proprio attraverso la pura contemplazione di essa, tramite, cioè, un’estinzione (fanā’) del carattere individuale. Quando, dopo la morte di Muḥammad, qualcuno chiedeva ad ‘Ā’isha, la moglie prediletta del Profeta, come fosse il suo carattere, ella rispondeva sempre: “Il suo carattere era il Corano (Kāna khuluquhu l-Qur’ān)”. Per questa ragione Muḥammad è, per tutta la comunità in tutti i tempi, il prototipo della perfezione spirituale e la guida verso la sua realizzazione, come del resto afferma il Corano:
In verità nel Messaggero di Dio voi avete un eccellente modello per chi confida in Dio e nel Giorno finale e molto ricorda Iddio (Corano XXXIII, al-Aḥzāb, 21).
Un modello che non è solo fededegno ma è anche diretto ammonimento agli uomini circa l’obbedienza che essi devono, per suo tramite, a Dio Stesso: “Chi obbedisce all’Inviato, ha, in realtà, obbedito ad Allāh”155.
È per tale motivo che i detti (aḥadīth) e le pratiche della vita quotidiana (Sunna) che Muḥammad ha tramandato, attraverso la testimonianza fedele dei suoi compagni, costituiscono il commento vissuto, o per dir meglio, la realizzazione del messaggio coranico. Essi furono radunati quando l’espansione dell’Islām e la graduale perdita dell’omogeneità della comunità primitiva misero a repentaglio la loro integrità. Gli uomini più devoti intrapresero la raccolta dei detti profetici, controllando per ogni brano narrato (matn) la catena (isnād) dei trasmettitori. L’isnād, naturalmente, venne assumendo importanza quando morirono i compagni (Ṣaḥāba) del Profeta e i loro successori (Tābi‘ūn) e il numero degli aḥadīth che venivano diffusi ad ampio raggio nel dār al-Islām aumentò in modo esponenziale. La tradizione attribuisce l’uso dell’isnād ad alcuni degli stessi compagni: ‘Alī, futuro quarto califfo, avrebbe raccomandato di riportarlo sempre quando si citava un ḥadīth. Il rigore che contraddistingueva la scelta di un trasmettitore legittimo può essere verificato nel singolare episodio che ha come protagonista l’autore della principale raccolta di detti profetici:
Si racconta che Bukhārī viaggiò parecchi giorni per incontrare un uomo noto per la sua conoscenza degli aḥadīth. Arrivato al villaggio, Bukhārī vide quest’uomo, col pugnale nascosto dietro la schiena, che cercava di attirare una capra con una manciata d’orzo. Bukhārī fuggì subito poiché non poteva avere fiducia in un trasmettitore di ahadith che traesse in inganno un animale.156
Secondo l’isnād, una tradizione si definisce allora integra (ṣaḥīḥ), buona (ḥasan) o debole (ḍa‘īf). Tra i trasmettitori principali, ricordiamo ‘Ā’isha, moglie prediletta del Profeta che morì tra le sue braccia; ‘Abd Allāh figlio del secondo califfo ‘Umar; Anas bin Malik, che visse nella casa di Muḥammad fin da bambino; Ibn ‘Abbās cugino del Profeta e capostipite della seconda grande dinastia califfale; Abū Hurayra che riferì una quantità notevole di detti secondo una miracolosa facoltà donatagli dal Profeta stesso:
Narrò Abū Hurayra: Domandai al Profeta – Iddio lo benedica e gli dia eterna salute: “Come mai io dimentico tanti dei tuoi discorsi che ho udito?”.
Rispose: “Distendi il tuo mantello”. Lo distesi ed egli fece con le due mani il gesto versarvi dentro qualche cosa, poi disse: “Raccoglilo”. Lo raccolsi, e da allora in poi non dimenticai più niente.157
Alla fine s’imposero con completa autorità sei maggiori collezioni di aḥadīth, tra le quali spiccano per importanza quelle di al-Bukhārī (m. 870) e Muslim (m. 875), seguite da quelle di Abū Dāwūd (m. 889), di al-Tirmidhī (m. 892), di al-Nasā’ī (m. ٩١٥) e di Ibn Māja (m. 886).
Insieme con il Corano, gli aḥadīth e, quindi, la Sunna sono la sorgente fondamentale di tutta la vita e di tutto il pensiero islamico.
La radice ḥ-d-th evoca, inoltre, il significato di sorgere, far nascere e quindi di novità, notizia recente e anche buona novella158. In tale accezione si può allora intendere la gioia dei Compagni del Profeta dinanzi al dono pacificante delle parole di Muḥammad. All’elargizione intensa di questa gioia, si riferisce il versetto coranico che, concludendo la sūra del mattino, è destinata a sancire il nuovo inizio della Rivelazione, dopo una lunga interruzione che aveva gettato il Profeta nello sconforto: “e piuttosto racconta (fa-ḥaddīth) l’immensa bontà del tuo Signore” (Corano, XCIII, al-Ḍuḥā, 11).
Pensando al complesso e stratificato campo semantico che afferisce alla radice ḥ-d-th, si può rilevare come l’esortazione al racconto, possieda al contempo la misura lieta della rinnovata rivelazione divina; la necessità di comunicarla e di farne beneficiari tutti gli uomini e la forza vitale appunto che, attraverso la Parola coranica, scaturisce e sorge nel cuore di Muḥammad.
Questa capacità benefica, propria del Profeta, di richiamare il ricordo di Dio (dhikr Allāh), si è trasmessa ai suoi eredi che, come specifica un ḥadīth, sono i Sapienti: “e i Sapienti sono gli eredi dei Profeti”. Essi costituiscono nella tradizione islamica una possibilità di imitazione159 viva e non pedissequa dell’esempio di Muḥammad. Alla loro funzione di vivificatori del ricordo, si fa specifica allusione nel Corano nel contesto della narrazione dell’incontro tra Mosè e il Khiḍr. Il Khiḍr (letteralmente “il Verde”, ovvero colui che rinverdisce e vivifica) è un misterioso messaggero divino al quale Iddio afferma “avevamo concesso Misericordia da parte Nostra e al quale avevamo insegnato da parte Nostra una conoscenza” (Corano XVIII, al-Kahf, 65). Il rapporto tra i due, sul quale non è il caso in questa sede di dilungarsi, si stabilisce proprio secondo le modalità della maestria, con la quale il Khiḍr deve istruire Mosè in una scienza ignota a quest’ultimo. Ebbene, inaugurando il viaggio, attraverso le cui tappe si svolgerà l’apprendistato di Mosè, il Khiḍr dice appunto:
Se tu vuoi seguirmi non domandarmi nulla finché non sia io a fartene nascere il ricordo (Corano, XVIII, al-Kahf, 70).
Il ricordo che induce alla pace e alla vera conoscenza è frutto della facoltà magistrale di colui che può effettivamente farlo nascere negli uomini. Così gli aḥadīth autentici conducono alla reale comprensione del testo coranico e costituiscono un percorso di pace e di rettitudine, ma sono anche un’ulteriore misericordia che si aggiunge a misericordia, se pensiamo per esempio agli aḥadīth qudsī: appunto “Detti santi” in cui al di fuori del testo coranico, per testimonianza del Profeta Muḥammad, è Dio stesso a parlare in prima persona.
153 Una tradizione raccontata dallo stesso Muḥammad recita che, quando egli era ancora bambino e dimorava nel deserto presso i Banī Sa‘d, “vennero due uomini vestiti di bianco, avevano una bacinella d’oro colma di neve. Si chinarono su di me, aprirono il mio petto e ne estrassero il cuore. Da esso trassero un grumo nero che gettarono via, quindi lavarono il petto e il cuore con la neve […] Satana infatti tocca ogni figlio di Adamo il giorno in cui la madre lo partorisce; tranne che nel caso di Maria e di suo figlio Gesù”: Ibn Sa‘d, Kitāb al-Ṭabaqāt al kabīr, Leida, I/ 1, 96 in M. Lings, Il Profeta Muhammad, Siti, Trieste, 1988, p. 27.
154 Corano, LXVIII, al-Qalam, 4.
155 Corano, IV, al-Nisā’, 80. E ancora si dice nel Corano: “O voi che credete, rispondete ad Allāh e al Suo Messaggero quando vi chiama a ciò che vi fa rivivere)”, Corano, VIII, al-Anfāl, 24.
156 Sheikh al-Sulami, Le malattie dell’anima e i loro rimedi, Arché, Milano, 1990, p. 6.
157 Al Bukhārī, Detti e fatti del Profeta dell’Islam, p. 107.
158 Cfr. M. Gloton, Une approche du Coran par la grammaire et le lexique, Al Buraq, Paris, 2002, pp. 324-325.
159 Sul concetto di imitazione (taqlīd) si è dilungato Vercellin, rimanendo vittima però di un equivoco che vuole la pratica del taqlīd ḥayy (imitazione attiva) presente solo, tramite il ruolo degli Imām mujtahidūn (Guide capaci della retta interpretazione), nell’Islām sciita. Secondo Vercellin, che non tiene evidentemente conto della presenza vitale e determinante dei Maestri del Taṣawwuf, nell’Islām sunnita sarebbe in vigore solo il taqlīd mayyit (imitazione passiva): cfr. G. Vercellin, Istituzioni del mondo musulmano, Einaudi, Torino, 2002, p. 11.